Il significato funzionale dei sintomi psicopatologici (parte 6)

1.

La neopsichiatria continua a considerare la schizofrenia univocamente come una malattia del cervello di origine genetica (anche se ammette l’incidenza nella sua genesi e nella sua evoluzione di fattori ambientali e psicosociali), il cui trattamento primario si fonda sull’uso degli psicofarmaci, e in particolare nei neurolettici di prima e di seconda generazione.

Ho già espresso, in un saggio (Miseria della neopsichiatria) e in vari articoli il mio completo disaccordo su questa impostazione, che ritengo sostanzialmente iatrogenetica, vale a dire responsabile in molti casi dell’evoluzione di una sindrome originariamente psicogenetica o – se si vuole – psicosomatica in una vera e propria malattia mentale, caratterizzata da un grado più o meno rilevante di invalidazione personale e sociale.

Illustro sinteticamente i motivi su cui si fonda questo disaccordo.

A livello adolescenziale e giovanile, dai 15 ai 25 anni, può avvenire che un ragazzo manifesti repentinamente o in forma strisciante una sintomatologia che attesta un’esperienza psicotica, vale a dire un disagio psichico particolarmente grave che lo porta fuori dalla realtà, lacera il tessuto di significati sociali sino allora condivisi, rendendolo incapace di comunicare adeguatamente, disorganizza in forma più o meno grave i suoi comportamenti, ne induce la chiusura rispetto all’ambiente, isolandolo in un suo mondo, spesso caratterizzato da fenomeni allucinatori, e “costringendolo” a fornire e costruire interpretazioni di quanto  accaduto bizzarre, poco o punto verosimili, talora del tutto assurde: in breve, a delirare.

Evenienze di questo genere sono dati di fatto a tal punto inconfutabili che neppure l’antipsichiatra più radicale (come, per esempio, D. Cooper) le ha mai negate.

Il problema verte sull’interpretazione che si fornisce di esse.

Anche la neopsichiatria riconosce che non tutte queste esperienze  debbano essere fatte rientrare d’embleé nella schizofrenia. Alcuni episodi psicotici, per effetto delle cure, si risolvono dopo poche settimane e, in numero non insignificante di casi (il 20%), non si ripresentano più. Essendo all’origine questi casi indistinguibili dagli altri che, invece, evolvono o recidivano, la circostanza dovrebbe fare venire il dubbio che la differenza tra essi sia riconducibile a variabili che non possono essere biologiche.

Anziché alla logica, la neopsichiatria si appella invece al piano empirico della clinica. Se i sintomi scompaiono, il giudizio diagnostico, che implica una possibile schizofrenia, viene rimandato di sei mesi: intervallo di tempo che viene ritenuto necessario per discriminare, in assenza di una recidiva, tra episodio psicotico semplice e schizofrenia. Se essi persistono o se, entro sei mesi, si realizza una recidiva, la diagnosi di schizofrenia è certa.

Sulla carta, rendendosi conto (forse) che tale diagnosi equivale a quella di un cancro psichico, la neopsichiatria è estremamente cauta. Per arrivare alla certezza diagnostica, essa si riconduce ai criteri piuttosto rigorosi del DSM-IV.

Nella realtà, le cose vanno diversamente. In conseguenza di qualunque episodio psicotico, per mettersi al riparo da un eventuale errore, i neopsichiatri avanzano il sospetto di un “principio” di schizofrenia, riservando di sciogliere la “prognosi” entro i fatidici sei mesi. Naturalmente la sciolgono con qualche riserva solo in assenza di sintomi e di recidiva.

Posta la diagnosi, si avvia il trattamento farmacologico con neurolettici. Per alcuni mesi, si dice di solito ai pazienti che hanno rapidamente effetti collaterali. Per sempre, si dice ai parenti, trattandosi di una malattia irreversibile e cronica la cui evoluzione le medicine tenteranno di arginare.

Il problema è che la malattia irreversibile e cronica, almeno entro tre anni dall’esordio del primo episodio, non esiste. Essa sopravviene proprio in conseguenza delle cure farmacologiche che, anche se talora ristabiliscono una situazione apparente omologabile a quella preesistente la crisi, in realtà decapitano i sintomi, ma stendendo una sorta di velo anestetico tra la coscienza e il suo mondo interiore, laddove si danno i conflitti che hanno innescato la crisi stessa.

Dato che i conflitti, nell’ottica della teoria struttural-dialettica, fanno riferimento a problemi inerenti il rapporto tra l’io e il mondo da risolvere, il loro rimanere al di fuori della coscienza non li inattiva. Essi insomma continuano a scorrere e spesso si organizzano sotto forma di circoli viziosi dinamici.

L’accumulo delle cariche conflittuali nel corso del tempo spiega il fatto che le crisi che sopravvengono sono sempre se non addirittura più gravi rispetto alla prima, più destrutturanti e incisive. In breve, esse lasciano il segno e avviano la lenta e progressiva disgregazione della personalità, che, infine, può esitare in una condizione irreversibile.

Ci si può chiedere naturalmente perché si debba dare credito a questa ipotesi psicosomatica piuttosto che a quella neopsichiatrica. I motivi sono molteplici, ma il più importante è che il criterio di incomprensibilità, il quale , purtroppo a partire da Jaspers, funziona come discrimine tra universo nevrotico o prepsicotico e universo schizofrenico, è del tutto privo di fondamento. Esso infatti fa riferimento alla comprensibilità in termini di senso comune. Adottando questa categoria, però, non solo i fenomeni psicopatologici, ma una serie infinita di fenomeni naturali, che la scienza interpreta e spiega, potrebbero essere definiti irrazionali, caotici e assurdi o essere attribuiti a forze oscure.

Se si adotta un’ottica psicodinamica, non solo le prime crisi, quale che sia la forma in cui si presentano, risultano sempre comprensibili. Anche i deliri cronici e strutturati possono essere compresi e spiegati.

Qual è però la validità delle interpretazioni psicodinamiche? Non potrebbe trattarsi di spiegazioni ad hoc, di esercizi intellettualistici che sfuggono ad un criterio di scientificità?

Ciò è senz’altro vero per quanto concerne la tradizione psicoanalitica che, a partire da Freud (cfr Il caso Schreber), si è sbizzarrita nel proporre interpretazioni dei fenomeni deliranti la cui verosimiglianza è pari a quella dei fenomeni stessi.

Non è vero, invece, per la teoria struttural-dialettica, che illumina la funzionalità dei sintomi vedendo in essi messaggi che l’inconscio invia alla coscienza per indurla a prendere atto dei problemi che essa ignora o rimuove.

Prima di affrontare il problema della farmacoterapia, adduco un esempio che può illustrare questo assunto.

2.

M. è un giovane di modesta estrazione sociale, che però ha avuto in eredità dalla famiglia sia una spiccata sensibilità che un corredo di valori, di matrice religiosa, univocamente incentrato sull’essere buono, onesto, altruista, generoso, disponibile, non aggressivo ecc. Impattando in una personalità predisposta (introversa), questi valori interiorizzati sono stati poi autonomamente elaborati da M., la cui vivace intelligenza ha compensato una cultura di basso profilo, sviluppando  una visione del mondo riconducibile ad una sorta di integralismo umanitaristico.

Tale visione del mondo muove dal presupposto (rousseauiano) che nessun uomo nasce cattivo, per cui i comportamenti devianti e antisociali sono dovuti a fattori ambientali. Vivendo in un quartiere dell’estrema periferia romana, a contatto con una diffusa microcriminalità giovanile, M. ha sempre ricavato le prove della fondatezza della sua visione del mondo dal contatto diretto con i coetanei, assumendo nei confronti dei tossicodipendenti e dei piccoli criminali un atteggiamento di comprensione e di aiuto.

A questa comprensione si è associata una sorta di analisi critica spontanea della società, che è giunta a promuovere in M. una profonda indignazione nei confronti del Potere, della Giustizia, dei Ricchi.

Egli insomma è divenuto una sorta di comunista evangelico, schierato dalla parte dei deboli, dei poveri, degli emarginati, ecc.

Dopo avere conseguito il diploma di scuola media superiore e aver terminato un corso di formazione professionale, M. avvia un’attività autonoma di ragioniere commercialista. Affidabile, onesto, scrupoloso, competente, egli consegue rapidamente un discreto successo. A 28 anni, si può considerare arrivato e con ottime prospettive future.

E’ in questo periodo che comincia però ad avvertire un certo disagio interiore. Egli si rende conto che qualcuno, tra i clienti e tra gli amici, profitta della sua bontà e della sua disponibilità. Nulla di grave, ma quanto basta a fare affiorare un dubbio sul fatto che l’educazione buonista della famiglia sia stata eccessiva.

M. si rende conto anche che il “buonismo” comporta una conseguenza sociale piuttosto rilevante. Arrabbiato nel suo intimo con i Potenti, gli Arroganti, i Ricchi, gli Sfruttatori, egli estende la sua comprensione anche ad essi, pensando che debbano essere state le condizioni di vita a spingerli fuori del solco della solidarietà e dell’altruismo. Questo comporta, come conseguenza, che, al di là del ruolo spontaneo di “volontariato” sociale che si è dato, egli non riesce a mettersi su di un piano operativo di lotta contro le ingiustizie. Certo, il suo cuore batte a sinistra, ed egli ammira visceralmente Fausto Bertinotti. Quando però assiste alle manifestazioni, il radicalismo e l’aggressività di una frangia della sinistra lo turba e lo demotiva. Egli rimane dunque isolato con la sua carica di indignazione e di rabbia sociale.

C’è poi un problema di ordine strettamente personale. M. è un ragazzo alto, di bell’aspetto, dai modi naturalmente signorili. Ciò nondimeno, egli non lega con le ragazze perché, anche se le attrae e stabilisce facilmente con esse un buon rapporto, finisce sempre con il ritrovarsi nel ruolo dell’amico, non del partner. E’ troppo poco mascolino nel carattere, e, in un certo qual modo, il suo modo di essere evangelico risulta poco protettivo.

Apparentemente, di fatto, M. è uno che “abbozza” sempre, evita le interazioni conflittuali e rifugge da ogni forma di violenza.

Per questi motivi, senza rendersene conto, egli sviluppa una graduale avversione per alcuni tratti del suo modo di essere. Egli non mette in discussione la sua visione del mondo umanitaristica. Sente l’esigenza, però, di rafforzarsi un po’, di diventare più adulto, più “sveglio”, più interattivo.

Purtroppo, questa esigenza di cambiare pelle lo porta a cominciare a sniffare cocaina, il cui effetto è di aumentare i suoi livelli di sicurezza. Lentamente ma inesorabilmente, l’uso si trasforma in abuso. Nel giro di un anno, la vita di M. cambia. Egli comincia a trascurare il lavoro e a perdere clienti, si isola socialmente, si indebita e, alla fine, si ritrova praticamente chiuso in camera sua.

L’isolamento, supportato dall’uso della droga, che fa scorrere velocemente il pensiero, lo porta a radicalizzare la sua visione del mondo e ad inoltrarsi sul terreno del delirio di grandezza. Egli sente di avere una missione da svolgere: quella di liberare se stesso e tutta l’umanità da ogni forma di oppressione. La missione si riduce a parlare da solo in camera contro i Potenti, a stigmatizzare l’esercizio repressivo della Giustizia, a denunciare i crimini della grande Finanza, a promuovere un’amnistia generalizzata, ecc. Egli sente anche che la gente gli va dietro e consente con i suoi ideali, identificandolo come un leader.

Il delirio di grandezza, incentrato sull’essere un liberatore dell’umanità, urta però contro una realtà di fatto. M. sta diventando egli stesso un piccolo criminale. Si indebita e non paga i debiti, fa due incidenti di macchina e costringe la famiglia a riparare i danni, vende una casa che aveva comprato addossandosi un mutuo e dilapida il ricavato, comincia, infine, a rubare in casa denaro e oggetti. Il clima familiare diventa pesante. Per quanto buoni, i genitori sono esasperati dal comportamento di un figlio di cui erano giustamente orgogliosi. Vedono che sta andando alla deriva, cercano di farlo ragionare, ma invano. Alla fine, il padre lo affronta a brutto muso. M. reagisce e lo picchia.

La situazione è insomma del tutto fuori controllo.

E’ in questo momento che il delirio di grandezza si associa ad un delirio persecutorio. M. sviluppa la convinzione di essere continuamente spiato da telecamere piazzate nella sua casa e da due satelliti, che registrano i suoi movimenti e le sue parole. Abbandonandosi verbalmente ad espressioni di odio contro i Potenti, egli sente incombere la minaccia di essere arrestato e incarcerato.

In questo contesto, si inserisce un elemento nuovo. M. segue le vicende del mondo attraverso la televisione e le commenta a modo suo. Assistendo ad una trasmissione sul delitto di Cogne, egli dice ad alta voce di sapere qual è l’arma del delitto. In seguito a questo, sviluppa la convinzione che qualcuno stia indagando per accusarlo del delitto stesso. Egli sa di non essere mai stato a Cogne, ma, data la sua scarsa fiducia nella giustizia, che solitamente se la prende con i piccoli e lascia perdere i grandi, teme che possano essere costruite prove false nei suoi confronti. E’ terrorizzato da questa possibilità, perché l’idea di essere accusato di un crimine efferato lo fa letteralmente rabbrividire.

Per questo motivo,  egli continua nel chiuso della sua camera a battersi per l’amnistia generalizzata. Certo, si rende conto che una legge a riguardo restituirebbe la libertà ad alcuni criminale, ma, prevale dentro di lui il riferimento al fatto che uscirebbero di galera anche molti innocenti ingiustamente detenuti e condannati.

L’effetto del delirio persecutorio è duplice. Per un verso, M. si sente totalmente privato della libertà personale e assoggettato ad un controllo esterno. Questo incrementa la sua vocazione di rivoluzionario che si batte per la libertà di tutti gli uomini.

Per un altro verso, la persecuzione pone repentinamente fine all’abuso di cocaina. Sentendosi sotto controllo, infatti, M. intuisce che, se continuasse a tenere in casa la droga, incorrerebbe in un arresto.

3.

La cessazione dell’abuso di droga non modifica il quadro psicopatologico. Per quattro anni ancora, M. continua a vivere nell’isolamento, lamentandosi del fatto di essere spiato e di non avere più alcuna privacy, continuando a lanciare i suoi proclami per la Liberazione universale, e aspettando di esser arrestato e processato ingiustamente o per quei proclami o per il delitto di Cogne.

Preso atto che il figlio non si droga più, i genitori sperano che egli torni ad essere quello che era. Il tempo passa, però, e li mette di fronte alla realtà di un essere che è andato fuori di testa e si è perduto dietro i suoi fantasmi.

Solo dopo un anno, la madre si rivolge a me. M., di fatto, lo conosco fin da bambino perché frequentava le elementari con mio figlio. Vado a trovarlo nella sua “tana”: mi accoglie con un disarmante sorriso, e mi mette al corrente delle sue vicissitudini, sottolineando enfaticamente il suo ruolo di sequestrato per amore della Giustizia e della Libertà e comunicandomi la sua convinzione che qualcuno stia costruendo prove false per incastrarlo come esecutore del delitto di Cogne.

Io so di potermi avvalere della stima che M. ha per me, dato che conosce il mio orientamento ideologico e politico.

Al terzo incontro, gli dico onestamente quello che penso della sua condizione. Interpreto il suo delirio come il prodotto di una parte della sua mente, disperata per il ruolo di piccolo criminale domestico che aveva assunto, la quale ha trovato modo di “salvarlo”, ponendo fine all’uso della cocaina e riportandolo nella sua pelle. M. è incredulo e io non mi aspetto gran che.

M. però è una di quelle anime semplici e vive che sono ricche di un’apertura emozionale alla verità che ad altre persone più colte e razionalisticamente raffinate difetta. Impiega alcuni giorni a riflettere su quanto gli ho detto. Poi, pur persistendo i vissuti persecutori, si convince della loro genesi interiore. Riprende a vivere, ad andare in palestra, a frequentare gli amici, a lavorare.

Si chiede ogni tanto come sia possibile che si sia “inventato” tutto, ma è consapevole che questa “invenzione” lo ha salvato. Si chiede anche perché, essendosi ravveduto, i fenomeni persecutori, pur notevolmente affievoliti, persistono. Periodicamente, infatti, continua a sentirsi spiato e controllato e, soprattutto, ad avere il timore che qualcuno stia costruendo delle prove false contro di lui per arrestarlo, processarlo e condannarlo.

E’ evidente, per un verso, che, nel suo intimo, M. si sente in colpa per il danno fatto a se stesso e alla famiglia e si aspetta di essere punito; per un altro, che, non riuscendo a farsi una ragione di ciò che è accaduto nei quattro anni “sciagurati”,  non è affatto sicuro di essere al riparo da una ricaduta se giungesse a sentirsi nuovamente libero e padrone di sé.

Via via che passa il tempo, egli rileva anche una strana circostanza: una sorta di altalena per cui, nei giorni in cui comincia a sentirsi libero, insorge quasi inesorabilmente una paura che finisce poi con il configurare l’arresto per il delitto di Cogne.

Per dare senso a questo vissuto, occorre capire perché egli abbia imboccato il vicolo cieco della droga.

Anche a questo livello, l’onestà interiore di M. risulta integra. Egli non ha difficoltà a riconoscere che l’uso della droga non è avvenuta per motivi voluttuari, bensì perché egli sentiva il bisogno di cambiare pelle. L’essere buono, disponibile, generoso si era associata, infatti, in rapporto all’interazione con il mondo, alla percezione di essere un po’ debole, codardo, inetto. Usando la droga, M. intendeva rafforzare la sua personalità, ma ha rischiato di uccidere il bambino dentro di sé; si è letteralmente “sfasciato” la testa, trasformandosi in un piccolo criminale (almeno a livello domestico). Ha continuato, ciò nonostante, ad invocare l’amnistia generalizzata. A ragione, perché anche la sua esperienza confermava che gli uomini non vengono al mondo cattivi, ma lo diventano in conseguenza delle influenze ambientali. E’ evidente, però, che la proposta dell’amnistia, della fine dell’oppressione per tutti gli uomini, almeno per lui non poteva passare, perché, restituito alla libertà, vale a dire alla sua pelle, si sarebbe potuto produrre lo stesso disagio che lo aveva spinto ad assumere cocaina; in breve, avrebbe potuto delinquere di nuovo.

Per quanto abbia un’anima semplice, M. alla fine capisce che se il controllo sociale fosse reale, la sua paura non oscillerebbe in conseguenza del sentirsi più o meno libero.

E’ una parte della sue mente, dunque, che, ancora spaventata dallo stravolgimento che è intervenuto nella sua vita, lo protegge e, en passant, gli fa pagare le “sciocchezze” che ha fatto.

La sciocchezza maggiore naturalmente non è l’abuso della droga, ma la motivazione che lo ha indotto all’abuso: il desiderio di cambiare pelle. M. deve rientrare nella sua, accettarla e coltivarla. Solo questo può portarlo alla “liberazione”.

3.

Ho riferito questa esperienza senza nessun intento autoelogiativo. L’esperienza di M. è, tra l’altro, ancora in corso, e non si può escludere che i sensi di colpa (drammatici per quanto concerne il danno economico arrecato alla famiglia e, soprattutto, l’essere giunto a picchiare il padre) possano comportare il mantenersi sullo sfondo di qualche vissuto di controllo.

 Sono troppo consapevole, poi, dello scarto tra la potenza esplicativa della teoria struttural-dialettica e l’efficacia terapeutica per confondere un “miracolo” terapeutico (il termine, ovviamente, è mutuato dalla madre che, incontrandomi per strada, mi bacia la mano come fossi un santone) con una realtà di fatto.

Il miracolo, nella misura in cui si è realizzato finora, consentendo a M. di tornare a vivere, è dovuto ad una somma di circostanze difficilmente riproducibili: la conoscenza del soggetto dall’infanzia, la sua capacità empatica di percepire in me un intento di aiuto, sotteso da una stima priva di qualunque pregiudizio nei confronti dei suoi “vaneggiamenti”, la sua straordinaria onestà interiore e una capacità introspettiva rara cui mancavano solo strumenti adeguati per essere efficace, ecc.

Non mi nascondo neppure che, in un’ottica neopsichiatrica, il caso potrebbe facilmente essere catalogato come una psicosi indotta dalla droga. L’induzione è certa, ma riguarda il delirio di grandezza, non quello persecutorio che si è mantenuto inalterato per quattro anni anche dopo la sospensione della cocaina.

Certo, in un’ottica neopsichiatrica, si potrebbe sempre sostenere che l’induzione del delirio è dovuto non solo all’azione diretta, chimica, della droga, ma anche al suo effetto su di un terreno già predisposto. Il delirio indotto, in altri termini, avrebbe rivelato una malattia mentale preesistente.

Che cosa consente di andare al di là di questa ottica? Non tanto e non solo il fatto che il cambiamento, nella misura in cui è avvenuto, non ha comportato l’uso di alcun farmaco.

Quale dubbio, peraltro, ci può essere riguardo al fatto che, abbandonato a se stesso o trattato solo con neurolettici, M. sarebbe rimasto immerso nel suo delirio a tempo indeterminato? Forse, la sua personalità non sarebbe andata incontro ad un processo disgregativo, ma la paranoia, quando dà luogo ad un isolamento totale, è già di per sé una “malattia” grave. Se la personalità non si disgrega, si cristalizza, si irrigidisce, si isterilisce.

Andare al di là dell’ottica neopsichiatrica, comporta soprattutto il prendere atto che il delirio ha un tessuto di comprensibilità che richiede solo di essere decifrato. Nel caso specifico, esso non è solo valso ad indurre la sospensione dell’uso della droga (giunto al livello critico di due grammi al giorno), ma anche a comunicare a M. attraverso il riferimento al delitto di Cogne, il vero problema da risolvere per riacquistare la libertà: il dover riconoscer di avere commesso un delitto nei propri confronti e di dover tornare nella sua pelle.

L’esperienza di M. pone dunque di fronte non solo alla comprensibilità del delirio, sotteso  da imponenti sensi di colpa, ma alla sua funzionalità salvifica (oltre che punitiva e riparativa). Senza l’insorgenza dei vissuti persecutori, M. era destinato a finire inesorabilmente male.

Sarebbe finito male anche in conseguenza della perdita di rapporto con la realtà prodotta dai vissuti persecutori. Ma ciò sarebbe stato dovuto alla incapacità della sua coscienza di decifrare il significato dei messaggi lanciati dall’inconscio.

Su questo aspetto occorre insistere perché, dato il tema piuttosto complesso, il pericolo di fraintendimenti è costante.

Nel caso in questione, il delirio ha avuto di fatto una funzione salvifica, ponendo termine ad un’esperienza che avrebbe potuto comportare anche la morte. Tale funzione, che dobbiamo attribuire ad un Super-io che ha dato voce non solo ai sensi di colpa accumulati ma anche alla parte di M. terrorizzata da un comportamento autolesionista, la cui pericolosità questi non era in grado di recepire in quanto anestetizzato dalla cocaina, si sarebbe perpetuata perché, al di là dello stop opposto alla tossicodipendenza, essa sarebbe servita a segnalare un problema conflittuale reale.

L’avvio dell’abuso di droga, come accennato, è riconducibile, infatti, al desiderio insorto repentinamente in M. di liberarsi di alcuni valori buonisti trasmessi dalla famiglia e di fuoriuscire dalla sua pelle di introverso, estremamente sensibile. L’abuso dunque è stato promosso, in termini dinamici, da un Io antitetico rimasto frustrato a partire dall’adolescenza da quei valori e dalla sensibilità. M. non ha mai recepito la sovrapposizione e la condensazione di questi aspetti, tanto è vero che l’abuso della droga non ha modificato la sua ideologia umanitaristica. Di fatto, però, soprattutto nel contesto familiare, egli, in conseguenza della spinta dell’Io antitetico e della droga, è finito con l’incattivirsi.

La riattivazione del Super-Io, pur realizzando un effetto salvifico, è coincisa anche con l’esplosione di sensi di colpa drammatici, tali per cui M. prefigurava di essere arrestato, processato e condannato.

Se i vissuti persecutori non fossero stati oggettivati, egli avrebbe presumibilmente continuato a battersi per la libertà universale, ma arrabbiandosi progressivamente, fino forse a perdere il controllo e ad esibire comportamenti aggressivi sia in famiglia che nei confronti dei vicini (identificati come spie della polizia, in quanto testimoni dei suoi eccessi verbali).

L’oggettivazione e l’interpretazione dei vissuti persecutori ha posto le premesse perché M. affrontasse il problema che ha originato l’abuso di droga in maniera più adeguata. E’ certo che egli deve affrancarsi da un eccesso di buonismo, mantenendo però un contatto con la sua sensibilità personale: rimanendo, insomma, nella sua pelle originaria.

Questo implica una mediazione e un’integrazione tra i valori superegoici e quelli antitetici che può essere realizzata solo dalla coscienza.

Per il delirio, come per ogni altra esperienza psicopatologica, vale il principio per cui la “guarigione” si realizza passando per la stessa porta per cui si è imboccato il tunnel della malattia: risolvendo i problemi conflittuali inconsci, la cui attivazione determina i sintomi.

La teoria funzionalistica della sintomatologia psicopatologica è il contributo più importante che l’approccio struttural-dialettico può dare ad una nuova scienza del disagio psichico.

Se si misura, però, la distanza tra quella teoria e i presupposti della neopsichiatria, che governa la pratica terapeutica corrente, è lecito avere molti dubbi sulla possibilità che un approccio del genere possa diffondersi in tempi brevi. Esso infatti comporta un assunto che non è solo scandaloso per le orecchie dei neopsichiatri, ma irritante anche per non pochi psicanalisti che hanno una concezione morbosa dell’inconscio. L’assunto è che l’inconscio non ammala mai. Per quanto gravato di conflitti, che possono arrivare a livelli di scissione tra le funzioni e le substrutture, esso lancia messaggi affinché il soggetto prenda coscienza dei problemi che alberga. Se si vuole insistere ad utilizzare il concetto di malattia, esso va riferito piuttosto alla coscienza, che trasforma quei messaggi in sintomi e alla neopsichiatria che assume questi non come segni, bensì come segnali di un processo morboso cerebrale.

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