Timido, docile, ardente
Seconda edizione ampliata
Premessa alla terza edizione
La prima edizione del saggio risale al 2005, la seconda edizione ampliata al 2007. Nel 2011 è stato pubblicato Le talpe riflessive, una raccolta di testimonianze tratte dal Forum della LIDI (www.legaintroversi.it). Tali testimonianze hanno confermato che la descrizione tipologica delle caratteristiche genotipiche dell’introversione e delle carriere di vita che, a partire da esse, si realizzano nell’interazione con l’ambiente fornita nel saggio corrisponde all’esperienza reale di coloro che ne sono depositari. Al tempo stesso, esse, e i commenti di numerosi lettori, mi hanno aiutato a capire quali lacune presentava il testo e quali contenuti richiedevano chiarimenti e approfondimenti. Pur consapevole del fatto che la varietà delle esperienze individuali è irriducibile ad una descrizione tipologica, ho cercato di rimediare alle omissioni e alle imprecisioni per giungere a definire nella maniera più fedele possibile alla realtà la specificità del modo di essere introverso.
Parlo di modo di essere perché l’introversione non può essere ricondotta a singoli tratti di carattere o di comportamento (meno che mai alla famigerata timidezza, ma a una predisposizione psicobiologica, che influenza l’intera esperienza interiore e sociale del soggetto. Tale predisposizione comporta vincoli di sviluppo entro i quali la personalità introversa può dispiegarsi raggiungendo livelli di autorealizzazione molto elevati. I vincoli comportano inesorabilmente, però, che in alcuni periodi della vita, soprattutto nel corso delle fasi evolutive, gli introversi si ritrovino, paradossalmente proprio perché sono sulla loro rotta, a volare fuori dalla formazione. Questo è l’aspetto che più di tutti gli altri determina una certa difficoltà da parte degli introversi di accettare la loro condizione e da parte del mondo di riconoscerla nella sua specificità, nel suo valore e nei suoi limiti che, in gran parte, vanno ricondotti ai vincoli cui ho fatto cenno.
Definire il modo di essere introverso in termini di superiorità o di inferiorità rispetto a quello estroverso non ha senso, se non quello di soddisfare l’esigenza degli esseri umani di ricondursi ad una Norma (che, evidentemente, riconosce sempre il suo doppio). Non meno degli estroversi, gli introversi assolvono una funzione essenziale ai fini dell’evoluzione della specie. La assolvono, però, quando non rimangono impigliati in una condizione di disagio psichico, con modalità che, per molti aspetti, si differenziano da quelle degli estroversi. Tutti gli studiosi di scienze umane e sociali che indagano ormai contesti e individui immersi in un milieu multiculturale affermano che la diversità, nonché un problema, è un valore: a patto che - aggiungerei - oltre ad essere percepita, essa venga capita...
Introduzione
Più o meno, tutti sanno o presumono di sapere cosa significa introversione (e, ovviamente, estroversione). Pochi neologismi inventati nel corso della storia della psicologia e delle scienze umane hanno avuto la fortuna di questi termini, introdotti da Jung nel 1920 (Tipi psicologici, Roma 1970). La distinzione junghiana (cfr. Appendice 1) ha avuto fortuna perché, nell’insieme degli orientamenti di carattere umani, ha evidenziato due tipologie che sono agevolmente distinguibili, quali che siano le influenze ambientali. Purtroppo, però, nel nostro mondo, tali influenze non sono neutrali, nel senso di consentire ad ogni individuo di svilupparsi secondo le sue linee di tendenza costituzionali. Esse agiscono quasi sempre negativamente sullo sviluppo e sul modo d’essere degli introversi.
Nella sua essenza, come si vedrà, l’introversione è caratterizzata essenzialmente da un ricco corredo emozionale, associato spesso ad una vivace intelligenza: da un mondo interiore, insomma, la cui vibratilità agli eventi esterni esercita una cattura costante sull’Io, che non può prescindere dal valutarli, elaborarli e dare senso ad essi. Sentire, intuire e avere un’inclinazione riflessiva superiore alla media sembrerebbero, sulla carta, qualità ottimali per promuovere lo sviluppo di una personalità ben strutturata, differenziata e originale. I soggetti che, per sorte, ricevono questo “dono”, manifestano invece, nel nostro mondo, difficoltà più o meno rilevanti di adattamento sociale e, in una percentuale inquietante, disagi psichici di varia natura.
Il paradosso per cui una ricchezza potenziale, qual è quella intrinseca all’introversione, dà luogo spesso ad un’esperienza di vita soggettivamente e a volte socialmente penosa, fino al limite estremo dell’isolamento e del disagio psichico, rappresenta un “mistero” difficile da decifrare. Alcuni studiosi lo risolvono affermando che l’introversione, se comporta una ricchezza di potenzialità, o forse proprio in conseguenza di essa, è caratterizzata anche da una “vulnerabilità” costituzionale che non favorisce l’adattamento alle “normali” richieste della vita. Si tratta, però, di una ipotesi “ideologica”, quindi tendenziosa, che assume l’adattamento al mondo esterno come criterio supremo di normalità. Essa traspone un principio valido per gli animali, che devono lottare per sopravvivere in rapporto all’ambiente naturale, ad un livello - quello umano - laddove l’adattamento concerne un ambiente culturale prodotto dall’uomo stesso: un ambiente, dunque, “artificiale”, che, nel suo modellarsi in rapporto alle esigenze di coesione e di riproduzione di una determinata società, può non fornire opportunità di sviluppo adeguate alla varietà genetica che caratterizza gli individui; un ambiente, infine, che, in nome di una Norma, tende a naturalizzarsi e a rifiutare l’esistenza di altri modi possibili di organizzazione della vita individuale e collettiva. Se mettiamo da parte l’ipotesi della “vulnerabilità”, che fa riferimento ad un criterio rozzamente adattivo, occorre formularne un’altra.
Questo è l’intento primario del saggio, scritto sull’onda di un’”indignazione” cresciuta nel corso degli anni. È sempre più doloroso confrontarmi, come psicoterapeuta, con ragazzi e giovani, dotati di grandi potenzialità, devastati dall’interazione con un mondo che non li comprende né li rispetta (e che essi, a loro volta, non comprendono, per quanto, in genere, non possono fare a meno di rispettare). È ugualmente penoso pensare al numero d’introversi che, pur non manifestando un apparente disagio psichico, vivono schiacciati sotto il peso di una diversità percepita negativamente, convinti d’essere inadeguati e “difettosi” nonostante il loro valore sia, spesso, riconosciuto dagli altri. L’indignazione cui ho fatto cenno non ha alcuna valenza moralistica.
Non è mia intenzione puntare il dito accusatorio sul mondo così com’è, fatto cioè (tra l’altro, neppure tanto bene) su misura per gli estroversi, ritenendo la sua organizzazione un prodotto della storia piuttosto che di volontà deliberate; né sui familiari e sugli insegnanti i quali, confrontandosi con soggetti difficili da comprendere in conseguenza di una vita interiore complessa ma sempre poco percettibile sul piano sociale, fanno quello che possono. Dato però che i danni che gli introversi ricavano dall’interazione con l’ambiente è un fatto oggettivo, documentabile e inquietante, ritengo che i tempi siano maturi perché questo problema fuoriesca dal cono d’ombra che lo avvolge, venga finalmente colto nel suo spessore, soprattutto in un’ottica di prevenzione del disagio psichico, e dia luogo ad una presa di coscienza che dovrebbe tradursi, per quanto riguarda gli introversi, nel vivere consapevolmente la loro condizione realizzandola secondo le sue linee di tendenza e, per quanto riguarda il mondo, in una nuova programmazione sociale a livello pedagogico e culturale.
L’introversione, come risulterà chiaro dal saggio, è un patrimonio dell’umanità: una ricchezza che va tutelata e alla quale occorre consentire di dispiegarsi senza incontrare troppi ostacoli, perché questo dispiegamento può rappresentare un vantaggio non solo per l’individuo, ma per la società. Data l’esistenza di un persistente pregiudizio, la via per giungere a questa “rivoluzione” culturale è lunga. Entrati nel linguaggio comune, i termini introversione ed estroversione sono connotati univocamente, come accennato, con un segno negativo l’uno, positivo l’altro. La qualificazione è in gran parte riconducibile al comportamento apparente – chiuso o aperto sotto il profilo della comunicazione con il mondo esterno e con gli altri – valutato con un metro di misura che implica un giudizio di valore. Tale metro di misura pone tra parentesi un dato essenziale inerente l’esperienza umana.
Animale sociale, “affacciato” percettivamente sul mondo esterno, l’uomo ha raggiunto la sua specificità mentale in virtù della capacità di costruire una trama di significati simbolici socialmente condivisi che hanno definito un mondo interno, dotato di una sua realtà. La coscienza vive dunque nell’interfaccia tra due mondi che interagiscono tra loro, anche se essa rimane comunemente preda di un ingenuo realismo che la porta a enfatizzare il primo e a misconoscere il secondo che, tra l’altro, è l’unico che “esperisce”. È vero che del mondo esterno fa parte anche il socius senza l’interazione con il quale non si definirebbe un mondo interno. Considerare però l’apertura all’esterno come un criterio normativo implica, tra l’altro, ignorare che, assumendo come referente il mondo interno, il giudizio potrebbe essere semplicemente invertito di segno. Il pregiudizio in questione definisce il modo d’essere introverso come disfunzionale in sé e per sé, se non addirittura “patologico”.
Basta fare una ricerca su Internet per constatare quante offerte d’aiuto vengono rivolte, da psicologi e psicoterapeuti, agli introversi, associate alla promessa di liberarli dalla timidezza, dalle inibizioni, dalle difficoltà di rapporto con l’altro sesso, ecc. L’offerta corrisponde ad una domanda reale, ad un disagio vissuto sulla pelle, anche se va detto che molti psicoterapeuti, irretiti essi stessi del modello culturale dominante, offrono un aiuto il cui obiettivo ultimo è la normalizzazione: un rimedio peggiore del male. Nessuna offerta di aiuto viene rivolta, ovviamente, agli estroversi, un buon numero dei quali, pure adattati al mondo così com’è in virtù della loro efficienza, rientrano nell’ambito della pseudo-normalità analizzata in passato da E. Fromm (Psicoanalisi della società contemporanea, Mondadori, Milano 1987; I cosiddetti sani, Mondadori, Milano 1997).
Non è forse inopportuno precisare preliminarmente che il superamento del pregiudizio nei confronti dell’introversione non deve tradursi in un altro pregiudizio a carico dell’estroversione. Selezionati dalla natura, entrambi gli orientamenti, come vedremo, hanno un grande significato nella cornice dello sforzo della specie umana di oggettivare le sue potenzialità. Ogni uomo, insomma, deve vivere nella sua “pelle” e coltivare la vocazione ad essere scritta nel suo corredo genetico. Il problema è che, nel nostro contesto socio-culturale, se molti introversi si chiudono rispetto al mondo esterno più di quanto sia necessario per salvaguardare la loro identità, e spesso covano nei confronti degli altri rabbie di ogni genere, un numero rilevante e continuamente crescente di estroversi, si chiudono al mondo interno più di quanto sia ragionevole per assicurare alla personalità uno sviluppo interiore. Essi rimangono cristallizzati in una sterile e spesso monotona “normalità”, sacrificando, senza rendersene conto, potenzialità riflessive e introspettive che di fatto hanno.
Esistono, insomma, nel nostro mondo, troppi introversi introvertiti e troppi estroversi estrovertiti. Questo giudizio non è un gioco di parole. Esso coglie una drammatica realtà psicosociologica, che non è azzardato ricondurre nell’ambito dell’alienazione, se con questo termine s’intende un’eccessiva pressione adattiva operata da un modello normativo funzionale alle esigenze del sistema socio-economico e culturale. Il pregiudizio nei confronti degli introversi, che essi purtroppo interiorizzano con l’aria che respirano, e che in alcuni casi si traduce in una vera e propria “persecuzione” sociale, il più spesso inconsapevole e incolpevole, non è certo l’unica iniquità del nostro mondo. Denunciarla dipende solo dall’essere quella che quotidianamente ho sotto gli occhi, e può determinare conseguenze psicologiche anche molto serie.
Rispetto alle altre iniquità, ritengo che sia anche la più facilmente rimediabile in conseguenza di una presa di coscienza da parte dei diretti interessati, degli educatori e della società. In un mondo in cui il tema della diversità si va configurando come fondamentale, il problema dell’introversione, posto che se ne colgano tutte le implicazioni, dovrebbe essere affrontato come primario. Al di là del riconoscere agli introversi diritti di pari opportunità di sviluppo, che vengono più o meno sistematicamente violati (in misura maggiore rispetto alla media), l’affrontare il problema rappresenterebbe un salto di qualità sulla via di una civiltà più aperta al riconoscimento del valore della diversità.
Il libro ha il duplice intento di illustrare che cos’è l’introversione in sé e per sé, nelle sue caratteristiche specifiche, nel suo valore e nei suoi limiti, e di analizzare le circostanze ambientali e i fattori soggettivi, consci e inconsci, che troppo spesso determinano una condizione di disagio psichico e psicopatologico. Scritto meno per gli specialisti – psichiatri e psicologi –, gran parte dei quali sono funzionari della normalità corrente, che per coloro che hanno orecchie per intendere, il saggio rappresenta il “manifesto” della Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi (LIDI), il cui scopo primario è di avviare un’opera di prevenzione dei disturbi psichici che gli introversi manifestano in conseguenza dell’interazione con un ambiente familiare, scolastico, culturale e sociale mediamente sfavorevole.
Uno scopo secondario, anche se non meno importante, è di fornire agli adolescenti e adulti introversi strumenti che consentano loro anzitutto di riconoscersi come tali e, in secondo luogo, di comprendere i valori e i limiti intrinseci al loro modo di essere, in maniera tale che da porli in condizione di apprezzare e sviluppare i primi senza affannarsi a mascherare e reprimere i secondi. La Lega non intende eleggere gli introversi al ruolo di vittime di una qualche “congiura” nei loro confronti. Di fatto, vale a dire oggettivamente, spesso lo sono. Ma è pur vero che, altrettanto frequentemente, con la loro esasperata sensibilità, l’aspettativa univoca che il mondo sia altro da quello che è, l’incomprensione nei confronti dei “normali” e, talora, il rifiuto di rimanere fedeli al proprio modo d’essere, partecipano, senza sapere e senza volere, a stringere intorno alla loro anima il cappio dell’infelicità.
Il saggio si articola in quattro capitoli.
Nel primo (Che cos’è l’introversione) tento di descrivere le caratteristiche che si possono attribuire al genotipo introverso.
Nel secondo (Le carriere introverse) vengono illustrati gli sviluppi dell’introversione nell’interazione con il mondo sociale, che sono estremamente diversificati, ma riconducibili a due sottotipologie.
Nel terzo (Introversione e disagio psichico) vengono analizzati in termini psicodinamici i disturbi psicopatologici più frequenti che si realizzano in conseguenza delle carriere introverse.
Nel quarto, infine, (Vivere e lasciare vivere l’introversione) si forniscono, più che consigli, criteri di valutazione del modo di essere introverso nella varie fasi della vita che possono risultare utili agli introversi stessi, agli educatori e anche agli estroversi, a molti dei quali non farebbe certo male coltivare con un po’ più di attenzione il rapporto con il loro mondo interiore.
Al corpo centrale del saggio seguono tre appendici.
La prima è una breve analisi critica della teoria di Jung e dell’incidenza che essa ha avuto sulla storia della psicologia.
La seconda affronta il problema della genetica dell’introversione e propone, al riguardo, un’ipotesi evoluzionistica alla quale assegno un grande significato.
La terza propone un questionario sull’introversione (da me compilato sulla scorta di quello di Eysenck) che può consentire a chiunque un’autovalutazione del proprio orientamento caratteriale.