Joseph E. Stiglitz

La globalizzazione che funziona

Einaudi, Torino 2006

1.

Nessun cittadino al mondo, ormai, può ignorare di essere coinvolto in un cambiamento destinato ad incidere profondamente, nel bene e nel male, sul futuro dell'umanità. Tale cambiamento che si è avviato sulla base di una nuova fase di sviluppo del capitalismo - la mondializzazione prevista un secolo e mezzo fa da Marx -, sta già determinando effetti di grande portata sulla produzione e la distribuzione della ricchezza a livello planetario, l'ambiente, la politica, la cultura, le abitudini di vita, ecc.

Di questo processo in corso, Stiglitz è uno degli osservatori e degli analisti più acuti, come riesce evidente tenendo conto dell'impegno riversato in pochi anni nella stesura di tre saggi (La globalizzazione e i suoi oppositori, I ruggenti anni '90 e, ora, La globalizzazione che funziona) che, nel loro insieme, forniscono un quadro economico della situazione negli ultimi quindici anni che, per ricchezza di dati e onestà intellettuale, non ha confronti nella letteratura economica contemporanea

Ho recensito già i primi due saggi rilevando che essi, al di là forse delle intenzioni dell'autore, hanno delineato un quadro della globalizzazione assolutamente drammatico, che conferma punto per punto le analisi di Marx sulla tendenza intrinseca del sistema capitalistico alla ìdegenerazione" (nonostante la sua capacità di produrre ricchezza).

Con questo terzo, Stiglitz s'impegna a dimostrare che se la globalizzazione, esplosa da quindici anni a questa parte sull'onda della deregulation inaugurata da M. Thatcher e da R. Reagan, fosse convogliata nella direzione della produzione di una ricchezza più equamente distribuita rispetto a quanto è accaduto sinora e più rispettosa dei contesti culturali e ambientali, essa potrebbe portare vantaggio a tutta l'umanità.

L'impostazione del saggio sulla base di una possibilità che, allo stato attuale delle cose, sembra molto remota, ne definisce d'emblée la natura paradossale. Sul piano dell'analisi, condotta sulla base di una documentazione di prima mano, infatti, il quadro, nonostante il decollo dei paesi asiatici, appare nel complesso del tutto inquietante e orientato di fatto verso un'accentuazione degli squilibri tra nazioni ricche e nazioni povere, e all'interno di ogni paese, tra ceti privilegiati e poveri o cittadini in via di progressivo impoverimento.

La possibilità di un cambiamento, auspicata da Stiglitz, si fonda su rimedi che appaiono molto improbabili: la volontà dei paesi avanzati, a partire dagli Stati Uniti, di rinunciare ai propri ìprivilegi" (comprese le nefandezze) per favorire una globalizzazione equa, e una presa di coscienza da parte dei cittadini di tutto il mondo che dovrebbe portarli ad abbandonare il loro punto di vista locale, ad assumerne uno di ordine sistemico e ad esercitare un pressing sui governanti.

I termini del paradosso cui ho fatto cenno sono esplicitati già nelle prime righe della Prefazione, come sempre, in Stiglitz, particolarmente corposa:

"La fine della guerra fredda ha offerto nuove opportunità e abbattuto vecchie costrizioni. L'importanza dell'economia di mercato è ormai assodata, e la fine del comunismo ha fatto si che i governi possano finalmente abbandonare le battaglie ideologiche e dedicarsi piuttosto a risolvere i problemi del capitalismo. Il mondo ci avrebbe decisamente guadagnato se gli Stati Uniti avessero contribuito a costruire un sistema economico e politico internazionale basato su valori e principi, come per esempio un accordo commerciale finalizzato a promuovere lo sviluppo nei paesi poveri. Invece, liberi da qualsiasi controllo o concorrenza - ´conquistare i cuori e le menti' di chi vive nel Terzo mondo è l'obiettivo -, i paesi industrializzati hanno di fatto creato un regime commerciale globale su misura per servire gli interessi della finanza e delle grandi società dell'Occidente, naturalmente a scapito dei paesi poveri del mondo." (p. IX - X)

Da cosa dipende quest'orientamento deleterio che si è imposto sul primo?

La risposta di Stiglitz pone in luce il contrasto tra il modello neoliberista e quello riformista:

"Naturalmente, come ci ricordano di continuo gli scontri fra destra e sinistra negli Stati Uniti e nel resto del mondo, permane una vasta area di disaccordo sull'economia e su alcuni valori fondamentali." (p. XI)

"La globalizzazione è il campo in cui si sviluppano alcuni dei nostri più profondi conflitti sociali, inclusi quelli sui valori fondamentali, e le divergenze più significative riguardano il ruolo dei governi e dei mercati...

Oggi, la difesa intellettuale del fondamentalismo del mercato è quasi del tutto scomparsa...

In linea di massima, i limiti dei mercati sono piuttosto chiari (almeno per gli economisti, se non per i politici). Gli scandali degli anni Novanta in America e in altri paesi hanno inferto un duro colpo alla finanza e al capitalismo American style e il punto di vista di Wall Street, spesso molto miope, è stato riconosciuto antitetico allo sviluppo, il quale invece richiede lungimiranza di pensiero e programmazione." (p. XIII)

Nonostante il duro colpo, però, le cose non sono cambiate. Stiglitz non ha difficoltà a riconoscerlo, ma commenta:

"Benché coloro che criticano la globalizzazione abbiano ragione ad affermare che è stata usata per portare avanti alcuni valori particolari, in realtà non è detto che le cose debbano andare sempre cosi. Non sta scritto infatti da nessuna parte che la globalizzazione debba essere deleteria per l'ambiente, aumentare la sperequazione sociale, indebolire la diversità culturale e promuovere gli interessi delle grandi multinazionali a scapito del benessere del cittadino comune." (p. XIV)

Non sta scritto, infatti, da nessuna parte, ma è la realtà effettiva che lo attesta con la sua implacabile evidenza.

All'evidenza, che le sua analisi valgono a comprovare, Stiglitz oppone un rimedio che sembra veramente utopistico:

"Questo libro testimonia la mia fiducia nei processi democratici. Sono convinto che i cittadini, se informati, possano esercitare un controllo decisivo ed evitare che siano gli interessi particolari dei grandi capitali e delle multinazionali a dominare il processo di globalizzazione. A mio avviso, è nell'interesse di tutti i cittadini del mondo, sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo, che la globalizzazione cominci a funzionare." (p. 11)

"Una cittadinanza impegnata e informata può capire come far funzionare la globalizzazione, o almeno come farla funzionare meglio, e pretendere che i leader politici agiscano di conseguenza. Spero che questo volume possa contribuire a trasformare questo sogno in realtà." (p. XVI)

Da queste poche citazioni, si capisce immediatamente che il saggio è scritto su due diversi registri: analitico l'uno, che promuove una diagnosi obbiettiva dello stato di cose esistente a livello mondiale, e "terapeutico" l'altro, che comporta una serie indefinita di possibili rimedi la cui realizzazione sembra altamente improbabile.

Il titolo, dunque, è perlomeno impreciso rispetto ai contenuti. Più pertinente sarebbe stato il riferimento a come funziona e come dovrebbe funzionare la globalizzazione. Un titolo del genere avrebbe avuto il vantaggio di sottolineare il contrasto tra economia positiva, che descrive e cerca di spiegare i processi di produzione e di distribuzione della ricchezza in atto in un determinato sistema, e economia normativa, che valuta la realtà economica in riferimento a valori morali o ideali.

Se si pone tra parentesi la valenza morale che lo sottende, il saggio di Stiglitz, sotto il profilo strettamente analitico, si configura come il più drammatico e documentato atto di accusa e di critica del capitalismo scritto negli ultimi anni. Ferocemente critico, tra l'altro, nei confronti dei paesi sviluppati - Stati Uniti in primis -, delle istituzioni economiche internazionali (FMI, Banca Mondiale, WTO) e delle multinazionali.

Cercherò di restituire in maniera dettagliata questo profilo, che mi sembra di estremo interesse.

2.

Il saggio si inaugura con una descrizione dei due volti della globalizzazione: le aspettative che, ai suoi esordi, ha suscitato, e le delusioni che sinora ha prodotto:

"Nei primi anni Novanta, la globalizzazione fu salutata con euforia. I flussi di capitali verso i paesi in via di sviluppo erano sestuplicati in sei anni, dal 1991 al 1996. La costituzione, nel 1995, dell'Omc - a cui si lavorava da cinquant'anni - si proponeva di introdurre un principio di legalità nel commercio internazionale. Tutti dovevano trarne beneficio, sia nei paesi in via di sviluppo sia nel mondo industrializzato. La globalizzazione doveva garantire a tutti una prosperità senza precedenti.

Nessuno stupore, quindi, che la prima grande protesta moderna contro la globalizzazione - avvenuta a Seattle nel dicembre 1999 in occasione di quello che avrebbe dovuto essere l'inizio di una nuova tornata di negoziati commerciali foriera di un'ulteriore liberalizzazione - abbia lasciato di stucco i sostenitori dei mercati aperti. La globalizzazione era riuscita nell'intento di unire le persone del mondo, ma proprio contro la globalizzazione. Gli operai delle fabbriche americane hanno visto mettere in pericolo i loro posti di lavoro dalla concorrenza cinese. Il reddito agricolo nei paesi in via di sviluppo è stato compromesso dal granturco e dalle altre colture fortemente sovvenzionate provenienti dagli Stati Uniti. In nome della globalizzazione, i cittadini europei hanno assistito a un progressivo indebolimento delle tutele dei lavoratori, per le quali tanto avevano combattuto. Gli attivisti anti-Aids hanno visto i nuovi accordi commerciali aumentare il prezzo dei medicinali a livelli insostenibili nella maggior parte dei paesi del mondo. Gli ambientalisti hanno capito che la globalizzazione minacciava la loro lotta decennale a tutela dell'ambiente. Tutte queste voci fuori dal coro non hanno sposato la tesi che, almeno dal punto di vista economico, la globalizzazione avrebbe portato maggiore benessere a tutti." (p. 6-7)

Di fautori della globalizzazione, di fatto, se ne danno ancora molti, ma la prospettiva di ulteriori sviluppi positivi per tutto il Pianeta urta contro un dato poco confutabile:

"I censori della globalizzazione invitano a riflettere sul numero crescente di persone che vivono in povertà. Il mondo è in corsa tra crescita economica e crescita della popolazione, e finora quest'ultima è in vantaggio. Benché le percentuali di coloro che vivono in povertà stiano scendendo, il numero assoluto è in aumento...

La triste verità, comunque, è che al di fuori della Cina, la povertà nel Terzo mondo è aumentata negli ultimi due decenni. Circa il 40 per cento dei 6,5 miliardi di persone che popolano il mondo vive in povertà (un numero aumentato del 36 per cento rispetto al 1981), mentre un sesto - vale a dire 877 milioni - vive in estrema povertà (il 3 per cento in più rispetto al 1981). La situazione più grave si registra in Africa, dove la percentuale di popolazione che vive in estrema povertà è aumentata dal 41,6 per cento del 1981 al 46,9 per cento del 2001. Considerando la crescita della popolazione, ciò significa che il numero di persone che vivono in estrema povertà è quasi raddoppiato, da 164 a 316 milioni.

Storicamente, l'Africa è la regione più sfruttata dalla globalizzazione: durante gli anni del colonialismo, il mondo l'ha spogliata delle sue risorse, senza dare praticamente nulla in cambio. In tempi recenti, anche l'America Latina e la Russia sono rimaste scottate dalla globalizzazione. Hanno aperto i loro mercati, ma la globalizzazione non ha mantenuto le sue promesse, specie nei confronti dei poveri." (p. 10-11)

Lo squilibrio investe gli stessi paesi industrializzati, con la crescita della povertà e il sorprendente arretramento del ceto medio:

"La crescita si è spesso accompagnata a un aumento della povertà e talvolta addirittura a una diminuzione del reddito dei ceti medi. E quanto sta accadendo negli Stati Uniti: tra il 1999 e il 2004, il reddito medio disponibile è aumentato dell'11 per cento in termini reali, ma il reddito medio delle famiglie - quelle del ceto medio vero e proprio - è diminuito di 1500 dollari, vale a dire del 3 per cento circa." (p. 48)

Si può enfatizzare, e per alcuni aspetti giustamente, il miracolo asiatico che, pur con notevoli squilibri tra contesti urbani e contesti rurali, sta portando fuori dalla povertà oltre due miliardi di persone. Rimane il fatto che la globalizzazione, sinora, ha prodotto più squilibri che equilibri. La spiegazione di questo paradosso - la più semplice - verte sul rapporto tra potere economico e potere politico:

"La globalizzazione ha scatenato forze di mercato talmente potenti che i governi, specie nel mondo in via di sviluppo, non sono in grado di controllarle. I governi che tentano di regolare i flussi di capitali si trovano spesso nell'incapacità di farlo, poiché i singoli trovano il modo per eludere le regole. Un paese che voglia aumentare il salario minimo potrebbe scoprirsi impossibilitato a farlo perché le società estere che operano al suo interno possono decidere di delocalizzare l'attività dove il costo del lavoro è inferiore.

Accade sempre più spesso che la capacità di un governo di controllare le azioni dei singoli o delle società venga limitata anche da accordi internazionali che pregiudicano il diritto degli stati sovrani di prendere decisioni. Un governo che voglia assicurare la concessione di credito alle aree disagiate in ragione di una determinata percentuale del portafoglio delle banche, oppure garantire che le norme contabili consentano di fotografare la reale situazione economica di un'azienda, potrebbe trovarsi nell'impossibilità di varare le leggi necessarie. L'adesione ad accordi commerciali internazionali può impedire ai governi di regolamentare l'entrata e l'uscita nel proprio paese di fondi speculativi, anche se la liberalizzazione dei mercati dei capitali può portare a crisi economiche.

Lo Stato-nazione, che per centocinquant'anni è stato al centro del potere politico (e in larga parte) economico si trova oggi mutilato, da una parte dalle forze dell'economia globale e dall'altra dalle esigenze politiche di devoluzione dei poteri. La globalizzazione - vale a dire la maggiore integrazione dei paesi del mondo - ha creato l'esigenza di un'azione collettiva da parte di popoli e paesi per risolvere i problemi comuni. Ci sono troppe questioni - commercio, circolazione di capitali, ambiente - che possono essere affrontate solo a livello globale. Ma se da una parte lo Stato-nazione è indebolito, mancano ancora a livello internazionale degli organismi in grado di affrontare concretamente i problemi creati dalla globalizzazione.

Di fatto, la globalizzazione economica si è sviluppata più rapidamente di quella politica. Abbiamo un sistema caotico e scoordinato di governance globale senza governo globale che si riduce a una serie di istituzioni e accordi che trattano di determinati problemi, dal riscaldamento del pianeta al commercio internazionale, passando per i flussi di capitale." (p. 20)

L'assenza di un governo globale significa né più né meno il dominio della legge del più forte. Tale dominio è riscontrabile in tutti gli ambiti che Stiglitz analizza; il commercio, l'agricoltura, la proprietà intellettuale, l'uso delle risorse naturali, il debito, le riserve globali.

3.

Il mito del libero commercio è stato riproposto dalla globalizzazione come suo valore fondante e assoluto, ma finora non ha funzionato:

"I fautori della liberalizzazione del commercio ritengono che questa sia il segreto per una prosperità senza precedenti. A loro giudizio, i paesi sviluppati devono aprirsi alle importazioni dai paesi in via di sviluppo, liberalizzare i mercati, eliminare le barriere artificiali alla libera circolazione di beni e servizi e lasciare che la globalizzazione faccia il miracolo. Ma la liberalizzazione del commercio è proprio uno degli aspetti più controversi della globalizzazione e molti ritengono che i costi ad essa legati - salari più bassi, disoccupazione crescente, perdita di sovranità nazionale - superino di gran lunga i vantaggi di una maggiore efficienza e di una crescita più sostenuta.

In parte, il libero commercio non ha funzionato perché non l'abbiamo provato: i trattati commerciali del passato non sono stati infatti né liberi né equi. Decisamente asimmetrici, hanno aperto i mercati dei paesi in via di sviluppo alle merci dei paesi industriali avanzati senza garantire la necessaria reciprocità. Alcune ingegnose ma efficaci barriere sono state mantenute e questa globalizzazione asimmetrica ha messo i paesi in via di sviluppo in una posizione di svantaggio, senza permettere loro di usufruire dei benefici di un regime commerciale davvero libero ed equo." (p. 66)

Il motivo del fallimento è semplice:

"I paesi sviluppati promisero di liberalizzare il commercio dei prodotti agricoli e tessili (vale a dire, dei beni a intensità di manodopera che premono particolarmente agli esportatori dei paesi in via di sviluppo) e, in cambio, i paesi in via di sviluppo si impegnarono a ridurre i dazi doganali e ad accettare una serie di nuove regole e obblighi sui diritti di proprietà intellettuale, gli investimenti e i servizi. In seguito, molti paesi in via di sviluppo si sentirono ingannati perché i paesi occidentali non mantennero i loro impegni. Le quote tessili sarebbero rimaste in vigore per dieci anni, e non si profilava all'orizzonte nessuna eliminazione delle sovvenzioni agricole." (p. 82)

"La somma dei sussidi all'agricoltura di Stati Uniti, Unione Europea e Giappone (compresi quelli occulti, come sull'acqua) ammonta a qualcosa come il 75 per cento del reddito complessivo dell'Africa subsahariana, il che mette i contadini africani nell'impossibilità di competere sui mercati mondiali.

Nei mercati integrati a livello globale, i prezzi internazionali influiscono su quelli interni e nel momento in cui i prezzi agricoli globali vengono abbassati dagli ingenti sussidi europei e americani, scendono anche i prezzi all'interno dei singoli paesi, per cui finiscono per rimanere danneggiati anche gli agricoltori che non esportano. Redditi più bassi per gli agricoltori significano anche redditi più bassi per chi vende merci a questi ultimi: sarti, macellai, negozianti e barbieri. Tutti, all'interno del paese, ne risentono. ciò non significa che le sovvenzioni siano nate con l'intento di danneggiare cosi tante persone, ma questa è la conseguenza prevista." (p. 90-91)

In sintesi:

"L'odierno regime commerciale internazionale è iniquo nei confronti dei paesi in via di sviluppo." (p. 78)

Anche nel flusso di capitali, tecnologia e manodopera si sono realizzati effetti squilibranti:

"I paesi sviluppati sono ricchi di capitale e tecnologia, mentre quelli in via di sviluppo hanno abbondanza di manodopera non specializzata. ciò che ogni paese produce riflette le caratteristiche del suo patrimonio di risorse. Un paese con una forza lavoro qualificata produce beni e servizi ad alta specializzazione. L'Uruguay round ha esteso il raggio d'azione dei negoziati commerciali al settore dei servizi, ma non c'è da meravigliarsi che abbia pensato alla liberalizzazione dei servizi nei settori bancario, assicurativo e dell'informatica - quelli, cioè, in cui gli Stati Uniti hanno un vantaggio - dimenticandosi invece del tutto dei servizi non qualificati, come quelli nel settore marittimo e dell'edilizia...

I paesi sviluppati hanno abbondanza di capitali che circolano liberamente nel mondo alla ricerca delle situazioni che consentono i profitti più elevati. I paesi in via di sviluppo hanno abbondanza di lavoratori non qualificati che vorrebbero potersi muovere liberamente nel mondo alla ricerca di un'occupazione migliore. Negli ultimi vent'anni, sostenendo che fosse un bene per l'efficienza globale e riuscendo nell'intento, gli Stati Uniti e l'Europa hanno sollecitato una liberalizzazione dei mercati dei capitali che consenta agli investimenti di circolare più liberamente nel mondo. Ma una liberalizzazione anche modesta dei flussi di manodopera aumenterebbe il Pil globale in percentuali nettamente superiori rispetto alle stime più ottimistiche dei vantaggi legati alla liberalizzazione dei mercati dei capitali. Inoltre, la liberalizzazione dei flussi migratori rappresenterebbe un enorme vantaggio per i paesi in via di sviluppo." (p. 94-95)

Dunque, via libera ai capitali ma non alla manodopera, con vantaggio dei paesi sviluppati e svantaggio di quelli poveri.

4.

Un denso capitolo è dedicato all'Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trips) stipulato nell'ambito dell'Uruguay Round: accordo letteralmente estorto dai paesi industriali avanzati a tutela dei loro brevetti, a partire dai farmaci che rappresentano, sul mercato mondiale, un budget di enorme entità.

Stiglitz commenta senza remore le conseguenze dell'accordo:

"Il Trips era studiato per far sì che i farmaci costassero di piu. Purtroppo, prezzi così elevati rendevano i medicinali praticamente inaccessibili alla maggior parte delle persone. Alla sottoscrizione del Trips, i ministri del Commercio erano talmente soddisfatti di aver finalmente raggiunto un accordo da non rendersi conto di firmare, al tempo stesso, una condanna a morte per migliaia di cittadini dei paesi piu poveri del mondo. Per i critici della globalizzazione, la battaglia sulla proprietà intellettuale è una battaglia di valori. Il Trips ha celebrato il trionfo degli interessi particolari delle grandi multinazionali europee e statunitensi sugli interessi generali di miliardi di persone nei paesi in via di sviluppo confermando, una volta di piu, come spesso si dia più importanza ai profitti che ad altri valori fondamentali, come per esempio l'ambiente o la stessa vita. Ci ha dimostrato anche che, come sempre, si fanno due pesi e due misure, adottando com- portamenti differenti verso questi valori, a seconda che le situazioni si verifichino all' estero o a casa nostra." (p. 118)

I fautori del Trips lo difendono sostenendo che la proprietà intellettuale va tutelata in nome dei diritti di chi produce le innovazioni e perché essa rappresenta uno stimolo indispensabile per la ricerca. Questi aurei principi urtano però contro una realtà di fatto: "i diritti di proprietà intellettuale creano di fatto un monopolio" (p. 120); "la monopolizzazione può condurre non soltanto ad un'inefficienza statica, ma anche ad un calo dell'innovazione" (p. 122); "poiché i brevetti impediscono la diffusione e l'uso delle conoscenze, rallentano la ricerca derivata e le innovazioni basate su altre innovazioni" (p. 123); "il sistema dei brevetti può limitare l'innovazione produttiva se le aziende finiscono per spendere gran parte delle risorse disponibili per incrementare il proprio potere monopolistico oppure per aggirare i brevetti degli altri." (p. 124)

L'iniquità dell'intero regime di proprietà intellettuale nei confronti dei paesi in via di sviluppo risulta particolarmente evidente nel caso della medicina tradizionale e dei farmaci basati su principi di ordine vegetale. Che cosa è accaduto? Che le multinazionali si stanno appropriando delle conoscenze tradizionali maturate nei paesi meno sviluppati e delle piante utilizzate da sempre apponendo brevetti su di esse. Si tratta, nell'ottica del Trips, di null'altro che di un furto perpetrato a danno dei paesi meno sviluppati per definire il quale si usa il termine ìbiopirateria". Ma è un furto legalizzato, perché le multinazionali si riparano legalmente dietro il fatto che le pratiche fitoterapeutiche, da sempre molto diffuse laddove si dà una ricca biodiversità, non sono mai state pubblicate!

E' superfluo aggiungere che, in questa rapina che costringerà i paesi meno sviluppati ad acquistare come farmaci industriali i principi vegetali prodotti nei loro territori, gli Stati Uniti hanno un ruolo di capofila. Quasi metà dei loro 4000 fitobrevetti riguardano infatti conoscenze che fanno parte della tradizione dei paesi in via di sviluppo. Essi inoltre hanno rifiutato il diritto all'indennizzo di questi paesi firmato nel 1992 a Rio de Janeiro.

Le conclusioni che Stiglitz ricava dall'analisi sono particolarmente severe:

"Questo capitolo ha evidenziato come le grandi multinazionali abbiano cercato di plasmare la globalizzazione a loro vantaggio, perdendo di vista altri valori più importanti. Il fatto che un tema delicato come quello della proprietà intellettuale sia stato legato al commercio - cosa che non è avvenuta, per esempio, con le norme che regolamentano il lavoro - la dice lunga su come la globalizzazione viene gestita oggi. Il compito dei negoziatori commerciali dell'Occidente è ottenere le condizioni più vantaggiose per le industrie dei loro paesi - per esempio, ottenere un più ampio accesso ai mercati e diritti di proprietà intellettuale più forti - senza peròrinunciare alle sovvenzioni all'agricoltura o alle barriere commerciali non tariffarie. La parola ´equità' non fa parte del lessico di queste persone. Non pensano ai contribuenti statunitensi o europei, che trarrebbero enorme giovamento dall'abolizione dei sussidi all'agricoltura. Non pensano all'ambiente globale, che ricaverebbe grandi vantaggi da una riduzione delle emissioni di gas serra. Non pensano a come aiutare i poveri a procurarsi gli indispensabili farmaci salvavita.

No. Il loro obiettivo è aiutare i produttori, e il loro compito è ottenere il massimo a fronte di concessioni minime. I negoziatori non hanno motivo di pensare all'ambiente, alla salute o al progresso complessivo della scienza. Delle questioni ambientali si deve occupare il ministro dell'Ambiente, l'accesso ai farmaci salvavita è un problema del ministro della Salute, e il ritmo generale dell'innovazione è un affare che riguarda i ministri dell'Istruzione, della Ricerca e della Tecnologia. Quindi, benché i trattati commerciali abbiano ricadute su tutti questi settori, chi se ne occupa in prima persona non è seduto al tavolo negoziale.

I ministri del Commercio tendono a trattare in segreto. Gli accordi commerciali sono lunghi e complessi e i lobbisti lavorano sodo per riuscire a farvi inserire varie clausole ad usum Delphini che sperano di far passare inosservate." (p. 144-145)

"Quando si dà alle grandi multinazionali la possibilità di fare la voce grossa, e dall'altra parte mancano i classici pesi e contrappesi dei processi democratici, non c'è da stupirsi che i risultati siano cosi deplorevoli e lontani da quelli che si sarebbero potuti rag. giungere seguendo un percorso più democratico. Ecco, è questa la sfida più difficile nella riforma della globalizzazione: riuscire a far prevalere i valori fondamentali sugli interessi di bottega." (p. 146)

5.

Ancora più inquietante è il tema affrontato nel capitolo quinto, il cui titolo fa riferimento alla maledizione delle risorse o al "paradosso dell'abbondanza", per cui i paesi più ricchi di risorse naturali sono in genere affetti da una cronica povertà e governati da un'élite privilegiata, corrotta e spesso intesa a mantenersi al potere con le armi e con la guerra.

Il paradosso sembra endemico, vale a dire dovuto all'arretratezza di quei paesi sulla via della democrazia, ma è facile capire che i fattori endogeni sono potentemente utilizzati dai paesi industrializzati, e che, in grande misura, la corruzione è indotta a partire da pratiche correnti in Occidente:

"La prima sfida a cui si trova di fronte qualsiasi paese ricco di risorse naturali è assicurarsi che i cittadini traggano il massimo beneficio dalle potenzialità del territorio, ma ciò è molto più difficile di quanto sembri. Persino nei paesi con democrazie stabili e mature, le compagnie petrolifere, minerarie e del gas sono sempre in lotta per accaparrarsi il grosso delle ricchezze...

Quando queste grandi imprese si dirigono all'estero, nei paesi in via di sviluppo, arriva la corruzione vera e propria. Il mercato del petrolio è fortemente concorrenziale e alle grandi compagnie conviene realizzare profitti elevati corrompendo i funzionari di governo per pagare le concessioni meno del dovuto anziché rendersi più efficienti, ma pagando i prezzi di mercato. Quella che per una compagnia petrolifera è una bustarella di poco conto può rappresentare una grande tentazione per i funzionari coinvolti - spesso dipendenti pubblici che guadagnano poche migliaia di dollari l'anno. Le tangenti sono deleterie sia per il processo democratico sia per il mercato. Eppure, per quanto tutto ciò sia deprecabile, il vero problema non sono le bustarelle, bensì le loro conseguenze: quando la compagnia petrolifera ci guadagna, ne risente il paese nel suo complesso...

Le aziende, naturalmente, non offrono le tangenti in prima persona: ingaggiano un ´facilitatore' a cui viene dato abbastanza denaro per ´facilitare', appunto, la conclusione dell'affare. ciò che fa e il modo in cui facilita non lo sanno e non lo vogliono sapere. Presumibilmente, si rendono conto che i milioni di dollari versati al facilitatore sono qualcosa di più del pagamento di una semplice consulenza. ciò che comprano, in realtà, è la possibilità di negare, affermando di non sapere che il denaro serviva per le tangenti." (p. 158-159)

Non c'è da sorprendersi per tutto questo se si fa riferimento alla logica del sistema capitalistico:

"Il benessere dei paesi in via di sviluppo ricchi di risorse dipende da quanto essi riescono a ricavare da queste ultime, mentre la redditività delle grandi multinazionali del mondo industrializzato è legata al fatto di pagare queste risorse il meno possibile. » questo il conflitto naturale e inevitabile che [va] messo a fuoco, l'essenza stessa del paradosso dell'abbondanza." (p. 180)

Le conseguenze di questo "gioco" sul tenore di vita delle popolazioni sono enormi:

"Questi paesi non hanno la capacità di resistere alle oscillazioni del reddito derivante dalle esportazioni, cosi come fanno i paesi industrializzati, perché non dispongono di stabilizzatori integrati quali un sistema di imposte sul reddito, l'assicurazione contro la disoccupazione e programmi sociali che facciano confluire denaro nell'economia quando questa è debole. I singoli individui non hanno risparmi su cui poter fare affidamento. Le banche stesse non sempre sono ben capitalizzate o regolamentate e sono a rischio di collasso.

Per peggiorare le cose, le banche internazionali sono sempre ben disposte a prestare ai paesi ricchi di risorse quando il prezzo delle risorse stesse è alto, e le élite dominanti difficilmente riescono a rifiutare l'offerta. Questo spiega il curioso fenomeno di diversi paesi fortemente indebitati, come l'Indonesia e la Nigeria, che hanno difficoltà a restituire i prestiti contratti, pur essendo esportatori di petrolio. Anche se i progetti su cui le banche si basano non sono solidi, un boom edilizio dà sicurezza ai cittadini, e in particolar modo alle imprese di costruzioni; il problema di come restituire i prestiti viene rimandato al futuro. Quando i prezzi delle risorse diminuiscono, le banche, naturalmente, rivogliono i loro soldi, proprio quando il paese ne ha più bisogno. I prestiti concessi in un'economia dominata dall'alternanza di periodi di boom e declino non fanno che esacerbare la volatilità economica provocata dall'altalenare dei prezzi.

In alcuni casi, quando i paesi capiscono che cosa devono fare per stabilizzare l'economia - e se hanno le risorse per farlo -, l'Fmi esercita pressioni su di essi affinché adottino politiche che, di fatto, finiscono per peggiorare la crisi." (p. 166-167)

In conclusione:

"I fallimenti dei paesi in via di sviluppo ricchi di risorse naturali sono emblematici degli insuccessi della globalizzazione." (p. 170)

6.

Il problema ecologico è ormai all'ordine del giorno, e i termini della questione sono sufficientemente chiari. Stiglitz li riassume così:

"Chi inquina di più tende sempre a minimizzare il problema. Non c'è da sorprendersi che i più impenitenti inquinatori mondiali, gli Stati Uniti - che scaricano nell'atmosfera quasi 6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica ogni anno -, fingano di non credere alla necessità imprescindibile di ridurre le loro emissioni di gas serra. Se questi gas aleggiassero esclusivamente nei cieli sopra gli Usa, l'America potrebbe condurre il proprio esperimento in tutta libertà; purtroppo, invece, le molecole di anidride carbonica non rispettano le frontiere3. E sebbene le emissioni danneggino l'atmosfera - che è di tutti -, nessun paese è chiamato a pagare per i danni provocati al di là dei propri confini. Di conseguenza, chi inquina non ha alcun interesse a ridurre le proprie emissioni - contenendo, per esempio, l'uso del petrolio - e infatti non le riduce.

Malgrado gli sforzi compiuti dagli altri paesi industriali avanzati per limitare l'inquinamento siano lodevoli e importanti, è difficile fare qualcosa di davvero significativo a meno che non prendano parte all'iniziativa tutti i grandi paesi, tra cui gli Stati Uniti e la Cina." (p. 189)

Usa e Cina ormai sono quasi alla pari nel produrre emissioni inquinanti, ma, purtroppo, sono anche impegnati gli uni nel non perdere terreno, l'altra nell'acquistarlo. Gli Stati Uniti sostengono che la difesa (legittima o meno che sia considerata dagli altri) del loro tenore di vita postula che la Cina riduca le emissioni in misura pari a quanto essi stessi decideranno di fare. La Cina, per conto suo, si difende affermando di avere avviato il suo sviluppo quando già i paesi avanzati avevano prodotto un certo grado di inquinamento, per cui essa ha diritto di recuperare il terreno perduto.

Si tratta di una contesa, che anticipa lo scontro per il primato economico mondiale del futuro prossimo, funzionale a mantenere una situazione di stallo, nonostante gli studiosi abbiano lanciato un allarme inquietante sui destini del Pianeta.

E' ovvio che se gli Usa, che, per ora, rappresentano la maggiore economia mondiale adottassero dei provvedimenti, sarebbe più facile per la comunità internazionale intraprendere azioni tali da costringere la Cina a diminuire le emissioni di ossido di carbonio.

Sulla carta, il problema è rimediabile:

"Dato il consumo relativamente elevato di energia per dollaro di Pil, e il loro alto livello di capacità tecnologica, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto incontrare difficoltà a soddisfare i requisiti del protocollo di Kyoto." (p. 194)

Nella realtà, la resistenza opposta dagli Stati Uniti, nonostante l'eloquenza dei dati statistici sulle loro responsabilità ecologiche, è arrogante:

"Gli Usa sono responsabili dell'emissione di quasi il 25 per cento di tutti i gas serra. Il Wyoming - lo Stato meno popolato, con soli 495 700 abitanti - emette più anidride carbonica di settantaquattro paesi in via di sviluppo che, messi insieme, hanno una popolazione di quasi 396 milioni di abitanti. Le emissioni di anidride carbonica del Texas, con 22 milioni di abitanti, superano quelle di centoventi paesi in via di sviluppo con una popolazione totale di oltre 1 miliardo e 100 mila persone. In parte, la ragione per cui si sono rifiutati di ratificare il protocollo di Kyoto è chiara: fare qualsiasi cosa per risolvere il problema del riscaldamento globale impone dei costi ad alcuni settori - automobilistico, petrolifero e carbonifero - che pesano molto sull'economia...

Secondo l'amministrazione Bush, limitare le emissioni costa troppo rispetto ai vantaggi che presenta. Molti paesi si sono scandalizzati: ecco il paese più ricco del mondo che si lamenta di non potersi permettere delle politiche ambientali sensate quando altre nazioni industrializzate riescono a ridurre i loro livelli di inquinamento spendendo infinitamente meno, anche in percentuale del Pil. Il Giappone, la Germania, la Francia e la Svezia emettono metà dei gas serra rispetto agli Stati Uniti, eppure i cittadini di questi paesi vivono in modo confortevole e, per certi versi, la loro qualità di vita è più alta che negli Usa." (p. 194-195)

7.

Il capitolo settimo sulle multinazionali, nonostante il taglio analitico, è di estremo interesse.

Stiglitz infatti rileva che, se queste enormi istituzioni che estendono il loro potere su tutto il Pianeta, non lavorano necessariamente extra legem (cosa peraltro confermata nei capitoli precedenti), esse di sicuro sono troppo protette sul piano della responsabilità delle loro azioni:

"Il problema delle grandi imprese che non si accollano i costi sociali causati dalle loro politiche esiste in ogni settore, internazionale o nazionale, grande o piccolo che sia. Ma esistono diverse ragioni per cui le grandi multinazionali creano problemi più complessi - problemi che Adam Smith, che scriveva più di duecento anni fa, non poteva essere in grado di prevedere. Ai suoi tempi, le aziende erano relativamente piccole; in genere, poi, erano dirette da persone fisiche che avrebbero dovuto rispondere in prima persona di qualsiasi eventuale danno provocato. Le corporation di oggi sono imprese di dimensioni enormi, con decine di migliaia di dipendenti; e sebbene le politiche dell'azienda vengano decise dalle persone che vi lavorano, difficilmente queste ultime vengono giudicate responsabili delle conseguenze delle loro decisioni. E così come non raccolgono spesso i frutti delle decisioni buone che hanno preso, è ancora più raro che paghino i costi sociali delle loro cattive decisioni.

Per i dirigenti dei grandi gruppi è fin troppo facile nascondersi dietro l'azienda." (p. 219)

"La situazione peggiora a causa della responsabilità limitata, che è parte integrante della ragione sociale delle corporation. La responsabilità limitata è un'importante innovazione giuridica e senza di essa, quasi certamente, il capitalismo moderno non si sarebbe potuto sviluppare. Chi investe denaro nelle società a responsabilità limitata rischia solo in ragione della somma investita, non un centesimo di più...

La responsabilità limitata presenta un importante vantaggio: consente di raccogliere capitali, dal momento che ciascun investitore - nella peggiore delle ipotesi - non perderà più del capitale investito. Ma la responsabilità limitata può avere costi smisurati per la collettività...

L'elenco delle aziende che, specie nei paesi in via di sviluppo, hanno provocato danni che poi non hanno pagato, o hanno pagato solo in parte, è molto lungo...

Quando una società non si fa carico del rovescio della medaglia, non ha alcun interesse ad agire in modo responsabile - ed è proprio questo il risultato della responsabilità limitata. Se poi consideriamo le dimensioni delle multinazionali rispetto ai paesi in via di sviluppo in cui operano e la povertà di questi ultimi, vediamo che lo squilibrio può provocare - come in effetti è successo - una serie di gravi problemi. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno dei posti di lavoro creati dalle grandi corporation, anche se queste danneggiano l'ambiente o la salute dei lavoratori, e le compagnie cinerarie e petrolifere fanno leva proprio su questo squilibrio di forze." (p. 220-221)

Le multinazionali, naturalmente, respingono tali accuse appellandosi al fatto che esse operano indubbiamente sulla base della produzione di profitti, ma entro il quadro di regole definite dai governi. Purtroppo, ciò non è vero:

"Spesso, le multinazionali sostengono che far coincidere gli interessi pubblici con quelli privati non sia compito loro bensì dei governi, i quali, per esempio, dovrebbero approvare delle leggi antinquinamento. Ma le grandi imprese la passano liscia comunque, visto che ogni anno finanziano le lobby per garantire l'approvazione di leggi e regolamenti che consentano loro di inquinare come meglio credono e, cosi facendo, continuano a impedire che gli interessi dei privati possano coincidere con quelli della collettività. La politica è parte integrante della strategia aziendale; le corporation esercitano forti pressioni contro le norme ambientali che potrebbero comportare una diminuzione dei loro profitti, e il guadagno derivante da questi ´investimenti' politici è spesso molto più alto di quello realizzabile impiegando il denaro in qualsiasi altro modo.

Le ragioni del denaro sono forti dovunque, ma ancora di più nei paesi in via di sviluppo. Molte grandi imprese hanno a loro disposizione risorse più ingenti rispetto a tante nazioni del Terzo mondo, quindi non c'è da stupirsi se gli sforzi di queste aziende, finalizzati a delineare situazioni giuridiche in cui sia facile operare, sono spesso coronati da successo. Purtroppo, è fin troppo facile che paesi poveri e disperati - specie quelli che non hanno governi democratici - cedano alle lusinghe delle multinazionali.

Ma la cosa peggiore è che le grandi imprese hanno capito di poter influire di più sui trattati internazionali che non sulle politiche nazionali. Nelle democrazie occidentali, c'è stato un tentativo di attenuare gli effetti dei peggiori abusi dell'economia di mercato e un numero sempre maggiore di aziende è ora soggetto a normative di carattere ambientale. Ma la segretezza nella quale vengono condotte le trattative commerciali facilita le imprese che vogliono eludere i processi democratici per piegare leggi e regolamenti al loro volere." (p. 223-224)

E' evidente, dunque, che le multinazionali fanno il possibile, e con ogni mezzo, per avere le mani libere, per fare cioè i loro giochi senza preoccuparsi troppo degli interessi generali e del bene comune.

8.

C'è poi il problema dell'indebitamento dei paesi poveri: un dramma che si trascina da decenni, è stato sempre al centro degli incontri al vertice dei paesi industrializzati, ma per il quale si è fatto finora ben poco.

Il rilievo del problema è noto:

"In tutto il mondo, dall'Argentina alla Moldavia, dall'Africa all'Indonesia, quello del debito è un problema che grava pesantemente sui paesi in via di sviluppo. Talvolta, le conseguenze del debito estero sono drammatiche, come avviene con le crisi debitore ma nella maggior parte dei casi mostra il suo volto peggiore quando i paesi cercano di evitare l'insolvenza. Per pagare i debiti spesso devono sacrificare l'istruzione, la sanità, la crescita economica e il benessere dei loro cittadini. Il denaro dovrebbe affluire dai paesi ricchi a quelli poveri, ma i debiti da rimborsare sono diventati talmente onerosi che in questi ultimi anni i soldi viaggiano nella direzione opposta. A causa di questo continuo salasso economico, i paesi in via di sviluppo fanno sempre più fatica a crescere e a ridurre la povertà." (p. 243)

La sua interpretazione, invece, è più complessa di quanto comunemente si pensa. L'Occidente tende infatti ad attribuirne la responsabilità ai governi dei paesi in via di sviluppo, che amministrerebbero male i prestiti che vengono loro accordati. C'è un dato di realtà che sembra corroborare tale interpretazione:

"I paesi in via di sviluppo contraggono prestiti in eccesso - oppure gliene vengono concessi troppi, a seconda dei punti di vista -, e questo li espone a una serie di rischi legati al possibile aumento dei tassi d'interesse, a fluttuazioni dei tassi di cambio o a un'eventuale diminuzione del reddito. Detto questo, non c'è da stupirsi che spesso non siano in grado di restituire quanto dovuto. Talvolta, persino i paesi che hanno contratto prestiti con moderazione e perseguito politiche economiche sane possono trovarsi in difficoltà a causa di catastrofi naturali come lo tsunami, di un crollo delle esportazioni o di un'impennata improvvisa dei tassi d'interesse." (p. 243)

la verità, invece, viene fuori non appena si valorizza la reciprocità del rapporto tra debitore e creditore:

"Spesso, il paese debitore viene accusato di aver contratto un prestito troppo gravoso quando in realtà la colpa è anche di chi il prestito l'ha concesso senza verificare la solvibilità del richiedente. Essendo poveri, i paesi in via di sviluppo sono un facile bersaglio per i venditori di prestiti. Lo squilibrio tra il sofisticato prestatore e lo sprovveduto beneficiario non potrebbe essere più marcato. I prestiti internazionali, che spesso danno origine a un vero e proprio braccio di ferro per la restituzione, sono il terreno su cui un paese in via di sviluppo si misura con il potere dell'Fmi e di alsi debba fare quando un paese non è più in grado di rispettare i propri obblighi. Mentre tutti i paesi avanzati hanno riconosciuto l'importanza del diritto fallimentare nell'aiutare i privati e le aziende a ristrutturare il debito in eccesso, non esistono leggi analoghe che regolamentino la ristrutturazione del debito di una nazione garantendo uno svolgimento equo, efficiente e rapido delle operazioni." (p. 243-244)

"Per stipulare un contratto di prestito occorrono un prestatore e un mutuatario; entrambi, volontariamente, compiono la transazione7. Se il prestito non va a buon fine, ci sono come minimo gli elementi sufficienti per dire che il prestatore è colpevole almeno quanto il mutuatario. Anzi, visto che i prestatori dovrebbero possedere sofisticati strumenti di analisi del rischio, nonché le capacità per valutare l'entità del prestito da concedere, forse dovrebbero prendersi una parte di colpa maggiore.

Fa differenza se diciamo che è stato concesso un prestito troppo elevato, anziché affermare che è stato chiesto un prestito troppo elevato? La differenza è che là dove ci sembra di vedere il problema è dove poi andiamo a cercare la soluzione. Il problema sta più dalla parte di chi presta, nel senso che non è capace di valutare la solvibilità del mutuatario, oppure riguarda soprattutto chi chiede i prestiti, perché esagera e si comporta in modo irresponsabile? Se ci sembra che il problema riguardi più il mutuatario, allora naturalmente penseremo di dover rendere più difficile l'estinzione del debito; al contrario, se pensiamo che il problema nasca dal prestatore, faremo in modo che chi concede mutui valuti con la diligenza necessaria l'affidabilità e la solvibilità del ricevente.

L'economia politica dell'eccesso di prestiti contratti è facile da capire. Il governo che accende il prestito usufruisce dei benefici, mentre i governi futuri dovranno far fronte alle sue conseguenze. Ma come mai accade cosi spesso che prestatori sofisticati, avvezzi a perseguire sempre e comunque l'ottimizzazione del profitto, concedano prestiti troppo elevati ? Ebbene, i prestatori incoraggiano l'indebitamento perché è redditizio. I governi dei paesi in via di sviluppo talvolta vengono addirittura spinti a contrarre prestiti in eccesso e i funzionari vengono invogliati con bustarelle e Gazzette legate ai prestiti stessi oppure ai progetti che devono finanziare. Anche senza arrivare alla corruzione vera e propria, gli uomini d'affari e i finanzieri occidentali non hanno difficoltà a in-menzare coloro che prendono le decisioni sui prestiti: li invitano nei migliori ristoranti e questi pranzi diventano l'occasione per vendere mutui e spiegare come mai questo è un buon momento per accendere un prestito, come mai la loro proposta è particolarmente infossante o perché è il momento giusto per ristrutturare il debito." (p. 247)

C'è dunque una vera e propria tendenza all'induzione del prestito che, se trova spesso un terreno facile, non si cura molto di valutare i rischi legati ad una possibile insolvenza. Il motivo di quest imprevidenza è semplice:

"Contrarre prestiti in eccesso aumenta le possibilità di crisi, e i costi di una crisi non ricadono solo sulle spalle dei prestatori, ma della società nel suo complesso (un'esternalità negativa). Negli ultimi anni, i programmi dell'Fmi hanno forse contribuito a distorcere ulteriormente gli incentivi dei prestatori. Quando si verificava una crisi, l'Fmi prestava denaro in quello che veniva chiamato un ´salvataggio finanziario' - il denaro, perù, non serviva per sostenere il paese, bensì le banche occidentali. Sia nell'Est asiatico sia in America Latina, i salvataggi finanziari fornivano le risorse per rimborsare i creditori esteri, dispensandoli quindi dall'accollarsi i costi dei loro prestiti sbagliati. In alcuni casi, i governi si sono addirittura accollati delle passività private, socializzando cosi il rischio privato. I creditori sono stati risparmiati, ma il denaro dell'Fmi non è stato un regalo, bensì un altro prestito, e al paese in via di sviluppo è rimasto il conto da pagare. In sostanza, i contribuenti del paese povero pagano le conseguenze degli errori di valutazioni del paese ricco che ha concesso il prestito." (p. 248)

Come non considerare, infine, le clausole contrattuali che governano i prestiti, tali per cui i rischi legati a eventuali cambiamenti che intervengono nel corso del tempo a carico di variabili monetarie ricadono sempre e comunque sui debitori (e in particolare sulla popolazione dei paesi i cui governi contraggono i prestiti)?

"L'eccesso di prestiti contratti, oppure concessi (a seconda del punto di vista), è in parte responsabile di molte delle crisi che hanno caratterizzato gli ultimi trent'anni. Ma i problemi affondano le loro radici in tempi molto più lontani. I contratti di debito in cui è prevista la restituzione di una determinata cifra in dollari o euro da parte del paese mutuatario con l'adeguamento degli interessi in base alle circostanze del mercato (la tipica situazione dei prestiti a breve termine) fanno gravare tutto il rischio legato ai tassi d'interesse e alla volatilità dei tassi di cambio sui paesi in via di sviluppo." (p. 249)

Che cosa fanno le istituzioni finanziarie internazionali di fronte ad una realtà del genere? La risposta di Stiglitz è secca:

"Anziché lavorare per rimediare a questi problemi secondo la logica di funzionamento dei mercati - vale a dire, facendo in modo che si redigano contratti di debito in cui siano i ricchi ad accollarsi la percentuale maggiore del rischio associato al tasso di cambio e alle fluttuazioni dei tassi d'interesse - oppure per mitigarne le conseguenze, l'Fmi e i governi dei paesi creditori hanno fatto di tutto affinché coloro che avevano sottoscritto questi contratti iniqui I1 rispettassero ad ogni costo, quali che fossero le conseguenze per 1 cittadini; inoltre, hanno caldeggiato l'aumento dei tassi d'interesse per stabilizzare i tassi di cambio. Con tassi di cambio più alti si pensava che i debitori avrebbero potuto rimborsare più facilmente i debiti denominati in valuta estera. E mentre da una parte non si sa se tassi d'interesse elevati stabilizzino effettivamente tasso di cambio, dall'altra è certo che i paesi sono scivolati sempre più verso la recessione e la depressione". (p. 251)

9.

Si giunge, infine, al paradosso dei paradossi, quello legato alle riserve globali, vale a dire all'investimento irrazionale di enormi quantità di denaro in impieghi che servono solo a soddisfare esigenze dettate dalle leggi del sistema.

Il nodo, a riguardo, è la necessità di finanziare gli Stati Uniti!

"Il sistema finanziario globale non funziona come si deve, specie per i paesi in via di sviluppo. I flussi di denaro viaggiano in salita, dai poveri verso i ricchi. Il paese più agiato del mondo - gli Stati Uniti - vive costantemente al di sopra dei propri mezzi, prendendo in prestito 2 miliardi di dollari al giorno dai paesi più poveri.

Parte del denaro versato dai paesi in via di sviluppo a favore di quelli industrializzati serve per pagare il loro enorme debito - argomento trattato nel precedente capitolo. Il resto viene utilizzato per acquistare buoni del Tesoro in dollari e in altre valute ´pesanti' che andranno ad aggiungersi alle loro riserve. L'enorme vantaggio di questi titoli di Stato è che sono facilmente monetizzabili, quindi il paese può venderli ogniqualvolta ha bisogno di liquidità, ma c'è il rovescio della medaglia: pagano un interesse bassissimo. La maggior parte di questi titoli sono buoni del Tesoro statunitense a breve termine (i cosiddetti T-bills) che, negli ultimi anni, hanno reso davvero poco: l'1 per cento. » piuttosto singolare che dei paesi poveri, disperatamente bisognosi di capitali, prestino centinaia di miliardi di dollari al paese più ricco del mondo. Nel 2004, il flusso di denaro da Cina, Malaysia, Filippine e Thailandia - messo in moto soprattutto dall'esigenza di costituire riserve - è ammontato all'enorme cifra di 318 miliardi di dollari...

I flussi di denaro dovrebbero muoversi dai ricchi verso i poveri, e i primi dovrebbero assumersi gran parte dei rischi che oggi gravano invece sugli sfortunati, ma il sistema finanziario globale non riesce a dare questa impronta." (p. 281)

A questo riguardo, ovviamente, il ruolo del dollaro è fondamentale:

"Oggi, quasi tutte le riserve sono costituite da dollari veri e propri oppure da titoli denominati in dollari, specie buoni del Tesoro statunitense, facilmente convertibili. La preferenza accordata al dollaro nelle riserve internazionali è motivata principalmente dal dominio degli Stati Uniti nell'economia mondiale e dal carattere relativamente stabile di questa valuta. Una delle questioni che intendo prendere in esame è se il dollaro possa e debba rimanere la valuta di riferimento del sistema di riserva internazionale. Prima, comunque, occorre analizzare il problema dell'enorme costo delle riserve per i paesi in via di sviluppo.

Possedere queste riserve garantisce senza dubbio molti vantaggi, ma i paesi pagano a caro prezzo la sicurezza che esse offrono. Oggi, su un totale di riserve che ammonta a oltre 3000 miliardi di dollari, i paesi in via di sviluppo percepiscono in media un ritorno reale inferiore all'1-2 per cento. Nella maggior parte dei casi, i paesi in via di sviluppo hanno un disperato bisogno di fondi e una miriade di progetti ad alto rendimento. Se questi paesi non fossero costretti a utilizzare il denaro per incrementare le riserve e quindi, in sostanza, per prestare dollari agli Stati Uniti a un tasso d'interesse bassissimo, potrebbero investirlo in altri progetti ricavandone un buon 10-15 per cento. Si può quindi affermare che il costo delle riserve corrisponda alla differenza fra tassi d'interesse. Gli economisti definiscono questi costi - ossia la differenza tra ciò che si sarebbe potuto guadagnare e ciò che si è effettivamente guadagnato - ´costi opportunità'.

Stimando in via prudenziale questa differenza nell'ordine del 10 per cento, il costo che i paesi in via di sviluppo si accollano ogni anno per mantenere le loro riserve supera i 300 miliardi di dollari - una cifra enorme. Tanto per dare un'idea: è il quadruplo degli aiuti finanziari totali forniti al Terzo mondo; rappresenta più del 2 per cento del Pil aggregato di tutti i paesi in via di sviluppo; corrisponde grossomodo alle stime del fabbisogno economico dei paesi in via di sviluppo per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del millennio, incluso quello di dimezzare la povertà." (p. 284)

Il quadro riesce più chiaro se lo si analizza in termini globali:

"Per mettere a fuoco l'entità del problema, occorre sottolineare che i paesi del mondo possiedono oltre 4500 miliardi di riserve che aumentano a un tasso annuo del 17 per cento circa. In altre parole, ogni anno viene sottratto all'economia mondiale potere d'acquisto per 750 miliardi di dollari - denaro che viene seppellito sottoterra. Un'economia globale solida ha bisogno di una domanda di beni e servizi abbastanza forte da soddisfare la capacità di produzione mondiale. La domanda complessiva di beni e servizi (cioè la somma della domanda delle famiglie per i consumi, delle aziende per gli investimenti, e del governo) in tutto il mondo viene definita domanda aggregata globale. Se si vuole scongiurare il pericolo di una domanda aggregata insufficiente - con conseguente indebolimento dell'economia -, è necessario trovare una qualche forma di compensazione. In passato, molti paesi in via di sviluppo tentavano di controbilanciare la situazione attraverso una politica monetaria e fiscale permissiva, finendo per vivere al di sopra dei propri mezzi. E se da una parte questa spesa ´contribuiva' alla domanda globale aggregata, certe politiche fiscali prive di rigore hanno fatto lievitare il debito pubblico innescando spesso gravi crisi, come abbiamo visto nel precedente capitolo. Con oltre cento crisi negli ultimi trent'anni, molti paesi in via di sviluppo hanno imparato la lezione." (p. 277)

Ma se i paesi in via di sviluppo hanno imparato la lezione, si tratta di spiegare la persistente irrazionalità per cui risorse utilizzabili a fini sociali rimangono letteralmente sepolte.

Anche a riguardo, Stiglitz è di una schiettezza encomiabile:

"Quando si seppellisce sottoterra il potere d'acquisto e la domanda aggregata diventa insufficiente, c'è un paese che riesce comunque a recuperare: gli Stati Uniti sono diventati i consumatori di ultima istanza e, specie dopo il 2000, sono capaci di gestire deficit enormi, e lo fanno volentieri. I titoli di Stato nelle valute di riferimento sono sempre più ambiti e i governi che li emettono si indebitano ogni giorno di più per soddisfare questa domanda. Il fatto che altri siano disposti a prestare a un tasso d'interesse molto basso crea una situazione a cui i politici non riescono a resistere. E facile operare in regime di disavanzo fiscale e spendere più di ciò che si ha. Da quando il dollaro è diventata la moneta più utilizzata per le riserve, gli Stati Uniti hanno finanziato con il deficit due significativi interventi di riduzione delle imposte, nel 1981 e nel 2001. ciò aiuta a spiegare una precedente osservazione, che forse sarà sembrata strana, e cioè che gli Stati Uniti, pur essendo il paese più ricco del mondo, vivono al di sopra dei loro mezzi. Da questo punto di vista, rendono un servizio al mondo intero. Senza gli sperperi americani, i timori di un'economia globale talmente debole da innescare una caduta dei prezzi, e quelli di deflazione emersi nei primi anni di questo secolo e che affliggono il Giappone da un decennio, sarebbero diventati una realtà. La questione da porsi è la seguente: per quanto tempo gli Stati Uniti potranno continuare a fornire questo servizio, cioè proseguire a spendere e spandere senza ritegno ? Ed esistono modi alternativi e più equi per evitare la tendenza globale verso il basso ?" (p. 277-278)

Per ora, le alternative sembrano inesistenti perché al consumismo sfrenato statunitense corrisponde la tendenza al risparmio del Giappone e, da alcuni anni, della Cina, che ha determinato un circolo vizioso per cui la sorte degli uni dipende da quella degli altri e viceversa:

"Mentre da una parte il crescente indebitamento degli Stati Uniti - evoluzione storica prevista per il paese della moneta di riserva - è una delle principali cause dell'instabilità finanziaria globale che affligge il mondo, il rovescio della medaglia di questo indebitamento - ossia i grandi patrimoni in dollari di Cina e Giappone - è stato un forte motivo di stabilità. Questi due paesi messi insieme hanno aumentato le loro riserve di più di 1000 miliardi di dollari, solo dal 2000 al 2006. Come ho già osservato, un'oculata gestione del portafoglio suggerisce di abbandonare i dollari e di ri; volgersi all'euro, come la Cina ha già cominciato a fare. Ma qui nasce il problema per la Cina e il Giappone: le loro riserve in dollari sono talmente cospicue che se dovessero decidere di vendere rapidamente finirebbero per svalutare la moneta, pregiudicando il valore delle riserve restanti. Le banche centrali di Cina e Giappone hanno tutto l'interesse a mantenere la stabilità, e non si lasciano certo prendere dal panico, né sono soggette agli attacchi irrazionali di ottimismo o pessimismo tipiche dei mercati." (294-295)

Nonostante l'equilibrio in atto, le prospettive sono tutt'altro che confortanti, tranne che il mondo non voglia arrendersi a mantenere indefinitamente gli Stati Uniti e a consentire loro di campare sulle sue spalle.

10.

Una sintesi efficace delle analisi di Stiglitz sulla globalizzazione in atto si trova nelle ultime pagine del saggio, esposta in questi termini:

"Negli ultimi due secoli, le democrazie hanno imparato a moderare gli eccessi del capitalismo e a incanalare il potere del mercato in modo da favorire il più alto numero possibile di persone. I vantaggi di questo processo sono stati straordinari, e il tenore di vita nel cosiddetto Primo mondo è migliorato raggiungendo livelli che nell'Ottocento sarebbero stati inconcepibili.

A livello internazionale, invece, non siamo riusciti a dar vita alle istituzioni politiche democratiche necessarie per far funzionare davvero la globalizzazione e far si che la forza dell'economia di mercato mondiale porti a un miglioramento delle condizioni di vita di tutte le popolazioni, e non soltanto dei ricchi nei paesi ricchi. A causa del deficit di democrazia nella gestione della globalizzazione, non è stato possibile moderarne gli eccessi; anzi, come abbiamo osservato nei precedenti capitoli, talvolta la globalizzazione ha ostacolato le democrazie nazionali che tentavano di intervenire sull'economia di mercato con dei correttivi.

Mai come oggi si è sentito il bisogno di istituzioni globali, ma la fiducia nei loro confronti e nella loro legittimità è in netto calo. I ripetuti fallimenti dell'Fmi nel gestire le crisi dello scorso decennio sono stati il colpo di grazia, dopo anni di insoddisfazione per i programmi condotti in Africa e in altre regioni del mondo, inclusa l'austerità che ha imposto con la forza a questi paesi. Gli insuccessi dei paesi che hanno seguito le politiche del Washington Consensus, imperniate attorno all'ideologia del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, paragonati all'ottima riuscita dei paesi dell'Est asiatico, non hanno certo contribuito a ridare credibilità a queste istituzioni. E, di certo, non è stata d'aiuto neppure l'arroganza con cui l'Fmi ha preteso di costringere i paesi in via di sviluppo ad aprire i loro mercati ai flussi di capitali speculativi, salvo - dopo qualche anno - ammettere sottovoce che la liberalizzazione dei mercati finanziari può causare instabilità e ostacolare la crescita. E mentre da una parte insisteva caparbiamente nell'imporre misure che provocavano instabilità nei mercati finanziari, dall'altra l'Fmi non ha fatto nulla per risolvere uno dei problemi alla base dell'instabilità internazionale: il sistema di riserva globale. Al Wto, sul fronte commerciale, le cose non vanno certo meglio. A Doha, nel novembre 2001, dopo aver ammesso l'iniquità della precedente tornata negoziale, i paesi industriali avanzati sono venuti meno all'impegno di organizzare un development round.

In un certo senso, non si può dare la colpa di tutto questo alle istituzioni in quanto tali: esse, infatti, sono in mano agli Stati Uniti e ad altri paesi industriali avanzati. Gli insuccessi di questi organismi internazionali sono, di fatto, insuccessi politici dei paesi che li governano. La fine della guerra fredda aveva dato agli Stati Uniti, l'unica superpotenza rimasta, l'opportunità di imprimere al sistema economico e politico internazionale un nuovo corso ispirato a principi di equità e interesse per i poveri; ma, liberatisi dalla concorrenza dell'ideologia comunista, gli Stati Uniti hanno avuto anche la possibilità di plasmare il sistema globale in funzione dei loro interessi specifici e di quelli delle grandi multinazionali. Purtroppo per l'economia mondiale, hanno scelto questa seconda via." (p. 319)

Dunque se è vero che non è scritto da nessuna parte che la globalizzazione debba procedere per sempre sulla strada che essa ha imboccato, i motivi per cui essa si è realizzata in un certo modo e non in altro sono assolutamente chiari e corrispondono all'esercizio di un potere egemonico da parte degli Stati Uniti che coinvolge le istituzioni economiche internazionali e tutelano gli interessi delle multinazionali.

Stiglitz non è un marxista: è un liberal ed un intellettuale onesto. Se fosse stato marxista, non avrebbe comunque potuto scrivere un libro più radicalmente critico nei confronti del capitalismo neoliberista e, in ultima analisi, più impregnato di antiamericanismo.

Non essendo un marxista, Stiglitz però non si arrende alla realtà di una logica, distruttiva per gli equilibri planetari e sociali, che appare, oggi più che mai, incoercibile. Egli tenta di ammortizzare l'impatto critico delle sue analisi facendo riferimento al fatto che il neoliberismo è solo uno dei modi possibili di essere del capitalismo e che gli Usa hanno assunto un orientamento unilaterale e imperialistico con l'amministrazione Bush.

Ciò significa che egli ritiene che lo stato di cose esistente sia riformabile e correggibile. In nome di che e su quali presupposti è espresso esplicitamente:

"E importante, a mio avviso, che i paesi concentrino l'attenzione sull'equità, facendo in modo che i frutti della crescita siano ampiamente condivisi. E un dovere morale battersi per l'equità, ma questa è necessaria perché la crescita sia sostenibile. La risorsa più importante di un paese è la sua gente, e se una gran parte della popolazione non sfrutta tutte le proprie potenzialità - per mancanza di accesso all'istruzione o perché risente degli effetti duraturi della malnutrizione in età infantile -, il paese non riuscirà a sviluppare tutto il proprio potenziale. I paesi che non effettuano investimenti cospicui nell'istruzione non riescono poi ad attirare gli investimenti esteri in settori che dipendono da una manodopera qualificata, come oggi avviene nella maggior parte dei settori. All'altro estremo, livelli elevati di disuguaglianza, specie dovuti alla disoccupazione, possono provocare disordini sociali e favorire l'aumento della criminalità, creando un clima sfavorevole all'attività economica." (p. 48)

"Lo sviluppo deve trasformare la vita delle persone, non soltanto l'economia; per questo occorre analizzare le politiche occupazionali e scolastiche attraverso una doppia lente, valutando in che modo promuovono la crescita e come influiscono direttamente sulla vita della gente. Gli economisti parlano dell'istruzione in termini di capitale umano: investendo sulle persone, ci si garantisce un ritorno, proprio come avviene se si investe su un macchinario. Ma l'istruzione fa di più. Allarga la mente, facendo capire che il cambiamento è possibile, che esistono altri modi per organizzare la produzione, e mentre insegna i principi di base della scienza moderna e il ragionamento analitico, aumenta ulteriormente la capacità di imparare. Il premio Nobel Amartya Sen ha messo in evidenza le grandi capacità che si sviluppano con l'istruzione e la libertà che lo sviluppo assicura alle persone." (p. 52)

"La maggioranza delle persone vive sempre nello stesso posto e non si rende conto che con la globalizzazione facciamo ormai tutti parte di una comunità globale. Gli abitanti del vecchio continente, non senza difficoltà, stanno imparando a considerarsi tedeschi, italiani o britannici e al tempo stesso europei. La maggiore integrazione economica ha contribuito a questo. Lo stesso avviene a livello mondiale: viviamo una realtà locale, ma dobbiamo pensare sempre più in modo globale e vederci parte di una comunità che aggrega tutto il mondo. Questo significa non soltanto trattare gli altri con rispetto, ma anche chiederci che cosa è giusto e che cosa non lo è. Per esempio, com'è un regime commerciale equo? Per capirlo, dobbiamo metterci nei panni altrui: che cosa ci sembrerebbe giusto se fossimo al posto loro? E dobbiamo riflettere bene su quando sono necessarie delle regole per far funzionare il sistema globale e quando invece è opportuno rispettare la sovranità nazionale, consentendo a ciascuno di prendere le decisioni giuste per sé.

Dovremo cambiare mentalità se vogliamo cambiare il modo in cui viene gestita la globalizzazione." (p. 22-23)

Sarebbe superficiale accusare Stiglitz di essere un inguaribile ottimista: la sua lucida visione dello stato di cose esistente sotto il profilo economico lo esclude. Egli è piuttosto un riformista puro, il quale crede che, laddove i cambiamenti siano possibili e vantaggiosi per la collettività, essi non potranno che realizzarsi. Consente, insomma, per un verso all'assioma hegeliano per cui il reale è razionale - razionale, ovviamente, nell'ottica del capitalismo -, ma dà per scontato anche l'altra parte dell'assioma per cui la ragione umana non può finire che per imporsi.

E' difficile, alla luce dei fatti, prestargli fede; ancora più inquietante è non prestargliela.