INTRODUZIONE a MARCUSE

"Che l'uomo sia un essere razionale, che questo essere rivendichi la libertà, che la felicità sia il suo bene supremo, tutte queste sono universalità che hanno, appunto grazie al loro carattere universale, una forza propulsiva e progressiva. L'universalità fa sì che esse esigano, in modo quasi sovversivo, che non questo o quello, ma tutti siano razionali, liberi, felici".

Questa citazione esprime in modo sintetico e preciso la convinzione di fondo che ispira tutta l'opera di Marcuse. Si tratta, con assoluta evidenza, di una convinzione utopistica che non ha quasi alcun riscontro nella realtà sociale. Come per ogni utopia, il problema sta nel chiedersi se essa, pur smentita dai fatti storici, possa avere comunque un qualche fondamento. L'importanza di Marcuse, che oggi viene generalmente misconosciuta, sta nel ricondurre l'utopia di un "paradiso ri-creato" alla struttura psichica umana: alla razionalità non meno che a un incoercibile "pulsione" inconscia, che è di fatto un bisogno, verso il piacere, la libertà, la felicità e la giustizia. L'uomo nuovo di Marcuse è un soggetto nel quale le istanze della ragione si integrano indissolubilmente con quelle pulsionali, "erotiche", del "cuore", dando luogo ad una partecipazione critica non meno che appassionata alla realtà.

Tedesco ed ebreo di origine, nato nel 1898 a Berlino, Marcuse sviluppa fin dagli anni universitari un precoce interesse per il marxismo e la teoria critica della società. Agli inizi degli anni '30 entra a far parte dell'Istituto di Ricerca Sociale di Francoforte e contribuisce alla stesura di un'importante monografia (Studi sull'autorità e sulla famiglia). Nel 1934, in seguito all'avvento del nazismo, espatria negli Stati Uniti, acquisendo la cittadinanza statunitense. Dal 1940 al 1950 lavora, alle dipendenze del governo, per l'office of Strategic Services e l'Office of Intelligence Research. Torna poi all'attività intellettuale e si dedica all'insegnamento universitario. Dagli inizi degli anni '60, accentua progressivamente il suo radicalismo politico, fino a diventare uno dei maîtres-à-penser del movimento del '68. Muore nel 1979 in Germania.

La parabola intellettuale di Marcuse, allievo originariamente di Heidegger, è contrassegnata da una lunga frequentazione di Hegel e di Marx sulla quale si innesca una revisione del pensiero freudiano. Marcuse ha una fiducia illimitata nella ragione critica, soprattutto se essa si esercita in termini dialettici, sotto forma di pensiero negativo che smaschera le contraddizioni della realtà e delle ideologie che tendono a rimuoverle. In nome di questa fiducia, egli dà per scontato che i grandi pensatori non possono non essere, quali che siano i loro orientamenti coscienti, rivoluzionari. Quello che in Marx è esplicito, in Hegel e Freud, ritenuti comunemente conservatori, è dunque implicito e va decodificato. La rilettura marcusiana di Hegel e di Freud, dichiaratamente di sinistra, ha una precisa funzionalità. Interpretando Hegel come un precursore di Marx, Marcuse può revisionare la teoria marxista della sovrastruttura ideologica e assegnare ai fattori culturali un peso rilevante nella strutturazione della coscienza e della soggettività. Ricavando da Freud il riferimento ad una pulsione psicobiologica verso la felicità, egli aggancia la necessità di una rivoluzione politica, sociale e culturale non già ad una presunta coscienza di classe, bensì ad un bisogno incoercibile scritto nella psiche umana.

L'interesse prevalente di Marcuse è dunque di mantenere viva e di assegnare un carattere di necessità all'utopia rivoluzionaria in un periodo storico caratterizzato, in Occidente, dall'imborghesimento della classe operaia e, nei paesi del socialismo reale, da un regime oppressivo, causa di un'infelicità collettiva. Questo intento, eminentemente politico, determina un interesse per la struttura della coscienza individuale e dell'inconscio su cui vale la pena ancora oggi riflettere. La riflessione impone di sormontare I fraintendimenti in cui è incorso, per una serie di variabili congiunturali, il pensiero marcusiano.

Filosofo serio e accademico, per quanto politicamente impegnato, Marcuse raggiunge una fama repentina nella stagione del '68, allorché due saggi (Eros e civiltà del 1955 e L'uomo a una dimensione del 1964), tradotti in Europa, divengono un punto di riferimento di molti giovani aderenti al movimento di contestazione. Si tratta di testi filosofici piuttosto densi, di ardua lettura, maturati al seguito di un'annosa riflessione su Hegel, su Marx e su Freud, sicché non è sorprendente che essi vengano letti da pochi e volgarizzati in maniera da trarne degli slogans piuttosto che degli stimoli di riflessione.

Entrambi i libri hanno come oggetto il sistema sociale occidentale che viene sottoposto ad una critica radicale in nome del fatto che la razionalità cui esso si ispira, essendo sostanzialmente finalizzata alla crescita illimitata del capitale e alla subordinazione dei soggetti a tale finalità, produce l'alienazione delle coscienze che sono asservite a tal punto da ritenersi libere e felici senza esserlo, sollecitate per un verso a lavorare freneticamente, e per un altro a compensare lo stress del lavoro alienato con il consumismo e un edonismo degradato. La dimensione totalitaria del dominio tecnologico, vale a dire del potere, sulle coscienze e sulle soggettività, che risultano irretite da falsi valori e da falsi bisogni, non pone in gioco solo il problema di come la storia sociale possa produrre un'ideologia che diventa un "recinto mentale". Essa implica anche dei densi interrogativi sullo statuto delle coscienze e sui rapporti tra la coscienza e l'inconscio.

Nella temperie del '68, il messaggio politico anticapitalistico del pensiero marcusiano viene fatto proprio dal movimento giovanile di contestazione, mentre i nodi teorici - di ordine filosofico, sociologico e psicologico - che esso implica vengono accantonati.

In virtù della volgarizzazione, Eros e civiltà diventa il manifesto della rivoluzione sessuale libertaria, L'uomo a una dimensione la denuncia della condizione del cittadino medio borghese occidentale dominato dall'organizzazione sociale, isterilito nella sua capacità autonoma di pensare, ridotto ad essere un appendice funzionale del sistema, vale a dire un burattino. Si tratta rispettivamente di un grave errore interpretativo e di un'arbitraria semplificazione, che, come assicurano a Marcuse ormai settantenne una fama internazionale, così, passata la stagione del '68, promuovono, da parte della cultura borghese, una radicale demonizzazione per cui egli si trova iscritto da vent'anni nella lista nera dei cattivi maestri.

Ciò che gli si rimprovera è:

1) di essere stato severo e spietato nei confronti del sistema sociale occidentale, e in particolare degli Stati Uniti, ove pure ha trovato ospitalità, lavoro e benessere, e, viceversa, indulgente nei confronti del socialismo reale

2) di avere alimentato nei giovani uno spirito di rifiuto radicale dell'autorità costituita, che ha animato forme di ribellismo anarchico giunte all'estremo dell'autoemarginazione attraverso la droga o della lotta armata al sistema

3) di avere enfatizzato, in opposizione al dovere sociale (uno dei cui aspetti è il lavoro), il piacere sessuale e di avere, pertanto, contribuito alla diffusione, a livello giovanile, di un'ideologia deresponsalizzante, edonistica e trasgressiva.

Nessuna di queste critiche è fondata, tranne, forse, l'ultima per quanto riguarda un certo pessimismo, che non trova riscontro neppure in Marx, sulla possibilità che il lavoro possa assumere in qualsivoglia società un carattere non repressivo.

I conti con il regime sovietico Marcuse li ha fatti negli anni '50 e le conclusioni cui è arrivato sono state di rifiuto radicale. Egli di fatto è rimasto avverso ad ogni forma di totalitarismo. Mentre però il totalitarismo sovietico è un totalitarismo di regime, evidente agli occhi di coloro che lo subiscono, come è stato confermato peraltro dalla fine del comunismo, il totalitarismo occidentale è, dal punto di vista di Marcuse, infinitamente più insidioso poiché esso non comporta alcuna consapevolezza e alcuna protesta da parte dei cittadini occidentali se non in forma di nevrosi, perversioni, aumento dell'aggressività sociale, ecc.

Il Grande Rifiuto, che è un tema costante nell'opera marcusiana, non riguarda la realtà sociale nella sua totalità, bensì solo gli aspetti di essa che alienano l'uomo, allontanandolo dalla percezione e dalla pratica dei suoi bisogni autentici e rendendolo schiavo di falsi bisogni. Quel rifiuto Marcuse non lo ha mai inteso come una forma di sterile protesta contro lo stato di cose esistente e tanto meno come tale da promuovere, come unica possibilità di liberazione, l'autoemarginazione o la violenza.

Riguardo al piacere di vivere, l'opposizione di Marcuse riguardo a qualunque forma di edonismo è sempre stata netta e inequivocabile. Lo attesta peraltro la sua stessa esperienza personale, caratterizzata da una dedizione costante allo studio e alla pratica intellettuale. Il modello di uomo cui egli fa riferimento è quello dell'uomo universale di Marx, che gode perché coltiva la vita in una molteplicità di forme e di livelli.

Se dunque le accuse sono sostanzialmente infondate, ciò non significa che il pensiero marcusiano sia privo di difetti e immune da critica. La descrizione che egli dà della società occidentale, capitalistica e tecnologica, e del cittadino medio (borghese e proletario), completamente assoggettato al principio di realtà, e dunque passivamente adattato all'ordine di cose esistente, coglie alcuni aspetti che si possono ritenere ancora oggi veri. Ma l'impeto polemico di Marcuse eccede spesso sul piano di una stigmatizzazione che appare più moralistica che dialettica. Enfatizzando il potere del sistema di manipolare l'uomo, egli sembra quasi dimenticare che il sistema è pur sempre un prodotto storico il quale, nella misura in cui mortifica i bisogni autentici iscritti nella natura umana, deve avere in sé le ragioni del suo superamento. Deluso dalla fallacia delle previsioni di Marx sulla fine del capitalismo, Marcuse sembra però condividerne una certa insofferenza nei confronti dei tempi lunghi della storia. Ciò è tanto più paradossale quanto più egli si è esplicitamente dichiarato, fino alla fine dei suoi giorni, un ottimista.

Se il pensiero di Marcuse conserva oggi un qualche valore per una scienza critica dell'uomo e dei fatti umani, questo va ricondotto al problema, che egli ha colto, dello statuto della coscienza in rapporto alla realtà sociale, perennemente esposto al rischio dell'alienazione e della mistificazione. Ma tale statuto, che determina nei più un orientamento adattivo alla realtà così com'è, si sovrappone ad un mondo inconscio che veicola un bisogno insopprimibile di libertà e di felicità. Il malessere profondo che sottende e permea, ancora oggi, molte esperienze normali è l'indizio che quell'adattamento è un adattamento per difetto.

L'attribuzione di Marcuse all'inconscio di un potenziale psicobiologico rivoluzionario è un'intuizione di grande interesse. Ciò che è sfuggito al pensatore tedesco è che lo stesso inconscio veicola, sotto forma di un bisogno di appartenenza che promuove l'adesione al modello normativo dominante, le ragioni di un adattamento che può condurre all'alienazione.