Per un cambiamento di paradigma


All’Uomo nulla di umano dovrebbe risultare estraneo…

La nuova edizione di Nilalienum conserva l’epigrafe di Terenzio  tradotta però al condizionale. All’epoca in cui fu scritta, essa di fatto esprimeva un ideale di humanitas molto distante dalla rozza cultura di gran parte del popolo romano. Dato che, mutatis mutandis, lo scarto tra quell’ideale e la realtà non è cambiato in misura rilevante, la frase può essere assunta come emblematica di una civiltà “sognata”, di là da venire.

Interrogarsi su questo scarto è l'obbiettivo primario di Nilalienum. Non è cosa da poco e, come ogni progetto di ricerca, richiede delle coordinate per orientarsi su di un terreno di infinita complessità.

La ricerca di Nilalienum muove e fa capo ad una concezione evoluzionistica della natura umana e ad una concezione dialettica dell'interazione tra questa e l'ambiente fisico e culturale.  

In quanto prodotto casuale dell'evoluzione, vale a dire del processo di ominazione,l’uomo è semplicemente  un animale che cerca di sopravvivere adattandosi alla realtà e, dato il suo essere carente, per adattarsi deve trasformarla culturalmente.

Rispetto agli altri, è, per di più, un animale inesorabilmente inquieto, pateticamente bisognoso di certezze, la cui coscienza, galleggiando su un mare di emozioni e di intuizioni aperte all'infinito, tende naturalmente alla mistificazione, vale a dire a sviluppare una visione del mondo - esterno ed interno - estremamente semplificata, coerente e coesa, che, in ogni società, è agevolata dall'adesione al senso comune.

La tendenza alla mistificazione, intesa come inganno inconsapevole, rassicura l'uomo nella misura in cui lo istupidisce e lo affranca dal suo "destino".

 Solo se e quando accetta la sfida dell’esserci, dell’essere gettato in un mondo senza (presumibilmente) trascendenza, in un mondo prodotto, tra l’altro, dalle duemila generazioni che lo hanno preceduto e che, per molteplici aspetti, sembra ancora molto lontano dall’essere conforme ai suoi bisogni radicali, solo allora egli, andando al di là dell’appartenza ad un gruppo storicamente determinato, si orienta verso il divenire Uomo.

Laddove non si confonda il termine con l’appartenere alla specie homo e con l’esserci, questo divenire non può prescindere da un interesse per la fenomenologia dell’umano e dal confronto con una complessità attraverso la quale traspaiono di continuo una grandezza, in gran parte potenziale, e una miseria reale.

L’humanitas non è una conquista definitiva ed elitaria, non si realizza in virtù di una pretesa di diversità rispetto agli altri, bensì sull’accettazione di essere tutti partecipi di quell’ambivalenza e sull’impegno, vita natural durante, di ridurre la seconda a favore della prima. Ciò significa adottare, in rapporto a sé (compreso il mondo interno al di là della coscienza), agli altri e alla realtà storico-sociale, una strategia costante, critica di demistificazione.

L’Uomo in questione, dunque, nulla ha  a che vedere con il superomismo nietzschiano. Uomo è semplicemente colui che, senza venire meno ai doveri di appartenenza, che gli impongono di assumere ruoli sociali diversi, indaga se stesso e il mondo, mettendo in gioco le mistificazioni cui indulge e le trappole culturali che tendono ad irretirlo. Colui, insomma, che vive nel mondo, accettandone la contaminazione, ma rivendicando e agendo il suo diritto di veder chiaro, per quanto possibile, dentro e fuori di sé.

Il dovere di impegnarsi a capire prescinde dal raggiungere una chiave esplicativa che porti alla Verità. Uscire dalla vita meno stupidi di quando si è entrati e avendo opposto una qualche resistenza alle istanze conformistiche dell’apparato mentale, del senso comune e della cultura è già un obbiettivo significativo e difficile da perseguire.

Nilalienum intende offrire un contributo in questa direzione.

Esso riconosce come suo nucleo il tentativo di illuminare il significato dei fenomeni psicopatologici, assumendoli come indiziari di alcuni aspetti intrinseci alla natura umana e all’apparato mentale nonché del farsi e del disfarsi dell’uomo nell’interazione con l’ambiente sociale e culturale.

La rivoluzione culturale degli anni ‘70 che mirava ad allargare gli orizzonti della coscienza individuale e sociale, a superare i pregiudizi e i luoghi comuni, e ad indurre una riflessione collettiva sulla condizione umana, sul rapporto tra natura e cultura, sulle istituzioni sociali, sulle relazioni interpersonali, sulle interazioni tra biologico, psicologico e sociale, è (miseramente) fallita.

Riorganizzatasi sotto la duplice spinta degli interessi delle industrie farmaceutiche e di una domanda crescente (e ingenua) di cure, la psichiatria è divenuta nuovamente una branca medica specialistica, riservata agli addetti ai lavori, che utilizza sigle ed etichette incomprensibili ed esclude la coscienza sociale.

La corporazione psichiatrica, poi, si è ripiegata in gran parte nel culto della cura farmacologica della malattia mentale, assunta univocamente come una malattia del cervello, e ciò si riverbera in una pratica terapeutica inefficace quando non addirittura dannosa.

Sempre più spesso gli specialisti si abbandonano alla critica dell’antipsichiatria degli anni ‘70, come se si fosse trattato di una stagione culturale aberrante. Ma cosa offrono in cambio se non il rozzo riferimento ad una presunta vulnerabilità genetica, che deciderebbe per molti aspetti il “destino” delle persone?

Questo pregiudizio ideologico, che definisce il disagio psichico come fatto esclusivamente medico serve essenzialmente a mettere fuori discussione e a sacralizzare la normalità, il sistema sociale, la cultura e lo stato di cose esistente nel mondo: in breve, ad occultare e a rendere incomprensibile il nesso che non può non esserci tra l’esperienza di un soggetto e il mondo storico-sociale cui egli appartiene. In conseguenza di questo, per dirla con Hegel, il disagio psichico diventa null’altro che una vacca scura immersa nell’oscurità del mondo che la circonda.

Il “fondamentalismo” neopsichiatrico, che reifica i concetti di normalità e anormalità, richiede di necessità un superamento dialettico che consenta di recuperare anzitutto il significato radicalmente umano dei fenomeni di disagio psichico, andando al di là dei luoghi comuni, dei pregiudizi e delle mistificazioni di matrice medica (la neopsichiatria) o psicologica (psicoanalisi tradizionale).

Tale superamento si può iscrivere nell’ambito di una metapsichiatria, vale a dire di una disciplina che deve anzitutto riorganizzare l’ambito dei fenomeni psicopatologici sulla base di un nuovo modello teorico che miri a comprenderli e a spiegarli. Questo però non basta.

Nella misura in cui la metapsichiatria, decodificando il disagio psichico in termini di interazione tra corredo genetico, soggettività e contesto storico-sociale, pone di fronte ad un tema univoco e onnipresente - il riferimento ad un mondo fatto a misura d’uomo -, essa viene inesorabilmente ad urtare contro una serie di fondamentalismi - da quello religioso a quello del mercato, da quello etnocentrico a quello conservatore, da quello sociobiologista a quello psicologista - che si pongono come ostacoli rilevanti sulla via della produzione di quel mondo.

Per questo motivo, la metapsichiatria non può rinunciare a confrontarsi  con tutte le ideologie e le pratiche sociali che mantengono l’uomo in una condizione alienata. Il confronto non può avvenire che sulla base della valorizzazione, in un’ottica critica, dei saperi che possono contribuire ad una disalienazione della coscienza individuale e collettiva.

Solo apparentemente, dunque, il sito è specialistico. L’intento primario, indubbiamente, è di denunciare il carattere rozzo e mistificante delle teorie e delle pratiche terapeutiche correnti in ambito psichiatrico e di promuovere, alla luce di un nuovo modello psicopatologico, la fondazione di una scienza integrata della salute e della malattia mentale che dia spazio alla valutazione dell’incidenza dei fattori storico-sociali e culturali senza rinunciare né alla finezza dell’ analisi psicodinamica né agli apporti della neurobiologia.

Una scienza del genere rappresenta però il nucleo di un nuovo sapere dell’uomo su se stesso e sui fatti umani che trascende di gran lunga l’ambito della psichiatria. A tale nuovo sapere, che non diventerà per forza di cose mai definitivo, non è illecito riferirsi come ad una Panantropologia.

Per procedere verso di essa, la neurobiologia e la psicologia dinamica sono essenziali perché il nodo da sciogliere, in ultima analisi, è l’esperienza dell’esserci che si realizza indissolubilmente associata al funzionamento di un organo. Per quanto importante, però, tale funzionamento non è prescindibile dall’immersione e dall’interazione del soggetto umano con un ambiente sociale e  culturale. Senza di esse, semplicemente, l’esperienza dell’esserci non si dà. Qual è però l’ambiente che si può ritenere la matrice dell’esperienza di un singolo soggetto, matrice a partire dalla quale egli consapevolmente o inconsapevolmente si costruisce? Psicologi e sociologi non sembrano avere dubbi a riguardo. Io invece ne ho. Penso infatti che, lo voglia o no, lo sappia o no, ogni uomo comunica, attraverso la cultura, con la totalità del mondo: con tutte le generazioni che lo hanno preceduto e con la realtà contemporanea. La cultura, infatti, è pervasiva.

L’appartenenza totale dell’uomo al mondo come prodotto storico, che non è affatto incompatibile con il riconoscimento di quanto di geneticamente determinato si dà nel cervello – organo esso stesso frutto di una lunga evoluzione naturale e culturale – dovrebbe, nell’ottica del nil alienum, promuovere un interesse per tutti gli aspetti del mondo stesso: la neurobiologia, la psicologia dinamica e la storia sociale, anzitutto, ma anche  la politica, l’economia, la scienza, la filosofia, la religione, la letteratura, l’arte, ecc. La promozione di tale interesse, la cui coltivazione avvicina all’ideale dell’humanitas, richiede però una programmazione sociale della quale, nel nostro orizzonte, non si vede traccia.

L’alienazione psicopatologica, centrale nell’economia del sito – il cui corpo è una lunga ricerca orientata a mettere a fuoco un modello interpretativo e esplicativo multidimensionale dei fenomeni di disagio psichico – è la punta di un iceberg il cui corpo è l’alienazione sociale, vale a dire una normalità caratterizzata generalmente dal darsi un gran da fare per rifuggire dal contatto con il mondo interiore e per restringere l’interazione con quello esterno nei confini del proprio interesse immediato.

In questa ottica, l’alienazione psicopatologica assume immediatamente un nuovo significato. Per quanto, infatti, essa possa porre di fronte ad aspetti regressivi e “irrazionali”, il suo stesso prodursi attesta un bisogno inconscio di una vita più autentica. Nulla, infatti, si scopre nella trama delle esperienze soggettive psicopatologiche che non sia presente anche in quelle normali, che si adattano alla realtà in maniera apparentemente positiva.

Il passaggio dalla normalità alla patologia esprime una difficoltà adattiva il cui significato ultimo è da ricondurre ad una richiesta spesso inconsapevole di senso: ad un bisogno di individuazione, insomma, che viene regolarmente frustrato nella nostra società o banalmente confuso con l'essere se stessi (che spesso significa solo essere ciò che i processi di normalizzazione impongono di essere)

Come ho scritto in precedenza, ponendo termine alla prima edizione di Nil alienum, la mia esigenza ormai è rivolta a curare l’Archivio degli Scritti, prescindendo da ogni preoccupazione divulgativa. Ciò significa che, oltre a pubblicare il materiale dei Seminari sinora inedito, gli articoli di aggiornamento non seguiranno alcuna cadenza temporale definita. Meno vincolati all’Attualità, cercheranno di affrontare i nodi antropologici, storico-filosofici e culturali che sottendono il divenire della realtà contemporanea.

Nessuno dei temi affrontati in precedenza sarà del tutto abbandonato. Verrà affrontato però sulla base del principio per cui l’essenza delle cose non coincide mai con la loro apparenza.

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