1. Che c’entra la finanza con la panantropologia? Non sarà, forse, un’ossessione veteromarxista quella di ritenere che tra macro- e microsociale, tra l’organizzazione economica della società, la vita quotidiana dei singoli individui e la soggettività si diano necessariamente rapporti reciproci e interattivi? Può darsi che sia un’ossessione legata al marxismo: se lo è però, non la si può ritenere certo, oggi, infondata. Chi un giorno analizzerà la nostra società non potrà non rilevare la profonda influenza dell’economia a tutti i livelli della realtà sociale, dalla politica alla psicologia individuale. La globalizzazione, trascendendo i confini delle nazioni, mette in crisi i governi, le identità culturali, le tradizioni. All’interno delle comunità nazionali, promuovendo una distribuzione squilibrata del reddito, innesca conflitti di ordine vario tra le realtà regionali e allenta i vincoli di solidarietà tra i cittadini. Ponendo a contatto tra loro etnie e culture diverse, rafforza e scuote al tempo stesso gli etnocentrismi, inducendo, in profondità, una crisi dei valori che nessuna filosofia mai è riuscita a produrre. Se si passa dal livello macrosociale a quello microsociale, l’influenza è ancora più incisiva. L’homo oeconomicus, ormai, è una triste realtà. La logica dell’economia, come ho già scritto in un altro articolo, si è infiltrata profondamente nella soggettività e nell’intersoggettività. Gran parte delle persone vivono sul filo di un’ansia che fa riferimento al reddito, al potere di acquisto, al consumo, alle prospettive future di sicurezza/insicurezza economica, comporta un continuo confronto con gli altri in termini di avere, promuove un’ingenua scala di misura per cui solo la ricchezza è indice di valore, determina la continua ricerca di strategie atte a far crescere il proprio patrimonio, ecc. Ridurre l’economicismo psicologico ad uno solo degli aspetti che lo caratterizzano significa, però, non coglierne l’impatto globale sulla mentalità. I fautori del sistema sostengono che tale impatto è positivo perché obbliga i soggetti ad adottare strategie economiche “razionali”, e quindi ad adeguare il loro comportamento alla complessità del sistema in cui vivono, il quale assicura loro un certo benessere. Si tratta al solito di una mistificazione ideologica (o semplicemente di una “balla”): primo, perché le persone in genere non hanno gli strumenti di base – competenze e informazioni - per agire secondo criteri di razionalità economica; secondo, perché il sistema si sta organizzando sempre più sulla base di privilegiare i capitali piuttosto che i bisogni sociali, e quindi, a livello individuale, promuove l’affidamento passivo ai “tecnici” nella gestione del denaro piuttosto che scelte razionali; terzo, perché, perseguendo quel fine, esso adotta strumenti finanziari a tal punto sofisticati e insidiosi che gli stessi tecnici stentano a valutare adeguatamente nel loro valore reale, fittizio o inesistente.. Un dato comportamentale che chiarisce le idee sull’irrazionalità intrinseca al capitalismo contemporaneo à facile da cogliere. Si tratta del consumismo, vale a dire di un condizionamento prodotto dal capitalismo per cui le persone sentono un bisogno vivo di beni assolutamente non necessari. Tale condizionamento è ormai è operativo, vale a dire largamente diffuso nella popolazione occidentale, e come rilevato da più sociologi critici, esso ha ormai assunto un carattere compulsivo, nel senso che il giungere a possedere un oggetto (o meglio un’infinità di oggetti) sembra una motivazione primaria che prescinde dal valore d’uso. Dopo avere indotto la compulsione al consumo, però, il sistema economico, che in passato si è dato tanto da fare per espandere la base dei consumatori, sta procedendo nella direzione di una distribuzione della ricchezza tale per cui, al di sotto di una ristretta cerchia di privilegiati che arricchiscono di continuo (valutabile intorno al 20%), il potere d’acquisto dei ceti medi e di quelli meno abbienti si sta lentamente contraendo con la conseguenza di porre i consumatori di fronte a vincoli di bilancio piuttosto restrittivi. Certo, tali vincoli possono essere sormontati in virtù dell’indebitamento, ma è evidente che il meccanismo non può andare all’infinito. La conseguenza di tutto ciò è che, nella nostra società, alla crescita che sembra inarrestabile della povertà relativa si aggiunge quella di una quota rilevante della popolazione il cui stato di cronica frustrazione non potrebbe essere spiegato meglio di quanto ha fatto Seneca scrivendo che non è povero chi ha poco ma chi desidera di più. Questi fenomeni psicosociologici si realizzano su di uno sfondo estremamente complesso e contraddittorio, inerente l’evoluzione del capitalismo, che comporta non pochi paradossi. Uno di questi è il contrasto tra una vasta componente del corpo sociale che va economicamente in sofferenza e le Borse che continuano a fare faville, assicurando ad un manipolo di privilegiati una ricchezza sempre maggiore. Nel recensire il libro di Stiglitz (La globalizzazione che funziona) ho cercato già di fornire qualche criterio utile ad interpretare tale paradosso. Una comprensione piena, però, richiede di approfondire alcuni aspetti tecnici dell’impiego dei capitali finanziari che vanno molto al di là della cultura comune. Solo una conoscenza sia pure approssimativa degli strumenti finanziari prodotti negli ultimi due decenni – eufemisticamente definiti “innovativi” – consente di capire che cosa sta avvenendo a livello di economia mondiale, perché gli squilibri economici si accrescono, e perché continueranno a perpetuarsi se non interviene qualche tipo di controllo internazionale sui capitali finanziari. Affrontare un argomento del genere impone di superare lo scoglio di sigle criptiche al di sotto delle quali si dà una verità che pochi hanno il coraggio di riconoscere: quella per cui, in difetto di adeguati controlli sull’uso dei capitali, il confine tra lecito e illecito appare sempre meno percettibile e di fatto è continuamente superato. Se Marx fosse vivo, presumo che parlerebbe di feticismo del denaro virtuale. Si tratta, in breve, del famigerato gioco delle tre carte esteso a livello di mercato mondiale. Per impostare il discorso parto da un articolo a firma di Marcello De Cecco pubblicato sul supplemento di Affari & Finanza de La Repubblica in data 28 maggio 2007: “Negli ultimi mesi numerose e importanti autorità sono intervenute con toni preoccupati a rilevare la potenziale pericolosità dell'accumularsi senza soste e anzi a ritmi crescenti, della massa di operazioni di finanza non tradizionale, che coinvolgono spesso il delicato apparato della finanza internazionale. Anche se non tradizionali, sono operazioni ormai non più propriamente innovative, perché la loro introduzione risale ormai a qualche decennio. Ma quel che preoccupa le autorità e la dimensione che esse vanno assumendo, che ormai si può senza esagerare definire gigantesca. Ci si riferisce innanzitutto al mercato dei derivati, in particolare a quelli che permettono ai creditori di assicurare i propri crediti in caso di insolvenza dei debitori. Ma si punta con uguale intensità il faro delI'attenzione sulle operazioni cosiddette di private equity financing e su quelle degli hedge fund. Sui derivati si è scritto molto, ormai, e la preoccupazione delle autorità è di vecchia data, ma non è scemata nel tempo. Le complicatissime operazioni che li compongono sono assai difficili da stimare in termini quantitativi precisi e anche da descrivere senza occupare pagine e pagine. Sulla panoplia ormai vastissima di questi strumenti si basa gran parte delle operazioni che sia gli hedge fund che la finanza di private equity mettono in piedi e gestiscono in quantità sempre più grandi. Senza l'ausilio dei derivati molto spesso non si potrebbero progettare le attività di finanza innovativa alle quali ci riferiamo. Dobbiamo innanzitutto dire su queste ultime qualcosa di non troppo astruso. Le operazioni di private equity consistono nella costituzione di fondi chiusi, formati da capitali provenienti all'origine esclusivamente da persone molto ricche o istituzioni molto solide come le banche di investimento o anche le apposite divisioni delle grandi banche commerciali. Una volta costituito il capitale di un fondo di private equity, lo si affida a dei manager professionisti, i quali si mettono in cerca di occasioni per investirlo acquistando quote di maggioranza in imprese e società che sono troppo rischiose per trovare finanziatori normali come la. borsa o che, sono, secondo i gestori. del fondo stesso, mal gestite e possono essere rese più profittevoli con ristrutturazioni profonde condotte da gruppi di manager professionisti. Questi fondi di investimento sono quindi adatti, ad esempio, a finanziare attività industriali in settori innovativi per i quali si prevede la possibilità di grandi guadagni, ma anche di grandi perdite. Il rischio elevato che presentano scoraggia l'investitore tradizionale, impedisce il finanziamento mediante indebitamento bancario o obbligazionario, e può esser affrontato solo da individui o istituzioni capaci e desiderosi di esporsi al rischio in vista degli elevati guadagni possibili. Ma oltre a questo campo di attività, al quale i fondi di private equity si sono massicciamente dedicati negli anni novanta, contribuendo in maniera importante all'espansione dell'elettronica. e dell'informatica, questi fondi si sono occupati di un altro importante settore, quello dei famosi leveraged buyout, gli acquisti di imprese esistenti compiuto mediante massiccio ricorso all'indebitamento. In questa attività i fondi di private equity si distinsero negli Stati Uniti, dove sono nate entrambe queste forme di finanza innovativa, nei ruggenti anni ottanta, quando molte importanti imprese furono comprate per essere spezzettate e rivendute con enormi profitti, ma anche creando non insignificanti problemi sia per l'occupazione che per il finanziamento della previdenza, che negli Stati Uniti è gestita da ciascuna impresa per i propri dipendenti. Ed è proprio alla conclusione di quel famoso boom, dal 1990 al 1992, a cui bisogna guardare per capite quali sono i rischi che la finanza innovativa può presentare per il sistema finanziario nel suo complesso. Va innanzitutto chiarito che anche le maggiori banche di investimento, per lo più americane ma anche le poche europee e giapponesi superstiti, oltre a intervenire nelle essenziali funzioni di consulenza alle operazioni di private equity, sì dedicano all'attività stessa anche in conto proprio, con mezzi propri, dando luogo a rilevanti problemi di conflitto di interesse. Ma, dati per risolti quei problemi (il che è tutt'altro che scontato), alla fine dei grande boom degli anni ottanta anche le maggiori banche commerciali americane erano pesantemente impegnate nel finanziamento a debito di tali operazioni, alcune delle quali di dimensioni gigantesche. Nell'ottobre 1987 era crollata la borsa di New York, anche a seguito della politica di rialzo dei tassi messa in opera da Greenspan, appena arrivato a reggere la Federal Reserve. Negli anni successivi le aspettative di ulteriori rialzi inaridirono le fonti di finanziamento sulle quali si reggevano le operazioni di acquisto di. imprese mediante massiccio ricorso al credito, e l'intero sistema bancario americano entrò in una condizione di forte illiquidità, perché i finanziamenti precedenti non potevano essere rinnovati e le imprese debitrici non potevano far fronte ai propri impegni. Fu salvato dalla prima edizione della politica di denaro a costo quasi zero inaugurata per l'occasione da Greenspan, che sarebbe negli anni seguenti divenuto un "maestro" in tale campo. Essa salvò le banche e il resto del sistema finanziario, ma provocò il crollo del dollaro e, coincidendo con una politica di alti tassi praticata allo stesso tempo dalla Bundebank per impedire che la riunificazione tedesca sfociasse nell'inflazione, indusse anche il crollo del Sìstema Monetario Europeo. Se non si svolgesse in condizioni di crescente euforia, ma crescesse a tassi ragionevoli, il finanziamento mediante private equity potrebbe avere notevoli vantaggi, specie in paesi dove le imprese familiari prevalgono, quali l'Italia e la Germania, e dove quindi si pone spesso il problema del trasferimento delle imprese stesse tra generazioni diverse. Spesso le imprese familiari vanno incontro a pericolose fasi di declino quando i loro fondatori invecchiano ma non vogliono passare la mano perché sanno troppo bene di non avere successori al loro livello. O perché di successori ne hanno parecchi che litigano tra loro, o che hanno diversi interessi, solo alcuni volendo dedicare le proprie risorse all'azienda. I manager professionisti che i fondi sono in grado di mettere in campo, se rilevano l'azienda sono in grado di riportarla ad una dinamica più favorevole, e magari anche di riaffidarla a quella parte della famiglia che sì sente dì continuare a occuparsene. Per aziende più grandi e multidivisionali, è del tutto possibile che rilevarle e suddividerle, vendendo le attività più lontane dal cuore del settore in cui sono impegnate, serva a migliorare sia i profitti che la gestione in generale. Il problema principale, di questa come delle altre attività finanziarie innovative, sta nella leva finanziaria molto elevata alla quale esse si appoggiano in maniera determinante Un fondo di private equity adopera normalmente per le sue attività capitale raccolto dai soci per un venti per cento massimo del totale del prezzo da pagare per acquistare un'impresa, mentre l'80% è raccolto con l'indebitamento, in tutte le sue forme, che vanno dai più tradizionali con garanzia, alla emissione di obbligazioni ad alto rendimento, ai mutui fondiari, ai prestiti-ponte a breve concessi massicciamente dalle banche. E' questa leva finanziaria essenziale alla esistenza del private equity a renderne le operazoni effervescenti quando i tassi di interesse sono bassi, e a ridurla a molto più bassi livelli quando questi mostrano di crescere. Ed è anche il motivo della preoccupazione delle autorità. monetarie, perché le aspettative sui tassi possono causare l'inaridimento improvviso della finanza a breve, ad esempio di quei prestiti-ponte che le banche danno tanto alacremente quando il tempo è bello e di cui divengono improvvisamente avarissime quando esso peggiora. Ed è persino peggio se invece, impegnate nel finanziare un grosso debitore, non riescono a tagliargli i fondi e lo seguono nelle difficoltà in cui viene a trovarsi quando aumentano i tassi. Ne ha fatto cenno Bernanke solo qualche giorno fa. Il collegamento con il mercato azionario costituisce un altro motivo di preoccupazione per le autorità perché, ad esempio, solo nel 2007 si prevede che, come conseguenza di operazioni di private equity, almeno diciassette titoli saranno ritirati dall'indice S&P 500, che consta appunto di cinquecento società. Questo significa che i proprietari delle azioni riceveranno una montagna di denaro che normalmente potranno investire sui restanti titoli, sostenendo in tal modo i corsi delle azioni, che nella fase attuale. della congiuntura americana non hanno molti altri motivi per restare alti, e le nuove emissioni sono molto scarse. Se viene meno questa fonte di liquidità, perché le aspettative sui tassi restano al rialzo, e il private equity dirada le proprie operazioni per la improvvisa timidezza dei fornitori di rnezzi finanziari essenziali alle loro attività, l'indice di borsa ha un motivo in più per scendere, con ulteriori effetti di contagio sul resto del sistema finanziario e dell’economia reale. Finché dura il bel tempo, tuttavia, le operazioni di private equity si moltiplicano e non ne beneficia solo l'efficienza del sistema in generale, ma anche se ne avvantaggiano le finanze private dei partecipanti al gioco. Le banche di investimento, ad esempio, percepiscono enormi parcelle per le consulenze che forniscono alle operazioni stesse. E si tratta di somme spesso vicine ai nove zeri. Le banche commerciali vedono salire le proprie attività di prestito in tempi di scarsità della clientela tradizionale. A loro volta, i manager delle imprese che sono comprate possono vendere vantaggiosamente le azioni che hanno, nel tempo, ricevuto in forma di opzioni, come parte della loro remunerazione professionale. E per questo non è detto che cerchino altri compratori, magari più strategici per le attività delle imprese loro affidate in gestione. Come ho detto sopra, le attività di private equity sono intrecciate con quelle di molti altri tipi di finanza, sia tradizionale che innovativa. Lo stesso è vero per il terzo cavaliere di questa apocalisse, che non è detto sia ineluttabile, gli hedge fund. Anche questi sono fondi nati per raccogliere denaro da chi non ha paura del rischio e ha le spalle forti per assorbire perdite. Ma il loro clamoroso successo negli anni novanta (con qualche ombra anche corposa di clamorosi fallimenti) accoppiato alla esiguità dei rendimenti dei prodotti finanziari tradizionali ne ha ben presto democratizzato sia la domanda che l'offerta. Se ne contano ormai, nel mondo, più di novemila, con investimenti totali da capogiro e si sono spostati, per cercare forti rendimenti, su attività prima poco sfiorate dalla speculazione pura. Si dice che la speculazione serve a rendere più efficienti i mercati. Può darsi che sia vero. Ma ora, alla ricerca di rendìmenti elevati, una quantità di fondi di investimento, di società di assicurazione, di fondi pensione, si è messa a comprare parti di hedge fund. I patrimoni delle fondazioni che reggono le finanze delle maggiori università americane, ad esempio, sono massicciamente composti di hedge fund. Così lo sono quelli di fondi pensione famosi per la loro tradizionale prudenza, e di società di assicurazione che usavano ancorare le polizze vita a investimenti solidi come quelli immobiliari, dei quali si sono quasi completamente disfatte. Ora queste ex morigeratissime istituzioni sono state colpite dalla febbre del guadagno alto e rapido. I destinatari ultimi del rischio, i risparmiatori, godono degli alti guadagni, e non vogliono né possono sapere come sono ottenuti. E' una droga sottile, che porta ad una assuefazione scossa solo per poco da qualche rumorosa insolvenza. Per distogliere da essa l'intero mercato occorrerà, temo, una cura drastica come la crisi del 1929, che quasi ammazzò il paziente ma per i cinquant'anni successivi trasformò radicalmente i sistemi finanziari e i comportamenti nei confronti del rischio.” 2. L’analisi di De Cecco è lucida, anche se probabilmente gran parte degli economisti considererebbero eccessiva e ingiustificata la previsione catastrofica con cui si conclude. Un luogo comune ricorrente ormai da tre anni è che l’economia mondiale è fondamentalmente sana e in fase di sviluppo, quindi in grado di tollerare qualunque shock, compresa un’eventuale recessione statunitense. Chi formula tale giudizio fa riferimento a quella che si definisce economia reale, legata alla produzione e alla commercializzazione di beni e di servizi. Sotto questo profilo, indubbiamente, l’economia è in fase di espansione in tutto il mondo. Il problema è che, parallelamente all’economia reale, si dà anche una quota sempre più rilevante di economia finanziaria che fa leva su di essa per perseguire i suoi giochi, tutt’altro che limpidi. Se n’è avuta già una prova all’epoca della crisi borsistica del 2001. Da allora con alcuni articoli ho segnalato che il capitalismo finanziario non aveva appreso nulla da quella lezione, che avrebbe dovuto rendere il sistema trasparente e gli organi di controllo più attivi sul piano del contenimento e della repressione. Infatti, ci risiamo anche se attualmente ancora nessuno è in grado di quantificare l’entità e l’incidenza della crisi Il problema è se l’opinione pubblica potrà tollerare nuovamente, e a distanza di una manciata di anni, la scoperta che il sistema capitalistico continua ad avere un’intrinseca tendenza non già solo al profitto (diritto riconosciuto e ritenuto giusto), ma al profitto a qualunque costo, anche dunque a costo di violare le leggi e truffare una parte rilevante di persone – i piccoli risparmiatori – che continuano a credere nell’affidabilità delle Banche, dei Fondi di Investimento, delle Agenzie di rating, ecc. Le nuove tecniche della truffa, implicitamente adombrate nell’articolo di De Cecco, vanno approfondite. Tutta la baracca della cosiddetta finanza innovativa si basa sugli strumenti derivati. Ma di cosa si tratta con precisione? Per arrivare a capirlo occorrono alcune definizioni. Gli strumenti finanziari sono né più né meno contratti attraverso i quali gli operatori economici si accordano per effettuare e ricevere dei pagamenti, per concedere o ricevere del credito, o per trasferire il rischio riguardante incassi o pagamenti futuri e incerti. A seconda di quale tra le tre appena indicate sia la funzione principale si distinguono: strumenti di pagamento (come gli assegni bancari o le carte di credito), strumenti di investimento/finanziamento (come i depositi bancari, le azioni, i mutui, le obbligazioni ecc.) e strumenti di fronteggiamento del rischio (come le assicurazioni o gli swap). Di questi contratti al capitale finanziario ne interessano solo due: gli strumenti di investimento/finanziamento mobiliari (titoli di qualunque genere) e, tra quelli di fronteggiamento del rischio, gli strumenti di copertura (swap, options, futures ecc.). Gli strumenti mobiliari sono, infatti, caratterizzati da una completa standardizzazione delle clausole (i diritti riguardanti un titolo sono predefiniti e perfettamente identici per tutti i potenziali sottoscrittori) e perciò si prestano a essere frazionati in “certificati” rappresentativi di una «quota» del totale delle risorse monetarie trasferite. Tali certificati, equivalenti al denaro, sono molto più maneggevoli dello stesso: mobili, appunto, in quanto facilmente trasferibili. Gli strumenti di copertura sono utilizzati per ammortizzare i rischi speculativi (eventi futuri e incerti dai quali normalmente derivano conseguenze negative per alcuni operatori e positive per altri). Essi mirano in breve, in una certa misura, a razionalizzare i rischi che corrono gli investitori. All’interno di questa rete complessa di contratti, è agevole distinguere strumenti finanziari principali e strumenti derivati. I primi sono rappresentati da materie prime, valute, tassi di interesse, titoli, indici azionari. I secondi sono derivati dagli strumenti principali nel senso che il loro profilo di costo/rendimento deriva dai parametri di costo/rendimento degli stessi, chiamati sottostanti (underlying). In pratica, uno strumento derivato è un contratto a termine che concerne la compravendita di uno strumento principale da effettuarsi in una data futura a un certo prezzo prefissato. Per quanto diversi, gli strumenti derivati hanno obiettivi costante, che sono tre: 1) copertura delle posizioni (hedging): l'utilizzo dello strumento derivato consente di neutralizzare l'andamento avverso del mercato, bilanciando le perdite sull'attività sottostante con i guadagni sul mercato dei derivati; 2) speculazione ossia trading condotto con l'intento di trarre un profitto da una previsione o da una scommessa sul futuro andamento del mercato; 3) arbitraggio, per cui l'operatore sfrutta un momentaneo disallineamento tra l'andamento del mercato derivato e quello sottostante (destinati a coincidere all'atto della scadenza del contratto), vendendo uno strumento e acquistando l'altro in modo da ottenere, così, un profitto certo. Un elenco approssimativo (visto che, come vedremo, se ne creano in continuazione) di strumenti derivati è il seguente: futures, opzioni, warrant, covered warrant, negoziati nei mercati regolamentati, forward, swap scambiati da operatori specializzati over-the-counter. L’analisi di queste diverse forme contrattuali porterebbe in una spirale tecnicistica senza fine. Basterà limitarla ad una di esse, peraltro tristemente famosa perché, almeno in parte, responsabile del crack borsistico del 2001.: la stock-option. 3. Nel mercato finanziario, per opzione s’intende un contratto che, nella forma più semplice, consiste nella cessione da parte di un venditore a un acquirente, del diritto di acquistare o di vendere una data quantità di un certo strumento finanziario a un prezzo prefissato (prezzo d'esercizio o strike price) entro una certa data futura (opzione americana) o allo scadere di essa (opzione europea). L'opzione acquistata sarà esercitata se e solo se il possessore del diritto ricaverà un guadagno netto dal suo esercizio, cioè troverà profittevole lo scambio cui l'opzione dà diritto. Dipendendo dal prezzo del titolo su cui è scritta, l'opzione è un esempio di titolo derivato. All’interno della categoria delle opzioni si definisce la stock option, vale a dire l’opzione concessa a propri lavoratori dipendenti, generalmente ai dirigenti (manager), di acquistare o sottoscrivere un certo numero di azioni sociali a un prezzo di favore predeterminato ed entro un certo intervallo temporale. Le azioni possono essere cedibili a terzi o non cedibili e costituiscono una forma di incentivo per motivare il management. Le modalità di assegnazione delle azioni possono essere di vario tipo: aumento di capitale sociale finalizzato a un'assegnazione straordinaria di utili ai dipendenti; aumento di capitale offerto in sottoscrizione ai dipendenti; aumento di capitale, con esclusione del diritto d'opzione dei soci, e assegnazione delle nuove azioni a dipendenti di società che fanno parte dello stesso gruppo; aumento di capitale, con cessione del diritto d'opzione da parte dei soci ai dipendenti; assegnazione ai dipendenti di azioni di altre società già detenute dal datore di lavoro in portafoglio; offerta di azioni di società estera capogruppo ai dipendenti della società controllata italiana. Le stock option comportano un rischio, legato al fatto che la società può andare male o al limite fallire. In questo caso, non avendole acquistate con denaro, i manager perdono ben poco: perdono un valore e un guadagno virtuale. Se, invece, le cose vanno bene, le stock option diventano una gallina dalle uova d’oro, poiché la differenza tra il valore d’acquisto e quello di vendita è un profitto netto. La crisi borsistica del 2001 ha dimostrato che è stato adottato, pressoché collettivamente, una strategia vincente - la falsificazione dei bilanci - che ha consentito ai manager di ricavare enormi profitti da società votate al fallimento. Il fallimento, naturalmente, è stato pagato dagli altri azionisti, vale a dire dagli incauti piccoli investitori. Le stock option hanno dimostrato l’insidia implicita negli strumenti derivati. Lo scandaloso trasferimento di ricchezza da chi ha meno a chi ha di più, realizzatosi in seguito alla crisi della Borsa del 2001, ha posto in atto una serie di correttivi orientati ad impedire il ripetersi di una truffa che ha inciso profondamente nella fiducia dei piccoli investitori. Tali correttivi sono stati però di facciata: essi hanno comportato un incremento dei controlli sui bilanci societari. Il problema è che la finanza “innovativa”, all’epoca, aveva già metastatizzato il sistema. Ciò risulta chiaro anche limitando l’analisi allo strumento derivato delle opzioni. Dall'inizio degli anni Ottanta, con l'accresciuta volatilità dei mercati, si sono sviluppate varie tipologie di opzioni su tassi di cambio e tassi d'interesse. Tali opzioni consentono la copertura del rischio di oscillazioni nei cambi o nei tassi d'interesse al pari di un contratto a termine, ma lo fanno in modo asimmetrico, senza cioè precludere all'investitore la possibilità di guadagnare nel caso di movimenti favorevoli dei titolo sottostante. In pratica, le opzioni sono state utilizzate sui mercati finanziari non più solo come incentivi per i manager, ma a tutto campo, estendendosi dai titoli azionari a tutto ciò che nel sistema capitalistico è contrattabile: come strumenti di speculazione, dunque, e come strumenti di copertura del rischio di mercato (rischio di variazione di prezzi e tassi d'interesse). La conseguenza di questo è stata che i volumi scambiati hanno progressivamente e largamente superato quelli dei titoli sottostanti. Si è in pratica entrati nel dominio del debito e del denaro virtuale, cioè della speculazione pura. Anziché rendersi trasparente, dopo la crisi della Borsa, il mercato finanziario si è riorganizzato sulla base di strategie ancora più equivoche, orientandosi, con gli hedge fund e il private equity, verso la speculazione ad alto rischio avvalendosi in maniera sempre più massiccia di strumenti derivati sofisticatissimi che, sulla carta, sono deputati a minimizzare i rischi. 4. Nella tradizione economica, la speculazione – vale a dire l’acquisto e la rivendita in tempi successivi di attività reali o finanziarie allo scopo di ricavare un profitto - non ha l’accezione univocamente negativa con cui risuona a livello di senso comune. Entro certi limiti – si sostiene – speculare è lecito e anche utile al sistema. La capacità degli speculatori di formulare previsioni corrette circa i prezzi futuri concorre a fare assumere ai prezzi correnti un livello allineato rispetto ai prezzi futuri. La variabile previsionale è essenziale sul piano economico. I prezzi correnti devono essere agganciati a quelli futuri perché i valori cui fanno riferimento dipendono dal loro flusso. La speculazione, dunque, servirebbe ad impedire che i prezzi correnti si discostino troppo, in alto e in basso, da quelle che sono le potenzialità di sviluppo degli investimenti cui fanno riferimento. Certo, accanto alla speculazione lecita, ne è sempre esistita una irresponsabile o francamente disonesta: ma a questo livello si fuoriesce dall’economia e si entra nel campo della criminalità finanziaria. Il problema è che, nella fase attuale di sviluppo del capitalismo, caratterizzato da un’estrema volatilità, il confine tra speculazione lecita e illecita diventa sempre più labile. In gran parte, l’ambiguità del confine è da ricondurre per l’appunto alla finanza cosiddetta innovativa. Gli strumenti derivati, e tutti i loro succedanei, sono stati considerati negli ultimi anni innovazioni utili al sistema in quanto orientati a coprire, almeno in parte, rischi speculativi elevati che, altrimenti, immobilizzerebbero quote elevate di capitali. Essi, insomma, incentiverebbero gli investitori a rischiare su terreni impervi potendo fare conto su di un paracadute – quello assicurato dalla loro complessa trama finanziaria – che, se non esclude impatti traumatici, li ammortizza. C’è da chiedersi però: primo, perché da quindici anni a questa parte si specula sempre di più; secondo, perché coloro che speculano non accettano il rischio che consapevolmente corrono; terzo, quali sono le strategie che consentono di minimizzare quel rischio. La risposta alle prime due domande non è particolarmente complessa. Come ho già rilevato in un precedente articolo, c’è nel mondo un eccesso di liquidità che cerca di continuo terreni di investimento e, dato che gli investimenti finanziari sono molto più rapidi di quelli produttivi, non c’è da sorprendersi che una quota rilevante di denaro si indirizzi verso la speculazione. Tenere il denaro sotto il mattone o in un conto corrente bancario non va più di moda. Il denaro, ormai, esiste solo per essere investito e produrne altro, e non secondo una misura ragionevole (posto che esista) bensì nella misura maggiore possibile.. Alla seconda domanda si può rispondere che, in seguito alle abitudini contratte all’epoca della bolla borsistica che poi è esplosa nel 2001, gli investitori si sono abituati a profitti percentualmente a due cifre. Profitti del genere richiedono necessariamente di correre rischi. Ci si rivolge dunque alla finanza innovativa perché essa assecondi la volontà di arricchire sempre più minimizzando le possibilità di andare in perdita. La terza domanda porta al cuore del problema. Il sistema economico internazionale è un sistema complesso, tale per cui previsioni certe sono oltremodo opinabili. Non si dà in teoria nessuna possibilità di modificare lo spettro del rischio, che si eleva progressivamente via via che le previsioni risulta incerte o probabilistiche. Dunque, su cosa si fonda il contenimento del rischio legato all’uso degli strumenti finanziari “innovativi”? Per rispondere a questa domanda ci si può limitare all’analisi di uno dei terreni d’investimento ritenuti negli ultimi anni ad alto reddito, che è stato ampiamente sfruttato ed ora sta diventando un campo minato: quello dei mercati immobiliari. Su questo terreno, a partire dagli Stati Uniti, si sono realizzati fenomeni del tutto omologabili alla formazione della bolla speculativa borsistica scoppiata nel 2001, che lentamente si sono estesi a tutti i paesi capitalistici. Ricostruiamo un po’ la genesi del fenomeno partendo dall’enorme liquidità che ha investito il sistema in seguito alla crisi della Borsa e alla diminuzione dei tassi di interesse con cui la Banca statunitense ha fronteggiato la crisi stessa. Il problema era che cosa fare di questo fiume di denaro che solo in parte poteva essere immediatamente investito in Borsa, dati i controlli piuttosto restrittivi seguiti alla crisi. Nell’immediato, si è pensato di riversarlo nell’altro tradizionale bene di investimento: gli immobili. In virtù di ciò, si sono conseguiti due risultati: l’ascesa continua dei prezzi delle case (del tutto sovrapponibile a quella del prezzo delle azioni nel decennio precedente) e l’incentivo rivolto ai piccoli investitori di puntare sul “mattone” profittando dei bassi tassi di interesse. Si è realizzato di conseguenza il consueto circolo vizioso per alcuni, virtuoso per altri tra prestatori (Banche) e debitori. L’ascesa dei prezzi delle case ha funzionato, tra l’altro come un moltiplicatore. Chi ne possedeva una o più di una ha visto progressivamente crescere il proprio patrimonio, e sulla base di questo, ipotecando gli immobili, poteva ottenere ulteriori prestiti. Rimaneva comunque il problema di una liquidità apparentemente senza fine. Le Banche hanno di conseguenza avviato la pratica dei cosiddetti subprime, vale a dire mutui concessi a persone la cui solvibilità era totalmente legata alla previsione di un’ascesa infinita dei prezzi delle case: in altri termini, mutui senza garanzie. La facilità con cui le Banche, notoriamente molto attente alla copertura dei prestiti, hanno adottatto sempre più spesso negli ultimi anni questa pratica era un indizio che avrebbe dovuto suscitare dei sospetti. Che per questa via poi si dovesse giungere per forza alla formazione di una bolla speculativa era ovvio. Si tratta di una bolla speculativa enorme se si tiene conto che la corsa dei mutui subprime è passata, negli Stati Uniti, dai 173 miliardi di dollari del 2001 ai seicento miliardi di dollari del 2006, che rappresentano un quinto dei mutui concessi. Per capire che si tratta di una bolla speculativa basta far riferimento ai fatti. Un mutuo subprime permette ad un soggetto senza liquidità e senza garanzie di giungere ad essere proprietario di un bene immobiliare e alla banca che lo concede di conteggiare il prestito nel suo attivo di bilancio. Per quanto fittizio, il patrimonio immobiliare si valorizza se i prezzi delle case aumentano e, di conseguenza, il proprietario può ricevere ulteriore denaro ipotecando l’immobile. Il rischio dell’insolvenza rimane elevato, ma esso non si realizza finché non sopravviene una brusca frenata del mercato immobiliare. Cosa che è regolarmente accaduta ed era ampiamente prevedibile perché la bolla speculativa immobiliare si fondava su prezzi fittizi, non corrispondenti al valore reale delle case. Fin qui, non ci sarebbe nulla da eccepire. Le banche fanno quello che vogliono del denaro di cui dispongono dato che, in teoria, le conseguenze degli investimenti ricadono su di loro. Il problema è che, in questi anni, sono stati inventati nuovi strumenti di copertura del rischio che si stanno rivelando truffaldini. Si tratta dei Pik (payment-in-kind, ovvero pagamenti in natura, titoli che consentono di pagare gli interessi sui debiti con altri titoli), dei bridge-loans o prestiti-ponte, e soprattutto dei famigerati Cds (credit defaut swaps) e dei Cdo (collateraliséd debt obligations). A che servono questi strumenti? Qui arriviamo al gioco delle tre carte. Solvibili o no che siano, i prestiti bancari in termini di bilancio sono crediti che possono essere trasformati in titoli. E’ evidente però che mettere in vendita titoli la cui origine potesse essere ricondotta a debiti presumibilmente non esigibili o ad altissimo rischio sarebbe follia pura. C’è però un’altra possibilità: affidare da parte delle banche i crediti ad Istituzioni specializzate nell’emissione di titoli. Questo passaggio già di per sé maschera la natura presumibilmente non esigibile dei crediti. Le Istituzioni specializzate però hanno fatto di meglio: hanno in particolare emesso con un certificato di rischio basso o bassissimo (assegnato dalle Agenzie di rating), titoli che impacchettano e mescolano tanti pezzettini degli infiniti mutui concessi quasi senza copertura e li spalmano su tutti i mercati finanziari, rendendoli di fatto irriconoscibili anche per i gestori finanziari. Proprio questa è la funzione dei Cdo, che nascondono i debiti a rischio sotto strati di altri titoli, praticamente occultandoli. In altri termini, l'investitore acquista un Cdo gratificato del voto “Aaa” (che implica un’elevata solvibilità) al cui interno ci sono mutui che valgono a stento un "Bbb" (che implica una solvibilità estremamente precaria). L’investitore, insomma, si trova a sua insaputa proprietario di titoli-spazzatura, che però paga con denaro contante come se avessere il valore certificato In pratica i rischi dei mutui facili e irresponsabili, che hanno permesso alle banche di acquisire enormi somme di denaro, sono stati distribuiti a largo raggio su tutti gli investitori, che tra l’altro non sono al corrente del pericolo che corrono. Non possono esserlo perché i titoli che acquistano sono come salsicce il cui valore è stabilito dalle Istituzioni che li erogano, ma la cui composizione è praticamente impenetrabile anche per i gestori dei Fondi che li acquistano. Ciò nonostante, in questi anni, la loro diffusione è stata enorme. Il perché è semplice: spacciati come titoli a basso o a medio rischio, essi assicurano interessi maggiori rispetto ai Buoni del Tesoro. L’innovazione consiste dunque nel fatto che, se c’è del marcio, vale a dire se i titoli valgono come acqua fresca, nessuno può venirlo a sapere se non nel caso che il mercato immobiliare dovesse crollare. Con ciò il problema si chiarisce. La speculazione, ponendosi su terreni ad elevato rischio, crea castelli di carta destinati quasi inevitabilmente a cadere, ma, nella consapevolezza previsionale del crollo, provvede a far sì che i danni non investano gli speculatori, ma l’enorme massa di cittadini che affidano il loro denaro ai fondi d’investimento e si fondi-pensione pensando di essere al sicuro da brutte sorprese. Si tratta, in breve, di una riedizione, in nuove forme, dello scandalo borsistico realizzatosi nel 2000. Scoppi o no in maniera deflagrante, la bolla speculativa immobiliare ha già prodotto i suoi danni potenziali. Infiniti piccoli investitori che non amano il rischio (anche se amano il profitto e continuano a pensare che gli elevati interessi siano dovuti alla bravura dei gestori dei Fondi piuttosto che al gioco delle tre carte), sono stati, infatti, coinvolti senza saperlo in una pratica che, se la bolla speculativa scoppia o si sgonfia, farà loro piangere lacrime amare. 5. Non è facile capire di chi sia la responsabilità di tutto questo. Il sistema bancario evidentemente c’entra in maniera rilevante, perché esso ha erogato i mutui senza adeguata copertura. E’ pur vero, però, che, se le banche si trovano a gestire un eccesso di liquidità, è difficile che non siano tentate di utilizzarlo sotto forma di investimenti. L’eccesso di liquidità internazionale dipende per un verso dai provvedimenti (diminuzione del tasso di interesse) adottati in primis dagli Stati Uniti per fare fronte alla crisi borsistica del 2001, attribuita senza fondamento all’11 settembre, e per un altro dalla sciagurata politica fiscale dell’Amministrazione Bush che, attraverso i tagli a beneficio dei ceti privilegiati, ha favorito la concentrazione dei capitali. Gli strumenti derivati come pure gli hedge fund e il private equity riconoscono essi stessi la loro origine negli Stati Uniti. Colà – si dice – il rischio speculativo è temuto meno che in ogni altra parte del mondo. Può darsi, ma, dato che la speculazione tradizionalmente lambisce i confini del lecito, ci si sarebbe aspettato che l’avvio e la crescita della finanza innovativa coincidesse con strumenti di controllo adeguati da parte del Ministro del Tesoro, della Banca centrale statunitense e della Sec (l’organo di controllo della Borsa). Se i rischi sono stati spalmati su un’infinità di titoli spacciati come sicuri, e che non lo sono affatto, esportati, tra l’altro, in tutto il mondo, è evidente che il controllo è stato carente. La verità, come ho già scritto più volte, è che il sistema economico statunitense è balordo. Gli Usa pretendono semplicemente di mantenere il primato economico a livello mondiale e di perpetuare un tenore di vita elevato a tutti i costi. Ciò implica anche una costante tendenza ad avallare e a coprire fenomeni di criminalità finanziaria. Si può trarre una conclusione da questa analisi? Non sembra azzardato dire che il sistema capitalistico si sta organizzando in maniera tale da privilegiare in assoluto e con ogni mezzo i grandi capitale, per permettere cioè ai ricchi di arricchirsi quando le cose vanno bene e di scaricare sugli altri i debiti quando le cose vanno male. La cosiddetta finanza innovativa, in realtà, non innova nulla dello spirito e della logica del capitalismo, che tende a privilegiare il profitto sulla morale (circostanza scontata e ritenuta tollerabile) e non esita a sondare la resistenza al suo impatto delle leggi correnti, violandole se necessario ai suoi fini, tanto più quanto più esse, sul piano internazionale, non hanno potere repressivo. Che tutto cambi perché nulla cambi: questa è la logica sempiterna del Capitale.
Postilla Un articolo sulla finanza innovativa era nei miei propositi da alcuni mesi, data l’irritazione che provavo nei confronti dell’andamento delle Borse, tutte “gonfiate”, delle sciagurate imprese degli hedge funds e dei fondi di Private Equity (cui ho dedicato già attenzione), della tronfia sicurezza dei gestori patrimoniali e delle rassicurazioni dei Banchieri centrali e dei Governanti (a partire dagli Stati Uniti) sullo stato sano e florido dell’economia. Il crack, ampiamente previsto, si è avviato ai primi di agosto. Anche se i suoi esiti non fossero catastrofici (ma oggi è ancora troppo presto per dirlo), ancora una volta ci si troverebbe di fronte al fenomeno, già realizzatosi con la crisi della Borsa, di un cospicuo trasferimento di denaro da chi ha di meno a chi ha di più. Questo aspetto è sempre poco considerato, in nome del fatto che le conseguenze più pesanti sembrano ricadere sulle Banche e sulle Istituzioni cui esse affidano la produzione dei derivati. Ma non è così: qualche istituto bancario, come pure qualche hedge fund e una o due agenzie di taing - anelli deboli della catena -, sono destinati sicuramente a saltare. Ma, intanto, le Banche i loro giochi li hanno fatti perché, a partire da crediti inesistenti, hanno creato la solita catena di S. Antonio che hanno moltiplicato il denaro virtuale dando luogo al miracolo del pane e dei pesci. In secondo luogo, la strategia degli investitori d'azzardo ormai è chiara. Essi spingono sull'acceleratore per creare una situazione tale per cui il loro crollo potrebbe trascinare con sé tutto il sistema, compresa l'economia reale. Se riescono a farlo, e sembra che ancora una volta siano riuscite, esse fidano sull'intervento delle banche centrali e dei governi. Le prime, di fronte al repentino inaridirsi della liquidità, utilizzano le loro risorse (che sono denaro pubblico) per impedire che il sistema bancario collassi. I secondi approntano provvedimenti per aiutare i debitori in difficoltà, vale a dire le famiglie che sono cadute nella trappola allettante di una crescita illimitata del loro patrimonio. In entrambi i casi le istituzioni specificano che il loro intento non è certo quello di coprire le responsabilità degli speculatori selvaggi. Di fatto, il loro aiuto non può non andare anche a vantaggio di questi ultimi. Le ricadute più pesanti, perché irrimediabili, investiranno, insomma, come sempre i piccoli investitori. Solo in Italia, nella prima settimana di agosto, si calcola che essi abbiano perduto dai 6 agli 8 mila euro. Non sono cifre da capogiro per i gestori dei Fondi, che valutano profitti e perdite in termini di miliardi di dollari. Per i comuni cittadini, è un torto da subire senza fiatare. Sono essi che sottoscrivono i titoli, sono essi che vogliono guadagnare il più possibile, ecc. Certo, l’etica imporrebbe che fossero messi al corrente dei rischi prima di decidere se correrli. Nel caso in questione, però, il paradosso è che, mentre le Istituzioni che hanno emesso i CDO sapevano che si trattava di titoli ad alto rischio (titoli-spazzatura), tutte le Banche e i Fondi che a livello mondiale li hanno piazzati intuivano, forse, il rischio ma non erano in grado di valutarlo. Dunque, i piccoli investitori non possono neppure imputarli di responsabilità (per quanto alcuni si ripromettano di farlo). E’ la vita, bellezza! C’è da aggiungere solo un dato significativo. Tutti gli analisti finanziari si sono scatenati in un coro di critiche e di denunce dell’accaduto, che toglie credibilità al sistema capitalistico, mettendo sotto accusa coloro che, nel corso degli anni, hanno chiuso gli occhi sulla finanza innovativa. Purtroppo, tranne rarissime eccezioni, essi sono stati i primi a chiudere gli occhi e a censurare il loro potere critico. Il problema è che campano sulle magagne del sistema, continuando periodicamente ad esaltarne le magnifiche sorti e progressive. Se così non fosse, dovrebbero cambiare mestiere o fare gli economisti sul serio. Marx, al solito, ha intuito per primo che l’unico approccio serio all’economia era la critica dell’economia, della sua spocchiosa teoria e della sua pratica unidirezionale. I fatti continuano a dargli ragione. Quousqe tandem…
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