Il significato funzionale dei sintomi psicopatologici (parte 5)

1.

Dopo avere illustrato le strutture della personalità (Io, Super-Io e Io antitetico) e accennato al modo in cui i conflitti psicodinamici incidono nell’organizzazione dell’Io conscio e inconscio, è giusto chiedersi che cosa tale modello implichi e quali conseguenze possa avere sul piano psicopatologico.

Gli articoli precedenti sul significato funzionale dei sintomi psicopatologici, dovrebbero già avere suggerito qualcosa a riguardo, ma si tratta, giunti a questo punto, di operare una riflessione di ordine generale.

Le due conseguenze immediate, ed epistemologicamente più rilevanti, del modello in questione (struttural-dialettico) riguardano il concetto di malattia mentale e il rapporto tra l’Io e l’inconscio.

Se i sintomi psicopatologici sono sempre e comunque decifrabili in termini psicodinamici, la concezione di malattia riferita al cervello non ha senso alcuno. Come sostenevano gli antipsichiatri degli anni ’70, di cui, per alcuni aspetti, mi considero erede, essa è null’altro che un’etichetta sovrapposta ad una realtà esperienziale che ha sempre e comunque senso. Per convalidare la pertinenza del concetto di malattia, occorrerebbe ammettere che la disfunzione di un organo sia in grado di produrre contenuti psichici significativi.

Qualcuno ha provato a farlo. Uno psichiatra francese, Henry Ey, scomparso da tempo, nel pieno della contestazione antipsichiatrica, cercò di salvare capra e cavoli — la tradizione psichiatrica e i nuovi punti di vista affiorati con la psicoanalisi e la psicodinamica — costruendo una teoria (denominata organo-funzionalista) che ammetteva la malattia come fatto primario che dava luogo ad una ristrutturazione significativa dell’esperienza del soggetto di natura psicodinamica. Detto in parole povere, posto che solo un cervello malato può produrre un fenomeno allucinatorio, che invade il campo della coscienza normale e lo destruttura, l’Io cosciente non può non tentare di integrare quel fenomeno vissuto in una nuova visione del mondo che dia ad esso senso. Costruisce, insomma, una teoria comprensibile, per quanto del tutto avulsa dalla realtà, sulla base di un sintomo che non può subire passivamente.

In questa ottica, la destrutturazione della coscienza sarebbe l’espressione della malattia cerebrale, la sua ristrutturazione della necessità del soggetto di dare comunque seso alla sua esperienza.

Che cos’è che non va nella teoria organo-funzionalista, che, comunque, a posteriori, appare infinitamente più dignitosa del banale riduzionismo neopsichiatrico corrente? In breve: essa confonde due diversi livelli di esperienza: quello inconscio, laddove si dà la produzione di messaggi significativi dello stato di attivazione di un conflitto psicodinamico, e quello cosciente, laddove la ricezione di tali messaggi dà luogo alla produzione di sintomi.

Per rendere comprensibile questo assunto, senza inoltrarsi in considerazioni teoriche piuttosto complicate, che saranno riprese ulteriormente, non c’è nulla di meglio che procedere sulla base dell’analisi di un’esperienza psicopatologica concreta.

Si tratta di un giovane che, quando mi ha consultato, era stato già etichettato come affetto da una sindrome paranoica e trattato con neurolettici. Nonostante le cure, scrupolosissimamente seguite, gli episodi paranoici continuavano a ripetersi. La psichiatra che lo aveva in cura aveva comunicato ai parenti che non si poteva escludere una strutturazione della paranoia, la cui conseguenza sarebbe stata catastrofica: l’abbandono del lavoro e il ritiro nell’isolamento. Essa dunque aveva sollecitato i parenti a dire quotidianamente al paziente che le sue paure erano prive di fondamento.

2.

M. è un giovane di 26 anni, che non ha avuto apparentemente problemi fino alla fine dell’Università frequentata con grande impegno. La sua evoluzione, che avviene sulla base di un orientamento introverso, è lineare. Già a sei anni, di fatto, M. è un "ometto" giudizioso, responsabile, irreprensibile. A scuola è uno studente modello, apprezzato dagli insegnanti e dai familiari. Studia con estrema concentrazione, ma non è un secchione. Per il suo buon carattere, riservato ma non chiuso, ha rapporti sereni con i coetanei, pratica sport, partecipa alle feste, ecc. Certo, come accade a tutti i ragazzi ipernormali, è un po’ timido, formale e "legnoso", ma, nel complesso, è contento di essere come è e si sente gratificato dai risultati sociali del suo modo di essere.

La famiglia di M. è una famiglia semplice, tradizionalista, un po’ fuori del tempo per la sostanziale ingenuità dei suoi membri, ma affettivamente positiva. Non sembra che i suoi abbiano investito M. di particolari aspettative. Certo, desiderano un figlio normale, abbastanza docile, rispettoso nei confronti delle autorità e che vada bene a scuola. M. è un bambino particolarmente sensibile: si fa carico di queste aspettative traducendole in un obbligo assoluto e sviluppando precocemente un senso del dovere rigoroso. Egli cresce senza mai dare problemi, attraversando un’adolescenza serena, ingabbiato senza saperlo in una forma estrema di perfezionismo efficientista.

L’esperienza universitaria è un passaggio decisivo. Conscio dei sacrifici che i suoi affrontano per mantenerlo agli studi, M. s’impone di rispettare i tempi canonici. L’informatica gli piace, ma il corso è molto duro. Per non perdere tempo, egli si isola per alcuni anni nello studio e si concede, come unica distrazione, lo sport.

Laureato in informatica a pieni voti, comincia a lavorare come dipendente di una società. Com’è suo costume, si applica coscienziosamente al lavoro ma, nonostante la sua preparazione, data la scarsa esperienza, non è molto sicuro di sé. L’attività alla quale si dedica è piuttosto impegnativa e, riguardando un software commissionato dall’Esercito, comporta una certa riservatezza: è in gioco, insomma, il segreto militare. Questa circostanza rende M. notevolmente ansioso. Egli non dubita della sua capacità di non parlare a nessuno del lavoro che sta eseguendo. Comincia però ugualmente a temere di poter commettere qualche errore o, involontariamente, di rivelare a qualcuno qualcosa che dovrebbe rimanere segreto.

Dopo alcuni mesi di lavoro, si affacciano i primi disturbi. M. comincia a sperimentare la strana sensazione che il suo spazio mentale non sia sufficientemente tutelato. Non è una condizione di trasparenza, bensì di vulnerabilità mentale. Insomma, è come se le persone potessero entrare facilmente nel suo spazio mentale e carpire delle informazioni. Questo vissuto è spiacevole in sé e per sé, perché viola la privacy a cui M. ha sempre tenuto. Egli sente che la violazione potrebbe giungere a carpire i segreti militari di cui è depositario, che sono in realtà ben poca cosa. Sono altri i segreti che egli teme possano venire a conoscenza degli altri. Nella sua vita specchiata, c’è una sola ombra che riguarda il passato: alcuni ingenui giochi erotici con dei coetanei, rimasti connotati nella sua memoria come colpe imperdonabili. M. vive nel terrore che questa "macchia" possa diventare di dominio pubblico.

Che cosa sta accadendo? M. è un dipendente perfetto. Il suo rendimento è tale che i datori di lavoro aumentano il suo stipendio due volte in pochi mesi. La circostanza è inconsueta nell’ambiente informatico. Per un verso, egli ne è gratificato. La sua vita in fondo è tutta dedicata al lavoro. Per un altro verso, la cosa gli pone non pochi problemi. I suoi colleghi ovviamente non sanno nulla dell’aumento di stipendio, ma, oltre ad essere infastiditi dal comportamento globale di M., che è quello tipico del primo della classe che non dà confidenza ed appare un "lecchino" nei confronti dell’autorità, qualcosa intuiscono. Ad un certo punto — pare — uno di loro viene a sapere dell’aumento accordato a M. da parte di un impiegato dell’Ufficio personale, L’invidia e l’ostilità che egli avverte da parte dei colleghi ha un fondo di realtà. Per la prima volta, nella sua vita cosciente, che è andata avanti nell’assoluta certezza che chi fa il proprio dovere, oltre ad avere la coscienza tranquilla, ne è ripagato socialmente, M. sperimenta coscientemente una situazione di conflitto ambientale.

Il problema è che egli, come accade spesso ai perfezionisti, ha un senso della giustizia che è nello stesso tempo ugualitaristico e meritocratico. Il perfezionismo lo spinge a competere e ad eccellere, nonostante la sua sostanziale modestia che lo porta a pensare di non valere quanto vale. Il sentire di "passare sopra" gli altri, di umiliarli, lo fa sentire in colpa. E’ il senso di colpa che permette di comprendere la paura di essere smascherato nel suo segreto. Lo smascheramento ristabilirebbe infatti gli equlibri con gli altri, ponendolo in una situazione di inferiorità. La scoperta della "macchia", insomma, annullerebbe la superiorità che egli ha conseguito.

E’ scattata insomma una trappola potenzialmente sempre attiva nei perfezionisti. Perennemente insicuri del loro valore, essi sono indotti a dare il massimo di sé e a diventare estremamente competitivi. Il loro incubo è di non essere inadeguati, inferiori agli altri. Nella misura in cui si danno da fare, però, si rendono conto che le loro prestazioni diventano umilianti per gli altri, e si sentono in colpa. Oscillano insomma tra l’ossessione di primeggiare, per non sentirsi inetti e esposti al pericolo di essere disconfermati o rimproverati dall’autorità, e la paura di ferire gli altri, ponendoli di fronte ai lmti delle loro prestazioni. Si tratta di una trappola micidiale, perché quell’ossessione non può essere regolata e il senso di colpa non può essere elaborato.

Di fatto, M. non riesce a frenare in alcun modo il perfezionismo. Egli incrementa i suoi ritmi lavorativi, non concedendosi tregua né giorno né notte. Uscito dal lavoro, continua a ruminare su ciò che dovrà fare il giorno seguente. Insomma, non stacca la spina, entra nella spirale dello stress e comincia a soffrire. L’attività lavorativa diventa un incubo, e, in conseguenza del vissuto di vulnerabilità mentale, si definisce una situazione di ansia fuori controllo. M. attribuisce l’ansia soprattutto al segreto militare da serbare. In conseguenza di questo, decide di cambiare società. La situazione apparentemente migliora, ma l’orientamento perfezionistico rimane ovviamente tale e quale.

Le richieste della nuova società sono esigenti come quelle della prima. M. non ha difese e comincia a sentirsi nuovamente stressato. Egli prende a guardarsi in giro, sull’autobus, per strada, e a chiedersi perché tanta gente, almeno apparentemente è tranquilla e sembra godersi la vita. Gli viene in mente una sola risposta — l’unica che un perfezionista può dare: sono irresponsabili. Nel suo intimo, li invidia non meno di quanto li disprezzi. Cade insomma nella trappola, comune ai perfezionisti, di pensare che tutti, se avessero il senso della responsabilità, dovrebbero vivere come loro, e che, se questo non accade, è un ingiustizia e, per quanto riguarda gli altri, una colpa.

M. ha sempre coltivato come un valore sacro il rispetto degli altri. Lo stress lavorativo, però, smaschera dei vissuti molto profondi. Gran parte dei perfezionisti sono, consciamente o inconsciamente, ipercritici nei confronti degli altri: tendenzialmente intolleranti di ogni debolezza, di ogni errore, di ogni inadempienza. M. non ha mai avuto alcuna percezione cosciente del suo essere ipercritico. Quest’aspetto gli viene restituito da fantasie "parassitarie" che cominciano a passare per la sua mente e che egli non riconosce come prodotte dall’io. Per esempio, in presenza di una persona grassa, egli sente che nella sua mente si attivano giudizi come "ciccione", "budellone" e via dicendo.

Dopo alcuni mesi, cominciano a comparire nell’orizzonte della sua coscienza strani fenomeni. Un giorno di domenica, mentre passeggia solitario in un parco, avverte che le persone esprimono implicitamente nei suoi confronti un giudizio negativo, chiaramente mirato ad allontanarlo. Egli non si rende conto del significato di questo atteggiamento pregiudiziale. Nei giorni seguenti, il fenomeno si ripete sull’autobus e per strada, mentre egli va e torna dal lavoro. Lentamente, il giudizio negativo prende forma. M. comincia a sentire distintamente, anche se le persone hanno la bocca chiusa, delle voci ingiurose. L’ingiuria che più lo colpisce è l’accusa di essere un omosessuale, un cretino, ecc. Sullo sfondo, c’è anche il riferimento all’essere inaffidabile, in qualche misura poco onesto.

M. insomma è giunto a sentire le voci.

Sopravviene, in una condizione di stress, la meritata vacanza. M. va al mare con i suoi. L’esperienza è però drammatica. Sono i vicini ad ingiuriarlo con termini irripetibili. Si rifugia in casa e praticamente rimane tappato in camera per un mese.

Il precipitare della situazione è facile da spiegare. Per un verso, assoggettandosi completamente alle aspettative e al volere dei capi, che egli amplifica nel suo intimo, M. si sente inconsciamente un debole, un inetto, un servo. Per un altro verso, l’atteggiamento ipercritico e sprezzante nei confronti degli altri lo fa sentire cattivo. Le proiezioni allucinatorie condensano l’attività di un Io antitetico che, coscientemente, non si è mai espresso e le valenze di un Super-io che impone un rispetto assoluto degli altri.

Il ritorno al lavoro è contrassegnato da un altro cambiamento. M. si ritrova a lavorare di nuovo su di un software per l’Esercito. Ha paura, ovviamente, ricordando l’esperienza precedente, ma, non avendo alternative, si piega alla necessità.

L’ossessione di rivelare il segreto militare, naturalmente, si ripropone, ma è tenuta a freno finché non si realizza un incidente. Il computer portatile sul quale M. lavora comincia a funzionare male. Occorre portarlo all’assistenza. M. deve solo provvedere ad eliminare un cartella nella quale ci sono dati riservati. Egli lo fa, ma, la notte stessa, dopo aver consegnato il computer al tecnico, è preda del dubbio di non averlo fatto. Comincia a tormentarsi sulle conseguenze di questa presunta inadempienza, che potrebbero risultare gravi. Il dubbio è corroborato da un cambiamento dei colleghi e dei capi nei suoi confronti. Nell’ambiente di lavoro, M. sente animarsi i rimproveri e le accuse più varie e infamanti. Qualcuno gli dà della bestia, qualcun altro addirittura dell’assassino.

Nel suo intimo, M. si ribella, ma è preda del dubbio che possano avere ragione. A distanza di qualche giorno, un parente del suo superiore subisce un incidente stradale e perde la vita. M. comincia a sentire che l’accaduto lo riguarda. L’incidente è, nella sua interpretazione, un omicidio eseguito, da parte di servizi segreti, per punire la società presso la quale lavora. Il colpevole, però, è lui. L’angoscia diventa infinita. M. pensa di dimettersi e di rifugiarsi in casa, dato che è chiaro che, nell’ambiente di lavoro, tutti, sapendo della sua colpevolezza e continuando ad accusarlo, non vedono l’ora di liberarsi di lui.

Si realizza poi una circostanza che lo tranquillizza. Avvertendo l’ostilità dell’ambiente nei suoi confronti, M. dà per scontato che, alla scadenza del contratto, egli sarà "scacciato" dalla società presso cui lavora. Il contratto invece viene rinnovato, e il rinnovo si associa ad alcuni cauti elogi che gli vengono rivolti.

Da questo momento in poi, l’esperienza di M. segue una parabola sterotipica.

Quando gli viene assegnato un nuovo compito, egli, non riuscendo a prendere coscienza del suo valore professionale, vive nell’ansia di non risultare adeguato e di fare una brutta figura. L’unico modo per difendersi da questa ansia è darsi da fare il più possibile per assolvere il compito assegnato. Ciò significa che nell’ambiente di lavoro egli si isola e non si distacca neppure un minuto dal computer, ignorando i colleghi. Anche al di fuori dell’oraro di lavoro, egli, però, non riesce a "staccare" la spina. Pensa ai problemi da risolvere giorno e notte. Affiorano, in conseguenza di questo regime di vita, totalmente coercito, la stanchezza e il "nervosismo".

I risultati di questo strenuo impegno sono naturalmente eccellenti, ma troppo al di sopra della media del gruppo di lavoro. Questo determina due conseguenze piuttosto serie. Per un verso, il colleghi si irrigidiscono e si inaspriscono nei confronti di M., identificandolo come un servo dei padroni e un presuntuoso primo della classe. Per un altro verso, i datori di lavoro, ben contenti di ritrovarsi per le mani la classica gallina dalle uova d’oro, gli danno di continuo altri compiti da svolgere: in pratica, non gli lasciano respiro.

La somma di queste due circostanze è micidiale. Senza rendersene conto, poiché non ha mai avuto alcuna frequentazione con le emozioni negative, M., registrando l’ostilità dei colleghi, si arrabbia perché non riesce a giustificarla, e, a partire da essa, è spinto a pensare ad un complotto. Allo stesso tempo, egli si arrabbia, sempre inconsciamente, con i datori di lavoro, che lo sfruttano e mantengono attivi i suoi livelli di ansia e di stress.

Nerll’assoluta inconsapevolezza di ciò che accade nel suo spazio interiore, M. imbocca la via del delirio persecutorio. Attraverso questo, però, la sua mente risolve il problema di fondo come può. L’effetto del delirio, infatti, associato ad una straordinaria stanchezza e ad una perdita di interesse per il lavoro, è di ridurre le sue prestazioni, di obbligarlo a rallentare i ritmi lavorativi e a darsi una pausa. Dato il suo rendimento eccellente, i datori di lavoro chiudono un occhio su queste fasi di "stanca". I colleghi di lavoro colgono la sua sofferenza e si umanizzano.

Il prezzo che M. paga, però, per recuperare un certo equilibrio è di dovere slittare sul terreno del delirio persecutorio, con il rischio di agire la fantasia che gli attraversa la mente nei momenti di più acuta sofferenza: abbandonare il lavoro e chiudersi per sempre in casa.

3.

Sentendo parlare un giovane, peraltro intelligente, di voci che lo ingiurano e di persone che gli vogliono male e stanno complottando a suo danno, per portarlo in tribunale o addirittura per ucciderlo; vedendolo in uno stato di grave agitazione quando dice queste cose, e leggendo nei suoi occhi, impietriti dalla paura e animati ogni tanto da una fiammata di rabbia, lo smarrimento, associato ad una convinzione di assoluta verità, l’uomo della strada non avrebbe difficoltà a fare una diagnosi psichiatrica, a dichiararlo insomma folle.

I neopsichiatri non si comportano diversamente. Se ciò che il soggetto dice non è in alcun modo verosimile alla luce del senso comune e, soprattutto, se egli sente delle voci chiaramente allucinatorie, essi danno per scontato che ciò dipenda e non possa dipendere che da un disturbo del cervello.

Altrove ho scritto che, adottando un codice interpretativo psicodinamico, e in particolare il codice messo a fuoco nell’ambito del modello struttural-dialettico, di fronte ad una situazione del genere, si giunge a tutt’altra conclusione. Si giunge, né più né meno, a pensare che il cervello di fatto non ammala mai, fa il suo mestiere, che consiste nell’affrontare e tentare di risolvere i problemi in cui l’individuo si imbatte. La "malattia" consiste nel fatto che, non essendo consapevole dei problemi in questione, nonostante l’inconscio lanci dei messsaggi che sono sempre poco equivocabili, il soggetto vive quei messaggi come sintomi e, nel tentativo di dare ad essi senso, imbocca la via della psicopatologia.

Il problema fondamentale di M. è di essere rimasto ingabbiato in un rigido perfezionismo, incentrato su di un senso del dovere rigorosissimo e implacabile, che, funzionale a qualificarlo nel periodo scolastico come un alunno e un figlio-modello, si è incrementato via via che egli ha affrontato impegni più rilevanti, fino ad avere raggiunto il suo acme con l’avvio dell’esperienza lavorativa.

Il perfezionismo, come noto, implica una Super-Io molto esigente, che richiede al soggetto prestazioni sempre maggiori e mantiene nel suo intimo uno stato di insoddisfazione e di insicurezza perenne, sulla base della formula per cui egli avrebbe docuto o potuto fare di più di ciò che ha fatto. Si tratta dunque di un regime di schiavitù interiore al quale M. si è adattato in virtù di un’ideologia di vita incentrata sull’adempimento scruploso dei propri doveri e su di un bisogno di primeggiare che, nel corso del tempo, si è esasperato per compensare il vuoto della sua vita, priva di relazioni sociali autentiche, di affetti, di interessi.

La totale connivenza dell’Io cosciente con il Super-Io ha fatto sì che M. si sia sentito assolutamente normale, nonostante che, dal momento in cui ha intrapreso l’università, la sua vita si sia ridotta univocamente a studiare ossessivamente. L’equilibrio si è mantenuto per tutto il periodo universitario per un motivo molto semplice. I doveri universitari, specie in riferimento ad una facoltà scientifica, sono oggettivamente quantificabili. In pratica, M. per ogni esame, pur non essendo mai del tutto soddisfatto, giungeva al punto di avere la coscienza tranquilla perché aveva letto scrupolosamente tutti i testi.

Con l’avvio del lavoro, l’equilibrio è venuto meno perché la somma delle richieste esterne e di quelle interne (entrambe sempre massimali) ha finito con il configurare un’esperienza perennemente affannosa, logorante, sottesa dalla paura di non essere all’altezza, di fallire e di fare una brutta figura. M. è venuto per ciò a trovarsi, agli occhi dei colleghi, nel ruolo dello stakanovista antipatico e odioso. Egli ha registrato questa ostilità, ma senza potersene dare una ragione perché il suo strenuo impegno era rivolto ad arginare quella paura, non ad umiliare i colleghi.

Allo stesso tempo, vista l’apparente facilità con cui svolge i compiti assegnati, le richieste da parte dei capi sono aumentate di continuo. La fatica e il "nervosismo" sono stati i messaggi lanciati dall’inconscio per segnalare la mostruosa "sregolatezza" del perfezionismo. Non potendo interpretarli, M. ha reagito alla stanchezza, che minaccia il suo rendimento, con la strategia consueta dei perfezionisti: incrementando i ritmi di lavoro.

Via via che ciò accade, egli si arrabbia nel suo intimo per lo sfruttamento cui è sottoposto, per la straordinaria durezza del vivere e per l’ingiusta ostilità dei colleghi nei suoi confronti. Più si arrabbia, naturalmente, più si sente in colpa, e la percezione proiettiva di essere minacciato e perseguitato aumenta.

Il voler decifrare le minacce e il doversi difendere da esse alla fine realizzava l’effetto di inibizione dell’attività lavorativa, che l’inconscio aveva cercato di promuovere attraverso la stanchezza e il nervosismo.

4.

Nella sua trasparenza strutturale, che vede l’Io alleato con un Super-Io "calvinista" accettare, giustificare e subire un regime di schiavitù interiore, e l’Io antitetico rivendicare una libertà del tutto frustrata, la storia di M. è esemplare.

Si può rimanere sconcertati per il fatto che sulla base di un conflitto facilmente risovibile a tavolino si organizzi un’esperienza che giunge al delirio persecutorio. Il problema è che le potenzialità dinamiche di un conflitto dipendono dalla consapevolezza che il soggetto ne ha e, in difetto di questa, dalle strategie che l’Io pone in essere allorché avverte i primi sintomi di disagio. Nel caso in questione, è chiaro che tali strategie hanno funzionato come rimedi peggiori del male, attivando ulteriormente il conflitto e rendendolo autoperpetuantesi, a circolo vizioso.

Un cervello nel quale si definisce una scissione dinamica del genere di quella analizzata non ammala: fa il suo mestiere, tenta di rendere compatibili due "programmi" incompatibili tra loro, e alla fine la soluzione la trova nel bloccare il rendimento di M., nel metterlo in sciopero. Di più non può fare. Il resto, vale a dire trovare una soluzione dialettica, spetta al soggetto e a chi lo aiuta.


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