1.
Le conseguenze ecologiche della crescita del sistema industriale sono ormai comprovate, anche se le previsioni a medio e a lungo termine differenziano ancora le opinioni degli esperti secondo uno spettro che va dagli ottimisti ai catastrofisti.
Gli ottimisti esprimono una fiducia illimitata nella scienza e nella tecnologia che consentiranno di produrre sempre di più con un dispendio di risorse e di energie sempre minore. Nella loro ottica, un modello di sviluppo sostenibile, compatibile cioè con la necessità di salvaguardare l'equilibrio ecologico, può essere già formulato sulla carta e potrà essere realizzato via via che la tecnologia fornirà strumenti innovativi. A questo modello si riconducono ormai tutti i governi dei paesi occidentali, che hanno la massima responsabilità nella degradazione dell'ambiente. Solo gli Stati Uniti, per questo aspetto, sembrano dissidenti. E' noto che, rifiutando di firmare il protocollo di Kyoto, il presidente Bush, riescheggiando un motto del padre, ha affermato che il tenore di vita statunitense non è negoziabile. La dissidenza è apparente, perché gli Stati Uniti, più di tutti gli altri paesi, puntano sulla tecnologia per produrre di più con minori risorse.
Il limite critico del modello di sviluppo sostenibile sta nel fatto che il miglioramento delle tecniche produttive se, sulla carta può produrre una diminuzione dell'inquinamento, è destinato, però, inesorabilmente a favorire una crescita dei consumi, il cui effetto è di azzerare tale vantaggio, invertendone il segno.
I catastrofisti, vale a dire gli ecologisti radicali, insistono da anni sull'irrazionalità di un modello di sviluppo illimitato nel contesto di una biosfera le cui risorse e i cui limiti di smaltimento dei rifiuti antropici sono finiti. Essi hanno identificato nella globalizzazione un pericolo estremo: quello di sollecitare tutti i paesi della terra ad assumere come proprio il modello di sviluppo e di vita occidentale. Il limite dell'ecologismo radicale era rappresentato, sino a qualche tempo fa, dalla difficoltà di opporre allo sviluppo sostenibile un modello alternativo.
Tale difficoltà sembra in procinto di essere superata. Il superamento ha il suo epicentro nella Francia, laddove è attivo un Istituto per le ricerche economiche e sociali che sta propagandando e approfondendo un modello antitetico a quello dello sviluppo sostenibile: quello della decrescita sostenibile. L'Istituto dispone di un sito (www.decroissance.org ) che merita di essere visitato, almeno da parte di chi riesce a leggere il francese.
Il modello della decrescita sostenibile si riconduce ad un economista rumeno, emigrato negli Stati Uniti nel 1948, Nicholas Georgescu-Roegen, che colà ha svolto la sua carriera di docente universitario ed è morto nel 1994. Il pensiero di Georgescu-Roegen è molto complesso. Economista e insegnate universitario, egli non ha mai rinunciato a considerare l'economia una scienza sociale globale. La globalità implica il tenere conto non solo degli aspetti più propriamente economici (produzione, consumo, investimenti, risparmi, occupazione, inflazione, ecc.) ma anche degli effetti ecologici e antropologici della crescita. Per questa via egli è giunto a criticare il modello neoclassico (liberale, che nella sua versione radicale si pone come liberista) in termini filosofici.
L'errore fondamentale del pensiero economico occidentale, secondo Georgescu-Roegen, consiste in questo: la scienza economica è stata costruita entro il quadro del paradigma meccanicistico (newtoniano) nel periodo in cui le rivoluzionarie scoperte dell'evoluzione biologica (il darwinismo) e della termodinamica (legge dell'entropia) introducevano un altro paradigma, quello del divenire della natura, del tempo irreversibile, dell'evoluzione cosmica. Questo giustifica l'enfatizzazione dell'equilibrio, che governa la scienza economica, ma fa riferimento solo all'equilibrio del sistema economico, ignorando i suoi effetti a livello ecologico e sociale. Detto in termini più semplici, esso considera l'uomo e il suo ambiente naturale come due realtà distinte, negando che essi coevolvono e appartengono entrambi alla biosfera.
Se si assume un punto di vista globale, il modello di sviluppo sostenibile, che cerca di convalidare per l'ennesima volta l'impianto ideologico della scienza economica, risulta uno slogan privo di fondamento. Esso, infatti, continua a privilegiare la crescita economica come una necessità vitale per i paesi (soprattutto industrializzati). Comunque intesa, però, la crescita economica. Con l'aumento dei consumi, porta inesorabilmente al dissesto economico, sociale e antropologico.
Il nodo da sciogliere, per scongiurare la catastrofe, sta nel criticare l'identificazione tra crescita e sviluppo. Georgescu-Roegen si riconduce a Schumpeter che per primo ha messo in discussione tale identificazione. Crescita significa produrre di più, sviluppo sta per produrre in un altro modo.
Il modello messo a fuoco da Georgescu-Roegen è quello della "decrescita sostenibile". Il termine "decrescita" è provocatorio. Esso serve a confutare il dogma centrale dell'economia moderna, che identifica lo sviluppo nell'incremento illimitato della produzione e del PIL. Tale dogma urta, infatti, contro un dato inconfutabile: quello per cui essendo limitate le risorse naturali ed energetiche della biosfera, un loro sfruttamento intensivo non può produrre, come in parte già sta accadendo, altro che un'alterazione, al limite irreversibile, degli equilibri biologici.
Scrive François Schneider:
"Consideriamo due scenari: uno incentrato su una crescita materiale piuttosto bassa, del 2%, nei prossimi 48 anni; un altro su una decrescita del 5% nello stesso periodo. Il primo scenario ci porta 30 volte al di là della tolleranza ecologica, il secondo viceversa (facendo attenzione a realizzare quest'evoluzione in maniera tale da accrescere il benessere e la qualità della vita) porta ad un pianeta vivibile a tempo indeterminato."
La puntualizzazione tra parentesi è particolarmente importante. Diversamente dal modello dello sviluppo sostenibile, che fa riferimento solo alla sostenibilità ecologica, senza chiarire in quale modo essa possa essere realizzata confermando il dogma della crescita illimitata, la sostenibilità bioeconomica, oltre a quella propriamente ecologica - che deve tenere conto della capacità della biosfera di tollerare shock esterni - fa riferimento a due altri livelli: quello sociale e quello psicologico.
La sostenibilità sociale è legata all'accesso ai beni e ai servizi degli abitanti del pianeta. La situazione attuale è espressa da due dati ufficiali, forniti dall'ONU. Primo, il divario di reddito tra il quinto di popolazione mondiale più ricco e il quinto più povero, che nel 1960 stava in un rapporto di 30 a 1, nel 1997 è diventato di 749 a 1, (ed è superfluo aggiungere che, da allora, esso si è ulteriormente incrementato). Secondo, la somma delle ricchezze delle 225 persone più facoltose del mondo equivale alla somma delle ricchezze del 47% della popolazione, cioè di due miliardi e mezzo di persone. Questi dati permettono di comprendere che il mondo è una polveriera che, come attesta il terrorismo, è già in via di esplosione. Senza una diversa distribuzione del reddito, la società planetaria rischia di trasformarsi in un fortino di privilegiati assediato da torme di poveri famelici e arrabbiati.
Se la biosfera ha limiti naturali, al di là dei quali i suoi equilibri sono destinati ad essere compromessi, anche la sociosfera ha i suoi limiti, che sono riconducibili alla tolleranza nei confronti dell'iniquità, che non è infinita.
E' evidente che la ridistribuzione del reddito, impedendo la concentrazione di capitali, che ha assunto negli ultimi venti anni un ritmo vorticoso, inciderà in qualche misura sulla produzione. La decrescita produttiva potrà però essere compensata dal contemporaneo venir meno di fenomeni speculativi puramente finanziari, che, com'è attestato dalla crisi della Borsa, hanno contribuito non poco ad alimentare ingenti trasferimenti di capitali dai meno abbienti ai ricchi. Utilizzato solo a fini produttivi o di consumo il denaro sarà più utile socialmente.
La sostenibilità psicologica ha due diversi aspetti. All'interno dei paesi occidentali, il modello consumistico, che condiziona i cittadini a soddisfare falsi bisogni, ha pesanti ricadute sulla salute fisica e psichica. Le malattie del benessere (obesità, diabete, ecc.) e quelle da stress (ipertensione, ulcere gastriche, ansia, depressione, ecc.) hanno già un costo sociale elevato, che in prospettiva può diventare esorbitante. Per quanto riguarda il resto del mondo, l'aspirazione verso quel modello, nella misura in cui esso viene invidiato, consegue effetti incisivi in termini di frustrazione e di rabbia. Se esso, però, come promette la globalizzazione, dovesse realizzarsi, gli equilibri ecologici sarebbero definitivamente compromessi.
Tenendo conto di questi tre aspetti, il modello della "decrescita sostenibile" gravita verso una rivoluzione radicale della produzione, della mentalità e dello stile di vita degli abitanti del pianeta.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si tratta di procedere verso uno viluppo conviviale, in cui gli uomini mantengano il controllo su tecnologie e sistemi di lavoro, in cui ha meno potere il Sistema fatta da multinazionali, burocrazie, società finanziarie, media, ecc. Tale controllo non implica solo la produzione di beni e servizi necessari, orientati a soddisfare i bisogni sociali, più che quelli del capitale. Esso postula anche una fruizione più consapevole, attiva e partecipe degli stessi.
Il secondo aspetto, correlato al primo, richiede il diffondersi collettivo di un modello di vita, incentrato sull'austerità ovvero sulla sobrietà felice, che è imprescindibile da un nuovo concetto di ricchezza. Secondo questo nuovo concetto, la ricchezza complessiva della società non sono solo i beni durevoli. Ricchezza sono la conservazione del capitale naturale, la socialità, il tempo libero, la sfera della conoscenza e dei valori, che consentono all'uomo di valorizzare le sua capacità attive di produrre "piacere", ecc. Consumare di meno per godere di più, è il motto della decrescita sostenibile.
Scrive Kate Soper:
"Coloro che si schierano a favore di un consumo meno materialista, sono spesso presentati come degli asceti puritani, che cercano di dare un orientamento più spirituale ai bisogni e ai piaceri. Questa critica è del tutto errata. Si può sostenere, anzi, che il consumismo attuale non s'interessa sufficientemente ai piaceri corporali, non passa attraverso l'esperienza sensoriale, è troppo ossessionato per una serie di prodotti che filtrano le gratificazioni sensoriali e erotiche e ce ne allontanano. Gran parte dei beni considerati essenziali per un tenore di vita elevato sono più anestetizzanti che stimolanti l'esperienza sensoriale, più avari che generosi in materia di convivialità, di relazioni sociali, di vita senza stress. Di silenzio, di odori e di bellezza un consumo ecologico non implica né una riduzione del tenore di vita né una conversione di massa verso la trascendenza, bensì piuttosto una diversa concezione del tenore di vita stesso."
Ancor più chiaro è Serge Mongeau, che, anziché di austerità e di sobrietà felice, parla di semplicità volontaria:
"La via della semplicità volontaria si apre in virtù di una valutazione personale introspettiva. Si tratta per ciascuno di capire chi egli è veramente e d'identificare i mezzi per soddisfare i suoi veri bisogni. E quando parlo di bisogni, penso al di là dei bisogni fisici di base: penso ai bisogni sociali, affettivi, spirituali. Cos'è che mi permette di realizzarmi pienamente, in tutte le mie dimensioni e capacità? Nel nostro mondo del benessere, ciò significa operare delle scelte, non più sotto l'influenza della moda, della pubblicità o dello sguardo sociale, bensì in funzione dei propri bisogni autentici. Per definizione, scegliere significa prendere qualcosa e lasciare da parte altre cose. Quando si comincia a scegliere, si consuma di meno, si ha meno bisogno di denaro per vivere. Si può dunque lavorare di meno, e nel tempo libero, dedicarci a ciò che è essenziale al nostro sviluppo personale: riflettere, parlare con gli altri, manifestare la nostra solidarietà, amare, giocare e, in tale modo, soddisfare autonomamente una parte dei bisogni che più spesso con il consumo, diventando sempre più dipendenti. In effetti, la dimensione essenziale della semplicità volontaria è questa: il tempo ritrovato, che permette di vivere come esseri consapevoli."
Posto in questi termini, il modello della "decrescita sostenibile" è imprescindibile da una trasformazione profonda dell'immaginario collettivo, che affranchi le menti dal mito della crescita, dei falsi bisogni e del consumo.
2.
Anche se ispirato al pensiero di Nicholas Georgescu, è evidente che la bioeconomia deve molto sia a Marcuse che a Illich, critici radicali del modello di società industriale avanzata. Essa si pone in alternativa non solo al capitalismo, ma anche al marxismo, che viene accusato di avere contestato il modo di produzione capitalistico, fondato sullo sfruttamento dei lavoratori, ma non l'obbiettivo di uno sviluppo illimitato della produzione, che esso si proponeva di volgere a favore dei bisogni sociali.
La critica sembra ingenerosa nei confronti di Marx. Questi sicuramente concepiva la società comunista come una società ricca. Ma, come ho cercato di dimostrare nel saggio su Marx Il mondo stregato, la ricchezza cui fa riferimento Marx anticipa il nuovo concetto della bioeconomia. Posto un tenore di vita dignitoso, che richiede un certo livello di produzione, essa è anche libertà dalla schiavitù del lavoro, tempo libero da investire nei rapporti familiari e sociali, nella partecipazione politica, nella cultura, nel piacere di vivere, ecc.
Quella critica, invece, è del tutto condivisibile se viene riferita al "socialismo reale" che, per sanare il gap con il mondo capitalistico, ha puntato sul modello industriale senza sottoporlo a critica, ed è finito addirittura con il privilegiare l'industria pesante rispetto alla produzione di beni e di servizi che soddisfassero i bisogni sociali. Lo stesso errore si sta attualmente riproducendo in Cina, politicamente ancora comunista, ma impegnata in una rincorsa vertiginosa del benessere occidentale e in un processo di crescita del PIL, le cui conseguenze sono un inquinamento fuori controllo e un aumento della forbice dei redditi individuali.
Detto questo, per amore di verità, occorre riconoscere che il modello della "decrescita sostenibile" ha un fascino indubbio. Posto a confronto con quello dello "sviluppo sostenibile", che è uno slogan e, in rapporto all'entità dei problemi da affrontare, poco più che un pannicello caldo (da cui il pianeta, già riscaldato per conto suo, non ricaverebbe alcun vantaggio), il modello bioeconomico, sulla carta, è assolutamente coerente, integrato e efficace. Si configura insomma attualmente come l'unico modello che può scongiurare, al tempo stesso, la catastrofe ecologica, quella sociale e quell'antropologica.
Esso, inoltre, rispetto a qualunque altro, insiste sulla necessità, per realizzarsi, di una rivoluzione culturale estesa a tutto il pianeta, che affranchi i cittadini occidentali da un'avidità sfrenata di beni e di servizi, che può risultare tossica, e quelli del resto del mondo da un'invidia e da una rabbia che, al di là dei loro reali bisogni, li spinge ad un'imitazione catastrofica del modello industriale.
Quest'aspetto, che io ritengo da sempre essenziale perché la storia umana si orienti verso un mondo fatto a misura d'uomo, d'un essere cioè la cui precarietà giustifica il suo darsi da fare per trasformare l'ambiente, ma non in un'ottica d'irrazionale onnipotenza, è peraltro in assoluto il più critico. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che le civiltà riconoscono, al di sotto della loro organizzazione economica e sociale, dei recinti mentali che le stabilizzano, ma ne impediscono anche il cambiamento laddove esso si rende necessario. Nella misura in cui tali recinti, riconducibili a sistemi di valore prodotti storicamente ma vissuti come assoluti, ne assicurano l'efflorescenza e lo sviluppo rigoglioso, così essi sono responsabili delle crisi e dei crolli, per evitare i quali sarebbe necessario il loro superamento. Il problema è che, finora, nessuna civiltà è riuscita a porre in gioco i sistemi di valori culturali su cui essa si fonda e a cambiarli prima della catastrofe. La civiltà capitalistica, da questo punto di vista, può essere apparsa sino a qualche tempo fa un'eccezione, in virtù della sua razionalità e della flessibilità, che le hanno consentito di scongiurare l'iniqua distribuzione dei redditi che, nella seconda metà dell'800, poteva generare tensioni sociale insormontabili, e che, nel '900, le hanno permesso di sopravvivere alla contestazione nazista e a quella ben più pericolosa del socialismo reale, che, nel secondo dopoguerra, sembrava avviato verso il trionfo. In realtà, a posteriori, questa flessibilità appare relativa. Le crisi sono state, infatti, sormontate sempre in virtù della capacità d'incrementare i livelli di produzione e di tamponare, in qualche modo, le disuguaglianze sociali conseguenti alla crescita.
Adesso, considerando i problemi ecologici e il mostruoso aumento della forbice tra ricchi e poveri che si è istaurata nel mondo, si direbbe che i nodi sono venuti al pettine. Il problema è che i recinti mentali che hanno promosso la civiltà capitalistica - vale a dire la fobia della miseria e della precarietà, la mobilità sociale che autorizza ciascuno a sognare di conseguire uno status privilegiato, e il diritto dell'individuo di curare i propri interessi privati, delegando allo Stato la cura dell'interesse generale - sembrano attivi più che mai nell'immaginario collettivo occidentale. Il modo in cui i cittadini, stringendosi attorno ai governi, reagiscono ai fenomeni dell'immigrazione, al terrorismo, alla necessità di operare dei sacrifici a favore dei paesi poveri, la loro rivendicazione di un tenore di vita fondato sul saccheggio delle risorse naturali e sullo spreco rappresentano una prova clamorosa della difficoltà di cambiare mentalità.
3.
Il limite maggiore del modello bioeconomico è che esso, per risultare efficace, deve essere adottato su scala mondiale. Una nazione che, nell'ipotesi (peraltro remota) di precorrere i tempi, tentasse di metterlo in pratica in proprio, andrebbe incontro alla stessa catastrofe in cui è incorsa l'Unione Sovietica, in seguito alla decisione di Stalin di perseguire la costruzione del comunismo in un solo paese. Essa, infatti, perdendo capacità competitiva sul mercato internazionale, sarebbe costretta a importare beni e servizi: a indebitarsi insomma progressivamente fino a livelli insostenibili d'insolvenza. Diventerebbe, insomma, un vaso di coccio tra vasi di ferro.
Esclusa quest'ipotesi, ci si può chiedere quali circostanze debbano realizzarsi perché quel modello possa essere adottato a livello planetario. A questo punto, il discorso scivola sul terreno dell'utopia. Occorre, infatti, pensare, per un verso, ad un organismo politico ed economico sovranazionale come l'ONU, dotato però di rilevanti poteri di programmazione, d'indirizzo e di controllo, e, per un altro, ad una popolazione mondiale consapevole della necessità di un cambiamento graduale ma radicale, finalizzato alla sopravvivenza della vita sul pianeta e all'instaurazione di un tenore di vita più austero, ma più equo, equilibrato e, in una certa misura, forse, felice.
Quell'organismo sovranazionale non esiste, e la consapevolezza dell'assoluta necessità di un cambiamento del sistema economico, dell'organizzazione sociale e dello stile di vita è assolutamente minoritaria.
I governi occidentali, il cui potere si fonda, per un verso, sul favorire la produzione industriale e, per un altro, sul sollecitare i consumi, e che sono consapevoli della dipendenza del consenso elettorale dal tenore di vita, non sembrano affatto intenzionati a prendere in considerazione il modello della decrescita sostenibile. Basta, a riguardo, considerare la folle politica economica adottata dagli Stati Uniti negli ultimi anni (indebitamento pubblico e privato, bassi tassi d'interesse, enorme deficit della bilancia commerciale, ecc.) al solo fine di alimentare i consumi in vista delle elezioni presidenziali,a dare la misura del fatto che il potere cura i propri interessi e prescinde da quelli globali e futuri.
Ci sarebbe motivo di essere pessimisti, se non fosse che la capacità degli esseri umani, o almeno di alcuni di essi, di continuare a formulare, in maniera sufficientemente persuasiva e dettagliata, modelli alternativi allo stato di cose esistente, mantiene vivo un barlume di speranza. Se non muore l'Utopia, un sistema può sempre cambiare: il problema è a quale prezzo
Febbraio 2004