Dalla psichiatria alla metapsichiatria

1.

Figlia dell'Illuminismo e della Rivoluzione francese, la psichiatria, ai suoi esordi, si configura come una disciplina medica e allo stesso tempo umanitaristica, orientata a separare la categoria dei malati di mente dall'eterogenea popolazione di devianti - vagabondi, criminali, prostitute, ecc. - con cui sino allora è stata confusa, al fine di assicurare loro il diritto di essere assistiti e curati a spese dello Stato. Si tratta, in altri termini, di porli al riparo dalla logica di abbandono e di repressione cui sono stati sottoposti in conseguenza del grande internamento negli "asili" e di dare loro ciò che agli altri non spetta: le cure e l'assistenza sociale.

In una certa misura, dunque, l'originaria categorizzazione della malattia mentale pone rimedio ad un'emarginazione già in atto, poco compatibile con l'intuizione che, all'interno dell'universo deviante, si dà una sofferenza le cui caratteristiche sono particolari.

Poco importa il fatto che la devianza, esplosa statisticamente in conseguenza dei processi di inurbamento dovuti all'avvio dell'industrializzazione, è colta come un dato intrinseco alla società e non come un prodotto storico. All'epoca la sociologia è in fasce. Ciononostante, una sensibilità sociologica non è affatto estranea ai pionieri francesi della psichiatria. Pinel, l'inventore - per dir così - dell'istituzione manicomiale, coglie con acuta sensibilità il rapporto tra disgregazione sociale, miseria e malattia mentale. Egli - come dopo di lui il suo allievo, Esquirol - definisce il manicomio come un luogo deputato a difendere, più che la società dai malati, i malati da una società urbana turbolenta, e ad assicurare ad essi la soddisfazione di bisogni sociali minimali: un letto, il cibo, il riscaldamento, lo svago e, naturalmente, le cure. L'abolizione delle contenzioni e il difetto di farmaci, nonché l'indubbio umanitarismo di Pinel, orientano la psichiatria ai suoi esordi a intendere la cura come una rieducazione ambientale e morale, come rimedio ai danni prodotti da una società disgregata.

Che il trattamento morale di Pinel si sia realizzato, per alcuni aspetti, in forme che, a posteriori, possono essere giudicate correzionali, coercitive e sottilmente violente, non sorprende. La disgregazione morale della personalità è attribuita da Pinel alle condizioni di vita del proletariato e dei sottoproletariato - ceti da cui provengono in maggioranza gli alienati. La rieducazione s'ispira dunque con naturalezza al modello del cittadino borghese. Foucault, nella peraltro magnifica Storia della follia, ha colto lucidamente quest'aspetto, ma lo ha frainteso. La violenza della psichiatria istituzionale non è da ricondurre alle sue radici illuministiche, bensì ad una degenerazione positivistica, legata a filo doppio con la storia sociale.

La fase "rivoluzionaria" della psichiatria dura, infatti, solo alcuni decenni e si estingue via via che la borghesia si afferma come nuova classe egemonica. I principi ideologici cui questa s'ispira rimangono quelli della Rivoluzione francese, ma si associano ad un'esigenza di ordine sociale che finisce col produrre un effetto paradossale. L'Ospedale psichiatrico, sorto dall'esigenza di affrancare i malati dalla punizione carceraria e implicitamente dallo stigma di potenziali criminali, diventa rapidamente un'istituzione repressiva, il collettore di tutte le devianze comportamentali non assoggettabili al codice penale: uno strumento di salvaguardia, insomma, dell'ordine borghese e delle sue pretese egemoniche di omologazione culturale. Strumento efficace quant'altri mai, poiché la permanenza nel manicomio è sancita dall'arbitrio degli psichiatri.

Non poche voci - di magistrati, giornalisti, ex-ricoverati e parenti - si levano a tutelare i diritti dei ricoverati in quanto cittadini a pieno titolo. Un'analisi della pubblicistica dell'epoca pone di fronte al fatto inconfutabile che la critica antistituzionale ha radici storiche antiche. La potente corporazione psichiatrica, che può avvalersi di rilevanti connivenze politiche, riesce però a prevalere e giunge a definire di fatto il manicomio come territorio ex-lege. Paradossalmente, è la promulgazione in Francia della legge sull'assistenza agli alienati del 1838 - che rappresenterà il modello di tutte le legislazioni europee - a sancire una realtà istituzionale che, in virtù della sua stessa logica, viola i diritti dei malati di mente come cittadini.

Nella seconda metà dell'Ottocento le statistiche attestano, in tutta Europa, un incremento esponenziale dei ricoveri negli ospedali psichiatrici. Tale incremento, che coincide con il venir meno dell'afflato umanitaristico di Pinel, determina una progressiva degradazione dell'assistenza e delle condizioni ambientali. Il cibo scarseggia, il riscaldamento viene pressoché abolito, gli abiti si riducono al camiciotto di tela grezza, l'igiene è precaria o del tutto trascurata. Prende corpo allora il fantasma del "matto" discinto, pietrificato nella catatonia o vociante, inselvatichito e imbestailito che inciderà profondamente nell'immaginario collettivo.

La disumanizzazione manicomiale, oltre che alle istanze segregative e repressive proprie della società borghese, riconosce altre ragioni. Ancella povera della medicina, in quanto sprovvista di adeguati strumenti di cura, la psichiatria, sotto l'influsso del positivismo, comincia a rivendicare un suo statuto scientifico. A tal fine essa deve, per un verso, dimostrare che la malattia mentale non è una malattia "morale" bensì una malattia del cervello, e, per un altro, che si può incidere sul suo decorso con mezzi fisici e chimici. Il primo intento dà luogo ad una classificazione sistematica dei sintomi e delle sindromi psichiatriche, che esiterà nella nosografia di E. Kraepelin, destinata a funzionare come una gabbia del pensiero psichiatrico fino ai nostri giorni; il secondo alla pratica delle terapie di shock, che inaugura la stagione del "sadismo" terapeutico (Furor Curandi).

Ambedue gli intenti richiedono da parte degli psichiatri un distacco scientifico dall'oggetto in questione, che viene ad essere la malattia e non il malato, e di conseguenza un distacco emozionale rispetto a questi, che risulta esserne il portatore. L'ossessione di dover debellare una malattia di organo, senza tener conto della soggettività del paziente, questa metodologia oggettivante accettata come una sfida mirata a sancire l'appartenenza a pieno titolo della psichiatria alla scienza medica, spiega il < class="glossario">sadismo terapeutico al quale si abbandonano gli psichiatri. Questi non sono di certo tutti degli aguzzini. La maggior parte è in buona fede, e vive il proprio lavoro - peraltro mal pagato - come una missione. Ma gli effetti dell'oggettivazione sono terribili.

La sedia ruotante, le docce gelate, le terapie di shock con mezzi fisici (elettricità) e chimici, le pratiche repressive (la camicia di forza, le contenzioni, l'isolamento) trasformano gli ospedali psichiatrici, dalla seconda metà dell'700 ai primi decenni del '900, in gironi infernali affrancati da ogni controllo giuridico e sociale. L'atteggiamento oggettivante degli psichiatri, associato alla loro sostanziale impotenza terapeutica, li orienta a frequentare sempre meno le corsie e i padiglioni, e a dedicarsi sempre di più a ricerche anatomo-patologiche su cervelli tenuti in naftalina. La sorveglianza e l'assistenza dei malati è affidata agli infermieri e alle suore. Gli infermieri sono reclutati senza alcuna selezione e scaraventati nei padiglioni senza preparazione alcuna. Andare a lavorare in ospedale psichiatrico è l'estremo rimedio contro la disoccupazione, o l'unico modo di inurbarsi per coloro che vivono nel contado. Si tratta in genere di brave persone per quanto rozze che, gettati allo sbaraglio, tentano talora di riversare nel rapporto con i malati le loro doti umane. Ma le condizioni di lavoro sono oggettivamente devastanti. Gli stipendi sono da fame, i turni di lavoro solitamente lunghissimi (anche più giorni continuativamente). L'assistenza poi si riduce a dover sorvegliare un numero esorbitante di pazienti accalcati in enormi stanzoni che, nella maggior parte, si agitano e urlano. Dopo pochi mesi solitamente, gli infermieri, per sopravvivere, si anestetizzano emotivamente e sviluppano un atteggiamento intollerante e sadico.

Nonostante le sue ambizioni, la psichiatria rimane, nei primi decenni del '900, una branca della medicina squalificata e senza potere. Il manicomio è un'istituzione occulta, sottratta al controllo sociale, ma, più o meno, si sa cosa vi avviene. Il "sogno" di Pinel si è tradotto in un incubo per i malati. Le catene si sono ovunque restaurate in dispregio dei diritti umani. L'incubo del manicomio come istituzione sostanzialmente repressiva e punitiva dura a lungo. Da un punto di vista giuridico, la necessità di una regolamentazione di una sorta di terra di nessuno amministrata dall'arbitrio degli psichiatri s'impone in tutta Europa. In Italia nel 1904 viene varata una nuova legge che rimarrà in vigore sino all'avvento della 180. Ma la realtà dell'istituzione non viene scalfita dalla legge, che vale appena, e non sempre, a scongiurare qualche sequestro di persona.

La psichiatria rivendica il suo statuto di specializzazione medica in nome della nosografia e dell'anatomia patologica, ma difetta di qualsivoglia potere terapeutico. E' questa condizione di impotenza ad animare la corporazione psichiatrica spingendola all'azzardo. Tale azzardo consiste nella messa a punto di tecniche di shock.

Tecniche di shock rozze, dalle semplici percosse alle docce gelate alle sedie ruotanti, sono state utilizzate sempre in manicomio. Lo sviluppo delle scienze fisiche e chimiche offre agli psichiatri troppe suggestioni per non indurli in tentazione, tanto più che la popolazione degli internati è inerme. Risalgono alla seconda metà dell'700 le prime sperimentazioni. Non è superfluo ricordare in quale direzione esse si rivolgono. Quali che siano i disturbi di base che promuovono l'internamento (e posto che il provvedimento scatta quasi sempre in rapporto a condizioni socio-economiche disagiate), la reazione dei pazienti è duplice: alcuni si ribellano, si agitano, diventano violenti e incoercibili; altri si deprimono, si bloccano, si isolano e si catatonizzano. In entrambe le reazioni è agevole, a posteriori, identificare una motivazione di protesta, attiva nel primo caso, passiva nel secondo. Le ribellioni e le agiatazioni possono essere affrontate con mezzi coercitivi (fasce di contenzione, camicia di forza, ecc.). Le depressioni e le catatonie pongono, invece, gli psichiatri di fronte alla loro totale impotenza. E' ai depressi e ai catatonici che si rivolgono le tecniche di shock. L'elettricità viene applicata direttamente sulla cute e il voltaggio incrementato nell'intento di ottenere una reazione. Alcuni schizofrenici si lasciano ustionare senza lamentarsi. Pochi abbandonano il loro mutismo per accusare rabbiosamente gli psichiatri di essere bastardi aguzzini. Alcune sostanze chimiche (come il cardiazol, la scopolamina, ecc.), iniettate, danno luogo ad una violenta tempesta neurovegetativa con sintomi, come il soffocamento, angosciosissimi. I risultati terapeutici sono però modesti, di gran lunga inferiori alle conseguenze traumatiche.

Si va avanti così alla cieca tormentando e vessando esseri inermi, fidando nei progressi della scienza e dell'ingegno umano.

2.

A partire dai primi del '900, la critica nei confronti della psichiatria assume una nuova veste in conseguenza dell'avvento della psicoanalisi. Freud, che tiene molto al suo ruolo di medico ed è ideologicamente un conservatore, nel portare avanti le sue ricerche non ha alcun intento rivoluzionario. Il suo fine esplicito è di creare una tecnica terapeutica che consenta di incidere su situazioni cliniche (le nevrosi isteriche e quelle fobico-ossessive) per le quali non si dà altro rimedio. Occorre considerare, infatti, che se la psichiatria manicomiale, per i poveri, è, oltre che violenta, impotente, quella per i ricchi è ugualmente impotente senza arrivare ad eccessi di violenza. Il target di Freud sono, per l'appunto, pazienti che appartengono alla medio-alta borghesia e alla nobiltà viennese.

L'intuizione di Freud, promossa dall'ipnosi, è che, per incidere sui fenomeni psicopatologici, occorra comprenderne il significato. L'ipnosi ha lasciato intuire che tale significato affonda le sue radici nelle memorie soggettive, gran parte delle quali giacciono al di fuori della coscienza. Seguendo quest'intuizione, Freud s'inoltra in un tragitto che porterà alla fondazione della psicoanalisi. Via via che questa scienza prende corpo, egli ne intuisce la portata epistemologicamente e culturalmente rivoluzionaria, ma, per i limiti della sua cultura e della sua ideologia, riduce tale portata al fatto che la psicoanalisi compromette le false certezze dell'io cosciente (che si sente padrone in casa sua) e pone l'uomo di fronte alla triste verità di essere, nel suo intimo, un animale animato da pulsioni poco o punto compatibili con le esigenze sociali e con la moralità.

Di fatto, la rivoluzione psicoanalitica ha una portata ben più ampia. Essa, infatti, non solo compromette la fiducia che gli uomini accordano alla loro coscienza, che è spesso determinata nel suo modo di vedere, di pensare e di agire da motivazioni inconsce, ma investe direttamente e radicalmente il razionalismo illuminista e positivista, che è il fondamento della civiltà borghese. La ricaduta di quest'attacco sulla psichiatria è evidente. Se, infatti, tutti i comportamenti umani possono essere interpretati in nome di memorie, motivazioni e logiche inconsce, l'incomprensibilità, l'irrazionalità e l'assurdità dei fenomeni psicopatologici, su cui la psichiatria si è edificata, rappresenta null'altro che un giudizio di valore che gli psichiatri formulano nei confronti di esseri umani la cui esperienza, nelle sue ragioni profonde, risulta ad essi estranea.

In quale misura Freud si sia reso conto del significato antipsichiatrico della psicoanalisi è difficile dirlo. Leggendo il saggio sul Presidente Schreber, nel quale egli si confronta con un delirio strutturato e ne scopre la trama significativa, viene da pensare che il suo atteggiamento nei confronti della psichiatria e delle sue ossessioni descrittive e nosografiche, dovesse essere ampiamente critico. Nei suoi scritti non si trova, però, alcun cenno a riguardo.

Un ostacolo ideologico impedisce a Freud di portare le sue scoperte alle estreme conseguenze. L'opzione istintivista che egli adotta in rapporto alla natura umana, e che comporta nel fondo di ogni soggettività una pressione pulsionale cieca e anarchica, avversa alla socialità e alle norme del buon vivere civile, lo porta a schierarsi dalla parte della civiltà borghese e dell'ordine costituito. Vero è che, ne Il disagio della civiltà egli sottolinea l'eccesso di frustrazioni istintuali che l'organizzazione sociale pone ai soggetti, e si augura che tale eccesso possa essere temperato. Rimane però fermo il principio che la libertà umana, in conseguenza della pressione pulsionale, è una dimensione pericolosa che richiede un contenimento e una repressione sociale. In virtù di quest'assunto, il significato antipsichiatrico della psicoanalisi viene ad essere compromesso. Posta l'istintualità della natura umana, come non vedere un'espressione primaria di essa nei folli discinti, urlanti, imbestialiti che popolano i manicomi?

In conseguenza dell'opzione ideologica freudiana, la psicoanalisi, nel panorama della cultura occidentale, rimane sì una rivoluzione epistemologica, ma il suo impatto sulla teoria e sulla pratica psichiatrica è pressoché nullo. Nei manicomi (e anche nelle case di cura private per i ricchi) prosegue la strage degli innocenti, aggravata dal fatto che l'ossessione terapeutica degli psichiatri può avvalersi di nuovi mezzi.

3.

Tra gli anni '40 e gli anni '50 del '900 vengono, infatti, messe a punto tre tecniche terapeutiche il cui impatto sulla popolazione manicomiale è terribile: l'elettroshock, il coma insulinico e la psicochirurgia. Trattandosi di tecniche a basso costo, il loro impiego nei manicomi riconosce una larga diffusione. L'elettroshock è l'intervento di prima scelta. Se esso fallisce, si passa all'insulinoterapia. se fallisce anche questa, rimane, come ultima spiaggia, la psicochirurgia. Si tratta di tecniche pericolose. L'elettroshock comporta una mortalità dell'un per mille, in conseguenza di complicanze cardio-respiratorie. L'insulinoterapia vota alla morte l'un per cento dei pazienti che ad essa vengono sottoposti. La psicochirurgia determina effetti irreversibili di deterioramento della personalità. I pazienti, in genere, si tranquilizzano, ma sono ridotti ad una vita vegetativa. Non esiste - che io sappia - nessuna statistica su scala europea dei crimini commessi dalla psichiatria in nome del furor curandi. La diffusione delle nuove tecniche lascia pensare che le vittime, messe a morte o definitivamente invalidate, debbano essere state migliaia. Il principio che governa la psichiatria all'epoca si fonda sull'identificazione della malattia mentale con un cancro psichico, che giustifica il principio per cui a mali estremi è lecito opporre estremi rimedi.

Ancora oggi non mancano i sostenitori dell'elettroshock e della psicochirurgia. Un difetto di senso storico impedisce loro di cogliere, nella tragedia, un indizio di grande significato. L'insulinoterapia è stata completamente abbandonata dopo un periodo nel corso del quale i suoi risultati sembravano, almeno in alcuni casi, miracolosi. L'abbandono è avvenuto in conseguenza di un progressivo declino dei risultati. Questa circostanza merita di essere interpretata. Ai suoi esordi, la tecnica, la cui pericolosità è nota, comporta, da parte degli psichiatri, una sorta di maternage nei confronti dei pazienti. Dopo essere stati trascurati e maltrattati casomai per anni, questi si ritrovano presi in carico da un'équipe - medici e infermieri - che si occupa di loro "amorevolmente". Tanto basta a produrre guarigioni miracolose. Allorché la tecnica si standardizza e la sua realizzazione si burocratizza, le guarigioni diminuiscono e scompaiono. Nessuno prende atto che l'efficacia dell'insulinoterapia pone in luce la sensibilità e il bisogno dei pazienti di un trattamento umano, e che il "mistero" della malattia sta, evidentemente, in un rapporto conflittuale con l'altro e col mondo che può essere rimediato dal modo in cui ci si rapporta ai pazienti. Questo messaggio verrà ripreso, a distanza di pochi anni, dal movimento antistituzionale.

Esso viene accantonato dalla psichiatria in nome di una nuova "rivoluzione" i cui effetti sono ancora oggi imponenti. Verso la fine degli anni '50 del 900, si accerta in laboratorio che una sostanza chimica - la cloropromazina - ha un effetto sedativo sugli animali. Si avvia la sperimentazione negli ospedali psichiatrici e si scopre che, oltre all'effetto potentemente sedativo, che permette di risolvere il problema dell'agitazione psicomotoria, la cloropromazina ha anche un effetto deliriolitico in virtù del quale un numero rilevante di allucinazioni regrediscono. Aperta la via, nel giro di pochi anni, vengono ad essere messe a disposizione della psichiatria nuove molecole chimiche ad effetto psicofarmacologico: neurolettici (Serpasil, Serenase, ecc.), antidepressivi (Anti-Mao, Tofranil, ecc) e ansiolitici (Librium e Valium). La situazione manicomiale, nei primi anni di psicofarmacoterapia, cambia radicalmente. Nonostante effetti collaterali talora pesanti, il contenimento dell'agitazione psicomotoria, la scomparsa o l'attenuazione delle allucinazioni, il superamento delle depressioni e il controllo delle angoscie, lasciano affiorare un'umanità con la quale è possibile comunicare e che si protende verso i rapporti umani. Anche questa rivoluzione però è destinata a declinare. All'umanizzazione prodotta dagli psicofarmaci, infatti, non corrisponde nessun cambiamento dell'ambiente, delle logiche e del regime di vita istituzionale. Il clima rimane quello di un'istituzione totale, votata alla segregazione e alla repressione.

I farmaci non sono miracolosi. Quando non conseguono effetti, il loro dosaggio viene progressivamente aumentato e la conseguenza è che i pazienti ricavano più danni che vantaggi. In genere, ed è un effetto costante, aumentano considerevolmente di peso, si irrigidiscono nei movimenti e si rattrappiscono per via del parkinsonismo. In non pochi casi, gli psicofarmaci, prescritti a dosi da cavallo, danno luogo a decessi che vengono attribuiti al collasso cardiocircolatorio. La resistenza dei pazienti nei confronti dei trattamenti farmacologici aumenta progressivamente. Per i ribelli, si usano, come sempre, le fasce di contenzione e le camicie di forza. Si diffonde la pratica dell'elettroshock punitivo. Ne vengono prescritti lunghi cicli per infrazioni ai regolamenti manicomiali o alle autorità. Il clima di terrore persiste.

Gli psichiatri tradizionalisti vantano l'avvento degli psicofarmaci come l'unica, vera rivoluzione avvenuta in psichiatria. Chi ha avuto la ventura di visitare i manicomi negli anni '60 del '900, allorché i trattamenti psicofarmacologici erano correnti, può facilmente attestare che si tratta di una mistificazione. Le condizioni di vita sono subumane, le devastazioni fisiche prodotte dai farmaci imponenti. Quasi tutti i padiglioni, eccezion fatta per quelli degli psicotici cronici, ormai affondati in una sorta di tranquilla passività da automi, sono chiusi. I pazienti vivono di giorno in enormi camerati sotto la sorveglianza di un infermiere abbandonati a se stessi e condannati all'inerzia. L'uso dei mezzi di contenzione è ancora diffusissimo. Il problema è che la psichiatria continua a curare la malattia e ad essere totalmente indifferente ai bisogni umani di chi ne è il portatore.

Verso gli inizi degli anni '60, la fronda antipsichiatrica si rimette in movimento. Il dato che accomuna tutti gli operatori che ad essa partecipano è la critica nei confronti di un'istituzione totale che calpesta i più elementari diritti umani, opprimendo e maltrattando esseri senza tutela. Questo dato comune riconosce poi posizioni estremamente diverse. Negli Stati Uniti, Th. Szaz avvia una battaglia radicale contro la psichiatria in nome di principi liberali, che egli vede violati nei manicomi. In Inghilterra e in Francia, gli antipsichiatri hanno tutti alle spalle una formazione psicoanalitica che li porta a contestare radicalmente il concetto di malattia in sé e per sé, e a denunciare la psichiatria come una falsa scienza, infondata nei suoi presupposti e disumana nella pratica. In Germania, l'antipsichiatria assume una connotazione marcatamente politica in conseguenza della quale la psichiatria viene denunciata come una scienza borghese che occulta, sotto l'etichetta della malattia, le disfunzioni del sistema capitalistico, e opprime i dissidenti inconsapevoli, i pazienti. In Italia, nessuno giunge a contestare l'esistenza della malattia mentale, almeno come esperienza soggettiva di grave disagio. Il movimento che si avvia a Gorizia per iniziativa di Franco Basaglia muove dal presupposto che l'uso degli psicofarmaci, la cui validità non viene contestata, debba associarsi a cambiamenti radicali del regime di vita manicomiale. La definitiva messa al bando degli strumenti di contenzione e dell'elettroshock, l'intervento sulle crisi fondate sui colloqui e sul tentativo di capire i bisogni dei pazienti, l'apertura dei padiglioni, la pratica assembleare, l'avvio di attività lavorative e ludiche in comune realizzano, di fatto, una trasformazione profonda del manicomio. Nel corso di questa trasformazione ci s'imbatte in un problema gravido di conseguenze.

Il manicomio può essere umanizzato, ma, nonostante lo sforzo degli operatori, la sua natura di istituzione totale impedisce alla malattia di apparire quale essa è: un'esperienza di vita che, per essere alleviata, richiede l'interazione e l'aiuto sociale. La logica istituzionale non comporta solo un relativo isolamento dei pazienti rispetto al tessuto sociale ove si è originato il disagio, ma anche la persistenza, nel corpo sociale, di un atteggiamento pregiudiziale che fa riferimento al fantasma della follia. Nell'istituzione riformata, peraltro, persistono degli aspetti, connaturati alla sua origine e alla sua storia, che incidono dando luogo a regressioni nei pazienti e negli operatori. Affiora, sia pure lentamente, la consapevolezza che la stagione manicomiale debba essere definitivamente chiusa e che l'assistenza psichiatrica possa realizzarsi in maniera più efficace sul territorio. Sono queste le premesse a partire dalle quali maturerà la legge 180.

Auspice un clima ideologico favorevole, la lotta antistituzionale si diffonde in tutta Italia e raggiunge, oltre che a Gorizia e a Trieste, ove si è spostato Basaglia, risultati rilevanti ad Arezzo, a Perugia, a Napoli, in Liguria e in Emilia Romagna. Il movimento si organizza e si raccoglie nell'associazione Psichiatria Democratica. I convegni sono animatissimi. Si definiscono due diverse tendenze. Una, fedele alla linea di Basaglia, punta ad investire tutte le risorse nella pratica terapeutica territoriale in maniera tale da promuovere quasi spontaneamente una nuova cultura sul disagio psichico. A tale fine, la necessità di un'organizzazione paradigmatica del sapere che sta maturando viene ad essere subordinata alla prassi, il cui intento ultimo è di mirare a far sì che i malati convivano nel modo migliore con la loro malattia e i sani, condividendola, scoprano quanto essa è espressiva delle loro stesse contraddizioni. Un'altra linea, assolutamente minoritaria, ritiene invece necessario contrapporre al modello psichiatrico un nuovo modello teorico, e propone di integrare in esso conoscenze psicodinamiche indispensabili a raggiungere risultati terapeutici più incisivi.

L'avvento della legge 180 taglia la testa al toro. L'entusiasmo per un risultato storico che pone l'Italia all'avanguardia nel perseguire nuove forme di assistenza psichiatrica sollecita a mettere da parte le cautele. Si tratta di impegnarsi a tutto campo per tentare di realizzare al meglio il dettato e ancora più lo spirito della legge. L'impegno territoriale di fatto è massiccio in quasi tutte le regioni d'Italia. Nessuno però ha fatto i conti con le capacità trasformistiche degli psichiatri tradizionali, che fanno buon viso a cattivo gioco. Tutti si dichiarano d'accordo, in linea di massima, con la legge, ma il loro operato si traduce in un continuo, sottile boicottaggio. Non s'interviene a domicilio nei casi urgenti per non violare la privacy dei pazienti, si sobillano i familiari, si riducono al minimo i ricoveri, si accettano le resistenze opposte dai soggetti alle terapie farmacologiche. Si finisce così con il convincere l'opinione pubblica che la 180 è una splendida utopia che, di fatto, non assicura né ai pazienti un livello adeguato di cure né alle famiglie e alla società una tutela contro i pericoli della malattia mentale.

4.

Le urgenze della pratica territoriale fanno passare in secondo ordine le esigenze di una nuova teorizzazione dei fenomeni psicopatologici. Il movimento, che si raccoglie intorno a Psichiatria Democratica, dà per scontato che i principi ricavati dall'esperienza istituzionale possano bastare di per sé a dare luogo ad una psichiatria alternativa. Di fatto, avviene qualcosa di diverso. E' fuor di dubbio che quei principi promuovano un atteggiamento di rispetto nei confronti dei pazienti e ( non sempre) delle loro famiglie, come pure un'attenzione viva a bisogni primari (di sussistenza, di partecipazione sociale) che danno luogo ad iniziative molto significative. Si avvia la pratica dei sussidi, si aprono centri diurni, si realizzano progetti di formazione e di inserimento professionale, si costituiscono cooperative di pazienti. Il problema però è che, sul territorio, la domanda di interventi terapeutici e sociali cresce di continuo, in parte perché le strutture pubbliche, funzionando meglio che in passato, attirano la domanda; in parte perché la diffusione epidemiologica del disagio psichico aumenta di anno in anno. Lo scarto tra domanda e offerta di cura impone un investimento selettivo delle risorse terapeutiche. La selezione è imposta dai fatti. I servizi pubblici devono, di necessità, farsi carico dei problemi psichiatrici più gravi: le psicosi, i disagi giovanili border-line che rischiano di esitare in una psicosi e le nuove e gravi patologie adolescenziali (in particolare l'anoressia).

Nonostante questa selezione, lo scarto tra domanda e offerta di cura è destinato inesorabilmente a riproporsi. La schizofrenia in particolare pone problemi che, in prospettiva, appaiono insolubili. Essa colpisce l'un per cento della popolazione e ha un esordio giovanile. L'evoluzione spontanea o terapeutica verso la guarigione è relativamente rara (uno su quattro). I tre quarti dei pazienti rimangono in carico al servizio. In pochi anni, questo carico, che cresce di anno in anno, diventa esorbitante e le risposte terapeutiche approssimative. Occorre per forza di cose ricorrere sempre più spesso agli psicofarmaci. La psichiatria alternativa che, ai suoi esordi, pretendeva di porre in crisi la coscienza sociale per fare affiorare le contraddizioni da cui si originano i disagi psichici, è costretta a ripiegare sulla gestione dei malati gravi e ad accettare la delega sociale del controllo.

Qualcuno impietosamente ha detto che la cosiddetta psichiatria alternativa ha perduto per via la sua carica rivoluzionaria e si sta arrendendo al contenimento e al controllo farmacologico dei pazienti. Non è del tutto vero. Purtroppo, c'è del vero. Lo scarto tra i principi antistituzionali e la pratica terapeutica è rilevante. Basta recarsi in un qualunque centro psichiatrico di diagnosi e cura ospedaliero o quantificare statisticamente l'uso degli psicofarmaci dei servizi gestiti da psichiatri alternativi per rendersene conto.

La verità è che, in assenza di un progetto di prevenzione e di una teoria del disagio psichico che, rispettivamente, faccia diminuire la "produzione" sociale del disagio e aumenti l'incidenza terapeutica, il progetto di una psichiatria alternativa è votata allo scacco dall'entità sociale stessa dei problemi psichiatrici. A quest'aspetto, che, a posteriori, porta a giudicare come perdente la scelta del movimento antistituzionale di troncare le sue radici antipsichiatriche per dimostrare, nella pratica, la possibilità di una buona psichiatria, occorre aggiungere altri fattori. L'Accademia è rimasta colonizzata da "baroni" il cui orientamento organicistico è evidente. Le scuole di specializzazione in psichiatria provvedono una formazione mediocre, incentrata sulla diagnosi e sulle cure farmacologiche. Nei servizi alternativi una quota rilevante di psichiatri porta un livello di competenze che è del tutto inadeguato ai fini di una nuova pratica assistenziale. E, purtroppo, il potere medico rimane assolutamente determinante nella gestione del disagio psichico.

Lo stato di cose esistente dovrebbe portare a capire che la necessità di superare la psichiatria in nome di una nuova scienza del disagio psichico rinnovata nei suoi fondamenti è urgente e assoluta. Ma ciò che era forse possibile nella temperie degli anni '70, si pone oggi come un'impresa improba per quanto non eludibile.

Nel frattempo, infatti, è avvenuto quello che era temibile e prevedibile. A partire dalla metà degli anni '80 del '900, la psichiatria tradizionale si è riorganizzata. Facendo leva sulle ricerche neurobiologiche, che interpreta a senso unico, essa rivendica la fondatezza del presupposto fondamentale della psichiatria del passato: essere la malattia mentale una patologia cerebrale. Non solo questo presupposto viene ribadito, associato al fatto che la scienza lo avrebbe inconfutabilmente confermato. Esso viene addirittura esteso anche ai disturbi che in passato si ritenevano nevrotici, vale a dire almeno prevalentemente psicogeni: l'ansia e la depressione. La neopsichiatria si avvale di una formidabile sponsorizzazione da parte delle industrie farmaceutiche, utilizzando la quale essa si rivolge all'opinione pubblica per irretirla ideologicamente. Su questo fronte - del rapporto con l'opinione pubblica -, la psichiatria alternativa è praticamente sprovveduta.

L'attacco della neopsichiatria, avviatosi negli Stati Uniti, trova un terreno fertile nei cambiamenti socioculturali e politici che avvengono a partire dalla metà degli anni '80. Il trionfo del liberismo coincide con il rilancio della concezione per cui l'individuo è causa sui. In conseguenza di questo principio, i discorsi sulla devianza sociale degli anni '70, che miravano a stigmatizzare le responsabilità del sistema sociale vengono accantonate come residui di marxismo. La neopsichiatria usa questo cambiamento ideologico in maniera spregiudicata. Per quanto riguarda la devianza psichiatrica - essa sostiene - non c'entra la società, come non c'entra la famiglia e neppure l'individuo. La malattia mentale riconosce univocamente una predisposizione genetica che gli eventi della vita valgono solo a mettere in luce, a slatentizzare. Questo messaggio rappresenta un balsamo per i politici, le famiglie e i pazienti stessi. Il colpevole del male oscuro è finalmente stato identificato: è la natura che le cose non le ha fatte a puntino. Il verbo neopsichiatrico è ormai divenuto un luogo comune. In suo nome si procede verso un futuro che comporta una soluzione radicale: l'ingegneria genetica.

La gente comune non si rende conto del pericolo che incombe. Oppressa da un disagio psichico che cresce di continuo, ed è in pratica rappresentato in ogni famiglia, rimane affascinata dalla promessa di una guarigione per via farmacologica, che la pone al riparo dal mettere in discussione i livelli di coscienza, i valori in cui crede, i ruoli che agisce, l'organizzazione del sistema familiare, l'assetto della società e della cultura. La neopsichiatria è figlia ed espressione di un mondo antropologicamente mediocre, al quale offre un potente aiuto sulla via della mistificazione.

Il momento storico non è dunque felice. Ma questo non è un motivo sufficiente per esitare. Non ne va solo della salute mentale. E' in gioco, né più né meno, un salto di qualità antropologico e culturale che le scienze umane e sociali preparano dai loro esordi. Il problema è realizzarlo.