Dis-Umanità |
Introduzione alla lettura |
Non ho mai preso un appunto in vita mia né ho mai registrato i colloqui terapeutici. Ho lasciato che le storie di cui venivo a conoscenza assumessero corpo dentro di me sotto forma di racconto o di romanzo. Il rischio dell'ibridazione e della sovrapposizione l'ho messo nel conto, ritenendo però che esso potesse essere scongiurato dall'unicità e dall'irripetibilità delle esperienze. Dopo vent'anni di attività, l'archivio è cominciato a risultare piuttosto imponente. Ho pensato allora di dare ad esso una singolare sistemazione, adottando lo splendido artificio utilizzato da Lee Masters nel suo capolavoro (Antologia di Spoon river), vale a dire facendo parlare i personaggi in rpima persona, come testimoni. Le ricostruzioni talora attestano i loro punti di vista, più o meno vicini alla verità, talaltra riproducono le interpretazioni maturate nel corso dell'analisi. Quasi tutte le microstorie sono vere, anche se, qua e là, qualche particolare è artefatto. Le persone cha hanno letto sinora il manoscritto sono rimaste in genere perplesse. Possibile - si sono chieste - che siamo così nobili e volgari, patetici e ridicoli, trasparenti e ambigui, e che la nostra esperienza si gioca sul registro delle contraddizioni, delle mistificazioni, delle incomprensioni comunicative, dei fraintendimenti culturali, dei falsi valori: dell'alienazione, insomma? Purtroppo le cose stanno così. Un'umanità migliore è solo potenzialmente rappresentata nella nostra natura. Si può sperare che venga fuori attraverso un'ulteriore evoluzione culturale. e' però una speranza, non una certezza. Dis-umanità è un lavoro in fieri. ogni tanto dall'archivio spunta fuori una storia bell'e fatta. Se il lettore vorrà aggiornarsi basterà che egli tenga conto che le eventuali nuove storie saranno aggiunte a quelle attualmente esistenti in un Libro secondo. |
DIS-UMANITA' (Libro I)1. A diciotto anni - lui ne aveva appena uno di più - rimasi incinta, La fiducia accordataci dalle famiglie escludeva un'intimità più audace di fugaci carezze. Fu atroce confessare una colpa che, come sapevamo, e accadde, non ci fu perdonata. Ci sposammo in fretta e furia, con una cerimonia che affidò alla silenziosa complicità dei parenti la tutela dl un disonore comune. Mi fu imposto l'abito bianco. Salii l'altare con il volto in fiamme, ne discesi con il cuore votato, senza sapere, all'espiazione. Mia figlia nacque contaminata dalla colpa di cui era il frutto. Non ricordo di averla rifiutata, come sostengono i medici. So che l'allevai proteggendola da invisibili miasmi, rinunciando a carezzarla, pur desiderandolo, per non contagiarla, isolandola e isolandomi con lei dal mondo. Più volte al giorno, con i guanti sterili, strofinavo il suo corpicino con l'alcool. Ignorai, via via che cresceva, le premonizioni che attraversavano i suoi sguardi, freddi e cupi, sino ad illudermi di aver scongiurato, con il sacrificio della vita, la resa dei conti, che a giunta invece come un fulmine a ciel sereno. Vive in una clinica, chiusa in un mutismo interrotto solo da un atono messaggio che agghiaccia anche i medici: non devo esistere. Com'è possibile che sia rimasta preda del destino? Litigavano ogni giorno, a pranzo e a cena, lanciandomi alternativamente occhiate di rabbia e di pena, dalle quali ricavavo la colpa di obbligarli ad una vita d'inferno. Incredula prima, perplessa poi, e infine turbata, fui forzata a convincermi ch'ero io la causa della loro infelicità Se avessi saputo come erano andate le cose, mi sarei limitata a compatirli: il rispetto delle forme li aveva resi e li manteneva schiavi dellinappellabile giudizio parentale. Per questo stesso falso valore sono stata tenuta all'oscuro della colpa originaria, e ho dovuto colmare l'ignoranza con la convinzione di essere ripugnante a tutti. Desiderare di togliermi di mezzo è una conclusione conseguente, per quanto poco rispettosa delle forme. 2. A forza di buoni consigli, che miravano a farmi divenire così come si deve essere, i miei ingenerarono in me un radicale disprezzo nei confronti di una normalità che mi apparve nulla più che un tributo alla paura degli occhi della gente. In virtù di questo disprezzo, senza che me ne accorgessi, definii un progetto di vita fondato sul culto dell'originalità, dell'avventura e dell'azzardo. Per anni, dall'adolescenza in poi, questo progetto si alimentò di sogni, mentre di fatto continuavo ad essere un figlio diligente, docile e dipendente. Solo ora mi rendo conto che i sogni non vanno lasciati andare per conto loro. Quando il conflitto scoppiò, mi resi conto che, da un giorno all'altro, mi si offriva una sola possibilità di cambiare vita: vivere sul filo della devianza. Mi misi nel giro delle scommesse di quartiere, e dello spaccio. Avrei fatto di sicuro carriera se la possibilità di finire chiuso in cella non avesse evocato unangoscia claustrofobica incoercibile. Questo pericolo - che, facendomi ammattire, mi avrebbe destinato ad un internamento ancora più penoso - troncò sul nascere la mia carriera. Capii che, nonostante i sogni, sarei dovuto vivere per paura nella normalità più assoluta, pur aborrendola. Mi arresi a ciò, non al bisogno di rivendicare una vita alienata prima dai miei e poi dai miei sterili sogni. Ho sprecato un patrimonio, portando i miei alla disperazione, e sento che non mi basta. Nonché un criminale, sono uno sciocco che ha il vizio del gioco: criticabile quanto si vuole, non imputabile. Mi auguro che i balordi a cui faccio dono delle ricchezze sottratte alla famiglia sappiano almeno godersele, in onore di un inetto. Mia moglie, ritenendomi un buono a nulla, si è arrogata l'educazione di nostro figlio. Io mi sono messo da parte a guardare, certo di come sarebbe andata a finire. La previsione è risultata solo in parte sbagliata. Aveva già imboccato la strada giusta, quando, vigliaccamente, ha intuito che poteva rubare a noi, senza correre alcun rischio. Ci sta depredando e, quasi a dispetto, il denaro lo butta via, senza neppure goderselo. Un figlio non si può denunciare. Ma cosa sarà di noi? Dedicando tutta la vita a mio figlio, mi ripromettevo solo di scongiurare che divenisse come il padre: un buono a nulla che ha rinunciato a lavorare non appena ha capito che poteva sfruttare me. Ora mi accusa dl averlo viziato e di dargliele tutte vinte. Può darsi: ma vivere sulle spalle di una donna incapace di difendersi, questo non glielo ho insegnato io. 3. A mente fredda, anche a me accade di considerare ridicola la paura che ho. Non è l'unica, ma, forse, le riassume tutte. Quando devo andare dal barbiere, e accade spesso perché i capelli lunghi e incolti potrebbero indurre qualcuno a pensare che io conduca una vita disordinata, cado nel panico. Dubito, infatti, di riuscire a frenare l'impulso di fuggire che affiora repentinamente mentre sono sotto lo shampoo o durante il taglio. Se non resistessi, e scappassi con il sapone in testa, l'asciugamano al collo e i capelli solo in parte sforbiciati, cos'altro potrebbe pensare la gente se non che sono pazzo? Dacché misi la testa a posto, all'epoca dell'adolescenza, estinguendo dentro di me un'atavica irrequietezza, e imponendomi una rigida autodisciplina che mi ha permesso, partendo dal nulla, di conseguire uno status rispettabile, questa assurda paura mi perseguita. Dentro - posso assicurarlo - la mia testa è tra le più ordinate che esistano. Il problema, ormai, riguarda solo gli annessi. Rovinarsi la vita per così poco, sembra incredibile. Ma dal barbiere ci si deve pur andare. 4. A otto anni, seppi che ci saremmo trasferiti in città. Esultai di riflesso, cogliendo negli occhi di mia madre una gioia incontenibile. Non potevo sapere che quella gioia occultava una rivoluzione che avrebbe terremotato la mia esistenza. Mia madre era stanca di dipendere dai suoi e dal marito: per ribellarsi e raggiungere l'autonomia, scelse la strada non criticabile del lavoro. Trasferiti che fummo, si gettò a capofitto nella carriera, rivelando una straordinaria dedizione al nuovo ruolo di insegnante elementare. Dedicò ai bambini le cure di cui avevamo ancora bisogno io e mio fratello. Gratificandomi di essere grande e matura, mi impose responsabilità che mi assunsi con la gioia dell'ingenuità. Sola per gran parte del pomeriggio con mio fratello, vissi nell'angoscia perpetua di dover affrontare situazioni imprevedibili a cui non avrei saputo far fronte. Strinsi i denti, e respinsi le paure, inghiottendole. Sul terreno della mia anima, sconvolta da un sisma, costruii una personalità solida quanto rigida. Nel mio intimo, avvertivo ogni tanto i lampi di una rabbia spaventosa, che affondava le sue radici nel sentimento di aver subito una grave ingiustizia e si orientava verso indescrivibili vendette. Affidai al tempo la resa dei conti. Ma il tempo è stato clemente con tutti. La paura di uscire mi trattiene nel chiuso delle pareti domestiche, la rivendicazione si è esaurita nell'imporre ai miei una totale disponibilità. Quanto alla rabbia, che mi avrebbe spinta a danneggiare me stessa e la famiglia, si è convertita in un amore dell'ordine che mi costringe ad essere schiava di infiniti rituali. Conduco una vita orribile, riscattata da un attimo di gioia quotidiana. La sera, quando i miei e mio fratello vanno a dormire, ispeziono la casa, metto il lucchetto alla porta, controllo che le finestre siano serrate, chiudo il rubinetto del gas. Avuta la certezza che la famiglia è chiusa in carcere, al riparo da ogni attacco, posso andare a dormire. So che la mattina seguente, mi ritroverò sola. Ma, per quanto soffra di vivere come una prigioniera, so pure che i miei dovranno tornare e accettare che io li imprigioni. Riconosco d'aver abusato della sua docilità, imponendo alle sue fragili spalle delle responsabilità eccessive. Ad onor del vero, m'illudevo anche di aiutarla a diventare forte e autonoma. Del resto, non avrei potuto fare diversamente, dacché scoprii che la casa e la famiglia mi rendevano claustrofoba. Me ne liberai schiavizzandomi nel lavoro, e dedicando ai bambini degli altri il tempo e le cure che avrei dovuto ai miei. Quando, divenuta adolescente, trascorreva in casa tutto il tempo libero studiando e leggendo, provai un'emozione ambivalente: esultai perché mi sembrava che fosse affrancata dai desideri che agitano il cuore delle adolescenti, ebbi paura perché, identificandomi con lei, provai nuovamente un'intollerabile claustrofobia. Ogni medaglia ha due facce: io soffro rinchiusa nelle pareti domestiche, lei sta male ogniqualvolta mette il naso fuori della porta di casa. Non mi faccio delle colpe: né dentro né fuori casa una donna può trovar pace. 5. A quarantasette anni, con tre figli sposati, il venir meno del flusso mi illuse di aver varcato la soglia di un quieto autunno. Dopo cinque mesi seppi che, anziché un innocuo fibroma, una vita maligna mi ingrossava il ventre. Confessai ai figli, resi increduli dai capelli bianchi, la colpa e, per espiarla, mi chiusi in un isolamento totale. Partorii in casa e ne uscii solo per il battesimo, sfidando la beffarda curiosità dei paesani. Allevai mia figlia come un fiore di serra, frustrandone ogni vitalità e destinandola, nel mio cuore, al convento. Fu il caso o il presagio della malattia a intorbidare il suo sguardo quando divenne adolescente? La tempesta si preparò a lungo, sconvolgendo la vita di due vecchi: infine, colei che doveva essere di Gesù, si rivelò preda del demonio. L'ultima volta che l'ho vista, in manicomio, legata al letto, digrignava i denti e aveva la bava alla bocca. Avevo quasi sessant'anni quando seppi che mia moglie aspettava un'altro figlio. La scongiurai di abortire. Sarebbe stato ridicolo che i nipoti si ritrovassero ad avere uno zio più piccolo di loro. E poi nel paese si sa da sempre che i figli al tramonto sono una maledizione. Imbeccata dal prete, è stata dura come una capra. ed è accaduto quel che è accaduto. Non ho chiesto di nascere io. Ma, una volta venuta al mondo, perché mi si è fatto vivere come una reclusa? Fossi stata brutta e storpia sarebbe stato meglio. Invece ero bella, e quando divenni adolescente, i ragazzi all'uscita dalla scuola mi ronzavano intorno come mosconi. Non diedi loro mai confidenza, ma mia madre era convinta che avessi il diavolo in corpo. A 16 anni, persi la testa per un uomo sposato e tentai di sedurlo. Non mi misero al rogo. Mi chiusero in manicomio, ch'è peggio. 6. A trent'anni, non cedetti alla passione, ma alla paura dei miei di lasciarmi sola al mondo con un patrimonio invidiabile. Sposai un uomo debole e senza fortuna; non mi interessava avere un marito quanto risultare in regola agli occhi della gente. La nascita di un figlio sancì la mia normalità per poco tempo. Come tutti i diseredati, mio marito non accettava un ruolo subordinato, intendeva farla da padrone. Mi sottrassi a lui rubandogli il figlio e investendo parte del patrimonio in una causa interminabile che si concluse con l'affidamento. Come madre, mi proposi un solo scopo: allevare mio figlio ripulendolo da tutti i germi di volgarità e di materialismo e che dovevano pur essere nel suo sangue misto. La religione mi apparve il rimedio migliore per avviarlo a sentire il disgusto delle cose terrene, e a nutrire amore per ciò che è elevato. Non fu facile dominare il suo innato disordine, la sfrenatezza alimentare, una violenta aggressività. Con l'adolescenza, l'impresa sembrava conclusa. Mio figlio era un modello (eccessivo, addirittura) di ordine, di controllo, di misura. Godetti del trionfo giusto il tempo di capire che si trattava di un'illusione. L'ascetismo di mio figlio si nutre di beni materiali. Egli - è vero - ama solo cose elevate: libri di scienza, filosofia e teologia, cibi raffinati, mobili di antiquariato. Ma questo amore sta dilapidando il patrimonio familiare. Né posso fare alcunché, poiché egli nutre un disprezzo così profondo per il mondo da non poter tollerare alcun contatto con la gente. Non so se è malato (i medici dicono di sì). So di essere schiava dei suoi rituali, di dover provvedere a tutti i suoi bisogni, di dover fornire alimento continuo alla sua insaziabile fame di sapere e di godere intellettualmente. Mi porterà alla rovina con gli stessi mezzi con cui intendevo affrancarlo dalle volgarità del mondo. Mio padre fu cacciato da casa come un miserabile. Tale era, ma l'ignominia della povertà avrebbe dovuto sconsigliare il matrimonio con la donna più ricca del paese. Fui sollecitato ad odiarlo e a vedere in lui - nella sua rozzezza, nell'ignoranza e nelle abitudini volgari - un diavolo. La mia testa fu lavorata perché io diventassi amante del cielo, delle stelle e dello spirito. Nella mia più intima natura, inclinavo a ciò (nonostante le apparenze). Ma ben presto mi resi conto che l'alto, verso cui avrei dovuto orientarmi, non era il cielo, ma il ceto. La mia testa era un capitale destinato ad aggiungere al patrimonio familiare il valore che ad esso mancava: la cultura e il prestigio. Lo so che i soldi fatti vendendo salumi vengono utilizzati per acquisire la signorilità dell'alloro. Ciononostante, quando presi coscienza d'essere sfruttato come un capitale, le mie viscere si ribellarono. L'intelligenza fuori del comune mi avrebbe destinato a diventare un fisico nucleare. La scissione avvenuta nella mia testa non ha sortito, sinora, nulla di buono. L'incessante lavorio della mente non produce altro che un enorme dispendio di ricchezze. Ho messo le ali come Plutone: sono un dilapidatore in rapida ascesa. 7. A trent'anni mia madre, di famiglia siciliana, fu posta di fronte alla scelta di sposarsi o monacarsi. Difettava di vocazione per entrambi i ruoli, ma scelse il male minore (o quello che, allora, riteneva tale), arrendendosi ad un matrimonio combinato. Non c'è de sorprendersi che giudicasse una disgrazia nascere donna. Mio padre, che aveva quasi quarant'anni, fece di tutto per confermare questa convinzione: non una moglie gli serviva, ma una serva. Non potette frustrare il suo desiderio di maternità, ma la mise sull'avviso: non voleva figlie. Con il primo parto, mia madre lo accontentò; con il secondo dovuto ad un deplorevole incidente, lo deluse. Venni su all'ombra della commiserazione dell'una, del rifiuto dell'altro e della severità di entrambi. Nonostante le apparenze di una totale subordinazione, non mi piegai nè a loro nè all'uomo cui mi avevano destinata - che recusai - nè a Gesù. Mi immersi, a tredici anni, in un delirio d'amore che mi ripaga di ciò che non ho avuto e mi affranca da ogni servaggio. 8. Affettuosissimo e tenero in famiglia, mio padre era, quanto al resto - pace all'anima sua - un buono a nulla. Come se non bastasse l'inettitudine, che ci costringeva a vivere nella miseria, morì dopo aver messo al mondo quattro figli, ancora piccoli, lasciandoci sul lastrico. Fisicamente, gli somigliavo come una goccia d'acqua: per analogia e per un rancore forse inconsapevole, mia madre mi tratto come il figlio dal quale non c'era da aspettarsi nulla di buono. Per anni, il desiderio di riscattarmi mi bruciò le viscere, e, nonostante una profonda insicurezza, mi spinse ad un velleitario estremismo politico. A venticinque anni, un soprassalto di buon senso mi aiutò a capire che la giustizia sociale avrebbe potuto, tutt'al più, immiserire i ricchi e avvantaggiare i poveri, ma non riscattare i buoni a nulla. Dalle ceneri della rabbia esalò il fumo dell'ambizione, e mi proposi di far fortuna. Le circostanze, e capacità sino allora ignote, mi aiutarono. Il successo mi inebriò giungendo a trasformarmi in un padrone un po' tracotante. Commisi un errore fatale mettendo su famiglia e pensando di cementare intorno a me la gratitudine della moglie e dei figli con agi sempre maggiori. Quando capii che essi, nonché grati, cominciavano a ribellarsi al mio potere, profittando di me, era troppo tardi. Avrei potuto, di certo, stringere i cordoni della borsa e sedare la ribellione. L'aver sofferto drammaticamente la miseria - per quanto possa sembrare un paradosso - me lo impedì: se negavo loro qualcosa, e non certo l'essenziale, ma il superfluo e il voluttuario, le viscere mi si torcevano. Senza difese, sono divenuto servo dei loro bisogni. Tanto più consumano, dilapidando le mie fortune, tanto più mi disprezzano, e, uno alla volta, mi abbandonano. A nulla vale il vedermi depresso sino alla morte. Ai loro occhi, sono un buono a nulla per motivi opposti a quelli che mi destinavano a essere tale. 9. Al mattino, non ricordo alcunché. Gli occhi cerchiati di mia moglie e il terrore dei bambini, che rifuggono le carezze, denunciano ciò che di orribile deve essere accaduto. Talora, aggirandomi per casa, trovo degli indizi ancor meno equivocabili: qualche mobile segnato da un calcio, piatti e bicchieri infranti, la doppietta sfoderata. Prendo così coscienza, con umiliazione, d'essere andato ancora una volta a caccia di fantasmi. Ha senso che mi attribuisca io la responsabilità di ciò che fa l'altro, che si risveglia quando la mia coscienza si ottunde, e di cui ignoro tutto tranne il terrore che esercita sulle persone a me care? Il mio problema sembra l'uovo di Colombo: basterebbe non bere più e quegli non troverebbe alcun accesso ad una coscienza la cui onesta è totale. Ci si creda o no, l'alcol mi disgusta: lo ingurgito a forza come altri assume una medicina ripugnante. Se non bevessi fin dal mattino, non oserei affrontare neppure la mia immagine allo specchio. Ma devo lavorare, e, facendo il rappresentante, trovare la forza di affrontare, ogni giorno, infiniti sguardi perennemente improntati alla derisione. In questo sacrificio, che mi porterà alla tomba col fegato a pezzi, riconosco me stesso: l'altro, che profitta della mia debolezza, per sfogare le sue miserie, è un vigliacco, capace solo di far violenza a delle creature indifese. Cos'altro posso desiderare se non che mio figlio, che ha dodici anni ed è già un torello, cresca presto e gli dia la lezione che si merita. 10. All'origine il colore della vita è un fascio di luce bianca che ogni esistenza rifrange. Ai miei occhi di fanciulla giunsero solo colori vivi e netti. Perennemente armoniosa, come un prisma deformato, la mia famiglia ignorava (o temeva) il dolore. Fui allevata nel culto ingenuo del bene, dell'onestà, dell'amore. Il dovere di essere degna dei miei mi indusse a sposare, senza interrogarmi, l'uomo che scelsero per me, ritenendolo dotato di eccellenti virtù. L'intimità della vita coniugale, con l'imposizione di pratiche perverse, squarciò il velo delle apparenze. Seppi d'essere stata sacrificata per interessi patrimoniali. Compresi per mezzo di ricorrenti esaurimenti che la virtù, spesso, è un surrogato di viltà. Quando incontrai l'altro, un malavitoso, fui indotta a credere che ogni medaglia ha il suo rovescio. Mi abbandonai alla passione godendo finchè cominciò a ricattarmi. I colori della vita, che si erano ravvivati, si mescolarono repentinamente producendo la cupa nuvolaglia che da due anni incombe sulla mia anima. 11. Assoggettato ad un potere congiunto, che esigeva per la madre la subordinazione dell'eterno bambino e per mio padre il rispetto ch'egli non ebbe per il suo, ho alimentato ininterrottamente il sogno di una libertà totale. Da grande, ho sperimentato che il desiderare o il sentirsi incontrollabile non libera, poiché la libertà postula di scegliere, mentre il mio desiderio postula un divieto per precipitarsi contro di esso con la furia del toro. Trasgredire - ormai lo so - è null'altro che una forma di costrizione. Rispettare le regole è solo una costrizione peggiore. Non è un mistero come finirò. Accartocciato nella macchina ad un incrocio, visto che periodicamente, di notte, un raptus di anarchia mi induce ad attraversare la città senza rispettare i semafori e senza sfiorare il freno. Auguro di scampare a colui che mi aiuterà a tirarmi fuori dalla gabbia del mondo. 12. Che direste di un automobilista che, con il serbatoio a secco, si fermasse presso un distributore, rifornendosi di un solo litro di benzina, e si avviasse con il batticuore per un'autonomia che verrà rapidamente meno costringendolo a scrutare ansiosamente 1'orizzonte? Lo definireste uno sciocco: tale è anche il mio giudizio. Ma quell'automobilista sono io e il serbatoio è il mio cuore: a che serve, dunque, rimproverarmi? Vivo di relazioni fuggevoli, e, per quanto la fuga mi esponga ai rimproveri più aspri, so di essere in buona fede. Quando sono a secco, il mio bisogno assoluto mi induce a pensare che non potrà venire meno facilmente. Rimango perciò sempre sorpreso allorchè, da un momento allaltro, lesigenza di fuggire si ripropone implacabile e coattiva. Dopo anni di analisi, ho capito solo che devo sentirmi costretto dalla disperazione della solitudine per entrare in relazione. Il perché lo ignoro, tranne per il fatto che, quando fuggo, mi raccolgo nella lettura. Può darsi che nellanima mi porti delle cicatrici infantili. Ma perché escludere che lamore della cultura rende alla fine insopportabilmente noioso un rapporto duraturo con un essere in carne e ossa? > 13. Checché dicano i medici, non sono metereopatico. Più semplicemente la mia anima è acclimatata ad un universo che ignora il cambiamento. Quando si annuncia la primavera, mi pervade un fremito che mi esalta per pochi giorni: il tempo di lasciar scorrere come un fiume precipitevole l'illusione di potermi abbandonare alla vita. Di fatto, non accade nulla. Ma l'illusione, pur placata, perdura sino al tramonto dell'estate. Con le prime piogge, mi si spalanca davanti il tunnel dell'inverno, che non consente abbandoni. Ancora una volta, l'occasione di cambiare è svanita nel nulla. Mi ritraggo nella depressione consueta. Le stagioni si alterneranno implacabili: dovrei cedere io, e accettare il perenne autunno che incombe nella mia anima. 14. Chi entra in casa e disordina le mie cose? Da due anni a questa parte, le invasioni avvengono quotidianamente. Non c'è mobile che non ne porti il segno. Tutto è macchiato, graffiato, sbeccato. Dicono che ho le traveggole, abitando al quarto piano con la porta blindata e le sbarre alle finestre (chi le ha montate ancora ride). Dicevano lo stesso vent'anni fa quando intuii che mio marito mi tradiva. Ma come, un uomo del genere che stravede per te! E lui lí, tutto ligio, amorevole e compassionevole. Mi ha fatto curare per due anni da uno psichiatra prima che, casualmente, venisse fuori la veritá. Aveva avuto un figlio dalla mia migliore amica e lo aveva riconosciuto. Puó accadere di tutto nella vita. Che ne sa la gente? Adesso, è pazza davvero. Non dorme nè giorno nè notte per far la guardia. Vuole che sporga ogni giorno denuncia contro ignoti, e s'arrabbia perché non le credo. So cosa pensa nel suo intimo. E' una storia vecchia. E poi se, dopo aver partorito nostro figlio, non avesse blindato e sbarrato il suo corpo, non l'avrei tradita. 15. Come tutti i servi passati dalla parte dei padroni (il nonno era il custode di una casa gentilizia), mio padre, della cui ricchezza ignoro le origini, ha avuto un solo assillo: asservire tutti al suo potere, al fine di scongiurare l'atroce solitudine che avvolge come un bozzolo chi è spinto dalla vita a credere che non esistono affetti ma solo interessi. Io, sua unica figlia, l'ho adorato perché mi ha circondato sempre, fin dall'infanzia, di cameriere, governanti, autisti, maestre che, per bisogno, si adattavano ai miei capricci, alle prepotenze, ai maltrattamenti. Avrei dovuto capire che il troppo rapido avvicendamento di persone in quei ruoli attestava nel contempo la mia insopportabilità e una dignità umana che resiste anche al bisogno. Non avendolo capito, mi sono inebriata dell'esercizio di un potere che mi dava gioia nella misura in cui provocava umiliazione e dolore. Incautamente, quando sopravvenne l'adolescenza, pensai di poter sfidare anche mio padre. Mi aspettavo che egli mi desse la prova di essere veramente il padrone, sottomettendomi. Ho scoperto invece che la sua anima era rimasta quella di un servo senza dignità. Ha accettato tutte le umiliazioni che gli ho inferto senza reagire, dimostrandosi incapace di abbandonarmi. Dovrei godere d'averlo assoggettato. Ma posso ignorare che la mia volontà di dominio si estingue al di fuori di questa gabbia dorata? 16. Cosa può fare una donna che odia il marito e non ha alcun reddito? Può, come me, fare la schiava e concedersi ogni tanto la vendetta dell'evasione. Non parlo dei tradimenti, che, non essendo comunicabili, non feriscono. Esistono vendette più banali e sottili: l'emicrania, per esempio, che martella le tempie, mi affranca dai lavori domestici, mi isola nel buio della camera da letto e sconsiglia di disturbarmi. Una banalità: pure, per un giorno, lui, che non è in grado di cuocersi un uovo e di stirarsi la camicia, è disperato. Si aggira per la casa come un bambino sperduto. Vorrebbe aiutarmi, perché ha bisogno di me, ma non osa entrare in camera, perché sa che la testa potrebbe continuare a farmi male per giorni e giorni. Tanto mi basta. Il prezzo? Chi conosce le pene della schiavitù, sa che la libertà di un giorno non ha prezzo. 17. I miei erano due anime belle. Profondamente credenti, e conservatori per via di qualche traccia di sangue blu, pensavano che vivere significasse preservare a tutti i costi la propria innocenza in un mondo inquinato dal male. Cresciuto in solitudine come un fiore di serra, coltivando la musica e gli scacchi, non ho mai avvertito il bisogno di relazione alcuna. Così credevo, almeno, finchè i miei se ne sono andati a godersi il paradiso. Non ho il coraggio di raggiungerli, nè di vivere come loro. La mia malattia, insorta nell'adolescenza sotto forma di anoressia e trasformatasi poi in una nevrosi ossessiva che mi obbliga, per via della paura del contagio, a vivere chiuso in casa, l'hanno accolta come una prova del Signore. Io so, o presumo di sapere che è stata null'altro che una sciocca testimonianza di fedeltà al loro mondo, incompatibile con la mia natura. Coscientemente, continuo a non aver bisogno di nessuno. Ma, da quando se ne sono andati, lasciandomi il necessario per vivere, alla paura del contagio s'è aggiunta una sottile claustrofobia che mi obbliga a tenere socchiusa la porta di casa e le finestre. Questi spiragli sono quanto rimane nella mia vita di umanità. Ma il cuore, murato nella Legge, non ha porte ne finestre. 18. Da adolescente, sognai una vita eroica. La sorte si è incaricata di soddisfarmi in maniera imprevista. Invisibili lance sono puntate contro di me, e, ora l'una ora l'altra, tentano le mie carni senza penetrarle. Lingue come lance mi tormentano con accuse infami, irriferibili. Non ho pace neppure nel chiuso della mia camera. Talora, balena nella mente l'impulso di reagire, di vendicarmi. Preferisco - contro le aspettative dell'adolescenza - Giobbe a Sansone: eroicamente, continuo a portare sulle spalle il peso di un mondo coalizzato contro di me. 19. Da me si volle che diventassi grande troppo in fretta. A dodici anni ero già una donnina con la testa a posto, in grado di accudire la casa, i fratelli e di mediare le interminabili liti tra i miei. A venti anni, quando ero sul punto di votarmi a Gesù, inaspettatamente mi innamorai e scoprii di avere un cuore selvaggio e avido di affetto chiuso in un corpo immune alle tentazioni. Agli uomini non piace un'anima appassionata in un involucro di ghiaccio. Fui rifiutata più volte. L'alcool sciolse la mia freddezza, rendendomi libera di godere e di non ricordare alcunché. La coscienza ebbra si perde con facilità, ma cancella pietosamente le sue cadute. Non posso più, periodicamente, rinunciare a bere. Negli intervalli, continuo ad essere una donnina con la testa a posto che ama Colui che perdona. 20. Dacché divenni adolescente, l'avvento della primavera mi gelava il sangue, poiché mi ricordava che, di lì a poco, la scuola sarebbe finita e, con essa, l'unico scampo di libertà per la mia anima. La luce, il profumo e il fremito della stagione mi risucchiavano alla finestra, donde osservavo invidiosa i coetanei abbandonarsi agli ingenui giochi dell'età. A me, signorina di buona famiglia di provincia, era vietato frequentarli. Talora, mi si impediva anche di stare alla finestra per non dare nell'occhio. Mi sposai per disperazione, senza sapere che mi attendeva un tunnel cupo e buio: il mio corpo, congelato dal rifiuto di una femminilità vissuta come una condanna, non si abbandonò mai al piacere. Figliò e basta. A quarant'anni, quando ormai mi ero rassegnata a sfiorire e invocavo l'autunno della vita, che mi avrebbe resa uguale alle altre donne, esponendomi al sole repentinamente sentii vibrare nel mio intimo una sete disperata di amore e di piacere. Nessuno avrebbe potuto impedirmi di soddisfarla, se il mio corpo non mi avesse tradita cominciando a reagire alla luce del sole con dei lunghi brividi di freddo che esitano in un malore mortale. Invano i medici si affannano a capire la malattia di cui sono affetta. Io so che, ancora una volta - l'ultima -, il mio corpo, anziché risvegliarsi alla primavera, si e ibernato. Ed e tutto. 21. Dall'età di sei anni, mi si impose una perpetua vigilanza. Dopo ogni litigio, mio padre si allontanava di casa minacciando di non tornare più, e mia madre, che lo aggrediva perche ne era gelosa, si allettava, imponendomi di stare alla finestra per segnalare il ritorno. Esploravo l'orizzonte fino al calar del sole, con in petto il desiderio che l'inferno si ricomponesse pur di scongiurare una solitudine infinita. Per anni, ho logorato gli occhi e appannato di ansia i vetri delle finestre, finchè una miopia ingravescente e la paura della cecità non mi hanno elevato al ruolo di malato bisognoso di essere assistito e guidato per mano. Secondo i medici, che non rilevano alcun danno alla retina, soffro solo di una grave forma di ipocondria. Io so che in una minuscola fibra muscolare si è inscritta una vendetta che mi impedisce di vedere al di là del mio naso. Che importa che essa mi rende preda dei miei persecutori? Li costringe a stare insieme per sempre e a prendersi cura di me. 22. Era una ragazza di buona famiglia, vergine ancora a trent'anni. La sposai meno per passione che per interesse. Mi sembrava, allora, di avere in odio la mia famiglia contadina, abbarbicata a un fazzoletto di terra sassoso, e la rozzezza dei paesani. Quando scoprii la cultura dei parvenus - tali erano i suoceri, commercianti e strozzini -, era troppo tardi. Le umiliazioni che ho subito, per amore di mio figlio, sono state infinite. Non potevo abbandonarlo alle cure della madre, che, nell'intento di estirpare dal suo sangue i germi della mia rozzezza, lo educava come fosse una femmina. Strigliandolo come si fa con le bestie perché diventasse un uomo, non l'ho aiutato molto. I medici usano strani termini per definire la sua condizione. Io so che, sballottato da una parte e dall'altra, non ha capito più nulla. 23. Dapprima, si trattava solo di piccole distrazioni. Ho preso atto che qualcosa non andava allorchè mi sono accorta che, per cucinare un piatto consueto, dovevo tenere sotto gli occhi la ricetta. Il velo di nebbia si è esteso piuttosto rapidamente al passato. Sono ancora lucida purtroppo per capire che la mia identità sta svanendo, ma non in grado di prevedere cosa sarò quando essa non ci sarà più. Pietosamente i miei mi nascondono la verità. Se non avessi letto i risultati della T.A.C., sarei comunque in grado di ricavarli dai loro sguardi. Sono angosciata. Verrà il giorno - lo so - che guardandomi nello specchio non mi riconoscerò. Mi conforto pensando che, quel giorno, sarò libera da ogni responsabilità, e lui non avrà il coraggio di impormi alcuna prestazione, neppure a letto. Per due anni - tanto è occorso per arrivare alla diagnosi - lho rimproverata sistematicamente per le sue distrazioni che mi facevano saltare i nervi. Mi sembrava che lo facesse apposta, e il dubbio era confortato dal fatto che quelle distrazioni riguardavano in genere le cose cui tenevo di più. Non avrei mai pensato, per esempio, che una malattia del cervello potesse indurre a salare troppo i cibi. Il verdetto diagnostico infine è stato inequivocabile e senza appello. Mi sono sentito in colpa, e disperato perché a mio modo lho amata e la amo. Il dubbio purtroppo è rimasto. 24. Devo essere nata indemoniata. Venendo fuori dal ventre di mia madre, le procurai un esaurimento nervoso che per un anno e mezzo le impedì di allevarmi e di toccarmi. Di quel periodo non ricordo ovviamente alcunché. I primi ricordi risalgono all'età di tre anni, e lampeggiano dentro di me come un'atroce verità. Ero un demonio scatenato, impossibile da quietare e da soddisfare. Aggredivo - per rabbia e per gusto - cose e persone. Mia madre, che era guarita, mi temeva a tal punto che si chiudeva in camera, lasciando che per ore io tempestassi di pugni e di calci la porta. All'asilo a tempo pieno - un intervallo quotidiano smisurato di carcerazione per la mia anima irrequieta - riscattavo la solitudine con una prepotenza che induceva timore anche nei maschi. A cinque anni, il demonio mi indusse a scagliarmi contro una porta a vetri, lacerandomi il corpo in più punti. Ero destinata a finir male se non mi fossi imposta una disciplina rigorosa. Chiusi il diavolo che era dentro di me in una lastra di marmo. Non importa che, da allora, sia considerata fredda e insensibile. Con l'adolescenza ho scoperto di poter affidare le mie emozioni allo scritto. La poesia scorre dentro di me come un fiume silenzioso, che si apre in estuari di pace e di gioia profonda. Vivo incarcerata nella mia camera? Non c'era altro rimedio. La dedizione totale e l'amore di mia madre mi impediscono di pensare che non sia io ad essere nata male. Nel profondo della mia anima, il demonio continua a possedermi, ma io posseggo, ormai, lui. Ho riconosciuto mia figlia solo quando era in grado di camminare e di parlare. L'esserino che c'era prima al suo posto, capace solo di piangere, urlare o ridere stolidamente, di sporcarsi e di mangiare avidamente, ai miei occhi snaturati non aveva sembianze umane: mi appariva né più né meno un mostriciattolo che, se solo gli avessi permesso di aggrapparsi a me, mi avrebbe trascinato nel suo caotico disordine. In quell'anno e mezzo - tanto è durato il rifiuto - non fingevo, stavo male veramente: allettata gran parte del tempo, svuotata di ogni energia, dovevo essere accudita io stessa. Riconoscerla è stato vano: il diavolo era già entrato nella sua anima col veleno del mio rifiuto. Ho nascosto la mia vergogna sotto l'alibi offerto dal suo comportamento, giungendo con il tempo a farmi giudicare anche da lei - e da tutti - una madre straordinaria. Con una dedizione assoluta, ho pagato e pago le mie colpe. Dovrei confessarle? Se potesse annullare l'accaduto, non esiterei a farlo. Ma chi potrebbe credere che un bambino piccolo può essere identificato con un persecutore fino al punto di vederlo come il simbolo stesso del disordine, dell'incontrollabilità e dell'avidità di vivere? Mia figlia, almeno, lho riconosciuta. Il demonio degli istinti lho esorcizzato per sempre. > 25. Dopo due maschi, mia madre desiderava un’alleata. Mio padre, che disprezza le donne, ritenendole esseri inferiori, si inorgoglì quando seppe che, ancora una volta, il caso era stato dalla sua parte. A diciotto anni, comunicando loro di essere omosessuale, tentai, forse, la quadratura del cerchio. Fui disprezzato da entrambi. 26. E’ inutile che mia madre cerchi di convincermi che una donna deve essere orgogliosa delle mestruazioni poiché sono il segno della sua fecondità. A me non interessa avere figli e, seppure mi interessasse, non capirei il senso di sgocciolare periodicamente sangue dall’odore nauseabondo per trentacinque anni. Io penso che si tratti di un errore di programmazione della natura. La stessa funzione biologica si sarebbe potuta realizzare senza obbligarci a portare i pannolini. Che importa se mantenere immacolato il mio corpo mi costringe a una dieta da fame? Se vivere non è un dovere, meno ancora lo è accettare i ghiribizzi del caso. E' un modesto sacrificio la frigidità a confronto della gioia che ne ricavo. Essendo bella, di una bellezza dicono ammaliante, gli uomini li attiro come le mosche. Mi si avvicinano e sono storditi dal calore della mia pelle e dalla mia voluttà. Mi penetrano come furie, e con facilità perché sono sempre umettata. Poi, repentinamente, sopravviene la secchezza e la freddezza. Nessuno desiste. Peggio per loro. Possono starmi dentro e darsi da fare per ore, finchè non devono arrendersi alla loro impotenza. Non è colpa mia se nessuno di loro riesce a possedere il mio cuore. 27. Ero già nel ventre di mia madre quando una broncopolmonite portò via mio fratello, che aveva un anno ed era il prediletto. L'avessi saputo, avrei rinunciato a venire alla luce. Mia madre, che crollò in una grave depressione, fece del suo meglio per evitarmi di incappare nella vendetta che merita chi usurpa una vita: negò di essere incinta, si affamò affamandomi, bloccò il parto. Dopo un'inerte attesa del travaglio, uomini in buona fede mi trassero dal ventre, che doveva essere la mia tomba, blu come il cielo di notte. Per sei mesi - mi è stato detto - mia madre non ha potuto riconoscermi, poiché è rimasta immersa nei fantasmi di un delirio. Poi, asfissiandomi con le sue cure, mi ha respinto definitivamente nel nulla. Ho dedicato tutta la vita a mio figlio, per riscattare la colpa di aver destinato l'altro a morire per una riprovevole imprudenza. Non nego d'aver sbagliato. L'ho soffocato, ma per amore. Perché, dunque, ha deciso di seppellirsi nella sua camera al buio, e impedisce anche a me di entrare? Non mi pesa depositare davanti la porta il cibo, e ivi raccogliere i resti del pasto e gli escrementi nel pitale. Ma chi - mi chiedo - potrà tirarlo fuori da quest'altra tomba? 28. Essendo destinata presumibilmente a morire, mi indigna il fatto che, sui giornali e in televisione, il mio dramma, comune a tante altre, sia banalizzato. Che c'entra l'estetica col vedermi orribilmente grassa allo specchio, nonostante pesi 33 chili? Dovrebbero spiegarmi, gli esperti, che cosa vedo, se è vero che loro e tutti gli altri mi giudicano orribile per il motivo opposto. E, ancor più, perché, toccando il mio corpo, quando sento la pelle ben tesa sulle ossa, provo un euforico senso di forza, mentre quando, col pollice e l'indice, riesco a far venir fuori un rotoletto di adipe, inorridisco della mia mollezza. Questo orrore mi chiude lo stomaco. La madre l'avrà pure manipolata, come dicono i dottori. Ma, rozza e ignorante com'è, mi riesce difficile pensare che mia figlia, dotata da sempre di un'intelligenza superiore, possa essersi fatta irretire. Sono io responsabile del fatto di averla educata ad amare le cose belle e grandi e a disprezzare quelle futili e meschine. Le ho impedito di istupidirsi su Cappuccetto rosso leggendole Omero, di rovinarsi il gusto con le canzoncine per bambini facendole ascoltare Mozart. Quanto al televisore, non è mai entrato a casa nostra. Forse ho sbagliato, ma, tornassi dietro, non accetterei che mia figlia diventasse come le altre. Fino a 13 anni, era un po' isolata per forza di cose, ma orgogliosa della sua diversità. Poi s'è istupidita. Che c'entra la grandezza dell'anima con la bilancia? 29. Essere servi di Dio è, forse, uno dei possibili modi di affrancarsi dai pesi terreni. Mia madre, che aveva gli occhi inquieti di passione, si votò a Dio, investendo i suoi doni nell'amore dei fratelli e delle sorelle. Tutto il paese la ricorda come una santa. Io, la figlia maggiore, fui l'umile ancella che le permise di edificarsi sostituendola, dall'età di dieci anni, nell'assolvimento dei doveri domestici. A trent'anni - mia madre era volata in cielo - scoprii d'essere null'altro che una serva, affrancata da una fede alla quale imputai d'avermi fatto vivere con gli occhi chiusi. Mi lanciai nel mondo con l'affanno di dover compiere l'impresa di dare senso all'esistenza. Purtroppo, mossa da una cieca rabbia, ebbi l'ardire di misurarmi con mia madre, tentando di realizzare in negativo ciò che essa aveva realizzato in positivo. Santificarsi, evidentemente, e più facile che perdersi. Mi affanno, invano, da dieci anni a raggiungere il fondo dell'abiezione. Potessero le mie ceneri parlare, direi a mia figlia, che asservii alla mia ambizione di santificarmi, da non affannarsi troppo a praticare il negativo della virtu. Come non esiste il paradiso, non esisterà l'inferno. Santi e peccatori sono le due facce di una stessa medaglia, due forme di disperazione terrena Dovrebbe pensare a vivere, non ad emularmi in negativo vendicandosi di me. 30. Finirò sui giornali come una madre folle e snaturata, che ha trascinato con se nella morte i figli. Fossi pazza, avrei pensato solo a me stessa. Non lo sono al punto di destinarli a ripetere la mia vicenda: senza padre né madre sarebbero destinati al collegio, trattati come si trattano i bambini malnati e, infine, costretti a sopravvivere mendicando la pietà o il falso amore di qualcuno. Di questo essi sono frutto. Finirebbero, ne sono certa, con il maledirmi. Mentre ora sono contenti, perché sanno che domani li attende un lungo viaggio. 31. Fino a due anni, vissi come un fuscello sballottato in un mare in tempesta. Non so per quante mani passò il mio corpo, né la pietà e l'odio che suscitai nelle infinite persone cui mia madre, ebbra di libertà, mi affidò. Mi aveva avuto per caso da un uomo ricco che, nel corso di un viaggio d'affari, aveva ceduto al suo fascino, e si era poi sottratto neghittosamente al suo dovere. Non mi amava, ma mi aveva tenuto con sè presaga dell'affare. Quando avevo due anni, roso dai sensi di colpa, mio padre mi riscattò come una merce pregiata e mi fece venire alla luce di un mondo nuovo, sereno e accogliente. La moglie, che, per la sua fede, venuta a conoscenza della cosa, lo aveva consigliato in tal senso, mi avvolse sorprendentemente di un amore tenero e premuroso. Avrei dimenticato tutto, se, a sedici anni, colei che mi mise al mondo non fosse tornata all'attacco per vendere nuovamente i suoi residui diritti su di me. Non mi fu detto nulla; una perizia, orientata a confermare il mio status, fu giustificata come una formalità. Il mare, che si era quietato nel mio cuore, tornò ad agitarsi. Perdetti il senno, convinto che tutti sapessero della vergogna delle mie origini. Infinite, mai esplicite, voci mi confermano di continuo un universale disprezzo. Quale colpa commisi venendo alla luce? Nessuna. Pure mi sento un verme che deve riscattarsi con un atto eroico e mostruoso. Per intanto, mi limito a odiare mio padre e a trattare come una serva colei che si è asservita ad allevarmi come un figlio. 32. Fino a tredici anni dormii nel letto dei genitori, per la paura di separarmi da loro. Mi considerai anormale finché non compresi che mia madre aveva bisogno di un bambino per sottrarsi o rendere increscioso l'assolvimento del dovere coniugale. Avrà avuto i suoi motivi per non asservirsi al marito: non ultimo forse, l'essere stata indotta a confondere l'onestà con l'anestesia sessuale. Ma mi riesce difficile perdonarle che la sua vendetta si è ritorta su di me, rendendomi impotente. Come ha potuto ignorare, infatti, che stavo diventando io stesso un uomo? So cosa mi rimprovera mio figlio, e non posso dargli torto. L'ho usato per rendere imbelle il padre, e lui stesso lo è divenuto. Ma perché gli uomini dovrebbero soddisfarsi, se a noi donne è stato imposto di non provare nulla? 33. Gli orizzonti della coscienza infantile sono ristretti. Altrimenti, non avrei vissuto come disamore e abbandono la perpetua stanchezza dei miei che, facendo una vita da cani per assicurare il futuro a me e a mio fratello, trascorrevano gran parte del tempo libero dal lavoro a letto, inmersi nel buio e desiderosi di un assoluto silenzio. Urgeva dentro di loro l'angoscia della fame sperimentata, la vergogna delle origini misere e l'ambizione dell'ascesa sociale. Cosa potevo capire io di tutto ciò, se essi stessi non se ne rendevano conto? Alla convinzione di non essere amato, si aggiunse poi la certezza che volessero sfruttarmi, sollecitandomi a primeggiare negli studi e facendomi balenare come meta il miraggio di una laurea che non mi interessava. Li attaccai in quello che ritenevo il loro punto debole, portando avanti una carriera scolastica mediocre e umiliante. Non mi resi conto che, avendo assimilato la loro mania di grandezza, mi destinavo con ciò a vivere una vergogna sociale senza scampo. Adesso gli orizzonti della coscienza si sono allargati fino a permettermi di comprendere la tensione rivendicativa che ha estenuato la loro vita e la logica di vendetta e di riscatto che ha parassitato la mia. Ma a che vale? Il mio fallimento li ha fatti invecchiare di colpo: a me rimane la vergogna, che mi impedisce di uscire di casa, e la ridicola onnipotenza di un pene perennemente in erezione e mai pago di essere masturbato nel chiuso della mia cameretta. Non voglio mentire. Preferirei vederlo morto piuttosto che gettato nel letto tutto il giorno a masturbarsi senza ritegno. Ignoro il confine tra la malattia e l'incoscienza (per lo psicoanalista pare che siano la stessa cosa). Io so solo che quando la rabbia mi spinge a maltrattarlo, è frenata da un oscuro rimorso. Non mi attribuisco alcuna colpa: non ho dedicato a me stessa più cure di quante ne abbia ricevute lui e suo fratello. Per anni sono vissuta immersa nel sogno di un riscatto dalla miseria che, come ogni guerra, giustificava ogni mezzo. Con lo stipendio di mio marito e unaccorta economia saremmo vissuti decorosamente. Tanto a me non bastava: avevo fame di sicurezza, di beni e di prestigio. Con i risparmi di un lavoro infame che, quale insegnante fuori sede, mi allontanava dalla famiglia dall'alba al pomeriggio ho acquistato le case, mattone su mattone. Il prestigio me lo aspettavo da lui. Al di fuori del perverso piacere degli immobili e dell'onore che presumevo di ricevere dal figlio dottore non ho conosciuto altro. Solo ora mi rendo conto che la mia vita non è stata meno oscena della sua. Non so cos'abbia da rivendicare mio fratello. Per cinque anni, prima che nascessi, ha avuto per sè tutte le cure. E le ha monopolizzate anche dopo con i suoi capricci. Io ho dovute accontentarmi delle briciole. Quanto alla mania di grandezza dei genitori, entrambi di origine contadina, ne ho sentito il fiato sul collo come lui, e come lui ho rifiutato ostinatamente lo studio. Non ignoro la vergogna che lo attanaglia. Mentre lui, pero, ha messo la coda tra le gambe e si è rifugiato nella camera, io ho reagito al senso di inadeguatezza dedicandomi al culturismo agonistico con una volontà di ferro. Curo il mio corpo sopperendo a remote frustrazioni, Lo sottopongo a sforzi brutali che rischiano di distruggerlo? Rivendico i miei diritti obbligando mia madre, che odia la cucina, a perdere un'infinita di tempo per prepararmi la dieta? Sono un narcisista che non puo esibire altro che la potenza delle masse muscolari? Può darsi. Ma, dato che la mania di grandezza ci ha intossicato tutti, la mia soluzione non funziona meglio di quella, provocatoria e sterile, di mio fratello? I muscoli possono svilupparsi all'infinito, il pene - nonostante mi fratello lo creda - non è un muscolo. Quanto alla personalità, è vano illudersi: rimarremo nani, e prigionieri di un sogno. 34. Le regole sociali sono impercettibili finchè non capita di violarle. Allevato nel più puro conformismo piccolo-borghese, non ho mai ignorato, dall’adolescenza in poi, la mia natura trasgressiva. Ho fatto follie per conquistare una donna anticonformista. Due mesi dopo averla sposata, e pur amandola appassionatamente, il desiderio sessuale, ingabbiato nel dovere, si è estinto. La fortuna mi è stata alleata consentendomi di arrivare a ricoprire un ruolo di responsabilità che mi ha assicurato la rispettabilità sociale. In nome del prestigio conseguito il vizio dell’alcool e la tendenza a ironizzare pesantemente sugli altri mi sono state perdonate. Da alcuni anni però si pone un singolare problema. E una moria, per via delletà matura, di amici e conoscenti. Non posso sottrarmi al dovere di presenziare ai funerali. Ma capita sempre più spesso che, nel mezzo della cerimonia, sopravvenga un pianto a dirottto che riesce imbarazzante. Se il malcapitato è un uomo, qualcuno temo può pensare a un ambiguo connubio. Se è una donna, limbarazzo è ancora maggiore perché il mio pianto sembra attestare un insospettato legame. La mia fama di uomo freddo e razionale, un po cinico negli affari, non mi è di certo di aiuto nel giustificare la perdita di controllo emozionale. Io stesso mi sorprendo perché, in fondo, di quelli che muiono pace allanima loro non me ne frega un bel nulla. Anzi, a dire il vero, quando so che qualcuno degli amici e dei conoscenti sta male, nel mio intimo lo maledico in anticipo presagendo la prova cui mi sottopone. Con le sue interpretazioni sul mio buon cuore, che avrei corazzato a partire dallinfanzia, lanalista mi fa sorridere. Comunque il sintomo persiste. Le vie della trasgressione sono infinite, ma quella che io batto ha un che di originale. 35. Ho nell'anima due destini incompatibili. Nacqui fuori del matrimonio per una debolezza di mio padre, che aveva già famiglia. La donna con cui mi ebbe, che, tranne l'utero, non aveva alcuna altra qualità di madre, mi trattenne con sè per ricattare mio padre che era ricco. Non so per quante mani passò il mio corpo, nè la pietà e il disprezzo che suscitai nelle infinite persone cui colei che mi mise al mondo, ebbra di libertà, mi affidò. Benché ricordi poco di quel periodo, il mio cuore deve essere vissuto in una perenne tempesta; l'impotenza e la frustrazione, se fossero durate più a lungo, mi avrebbero sicuramente determinato ad essere cinico e violento. All'età di due anni, mio padre riuscì a riscattarmi, e venni alla luce di un mondo nuovo, caldo, sereno e ricco di sentimenti. Avrei avuto bisogno di un'educazione amorevole ma ferma poiché i germi del disordine allignavano già nella mia anima. Invece mi si viziò, per ripagarmi del male che avevo subito, Il cuore, che era affamato, si drogò dell'amore e dei privilegi di cui era investito. A quindici anni la rivendicazione e la vendetta si contendevano la vita: l'una mi obbligava a rimanere dipendente, l'altra a manifestare la mia prepotenza agli occhi del mondo. In casa sono diventato un tiranno che esige di essere curato come un bambino piccolo, fuori sento che mi si perseguita poiché si ha paura di me. A ragione: solo un gesto eroico potrà porre fine alla mia dipendenza e attestare il mio valore. Un gesto eroico riscatterà l'ignominia di essere ancora avvelenato dall'odio, nonostante quanto mi è stato dato per risarcimento. 36. Ho odiato mia madre fin da quando mi resi conto che, ritrovandosi accanto un uomo buono e totalmente disponibile nei suoi confronti, lo umiliava, lo maltrattava e lo tradiva provocatoriamente. L’ho odiata ancora di più allorchè, dopo la separazione che mi privò di un padre che idolatravo, mi impose la convivenza con un uomo rozzo e impulsivo che spesso la picchiava. A 18 anni potei andarmene a vivere da sola poiché mio padre, intanto, aveva fatto fortuna. Ero piena di buoni propositi. A 26 anni mi ritrovo ad avere accanto da due anni un ragazzo che mi adora e soddisfa tutte le mie aspettative. Ma per la terza volta il coronamento del mio sogno coincide con un disinvestimento sentimentale e sessuale che mi obbliga a tradirlo. Non lo maltratto né lo maltratterò. Mi chiedo quanto tempo però sopporterà il ruolo del cavalier servente. Ripercorrere le orme di mia madre mi tormenta. E’ un difetto genetico o cos’altro che ci spinge ad essere così irrazionali? L’unica certezza è che, non tollerando le violenze fisiche, non incapperò nel persecutore che mi farà pagare le colpe commesse nei confronti degli esseri buoni. 37. Ho sofferto di solitudine fin da bambino perché i miei, per assicurarmi l'avvenire o per soddisfare la loro ambizione, non trovarono di meglio che mettermi in collegio. Dedicarono tutte le loro energie alla gestione di un bar aperto dal primo mattino a notte fonda. Tornai definitivamente a casa che avevo undici anni ed ero dunque in grado dí star da solo. Rivendicai i miei diritti poltronando nel letto, rifiutando di studiare e abbandonandomi alla masturbazione. Ogni tentativo da parte dei miei di farmi uscire dall'inerzia fu contrastato passivamente. Intendevo punirli e, così facendo, ho scavato attorno a me in fossato di solitudine invalicabile. A ventiquattro anni ero drogato da una sterile per quanto totale libertà e assillato dalla vergogna di mostrare al mondo la mia pochezza. Quando i miei, forse per violentarmi ad essere autonomo, decisero di partire per un lungo viaggio, rifiutai - come si aspettavano - di accompagnarli, fingendo un'assoluta indifferenza. Mi ritrovai di nuovo solo al mondo nel terrificante deserto dell'estate piena. Langoscia mi avrebbe sicuramente spinto a por fine ad un'inutile esistenza, se non fossero state istallate nella casa, proditoriamente, delle microspie, che da allora hanno preso a controllarmi attimo per attimo. Da due anni dura questa persecuzione. Forse, si intende proteggermi, e rimediare alla sciagurata incoscienza dei miei. Di fatto, non posso soffrire più di solitudine. Ma vivere con occhi estranei puntati addosso tutto il giorno non è forse peggio? 38. Il castello è decrepito, ma è pur sempre un castello. Mio padre, a settant’anni, esce ancora per il paese impettito a cavallo. Mia madre, un’attrice di terzo ordine, ha ricavato dall’imparentamento nobiliare solo le sopracciglia perennemente rivolte verso l’alto che le consentono di guardare tutti con sussiego. Sterili, mi hanno adottato tardivamente strappandomi ad una madre zingara, ballerina di successo a Parigi. Sono stata scelta per la mia bellezza decorativa, che, nel corso degli anni, associata ad un carattere irrequieto, è divenuta per loro un pericolo. Non ho mai condiviso il loro mondo, il loro modo di essere, la conventicola di nobili decaduti con cui fanno lega. Mi hanno educato o meglio fatto educare da una odiosa governante come una principessina ignari del fatto che le buone maniere rappresentavano un implicito insulto per il mio sangue e la mia razza. Preso atto che non mi lasciavo domare, hanno cominciato a disprezzarmi a modo loro. Non hanno ostacolato le mie fughe di pochi giorni con uomini i più diversi (quasi sempre artistoidi), fanno finta di ignorare la fama che ho nel paese, svalutano i miei disegni nei quali rappresento un mondo a loro alieno. Si preoccupano solo del fumo e del fatto che, un giorno o laltro, potrei rimanere incinta e far partecipe della loro eredità (ridotta ormai al lumicino) un essere di oscure origini. Incapaci di comprendermi, danno credito alle diagnosi degli infiniti psichiatri da cui mi hanno fatto visitare che, prezzolati, fanno riferimento ad una malattia genetica che li mette al riparo dal prendere atto di essersi imbarcati in unimpresa superiore alle loro forze. Era selvaggia, e tale è rimasta nonostante i nostri sforzi. Purtroppo il cognome ce lha e non si può tornare dietro. Aspetta la nostra morte per godersi la libertà e leredità, che, pur ridotta al minimo, è ancora un bel gruzzolo. Non sa ed è bene che non sappia che leredità è già stata impegnata come lascito per una clinica svizzera che laccoglierà. Continueremo a prenderci cura di lei anche dopo la morte, impedendole di disonorarci ulteriormente. 39. Il mio corpo è freddo e inaccessibile. Esercita per questo suppongo più che per le sue forme un’attrazione irresistibile sugli uomini. Ciascuno di essi, quando prende atto della mia anorgasmia, si esalta sentendosi sfidato ad essere il primo a violare la mia verginità erotica. E’ incredibile in quale misura gli uomini pensino che lo sfregamento dei genitali debba infine accendermi l’anima. Alcuni, prima di cedere, insistono per ore. Più insistono peggio è. Mentre si danno da fare con la lingua, con le mani, col pene, e mi blandiscono guaendo come agnelli o muggendo come tori, io mi distacco, guardo ciò che avviene dall’esterno, dall’alto, e raggiungo nel silenzio e nella freddezza l’infinito piacere razionale di sentirli inferiori: bestioline condizionate dagli istinti a perdere la loro dignità. Si chiuda pure a riccio nella sua torre davorio razionale. A me interessa possedere il suo corpo. Della sua anima, sterile e presuntuosa, non so che farmene. E fredda come il marmo. Ciò almeno mi mette al riparo dal dovere andare in giro per i musei col rischio (che si è realizzato una volta) di essere colto mentre mi masturbo accanto ad un busto femminile. Lo so che pensa che io sia come gli altri. Glielo faccio credere: sarebbe un bel problema se cambiasse idea. 40. I miei genitori mi hanno educato nella fede. Per anni, è stato dolce abbandonarsi alla suggestione d'essere figlio di un Dio rappresentato da persone perfette. Come avrei potuto fare a meno di sentirmi in dovere di essere degno di loro? Non avevano altra pretesa che di vedermi eccellere nello studio. L'impegno di primeggiare l'ho sempre rispettato, rinunciando praticamente a vivere. Con l'inizio dell'università, subentrò nella mia mente il dubbio che ciò che si pretendeva da me non era il mio bene, ma un motivo di credito e di prestigio per la famiglia. Rapidamente, questo dubbio s'ingigantì, generandomi dentro una rabbia cieca. Nonché amato, ero dunque stato sfruttato. Per mesi ho tentato di dissolvere il dubbio e la rabbia, e di confermarmi nell'idea di avere genitori perfetti. Ho lottato con tutte le mie forze contro la tentazione di arrestarmi negli studi per mettere alla prova il loro amore. Non lo avrei mai fatto, se non fossero insorte orribili fantasie che mi distolgono dai libri e mi costringono a stare sveglio la notte, per impedire ch'esse approfittino del venir meno della coscienza. Nonostante il rendimento ormai quasi nullo negli studi, continuo a sentirmi degno dei miei perché investo tutte le energie in un'impresa ben più difficoltosa dell'apprendimento: oppormi al demonio che mi sollecita incessantemente a bestemmiare Dio. 41. Il mio potere di seduzione, che si avvale meno del fascino fisico che di una raffinata intuizione psicologica, è pressoché illimitato. Usandolo con discrezione, potrei riceverne molte soddisfazlont. Purtroppo, ne abuso rivolgendolo sulle donne che sono sensibili ad esso poiché lottano contro ogni forma di subordinazione. Godo nell'indurre repentine capitolazioni. Nel momento stesso che brilla nei loro occhi l'inquieta luce dell'innamoramento sublime, so che nulla di buono me ne verrà: il vedersi schiusa davanti la voragine della perdita di sè le induce infatti repentinamente a salvarsi, fuggendo o negando. Esse pensano di salvare se stesse: in realtà, il loro moto di orgoglio mi preserva dallo sperimentare un vincolo che mi riuscirebbe intollerabile. Ricca di conquiste, la mia vita è e deve rimanere solitaria, ché mi basta dover strisciare quasi ogni notte, in sogno, ai piedi di una donna fredda come il marmo, il cui sguardo mi è ignoto. Non si offenda la mia intelligenza tirando in ballo mia madre, che, nonché rifuggirmi, rimase mia a preda sino alla fine dei suoi giorni. Quella donna non esiste, è il simulacro dell'insensibilità inviolabile: perciò striscio al suoi piedi. 42. Il paesaggio, immenso e desolato, rende ridicolo il corpo a corpo che in esso si realizza. Accanto a me è un ufficiale nazista, irrigidito nella sua impeccabile divisa. Io ho tra le mani una bomba. La rabbia mi indurrebbe a disinnescarla: se lo facessi, l'atto eroico di liberazione segnerebbe anche la mia fine. Rimanendo inerte, devo accettare il dominio, la mia viltà e, infine, vivere nella paura della rappresaglia. Mentre il dubbio mi paralizza, provo pena per la mia e la sua solitudine. Al risveglio, ho tirato un sospiro di sollievo. Non potremo mai farci male più di tanto. L'ordine e l'anarchia, nella mia vita, si compensano a vicenda. 43. Gli occhi di mio padre, quando commettevo qualche banale trasgressione, segnalava il terrore per una natura ribelle e anarchica ch'egli aveva domato a un duro prezzo e che sentiva ancora urgergli dentro. Cosa può capire un ragazzo di tutto ciò? Mi affrancai nell'unico modo che mi parve possibile: rimanendo formalmente ossequioso e sottomesso a lui (tra l'altro lo amavo), e votandomi, dentro di me, ad una libertà sfrenata e senza senno. Crebbi come un barbaro che non esce mai dai confini che gli sono stati assegnati, ma che, nel suo territorio, non si dedica che alla devastazione e alla distruzione. Ho sempre deriso i giudizi che si davano di me e coglievano solo la facciata. Ormai grande, traendo spunto da un banale contrasto, tentai di sottrarmi al dominio paterno e di imporre la mia legge. Mi si lasciò fare saggiamente: scoprii così che, senza il freno degli occhi di mio padre, nonché libero, ero semplicemente barbaro, fedele ad una legge di violenza e di sopraffazione che mi avrebbe destinato, prima o poi, a qualche scontro fatale. Ebbi paura di me: agli altri, dissi che avevo paura di morire. E tornai, con la coda tra le gambe, nel recinto di uno sguardo che, pur umiliandomi, mi tutelava dalla mia selvaggia natura. Come d'incanto, la paura passò. Rimane, però, il disprezzo per una tracotanza che non ha più senso. 44. In fotografia, di profilo, sono di una rara bellezza: ho i capelli corvini e riccioluti, gli occhi d'un denso azzurro, un collo vigoroso su un tronco agile e armonioso. La mia bellezza è uno dei doni di cui mi ha gratificato la natura, visto che si mantiene nonostante non mi curi e non pratichi alcuna attività sportiva. Seduto dietro una scrivania, o raccolto in una poltrona in penombra, con le mani in grembo e le gambe accavallate, si nota appena - mi dicono - una lieve asimmetria delle spalle. Nonché confortarmi, ciò mi dispera. La natura compensa gli eccessi con i difetti: con me si è sbizzarrita raccogliendo in un tutto due metà disarmoniche. Per un difetto genetico, il braccio e la gamba sinistra sono poco sviluppati. Ancorché minuta, su un corpo mediocre l'anomalia si noterebbe appena. Ma io sono alto più della norma e ho una taglia vigorosa. Non ricuso il difetto, bensì la beffa che mi pone sotto gli occhi ciò che sarei potuto essere. Con il tempo, così come ci si adatta a tutte le contraddizioni dell'esistenza, sarei riuscito, forse, a farmi una ragione. Ma il problema fisico è esasperato dalla solitudine cui mi destina. Ho conosciuto donne che si sarebbero fatte carico dell'una o dell'altra metà, nessuna capace di accettarmi così come sono: una chimera. 45. Intorno ad un cuore sensibile, immemore delle ferite subite, mi costruii una solida corazza, che mi definiva, agli occhi degli altri, impassibile. Fossi stato saggio, avrei goduto dell'immunità assicuratami dall'inganno. Purtroppo mi ingannai io stesso, illudendomi d'essere invulnerabile. Quando mia moglie, la cui dipendenza sarebbe potuta durare all'infinito, e che io forzai all'autonomia, mi disse che le ero divenuto indifferente, il colpo lacerò la corazza e arrivò giusto al cuore. Schiavo ormai della maschera che mi ero imposto, feci finta di nulla, costringendo la disperazione e la rabbia a percorrere singolari tragitti Sulle mani, che avrebbero soffocato mia moglie nel momento stesso in cui pronunciava quelle fatali parole, fiorirono indefinibili erosioni che, per un anno, mi imposero di rifuggire da ogni contatto impedendo ad esse di serrarsi per il dolore. Quanto alla gola, nella quale si era strozzato un urlo di dolore, la offersi dolente a infiniti specialisti che, alla fine, non trovarono altro rimedio che tagliarla per asportare una innocua minuscola cisti. Ormai so di non essere impassibile, ma, per fortuna ho scoperto di essere pavido, e, pertanto, di non poter far del male nè a me né ad altri. 46. L'altra bambina, ch'era già la seconda, aveva dieci mesi quando seppi d'essere nuovamente incinta. Rifiutai un'ulteriore maternità e, per sfuggire ai rimorsi, considerai inesistente il casuale embrione che aveva attecchito nel ventre. Il problema era solo svuotarmi di esso. Seguii senza esitazione la procedura di legge. Intercorse un mese, nel corso del quale l'esserino ch'era in me fu messo a morte quotidianamente. Il parto recente indusse i medici a decidere di procedere in anestesia generale. Il giorno stabilito, mi presentai decisa: ma, sulla soglia del reparto operatorio, la paura di non risvegliarmi dall'anestesia mi folgorò. Dovetti desistere e lasciare che seguisse il suo corso una vita per me insignificante. Quando nacque non provai il brivido di felicità con cui avevo accolto le altre due. E mostruoso far pagare ad un'innocente una colpa che non ha. Sarei precipitata nell'angoscia se non fosse accaduto ciò che è accaduto, e che, pur facendomi soffrire, le rende giustizia. Mi anestetizzai: da un giorno all'altro, non provai più nulla né per le altre figlie né per il marito né per mia madre. Nulla: né bene né male nei confronti di tutto il mondo. Vivo come una pianta, se è vero che le piante sono insensibili. Mi risveglierò, e come, da questa implacabile anestesia? 47. L'altro è ben piantato su uno sperone di roccia, mentre io pencolo nel vuoto, legato ad una corda. Guardo in alto, e l'implacabile sprezzante sorriso mi forza a liberarmi. Fibra dopo fibra, lacero la corda con un coltello, provando contemporaneamente l'ebbrezza dell'indipendenza e l'orrore del vuoto che mi si apre sotto i piedi. Nel momento in cui la corda tende a cedere, disperato mi afferro al capo superiore e mi inerpico. L'altro, che si muove con agilità, continua a sovrastarmi, irraggiungibile e sprezzante. E la montagna è infinita come la mia condanna. 48. L'equilibrio psichico è un nonnulla. Ero un uomo felice sino a qualche mese fa. La famiglia, un buon lavoro, i figli, gli amici. Stavo anche per coronare il sogno della mia vita di prendere una laurea che mi avrebbe consentito di dar le buccie ai figli di papá. Il destino si è incrudelito. Nel giro di un anno sia mia madre che mio padre, ancora giovani, sono venuti meno. Sul letto di morte entrambi, anzichè pensare a sè, erano angosciati perché mi abbandonavano. Di fatto erano indispensabili. Lavorando anche mia moglie, accudivano la casa e i figli, pagavano le bollette, tenevano in ordine i conti e, con le loro pensioni, mi assicuravano un tenore di vita abbastanza agiato. Per il dolore, non mi sono reso conto subito di ció che la loro perdita significava. La vita è diventata un inferno tra lavoro, casa, bambini e conti da far quadrare. E questo sarebbe nulla se non fosse accaduto qualcosa di strano che mi fa fatica confessare. Un giorno andando a trovare i miei al cimitero, col cuore ancora gonfio di dolore, un pensiero maligno mi ha attraversato la mente. Stento a dirlo, ma il pensiero è questo: andiamoli a trovare ‘sti stronzi’. Giuro che non è mio. E come potrebbe esserlo? Da quel giorno, peró, si ripresenta ogniqualvolta mi reco al cimitero, e non posso farci nulla. E' giusto che, da allora, soffra di attacchi di panico che mi fanno vivere minacciato di una morte che merito. Se fossi pazzo, direi che, nel mio intimo, rimprovero loro di avermi condizionato a dipendere e di essere venuti meno ai loro doveri. Ma non lo sono, almeno non ancora. Perció mi disprezzo. E' crollato come un bambino dopo la perdita dei suoi. Si aggira per casa senza far nulla, mentre io, che lavoro a tempo pieno come lui, mi rompo la schiena. Non ce l'ho mica coi suoi, che hanno dato l'anima per noi. Ma i figli infine è meglio che facciano come se i genitori fossero morti prima di perderli. 49. L'intera città mi perseguitava. Rendermi conto lucidamente, nel chiuso della mia stanza, dell'assurdità logica di questo vissuto, non mi era di aiuto alcuno. Sono fuggito, peregrinando di regione in regione. Ovunque, implacabile, il nemico mi seguiva, adocchiandomi e trafiggendomi con indecifrabili mormorii. Ho varcato, infine, i confini della patria, e, dopo di questi, più confini. L'ignoranza delle abitudini e delle lingue straniere ha esasperato le mie paure. Sono giunto a temere il peggio. In un sobborgo fiammingo, mi si e rivelata la verità. Ho colto sulla bocca di un giovane l'accusa infamante di omosessualità, e l'ho affrontato. Era, per mia fortuna, italiano, omosessuale e felice di esserlo. Il mondo, confuso con il delirio, mi è crollato addosso prima di ricomporsi. E` una sola la mente che mi accusa, arrogandosi l'arbitrio di giudizi universali cui difetta, nonché la verità, il buon senso. Confusamente, ho riconosciuto in questa mente mostruosa una parte di me. David ha raccolto la pietra: ora dovrò addestrarmi ad usare la fionda contro il gigante che mi vuole nano. 50. L'uomo che piaceva a mia madre non era incline alla paternità. Mi concepì con lui, lasciando credere al marito che ero suo figlio. Il progetto, che mi assegnava un bell'aspetto e un buon padre, non era irragionevole; ma la natura fu troppo fedele ai desideri di mia madre per non indurre sospetti. Via via che crescevo, il gioco delle somiglianze mi rese odiato agli occhi di chi era costretto a fingersi padre. Indussi mia madre a confessare la verità, quando era ormai tardi. L'altro era svanito nel nulla da anni. Lo cercai insistentemente negli specchi, che mi restituirono l'immagine di un narcisista senza cuore. Per viltà non osai sfregiarlo. Lo costringerò a vivere per sempre con il volto affondato nei cuscini. Non l'ho mai odiato mio figlio, anche se ho sempre saputo che non era sangue del mio sangue. Ci si affeziona a un cane se lo si alleva. La madre mi accusa di averlo rovinato per vendicarmi. La verità è che, imponendomi di accettare il suo tradimento, si aspettava che mi comportassi da uomo, ribellandomi. Non essendo riuscito a farlo, nel suo intimo mi ha sempre disprezzato, e ha istillato nell'anima di nostro figlio un veleno sottile. Come altre donne, gli uomini li odia tutti: gli uni perché tracotanti, gli altri perché vigliacchi. Non può fare a meno però di averne uno tra le grinfie da tormentare. Se mio figlio trovasse il coraggio di guardarmi negli occhi, capirebbe che non deve vergognarsi perché nel suo intimo mi somiglia. 51. La mia casa è a duecento metri dal mare, ma per anni l'ho ignorato. Un vago odore di aria salmastra e di libertà ha fasciato la mia esistenza senza orizzonti. Sono vissuta come una macchina impegnata giorno dopo giorno ad assolvere scrupolosamente i doveri domestici e giungere a sera con la coscienza tranquilla, sgombra da quel vago senso di colpa che mi inquietava al mattino. Raramente, marito e figlia dicevano che ero esagerata: ma la luce di soddisfazione che coglievo nel loro sguardi mi sollecitava a fare sempre meglio. Che cosa sia avvenuto dentro di me non so. Dio e il demonio devono aver contemporaneamente occupato la mia anima. Un dio cattivo, non il dio d'amore nel quale ciecamente credevo. Un dio esigente, implacabile, mai pago delle mie fatiche, che mi toglieva il sonno, anticipando all'alba la schiavitù. Quanto al demonio, doveva trattarsi di un buon diavolo, chè la tentazione si limitava a suggerirmi di buttar tutto a mare. Sussurratami insistentemente all'orecchio, la metafora mi aprì l'orizzonte di una liberazione totale. L'inquietudine delle onde mi affascinò repentinamente come ciò che si muove affascina ciò che è inerte. Dopo aver messo in ordine la casa e preparato il pranzo, mi abbandonai ad esse, vestita di tutto punto come una sposa. I medici non sono stati in grado di fornire alcuna spiegazione del gesto. Ci hanno interrogato a lungo - me e mia figlia - per tentare di ricostruire l'esordio e lo sviluppo di una malattia, che noi non avremmo capito. Se mettere in ordine la casa, fare la spesa e il pranzo, lavare e stirare i panni, spolverare e lucidare è una malattia, mia moglie è malata dacché la conosco. Negli ultimi tempi, forse, era, più che mai, senza tregua ma chi poteva pensare che covava quel progetto? Da lei i medici non sono riusciti a ricavare nulla: ha dimenticato l'accaduto come si dimentica un brutto sogno. E tornata ad essere quella di prima: silenziosa, infaticabile. Io e mia figlia siamo rimasti segnati da un terremoto: ci alterniamo giorno e notte in una vigilanza estenuante e, apparentemente del tutto inutile. Ma chi può escludere che quanto è accaduto possa ripetersi? In passato, la sua schiavitù ci ha reso liberi; adesso, la sua folle e imprevedibile sete di libertà ci rende schiavi. 52. La mia vita è stata determinata da una scacchiera e da un sogno. A 12 anni immerso ancora nel culto di un padre forte, sicuro di sé e un po’ tracotante scoprii con sorpresa che ero in grado di batterlo regolarmente a dama. La scoperta mi avrebbe reso forse peggiore di lui se non avesse reagito male, umiliandomi e trovando ogni occasione per dileggiarmi. Impiegai poco tempo ad aprire gli occhi. Era un vigliacco che aveva lasciato la terra per diventare portiere di un condominio popolare e, servo dei servi, si atteggiava da gran signore spadroneggiando in famiglia. Trattava la moglie come una pezza da piedi, e l’aveva ridotta ad una larva obbligandola, tra l’altro, a svolgere il suo lavoro. Lui non poteva sporcarsi le mani con scope e strofinacci. Mi alleai con la povera donna che, fino allora, avevo io stesso maltrattato. A 17 anni ero un torello affrontai mio padre che l’aveva schiaffeggiata sfidandolo a riprovarci. Mi guardò con gli occhi infuriati nei quali lessi anche ahimè la pena di dovere considerare nemico il suo unico figlio. Lo avevo sconfitto un’altra volta. Cosa avvenne nella mia anima non so. Cominciai a stare male. A 18 anni sognai dessere in casa con mia madre mentre un essere mostruoso cercava di sfondare la porta per ucciderci. Preda del terrore, mi calai dalla finestra mentre essa mi scongiurava di non lasciarla sola. Da allora la mia vita è un inferno. Tutti parlano di me prendendomi in giro e dandomi del vigliacco. 53. Mio figlio ha lo stesso carattere del padre. Ha paura di tutto il mondo e in casa fa il gradasso. Sono le voci dice che, esasperandolo, lo inducono a perdere il controllo. Ma i segni che lascia sui mobili e, talora, sulla mia faccia sono gli stessi che lasciava il padre, che adesso fa il cane bastonato. Avevo ragione a desiderare una figlia femmina. 54. Le donne insoddisfatte del marito abbiano il coraggio di lasciarlo o di tradirlo con un altro uomo. Insoddisfatta ma inibita, mia madre scelse la soluzione peggiore eleggendo me, il primogenito maschio, al ruolo di amante segreto. Mi sedusse da bambino e, quando divenni adolescente, profittando del suo ruolo, mi divorava con gli occhi senza rendersene conto. Istillò in me l’odio nei confronti del padre. Quando tentai di sottrarmi alla trappola accoppiandomi con una coetanea, mi tradì rendendomi complice del tradimento. Il colpo arrivò dritto al cuore. Da allora tutte le donne che incontro pagano duramente la sua colpa. 55. L’ingratitudine umana è senza limite. Io mi considero una benefattrice, ma molti di coloro cui ho fatto bene mi odiano e mi maledicono. E’ vero: li ho sedotti col mio viso angelico e con un corpo sensuale, li ho ammaliati sino a far quasi perdere loro il senno e, poi, resili dipendenti da me come bambini, li ho sistematicamente umiliati, traditi, maltrattati sino a indurre l’abbandono per disperazione. Per i più tenaci nel non volermi perdere indubbiamente è stato un calvario. Ma che colpa ho se la dipendenza infantile dei maschi mi disgusta, e se il loro attaccamento d’amore, superato un certo limite, mi fa sentire nonché donna la madre che ho sempre rifiutato di essere? Maltrattandoli, talora brutalmente, cerco di svezzarli, di farli diventare finalmente adulti. Quasi tutti, in effetti, dopo essersi liberati di me, sono divenuti più maturi. Perché dunque mi odiano? Perché la loro sete di vendetta, che avverto nell’aria, incombe nella mia anima come una minaccia di morte che mi costringe a stare chiusa in casa? 56. Lui - il Padre - legge il giornale e, con la coda dell'occhio mi tiene sotto controllo. Lentamente, allungo un piede e gli porto il giornale sotto il naso. Mi lancia un'occhiata rabbiosa, si sposta sul divano e riprende a leggere. Desisto per qualche minuto, giusto il tempo dl cogliere nel suo sguardo che saetta verso di me il timore di una resa. Ricomincio a provocarlo, allungando il piede tra il giornale e la faccia. Si congestiona. Mia madre continua a fare la maglia e accenna appena ad un rimprovero diretto ad entrambi. Lui scansa il piede con un gesto iroso, e io glielo infilo di nuovo sotto il naso. Finalmente, reagisce e mi si avventa addosso - povero vecchio, con il cuore in tumulto - , mi solleva di forza dalla poltrona, mentre oppongo una fatua resistenza, e mi torce a terra come un giunco. E lì li per afferrarmi la gola e farla finita una volta per sempre. Ma l'illusione che porrebbe fine alla squallida impresa in cui si esaurisce la mia vita, dura poco: si leva di scatto, paonazzo in volto, e mi pone il piede sul collo. Solo a questo punto la Madre lo supplica di non farmi del male. Quasi soffocando, con le lacrime agli occhi, lo vedo su di me tronfio e dominatore come lo ricordo e come pateticamente vuole continuare ad essere. Allenta la pressione del piede perché io emetta dalla gola arrochita le rituali parole di resa: basta! basta! Si riavvia i capelli e, ancora scosso da un violento tremito, riprende a leggere il giornale. La Madre, meno affranta che delusa, ripone la maglia, mentre io, umiliato e sgomento, mi chiedo fino a quando riuscirò ad impedire alla vecchiaia che incombe di porre fine al copione di cui tutti siamo rimasti preda. 57. Mi aggiro solo nella vasta casa come un re abbandonato dall'esercito Guardo fuori dalle finestre il vuoto nel quale si è precipitata la regina e, sgomento, mi chiedo quando la paura si dissolverò permettendomi di chiudere con un soprassalto di dignità una vita altrimenti esposta a intollerabili umiliazioni. Oh, potessi tornare indietro e correggere la rotta nel momento in cui si profilava la tempesta! Per anni, mia moglie ha minacciato di togliersi la vita, e io non ho trovato di meglio che deriderla. Presumevo di averla assoggettata al punto di disporre io, e solo io della sua volontà. Questo dominio non esprimeva, come pensano i figli, la mia natura malvagia, bensì - mi repugna affermarlo - un reciproco bisogno. La mia debolezza postulava una persona da cui dipendere: ma mia moglie, che voleva avere accanto a sè uomo capace dl controllare la sua perenne irrequietezza, non avrebbe mai tollerato quella fragilità. Il suo bisogno mi impose di tradurre il mio in dominio, nel tentativo di quadrare il cerchio: giungere a dipendere da una donna assoggettata al mio potere. Il mio errore è consistito nel pensare che, solo giungendo ad annullare la sua volontà, il cerchio sarebbe quadrato. Il suicidio mi ha restituito le miseria del progetto, e lingratitudine di mia moglie. Ha vinto lei, ma a che prezzo? Asservendosi al nulla, inimicandomi i figli e destinandomi ad un'atroce solititudine che mette a nudo le pieghe dell'anima. Dovrei precipitarmi nel vuoto per indurre almeno il rimorso nel cuore dei figli. Ma non cederò Per poco o tanto che mi resta da vivere, che nessuno sappia chi, in realtà, era il servo. 58. Mi ha reso la vita impossibile con la sua mania dell’igiene. Come non bastasse, ha cominciato a rifiutare i rapporti sessuali e a tradirmi con i suoi stramaledetti libri. Ho resistito per via dei bambini piccoli. Lei è divenuta sempre più dura, ostile e scostante. Mi sono allontanato da casa solo quando ho avvertito che la rabbia poteva sfuggire al controllo e indurmi a picchiarla. Dopo la separazione è cambiata. Mi accoglie in casa con tenerezza, ha mille attenzioni e mi guarda con un morbido sguardo d’amore. Ho attribuito ciò alla gelosia, poichè sa che sto con una donna più giovane di lei. Ho diffidato di lei, chiudendomi a riccio e facendole sentire il mio disprezzo. Ha accettato tutto, continuando a idolatrarmi. Infine, mi ha confessato il suo amore, senza chiedermi nulla in cambio se non di rispettarlo. Così, non ho più moglie, ma una donna devota che tale rimarrà per sempre. Ho scoperto damarlo visceralmente dopo la separazione. Ma non desidero affatto che torni con me. Posso essere devota solo ad un uomo che mi tiene a distanza e rifiuta di assoggettarsi a me. 59. Mi raccolgo ogni giorno all'ombra di un'imponente colonna, di cui ignoro il capitello. A dire il vero, ignoro tutto ciò che a al di sopra della mia testa, a causa delle vertigini. C'è chi ne soffre guardando nel vuoto; a me sopravvengono ogniqualvolta tento di levare lo sguardo in alto, Mi annido, dunque, nell'ombra, e mi distraggo con le fatue fiammelle delle candele. Quando l'assemblea si scioglie, e le vecchine trascinano le loro paure al mercato, mi avvicino alla grata del confessionale. Di là, c'è nessuno: ma a me bastano la grata e il silenzio per fingere. Parlo a bassa voce, elencando colpe che ignoro di aver commesso. Il silenzio dall'altra parte definisce l'abominio della mia condizione. Mi pento sinceramente e, infine, sotto il peso del perdono, la mia testa si inchina e rimane umiliata. Mi conosco troppo bene per ignorare che, di li a qualche ora, essa tenterà nuovamente di ergersi e di sfidare il cielo, pagando il prezzo delle vertigini. 60. Mia madre non tollerò che, nascendo maschio, beffassi, svuotandolo, il suo corpo mutilato. Mi sfidò, facendomi capire che mi avrebbe accettato solo se le avessi dimostrato di essere degno del privilegio toccatomi in sorte Ero testardo, orgoglioso e ribelle come lei: reagii precocemente alla sfida, aggredendola e accapigliandomi con lei fin da piccolo. Nessuno dei due cedette, neppure quando lei ammalò. Irrigidita da un busto e nonostante il pericolo che una vertebra andasse in frantumi, si rotolava pateticamente con me sul tappeto per inchiodarmi con le spalle a terra. Non accettai che si allettasse, sottraendosi alla sfida con la scusa del male. La derisi quasi fin sul punto di morte. E giusto, pertanto, che abbia ereditato da lei la fobia della debolezza e una sterile, gelida corazza che mi ha impedito di vivere. Ancor più giusto è che, a ventitre anni, una ghiandola rigonfia sul collo mi abbia assegnato la sua stessa sorte. 61. Mio nonno fu un generale orgoglioso della sua devozione al fascismo. Indusse timore nelle truppe, che destinò al sacrificio nella guerra d'Africa. Mio padre ha esercitato la sua velleitaria dittatura sulla famiglia, obbligandone i membri, uno alla volta, alla diserzione e, infine alla diaspora. Io - l'unico tra nipoti e figli a credere in loro - sottopongo me stesso a un regime spietato, che gli psichiatri, incapaci di comprendere, definiscono nevrosi ossessiva. Per quanta crudeltà esso mi imponga, ho l'orgoglio di essere l'ultima vittima sacrificale di una storia che ha fine con me. 62. Mi riesce difficile capire da dove tragga le energie mio marito per adempiere ogni giorno il suo dovere coniugale, tra l’altro con una passione incomprensibile dato che stiamo assieme ormai da venticinque anni. Dice di amarmi come il primo giorno. Ne sono lusingata ma non fino al punto di ignorare come stanno le cose. La mia serenità lo induce a pensare che sia all’oscuro degli infiniti tradimenti che lo smentiscono. Da vent’anni ha un pied-à-terre nello stesso palazzo in cui ha lo studio. Quando mi telefono premuroso per avvertirmi che non verrà a pranzo o che si tratterrà fino a tardi per motivi di lavoro, so che deve soddisfare le voglie dell’ennesima cliente. L’impotenza crescente degli uomini che rende le donne insoddisfatte e le spinge a rivolgersi al ginecologo per tacitare le loro proteste psicosomatiche vaginiti, alterazioni del ciclo e via dicendo è una sfida per lui che non ha mai avuto una defaillance. Penso che il suo prestarsi senza tregua a curare queste proteste sia una sorta di missione, un modo per riscattare l’onore maschile. Talora entra nel letto avendo ancora addosso l’odore della donna con cui è stato. Ho perso molte amiche per via del modo in cui ho affrontato il problema, comprendendo e chiudendo gli occhi. Le donne sono stupide. Desiderano tutte, anche quelle brutte e il cui corpo precocemente sfiorisce, avere lesclusiva sul partner. Non capiscono la soddisfazione che ricavo dalluscire sempre vincente dal confronto con infinite rivali. E lui poi, che conduce la sua doppia vita senza inciampi, è sereno come un bambino e mi guarda estasiato della mia ingenuità. 63. Nacqui da nobile e ricca casata: non si potrebbe desiderare di meglio, secondo alcuni. Ma i privilegi di sangue comportano insospettati pericoli: io, che l'ignoravo, l'ho sperimentato sulla pelle. Com'è uso nel nostro rango, mia madre ricusò le cure del corpo: mi dette a balia e, fino all'adolescenza, fui affidata alle governanti. Sarebbe ingiusto che dicessi che i miei non mi amarono. Ma il loro amore riguardava solo l'anima, lo spirito, la parte nella quale specchiavano la loro ancora orgogliosa nobiltà. Il corpo, questa volgare appendice che, purtroppo, fa gli uomini uguali, fu ricusato e affidato a mani servili. Delle governanti, la maggior parte lo rispettarono. Una lo usò per soddisfare i suoi desideri e, forse, l'astinenza cui era costretta per tutelare il posto e assicurarsi le referenze. La mia ingenua connivenza, che giunse quasi alla gratitudine per il mondo nuovo di sensazioni che mi si schiudeva, la mise al riparo dalla denuncia. Senza che me ne rendessi conto, quell'esperienza - e l'indifferenza dei miei - incise nel mio corpo il marchio della volgarità. La mia anima nobile non si riconosce nelle oscenità a cui il corpo si abbandona e delle quali gode, e vive perpetuamente immersa nei rimorsi e nella espiazione. Riuscirò mai ad essere degna dei miei natali? Quando nacque, prima e ultima femmina, ebbi un tuffo al cuore. La nobiltà si eredita non meno dei vizi. Nel suo volto colsi precocemente la somiglianza con mia nonna, una ballerina che, nonostante la fortuna toccatale di sposare un nobile di antica stirpe, non ne fu degna, poiché insozzò il titolo con una vita licenziosa, cui pose fine solo il ricovero a vita in una clinica tedesca. Il presagio di una nuova sventura mi spinse a dedicarmi alla sua educazione come se dovessi affrancarla da un'impurità giunta col sangue sino a lei, nonostante mia madre ed io avessimo condotto una vita integerrima. Gli insegnamenti religiosi e morali lottarono, però, contro un'anima passivamente docile ma insensibile ai valori elevati. A dodici anni sedusse il giardiniere, un padre di famiglia la cui debolezza gli costò il posto e le referenze. Linternamento in un collegio religioso non valse che a rimandare la resa dei conti. Quando ne uscì, nonchè redenta, era posseduta dal demonio. E un fatto cui occorre rassegnarsi che unanima tanto volgare alberghi in un corpo le cui fattezze ne segnalano inconfondibilmente le origini. 64. Nessuno avrebbe puntato una lira sul mio successo. Sono stato considerato una capra a scuola e in famiglia. Di fatto ero pigro, indolente e allergico alla cultura. Salvavo la faccia con la simpatia che ispiravo e la capacità di fare ridere, ma era poca cosa in una casa nella quale la Dea Cultura troneggiava negli scaffali che la tappezzavano. A cosa servano i libri non l’ho mai capito. Mio padre, che ne divorava ogni giorno, era un mediocre funzionario di banca affetto cronicamente da una nevrosi ipocondriaca che lo chiudeva in camera per mesi interi e diffondeva in casa un’aria quaresimale. Mio fratello, che sui libri ha speso la sua giovinezza, non è divenuto un professore universitario come desiderava ma un medico ospedaliero. Entrato in banca con la raccomandazione di mio padre, io, che sarei dovuto vivacchiare come impiegato, ho scoperto invece di avere un fiuto per gli affari di borsa che mi ha consentito di diventare un funzionario a cachet. Le cose vanno bene. Sono ormai miliardario e, accorto nella gestione economica, se anche la borsa crollasse, potrei vivere di rendita per qualche tempo. Compiaciuti del mio successo, e forse intimamente invidiosi, i familiari non riescono a capire come ciò possa essere accaduto. Il problema è che io stesso non riesco a farmene una ragione. Continuo nell’intimo a pensare di valere poco, per cui mi rimane la scelta tra una fortuna sfacciata e un bluff. Vivo pertanto nell’attesa che il vento cambi o di essere smascherato. La catastrofe incombe nella mia anima ogni mattina e mi perseguita durante il giorno. La sera, scampato il pericolo, devo affogarla nell’alcool e nel fumo. Un quarto di wiskey al giorno e due pacchetti di sigarette mi permettono di sopravvivere. <65. Non hanno colpa. Sono vissuti in una sorta di simbiosi che ne ha assicurato la sopravvivenza. L'inadeguatezza di entrambi si è imposta sui sentimenti di muta ostilità che avrebbero dovuto indurli a separarsi. Non potevano fare altro che trasferire su di me i loro patetici miti di indipendenza e di autonomia, senza chiedersi se la pasta di cui ero fatta era adatta a realizzarli. Non sarebbero, del resto, riusciti a impormeli se quei miti non avessero esercitato su di me una sottile suggestione. Sono stata una bambina e un'adolescente diversa da tutte le altre: tranquilla, rispettosa, studiosa, equilibrata, immune dal bisogno di confondermi con i coetanei. Erano entusiasti di me, e io stessa ho nutrito per anni un ebbro sentimento di superiorità rispetto al mondo. Ladolescenza, alimentata da una divorante sete di sapere, mi ha chiarito le idee. Il mondo è effettivamente spregevole, mediocre e banale, ma è inutile illudersi di essere diversi: averne paura è uno dei modi in cui si declina la mediocrità umana. Il sogno di Nietzsche non ha come ostacolo la cultura ma la natura. Luomo è una chimera: troppo umano per vivere la sua animalità, troppo animalesco per realizzare il suo patetico anelito allinfinito. Ora, che ho quasi trent'anni, si domandano perché vivo sola, in una dimensiona claustrale, dedicandomi ostinatamente a studi improduttivi che, finora, non mi hanno consentito di trovar lavoro. Desidererebbero che mi maritassi. Ignorano che l'uomo con cui potrei convivere appartiene, come me, all'insieme delle monadi, sicchè le possibilità di un incontro - vivesse pur egli nel mio stesso palazzo - sono statisticamente insignificanti. Si chiedono - lo leggo nei loro sguardi - cosa sarà di me quando verranno meno. Il problema è insignificante poiché allora nulla potrà impedirmi di rivendicare il mio diritto a non esserci. 66. Non meno di una volta al giorno, la paura mi porta negli studi medici. Per evitare di essere deriso o messo alla porta, ho allargato la rosa dei curanti in maniera tale che ciascuno di loro non mi vede che una volta la settimana. Ciononostante devo tollerare l'irritazione che traspare dai loro sguardi e dai gesti frettolosi con cui mi visitano, alla ricerca di un improbabile tumore che la fantasia fa allignare in organi sempre diversi. Ma non ho bisogno di alcuna diagnosi: il contatto di mani esperte o che io ritengo tali, basta a rassicurarmi. Tant'è che mi guardo bene dall'assumere le infinite medicine che mi prescrivono forse nello sforzo vano di liberarsi di me. Mi disprezzino pure: io pago le loro fredde carezze, le uniche che mi affrancano dalla fobia di ogni altro contatto umano. 67. Non mi ci volle molto a capire come stavano le cose nel mondo. Mio padre, quand'era fuori, chiudeva a chiave mia madre in casa; quando era in casa, trovava ogni occasione buona per aggredirla. Mi ci volle del tempo a capire cosa fosse la gelosia: in quegli anni, impercettibilmente, il cuore si caricò di paura e di odio nei confronti i mio padre. Un po' più di tempo mi occorse per capire che non era pazzo: ragionava come tutti al paese. Solo a vent'anni, lavorando in fabbrica, intuii che il paese non era tutto il mondo. Mi ero già fidanzata da due anni con un ragazzo che non mi piaceva (allora, ci si fidanzava per avere il diritto di uscire di casa), e, per rispetto della tradizione, avrei dovuto sposarlo se non fosse morto di cancro. Non ero insensibile, ma non mi sorpresi di esultare nel sentirmi liberata da un peso. Non me n'ero liberata che di fatto: agli occhi dei paesani, ero stata di un uomo, e nessuno avrebbe osato sfidare il ridicolo per maritarsi con una donna già usata. Fortuna volle che incontrassi uno straniero, libero da pregiudizi e comunista. Costui mi aprì gli occhi sulla realtà nella quale vivevo, ma non tenne conto che quella realtà ormai faceva parte di me. Gli occhi di mio padre e del paese mi seguivano ovunque e mi bloccavano anche nel letto coniugale. Per liberarmi da questa persecuzione, avendo avuto già due figli, decisi da sola di farmi sterilizzare. Quando uscii dall'ospedale ero ebbra di orgoglio: senza saper bene perché, sentivo di aver rotto irreversibilmente con la tradizione. Pensavo di non dover più lottare, e invece la lotta cominciò proprio allora. Un'angoscia di morte perpetua ingombra l'orizzonte della mia vita: non posso uscire di casa per la paura di venir meno, devo avere sempre qualcuno accanto a me, sono diventata frigida e apatica. Vivo come una condanna la condizione nella quale, apparentemente senza soffrire, visse mia madre e un'infinità di donne. Mia sorella ha tempo e denaro da perdere. Va a Roma a farsi curare da un ciarlatano. Di quale malattia soffre? Non vuole stare a casa a fare il suo dovere? Vuole andarsene a spasso da sola a cercar guai? Vuole godere e non subire il rapporto con il marito? Belle pretese. Io sto a casa, esco sempre e solo in compagnia di mio marito, mi concedo a lui quei pochi istanti che gli bastano a sfogarsi. Sono malata, forse? Da che mondo è mondo, nascere donna comporta più pene che gioie. Ma avere la coscienza tranquilla e non doversi vergognare di nulla agli occhi degli altri non è forse la felicità? Mia figlia insiste a fumarmi in faccia, benché le dica da anni che una donna onesta queste cose non deve farle. Ha paura del mio sguardo e del mio giudizio? E perché allora non si arrende a vivere come Dio comanda? Si lamenta d'essere nata donna. Se la prenda con la madre: io l'avevo detto che figlie femmine non ne volevo. 68. Non rinnego la vocazione religiosa: incentivata forse da circostanze occasionali, essa maturò nel mio cuore come una scelta di libertà Nonostante possa apparire un paradosso, essere liberi può significare anche vincolarsi alle regole di una cieca obbedienza. Nonché una crisi, è stato un eccesso di fede a segnare la mia vita. Tre anni orsono, mentre ero chino sul calice nel momento supremo della messa, avvertii alle mie spalle l'ansia del popolo domenicale di assolvere il suo dovere per immergersi nella tiepida aria di primavera, Girandomi verso di esso, colsi un lampo di ironia negli occhi di un uomo di cui conoscevo, da anni, la nequizia. Mi sentii ingannato da lui, dagli altri e da Dio. Sopravvenne una violenta vertigine che mi costrinse ad aggrapparmi all'altare. Mentre rimanevo in quella posa, ascetica, esposto agli occhi della gente, sentii nelle gambe un fremito d'angoscia che avrei potuto attenuare solo fuggendo a precipizio. Da quel giorno accostarmi all'altare per celebrare la messa è un calvario, poiché percepisco di poter essere invaso da un momento all'altro da un orribile desiderio dl fuga che, se realizzato, esprimerebbe la purezza della mia fede e l'intensiva del mio amore per lo spirito, ma pubblicamente non potrebbe significare altro che un atto sacrilego. Dio sa che non a lui mi ribello, bensì alle forme antro le quali è costretta una devozione che lo mortifica e lo rende remoto. Di questo dramma non posso far parola ad alcuno. Il padre spirituale al quale ho accennato appena qualcosa, afferma che questa crisi finirà con il santificarmi. Ma chi mi assicura di riuscire a portarla fino in fondo? Chi può scongiurare il pericolo che l'intensità della fede non mi spinga, nonché a fuggire, a cacciare dal tempio i marcanti che intendono barattare una stanca abitudine con un posto in paradiso? 69. Non si educhino le figlie a essere sottomesse all'uomo, pronte ad assecondare ogni suo desiderio e soddisfatte solo della felicità che riescono a dargli. Può accadere, come a me, che esse rispettino rigorosamente questa legge, ma non nei confronti di un solo uomo, bensì di tutti. La matrice della virtù è imperscrutabilmente la stessa della perdizione. 70. Nonostante la sterilità, che i medici non sono riusciti a spiegare, sono stata una buona moglie. La fede e la passione comune per la musica mi hanno aiutata a rimanere vincolata ad un uomo che apprezzo, ma che non ho mai amato. Mi conobbe ch'ero pazza per un altro che mi aveva sedotta (gli psichiatri sostenevano che ciò era frutto della mia fantasia). Gli confessai la verità, e non esitò a sposarmi. Nonostante il debito perenne di gratitudine per avermi restituito la fiducia nella vita, il fuoco della passione ha continuato a covare sotto le ceneri, riaccendendosi ogni tanto sotto la forma di un quieto delirio d'amore, che mi faceva trascorrere alcune notti insonni e mute alla finestra. Tranne lui, nessuno ha mai sospettato alcunché. Ho ingannato tutti, non la mia coscienza. Quando mi è stata offerta la candidatura al consiglio circoscrizionale, motivata dall'integrità della mia condotta morale, che mi avrebbe assicurato il voto delle donne oneste del quartiere, sono ammalata di nuovo, più gravemente. Nel cuore della notte, ho urlato a squarciagola il mio amore dalla finestra. 71. Odio uno dei miei figli. Ha solo cinque anni, e risponde al mio rifiuto con uno sguardo sgomento che, quando crescerà, si animerà di vendetta. Ma di chi potrà vendicarsi? Nessuno chiarirà mai il gioco delle predilezioni: mio fratello fu amato, io rifiutato. Chiuso come un riccio e scontroso, produssi io stesso l'equivoco di non aver bisogno di amore. Quando incontrai mia moglie, volendo averla solo per me, le imposi di rinunciare ai figli. Accettò, certa che la ragione può nulla contro l'insidia dei sensi. Quando rimase incinta la prima volta, tentai invano di farla abortire. Mi sarei forse arreso al peso di una paternità se, dopo tre anni, mia moglie non mi avesse imposto, con un esaurimento e la minaccia di separazione, di concederle un secondo figlio. Pur di non perderla mi piegai al ricatto Il suo ventre si gonfiò come presago di essere chiamato all'ultima prova. Al sesto mese, un esame accertò ch'esso ospitava, con l'attesa femminuccia, un intruso. Per me, tale è rimasto. 72. Operaio, e con sette figli a carico, mio padre portò sulle spalle la vita come una croce senza mai ribellarsi. Spesso, la sera, a tavola, crollava nel sonno per la stanchezza. Ai miei occhi infantili era un eroe, e volli essere come lui: infaticabile, umile, onesto, e capace di soffrire. Solo ora mi rendo conto di aver preso la vita per il verso sbagliato Stare in pace con la propria coscienza non è tutto, e non fa felici. Assolvere scrupolosamente il proprio dovere non è un merito: dà agli altri la possibilità di profittarne. Come spiegare altrimenti che, nell'azienda in cui lavoro, agli elogi non fa mai seguito un premio di produzione o uno scatto di carriera? Negli anni, ho sentito montare dentro di me una rabbia tremenda, e ho cercato di controllarla con l'alibi della coscienza tranquilla. Ma non poteva durare all'infinito. Vivere significa anche lottare, sperare, sognare. Questo non mi fu insegnato: la rivolta si è indirizzata, contro me stesso, sotto forma di claustrofobia. Invidio coloro che hanno paura solo dell'ascensore: per me, il mondo è una prigione. 73. Ossessionato dall'aspirazione di riscattare un'ingiusta miseria, mio padre mi impose il nome di un bandito, persecutore dei ricchi a favore dei poveri nella mitologia popolare Non avrei ricusato il destino che mi imponeva di farmi strada nel mondo con ogni mezzo, se non mi avesse disgustato, crescendo, scoprire che mio padre aveva imboccato la scorciatola dell'avventuriero di piccolo cabotaggio, l'unica sua impresa essendosi esaurita nello sposare una donna agiata e nell'averne sperperata la dote al tavolo da gioco. Per ciò, abiurai la fede che mi indusse ad amarlo da bambino, e, da bandito, divenni apostata. La lancia della vendetta non mi colpì nel petto ma nella testa. Sragionando mi avventai più volte contro mia madre. Non voglio che mio figlio torni più a casa dal manicomio. Dacché è ammalato, anni fa, mi ha sempre minacciata. L'ultima volta mi è venuto addosso come un torello, e mi ha rotto le costole. E prepotente e violento come il padre. A questo ho dato tutto e a mio figlio niente, chiudendolo in collegio? Mio marito è un criminale lucido: mi ha massacrato di botte senza lasciarmi mai i segni addosso. La legge non ha potuto farci niente. Mio figlio è pazzo, e i segni li ha lasciati: la legge deve tenerlo chiuso. 74. Paralizzandosi il mattino stesso che avevo deciso di abbandonare per sempre la famiglia che la sorte mi ha assegnato, la cui mediocre normalità, esasperata dall’agiatezza, mi ha sempre ripugnato, le gambe, che avrebbero dovuto percorrere il mondo intero alla ricerca di una vita sensata, si sono alleate con la paura del cambiamento in cui sono stata allevata. I medici hanno fatto la diagnosi guardando il mio volto atono e indifferente alla circostanza. Una paralisi isterica la definiscono. Mia madre, perennemente al capezzale, cura la sua bambina e non osa chiedermi il senso della valigia che ha trovato in camera. Continui pure a non capire. Se e quando le gambe avranno riacquistato il senno, fuggirò. 75. Per anni, ho dovuto sopportare di convivere con mia suocera, il cui amore morboso, e ricambiato, mi alienava il marito. Quando è morta, ho tirato un sospiro di sollievo. Dopo un anno, è nata lei, un amore di bambina. Non appena l'ha vista, il padre si è illuminato in volto, poiche aveva gli stessi occhi celesti e infidi di sua madre. Mi sono sentita venir meno: dal mio ventre era uscito quell'esserino che lo aveva sedotto al primo sguardo? Non ho odiato mia figlia: ho odiato in lei l'altra, che si era incarnata per continuare a tormentarmi. Distinzione troppo sottile per un'anima ingenua. Dacché è ammalata, mia figlia mi accusa di volerla avvelenare. La verità - di cui nessuno ha colpa - e che ci siamo avvelenate la vita a vicenda. Nulla più dell'indifferenza può fomentare l'amore in un cuore infantile e renderlo imperituro. Svezzato appena, mio padre fu abbandonato da colei che lo mise al mondo, donna di affascinante e gelida bellezza, che si dette alla bella vita. Deturpata dagli anni e dai mali, gli chiese aiuto, e mio padre capì che, accogliendola in casa, non l'avrebbe più perduta. La curò con una tenerezza e una dedizione che lo resero insensibile ai doveri nei confronti della moglie e dei figli. Quando ella morì, cadde in una prostrazione totale, poiché la morte non concede ritorni. Così si dice, ma non sempre è vero. Nacqui con gli occhi dello stesso glaciale colore, e, crescendo, pareggiai la fascinosa bellezza di quella. Ho vissuto all'ombra di due feroci gelosie di segno diverso, per sedare le quali avrei dovuto, nel contempo, non essere e non divenire. La quadratura del cerchio mi si è offerta all'improvviso, in virtù della convinzione di non essere figlia di coloro che dicono di avermi messa al mondo. Può darsi, come sostengono i medici, che si tratti di un delirio: ma, di fatto, cosa avrebbe potuto salvarmi se non un'altra genealogia? Dicono che deliro. Può darsi. Talora dubito io stessa che colei che si dice mia madre voglia avvelenarmi. Sono però certa da sempre che, se potesse, mi caverebbe gli occhi. 76. Per tre anni mi ha illusa, affermando di essere disposto, per amor mio, a rinunciare alla carriera e agli agi di cui godeva in virtù di un matrimonio di interesse. Alla prova dei fatti, messo alle strette dal suocero, è venuto meno come un codardo. Le argomentazioni con cui ha tentato di farmi accettare la fine del rapporto come una soluzione ragionevole mi sono apparso meschine tanto più che esse miravano a riattivare in me il dolore della separazione dai miei; le conclusioni, spogliate di retorica, si riducevano al fatto che non vale la pena perdere tutto per una donna. Un calcolo, un puro calcolo, che ha segnato irreversibilmente la mia anima (purtroppo, ancora giovane). A chi potrò più credere? Mi sarei dovuta vendicare perseguitandolo e rendendogli impossibile la vita. Mi sono limitata invece a danneggiare con un martello il calcolatore elettronico destinato a spodestarmi dal ruolo di capocontabile nella ditta del suocero. Porterò per sempre dentro di me l'ignominia e il rimorso. L'ho amata veramente e continuo ad amarla. Ma lei ormai crede che io sia null'altro che un meschino parvenu, e in ciò, paradossalmente, è alleata di mio suocero. Non posso fare nulla per cambiare questi giudizi se non opporre ad essi una verità, che per amore ho tentato di negare a me stesso. Nonché dall'ambizione, dagli agi e dal denaro, la mia vita è segnata dall'incubo della fame originaria. E` un luogo comune affermare che non si vive di solo amore: ma io l'ho sperimentato sulla pelle, ché mia madre non aveva altro da offrirmi. 77. Per tutta la vita, ha giocato con me come il gatto col topo. Era un uomo esuberante e fascinoso quanto io modesta, trepidante, chiusa a riccio nel ruolo di casalinga e di madre. Certo della mia infantile subordinazione, si è concesso ogni libertà. Non sempre con discrezione. Per riscattarmi piu che per vendicarmi, ho sperato che, invecchiando, ammalasse, finendo preda delle mie cure. La sorte ha assecondato i miei propositi: alle soglie della pensione, un tenue tremore alle mani ha inaugurato una malattia che, nel giro di un anno, lo ha ridotto come un tronco d'albero rinsecchito. Aveva bisogno di essere accudito, imboccato, guidato per mano. Lo portavo con me a passeggio, in chiesa, al bar come un cagnolino, godendo degli sguardi pietosi della gente che, umiliandolo, esaltavano il mio sacrificio. Farfugliava spesse rimproverandosi le colpe commesse. L'orgoglio però sopravvive anche all'arteriosclerosi. Da un giorno all'altro, ha rifiutato ostinatamente il cibo. Secondo i medici, è morto di cuore, ma io so che si è lasciato morire per sottrarsi alle mie cure. Ora, il suo potere è infinito, poiché il vuoto che si è aperto nella mia vita è perseguitato giorno e notte dal suo fantasma rancoroso. Benché sano, il mio organismo non può sopravvivere ad una veglia perenne. Presto - ne sono certa - lo raggiungerò, e, se Dio è giusto, me lo affiderà per sempre. Perché non le è bastato il mio sacrificio? Per amor suo sono cresciuto debole, pallido e astenico come una donniciola. A ventidue anni, quando una donna si illuse di sottrarmi al mio destino, fu il mio corpo senza identità a tradirmi. Entrambe le mammelle si rigonfiarono secernendo un siero lattiginoso. La vergogna mi pose al riparo da ogni altra avventura. Consapevole dessere senza scampo, tentai un velleitario suicidio, prima di rassegnarmi definitivamente. Sono rimasto accanto a mia madre come se rinunciare a vivere fosse stata una mia scelta. Non ha capito nulla di me. Ora smania per ricongiungersi a mio padre, indifferente alla solitudine cui mi abbandonerà. Lo ha odiato per tutta la vita istillandomi l'odio di essere uomo. Di lui, però, ha bisogno, non della mia inetta fedeltà. 78. Per vent'anni, non ha fatto altro che rifiutarmi; più mi asservivo aggrappandomi a lui e implorando briciole di amore, più si ribellava umiliandomi e respingendomi. Sono stata sciocca - o pietosa - a non capire che, per sentirsi libero, aveva bisogno di liberarsi di me ogni giorno. Quando è troppo intenso, e dunque imperscrutabile nelle sue logiche, l'amore confina con la sragione. Dopo vent'anni, ho ceduto, sono andata via, lasciando scritto - suprema, crudele ingenuità - ch'ero disposta a soffrire le pene dell'inferno pur di dargli la pace, Per non umiliarsi si è tolto la vita. Lo confesso: mi sono sentita liberata da un incubo, e repentinamente certa di un amore che non si era mai espresso. Non era amore? Che importa. Adesso so che non poteva vivere senza di me. 79. Per vent'anni sono vissuta sotto il giogo di un padre seducente, che, certo di possedermi totalmente, non mi concesse mai una carezza. Me ne affrancai con il matrimonio e la frigidità. Purtroppo, mio marito nulla ha capito di me. Insiste a compiacermi per ore, nonostante la secchezza del mio corpo lo irriti e lo estenui. Ho sempre intuito che, se mi avesse appena sfiorata, avrei raggiunto l'orgasmo. Purtroppo, egli ha preteso di curarmi, di accendere il fuoco laddove c'è, e ci sarà sempre, una fredda autonomia. Non se ne abbia a male, dunque, se frequento un adolescente la cui impotenza gli impedisce di penetrarmi, ma le cui mani inesperte producono un interminabile orgasmo. 80. Procedo spedita, a testa alta, e lui mi segue a distanza come un cagnolino. D'improvviso, una vertigine mi fa sbandare e la vista si annebbia. Sono costretta a rallentare il passo e a tendere una mano in cerca di un sostegno. D'un balzo, nonostante la ruggine d'un'incipiente vecchiaia, mi è d'accanto e mi sostiene, premuroso e servile. Vertigine e nebbia scompaiono: lo allontano con un gesto altezzoso, che lo respinge, e riprendo il cammino, più spedita di prima. So che continua a seguirmi come un'ombra. Nella sua silenziosa fedeltà, non difetta l'insidia. Due volte in trent'anni sono stata costretta a volgere il capo per la paura che il silenzio segnalasse l'abbandono. Tanto gli è bastato. 81. Quando gli uomini si convinceranno che le disposizioni di carattere sono l'espressione di una lotteria, non è improbabile che accetteranno, talora, di scambiare i figli. Io nacqui con un'anima delicata e introversa, precocemente dedita alla contemplazione e agli studi da un uomo sanguigno e volgare, la cui unica attività consisteva nel taglieggiare i commercianti del quartiere e nel prestare denaro a strozzo. Ha tentato in ogni modo di forgiarmi a sua immagine e somiglianza, incurante del fatto che la creta che aveva sotto le mani, bisognosa di una linfa ch'egli ignorava, si sfaldava progressivamente. Ha desistito troppo tardi, quando l'amore della vita, e dei libri stessi, si era isterilito dentro di me. Nessuno dei due ha colpa: egli non è l'uomo che avrebbe potuto educarmi, io non sarò mai il suo indegno erede. Gracile, pauroso come una farfalla e miope come una talpa. Ecco il figlio che mi ha partorito mia moglie. Sapendo di essere temuto e odiato da tutti, ho cercato di metterlo al riparo dalla vendetta che si sarebbe inesorabilmente abbattuta su di lui. Ho sbagliato a strappargli i libri da sotto il naso? a picchiarlo quando tornava a casa piagnucoloso? a tentare di addestrarlo a maneggiare almeno la pistola? Può darsi. Ma non è giusto che mi disprezzi. La vita è quello che è, e dai libri non ci si ricava niente. Che fine farà quando io non ci sarò più? 82. Quando lo incontrai, fui sciocca ad illudermi che l'amore sarebbe durato per sempre. Avevo quarantadue anni, ma ero avvenente, vitale, insensibile all'approssimarsi dell'autunno. Lui ne aveva la metà, ed era timido e inesperto come un fanciullo. Lo iniziai alla vita: scoperse con me il piacere e, per a1cuni anni, mi fu grato e fedele, Il tempo poi compì la sua opera impietosa, devastando il mio corpo. Rimossi i primi segni di disaffezione, che ingenerarono però dei dubbi. Conoscendo la mia natura passionale, avrei dovuto guardarmi dall'indagare. Divenni invece sospettosa e possessiva. Accadde quel che doveva accadere: scopersi che aveva un'altra donna, non bella ma giovane, dalla quale attendeva un bambino. Amandolo, non avrei potuto fargli del male; essendo vigliacca, non trovai la forza di togliermi la vita, Guardandomi allo specchio, rinunciai ad esprimere una gelosia che mi avrebbe resa ridicola. Gli concessi la libertà, ma lo supplicai di ingannarmi, di aiutarmi a credere che non era vero ciò che sapevo, di far finta, ogni tanto, di volermi ancora bene. La mistificazione a riuscita in maniera perfetta confermando che l'evidenza è nulla in confronto al bisogno di illudersi. Quando mi si avvicina, sento che le sue mani pietose desiderano ancora un corpo che a me ripugna. 83. Quando nacqui, vigeva in casa un duro regime militare. Non è una metafora: mio nonno era generale, e mio padre, suo unico figlio, era stato allevato come se il mondo fosse una caserma. Relegata in un ruolo subordinato, s'impedì a mia madre di interferire nella mia educazione. A quattro anni ero un soldatino rispettoso, obbediente e, nell'intimo, pieno di paura nei confronti dell'autorità. Non sempre le rivoluzioni avvengono traumaticamente. Mio nonno invecchiò e fu esautorato dall'arteriosclerosi. Il ventre di mia madre, fucina di anarchia, sfornò ogni due anni un bambino, per dodici anni. Il regime militare resse poco all'avvento dei barbari: rapidamente, mio padre si arrese e si chiuse in una solitudine orgogliosa. Educati a non rispettare nulla e nessuno, vittime innocenti del rancore di mia madre per l'ancien regime, i barbari si scatenarono. Fui io, indegno luogotenente, a tollerarne l'urto e ad assistere al crollo dell'impero. Reagii con una rabbia impotente, frenata da un istintivo amore, che mi destinò alla rovina. Figlio unico e viziato, mio marito aveva un carattere brusco e autoritario. Non avrei mai potuto competere con lui. L'ho giocato imponendogli l'Ogino-Knaus, e partorendo sette figli, tutti maschi. Via via che essi crescevano, in un disordine assoluto alimentato ad arte, ho visto la sua rabbia impotente esaurirsi fino alla resa. Gira per casa come un re spodestato, incapace di imporre il suo potere ai barbari che ne hanno invaso l'impero. Ogni tanto, negli occhi, gli guizza il fuoco della vendetta: ma è solo e noi siamo otto coalizzati contro di lui. Il mio ventre, che considerava totalmente soggetto al suo potere, è stato una fucina di guerra. 84. Quante volte mi sono sentita come una bambina caduta in un pozzo, che nessuno veniva a salvare. Gridavo aiuto e, ogni tanto dall'alto cadeva un sasso. Per ore e ore mia madre ha pianto davanti al televisore, finche non ne ho potuto più. Ho urlato quello che sentivo: era disumano farlo soffrire quel bambino. Se lo si voleva aiutare, bisognava mandargli giù un biberon col cianuro. Mi ha chiamata serpe, ed io mi sono avvinghiata al suo collo per impedirle di sputare altro veleno. 85. Ricchi entrambi per eredità, i miei si sono sentiti sempre in debito nei confronti del mondo, e hanno tentato di riscattarsi lanciandosi in opere di beneficenza e di assistenza sociale. Come se non bastasse il fatto di non aver tempo per i figli, hanno tentato di convincerci che la vita vale la pena di essere vissuta solo sotto forma di impegno sociale. Il privilegio di nascita - almeno per quanto mi riguarda - si è tradotto perciò in un duplice danno: l'aver avuto solo sulla carta un padre e una madre, e l'essere stata indotta a vergognarmi della mia condizione sociale, e, in fin dei conti, del desiderio di godermi la vita. Non so se per l'una o l'altra circostanza, fin dai nove anni cominciai a pensare al suicidio. L'ho tentato anche più di una volta, senza riuscirci (per viltà suppongo). Sono rimasta un'inetta, incapace di usare la vita a vantaggio mio o degli altri. 86. Sarebbe stato arduo spiegare perché con un buon lavoro, una brava moglie, una splendida figlia, mi sentivo di giorno in giorno soffocare. Decisi vigliaccamente di scomparire. Addussi come scusa un immaginario congresso e, all’alba, mettendo piede fuori di casa mi sentiti inebriato. Non avendo fatto alcun progetto, la libertà vertiginosa mi si apriva davanti come un fascio di possibilità di trecentosessanta gradi. Raggiunsi in un batter d’occhio il raccordo anulare e comincia a valutare le diverse alternative. Per godermele tutte lo percorsi più volte. Imboccai poi una via verso il Nord. Dopo alcuni kilometri, un’angoscia acuta segnalò l’errore. Tornai dietro e, una alla volta, provai tutte le vie di fuga. Dopo ore di vani tentativi, capii che la mia gabbia era la stessa sete di libertà infinita. Tornai dietro con la coda tra le gambe e, da allora, gli attacchi di panico mi proteggono dalla consapevolezza che la mia vita è un bluff. 87. Scoprire a 35 anni la verità è quasi intollerabilmente doloroso. Ho sempre pensato alla felicità nei termini di un’esperienza affettiva condivisa. Per questo mi sono sposata e, non avendola trovata, ho avuto il coraggio di separarmi e di mettermi con un altro uomo. Quando questi, dopo avermi promesso mari e monti, mi ha lasciato, il mondo mi è crollato addosso e una coltre di grigiore ha coperto la mia anima. La solitudine mi riusciva insopportabile, e sono vissuta in un lutto profondo fino a qualche tempo fa. E’ accaduto poi un evento casuale che mi ha restituito la verità. E’ uscito in libreria l’ultimo romanzo di un autore che amo. La notizia, che in passato mi avrebbe esaltato, mi ha lasciato fredda. A che vale - ho pensato - leggerlo senza poterne condividere la gioia con qualcuno. L’ho comprato per abitudine, e per varie settimane ha fatto compagnia alla mia solitudine. Un sabato, ravvolta nei miei pensieri grigi, l’ho preso tra le mani meccanicamente. Non mi sono neppure accorta di averlo aperto e di avere cominciato a leggerlo. Per tre ore sono rimasta ammaliata e stordita dal piacere, fuori del mondo. Al risveglio ho capito. La felicità del passato era solo una felicità di riflesso. Godevo affinchè l’altro potesse godere. Non mi sono mai autorizzata a godere autonomamente. Vivevo insomma in funzione dell’altro. Perciò anche soffrivo, smaniavo e ho contribuito a rendermi insopportabile. Perciò ho, senza volere, distrutto i rapporti. Condividerò la mia felicità quando essa sarà un capitale appropriato. Se ancora mi interesserà condividerla, ovviamente. 88. Se qualcuno mi chiede l'accendino, perché non prestarglielo un attimo? Lo usa e me lo restituisce: non è mai capitato che ne cavasse più d'una fatua fiammella. Lo stesso accade con il corpo: a credere agli sguardi degli uomini, ne hanno bisogno e lo desiderano. Lascio che lo usino, come vogliono. Io non sono il mio corpo: sono la vergine che risiede in esso. 89. Se i miei sapessero, morirebbero di crepacuore. Una figlia unica che è stata sempre il loro fiore all’occhiello, sposata con un uomo bello, ricco e importante che adorano, madre di due figlie ormai grandi, funzionaria di Stato, che si concede a cinquant’anni un tradimento passionale. Se sapessero, e lo sapesse anche mio marito, penserebbero che la menopausa mi ha tolto il senno. La verità è che mi sono svegliata da un lungo sonno. Sono vissuta in una totale soggezione alle aspettative dei miei prima e di mio marito poi. In una sola circostanza, a ventanni, mi ribellai innamorandomi di uno studente universitario sessantottino di lingua di lingua tedesca. Mio padre attendente di un generale - aveva già provveduto a farmi fidanzare con un uomo scelto da lui: un aitante tenente di belle speranze. Quando gli comunicai che non intendevo sposarlo, per la prima e lultima volta fui picchiata. Il matrimonio apparentemente è andato bene. Mio marito ha fatto carriera, e, dallalto del suo charme, mi ha assegnato un ruolo di rappresentanza. Per quanto elitario, lambiente diplomatico mi ha fatto sempre schifo. Gli uomini sono burocrati, le donne non sanno parlare daltro che di abiti firmati e di luoghi di vacanze. Nellintimità, poi, mio marito incredibile a dirsi ha avuto sempre dei problemi. Il suo rapporto con i subordinati mi ha indotto più volte il dubbio di unomosessualità latente. Mi ero arresa alle forme allorchè, alcuni mesi fa, il mio primo amore mi ha scritto chiedendomi di vederci. Dopo trentanni, abbiamo scoperto che il filo della passione non si era interrotto. Lui è rimasto lo stesso: i capelli lunghi, ma ancora biondi, labbigliamento casual, un lavoro precario, la volontà di non integrarsi. Ma è vivo, santo Iddio, spontaneo e soddisfatto di sé. Non è cresciuto, ma proprio per questo il suo sguardo di adolescente ha dissolto il gelo in cui sono vissuta. Se i miei sapessero, morirebbero di crepacuore. So che non me ne farei una colpa: per vivere in pace mi hanno sacrificato sullaltare dei loro pregiudizi. Pensa che io sia all’oscuro di tutto, e va bene così. L’ho sposata per coprire il mio "vizietto", e per non correre troppi rischi ho scelto una donna bene educata e non molto attraente. L’ho resa infelice. Adesso è giusto che si vendichi con l’uomo che ama e che ha sempre amato. Questo mi affranca dal dovere coniugale al quale mi sono piegato malvolentieri per coprire la mia doppia vita. Nessuno saprà mai nulla. Se si venisse a sapere, poi, lei sarebbe giudicata pazza e io un buon marito capace di perdonare e di tenerla ancora accanto a sé. 90. Si addormenta accanto a me come un fanciullo, incurante di un pericolo che ignora e che non posso confessare. Lo veglio terrorizzata che il suo essere indifeso possa indurmi a realizzare le fantasie che, da sempre, pervadono la mia insonnia. Più volte, nel corso della notte, lo sveglio, accampando la scusa di invidiare il suo riposo. Quando, al mattino, si alza con gli occhi pesti per il dormiveglia che gli impongo mi assopisco tranquilla, ché non posso fargli del male. Ma - infine - l'odio che squassa le mie notti è rivolto contro di lui o contro il bisogno, umiliante e totale che ho di lui? Mi distruggerà. Vive aggrappandosi a me - durante il giorno mi telefona infinite volte sul lavoro scongiurandomi di soccorrerla - e tormentandomi la notte. Non mi sento amato di giorno più di quanto mi senta odiato di notte. So di essere colui che la protegge e la vincola. Perché non si libera di me? Perché non mi libera? 91. Si può scoprire una verità sconvolgente in un libro per bambini? Come un ragno, ho trascorso la vita a tessere tele sempre più vaste e implacabili. La mia potenza di seduzione si è espressa nella geometria della rete e nell'intuire il tragitto dei voli. Per il resto, ho giocato d'astuzia rimanendo assolutamente immobile e fingendo di essere innocuo. A questa strategia, fatta di passività e di calcolo, hanno ceduto prede considerate inafferrabili. Mai ho avuto pietà: neppure quella di saziarmene quand'esse si contorcevano nell'implacabile trappola. Dal libro per bambini ho appreso che il ragno è assassinato dalla compagna, non appena ha deposto in essa il seme. Da allora, l'ebbrezza delle conquiste si è tramutata in una dolorosa percezione di sterilità. I fili sottili su cui mi tenevo sospeso come un acrobata si sono spezzati d'incanto sotto le raffiche dell'angoscia di essere vissuto meno nel gusto della perversione che nel culto della paura. 92. Sino a diciotto anni vissi come una madonnina nell'attesa che qualcuno rimanesse attratto dalla mia immacolata e ingenua ritrosia. Nulla accadde, e mi convinsi che nulle mai sarebbe accaduto. La difesa della verginità, che mi era imposta dalle infinite umiliazioni che mia madre aveva dovuto subire per non essere giunta integra al matrimonio, mi sconsigliava ogni azzardo. Ma come vivere senza l'illusione dell'amore? Un giorno, uscendo di chiesa, nonostante lo sforzo di. tenere la testa china, i miei occhi - fino allora ritrosi - saettarono uno sguardo fatale. Il malcapitato non ebbe scampo, e rimase ammaliato. Prese a seguirmi ovunque con la muta devozione dell'amante, cui basta un cenno di interesse per cadere in estasi. Mi amava disperatamente, ma a me non piaceva. I parenti e gli amici si accorsero rapidamente che non le contraccambiavo, e mi trastullavo con la sua fedeltà portandolo in giro. Presero a perseguitarmi, non lasciandomi scampo neppure in casa. Nonostante un carattere intimamente ribelle, mi arresi ad accettare il matrimonio. Tentando di avvicinarmi a lui (questo mi era imposto dai parenti a sconto delle umiliazioni inferte) scopersi ciò che ignoravo e che, da allora, rimane un mistero. Da lontano il suo volto era inconfondibile, da vicino invece si confondeva con una folla di volti. Prendere liniziativa mi risultò impossibile: se lo avessi scambiato con un altro, mettendo a repentaglio la verginità, chi mai avrebbe potuto credermi? Invano per anni ho tentato di comunicare a lui e agli altri la situazione nella quale mi trovo. Più insisto, e più essi si esasperano, imponendomi di pagare un prezzo che non posso pagare. Il rapporto - dura ormai da dieci anni - è destinato dunque a rimanere cristallizzato per un equivoco che non si potrà mai chiarire. Che importa? Continuerà ad amarmi ed io sarò solo sua, senza che nè lui nè alcun altro mi possegga. Ho tentato in ogni modo di rendere mia figlia indifferente agli uomini per affrancarla dal servaggio al quale io stessa mi sono piegata. E indescrivibile la pena che provo da quando - e sono ormai dieci anni - si è perduta dietro ad un fantasma. Se la trattengo in casa, passa il giorno sbirciando dalle persiane per vedere quante volte limmaginario amante si fa vivo. Se la lascio uscire, è ancora peggio. Ferma le macchine per controllare se il guidatore è lui. Indifferente lo è, altrimenti trovava uno in carne e ossa, ma piegata al dovere pure. > 93. Sono nato da una famiglia isterica con una marcata attitudine logico-matematica. I conti non hanno mai quadrato. I miei litigavano sempre perché non potevano fare a meno l'uno dell'altra. Mia madre malediceva il giorno in cui mi aveva concepito vincolandosi irreversibilmente a mio padre, ma manifestava nei miei confronti una gelosia che, impedendomi di vivere, rendeva impossibile liberarla. Più che queste contraddizioni, umanamente comprensibili, hanno pesato sulla mia esperienza insolubili antinomie. Per pormi al riparo dalle insidie del mondo, mia madre mi educò a pensare che tutte le donne sono puttane. Questo ni impose di viverle come un sottoinsieme vuoto. A trent'anni conobbi una donna della quale mi innamorai, e che riuscì a tollerare le infinite crudeltà cui la sottoposi per metterla alla prova. Prima di entrare nella sala operatoria, dalla quale purtroppo sarebbe uscita morta, mia madre mi consegnò il suo anello facendomi giurare che lo avrei donato a qualunque donna tranne che a "quel demonio". Colei che amavo, e che potrebbe dividere la mia solitudine, rappresenta dunque un sottoinsieme di iniquità che riscatta la classe di tutte le altre donne. Giurai senza valutare la possibilità che mia madre morisse. Ora cerco la soluzione - forse inesistente - di un problema insiemistico. 94. Sono quello che si dice un arrampicatore sociale. Partendo dallabisso nel quale limprevidenza di mio padre aveva precipitato la famiglia, cosaltro avrei potuto fare? La sorte ha voluto che i rampini di cui disponevo - 1opportunismo, un intelligenza vivace ma priva di scrupoli, il servilismo - facessero presa su di un apparato di partito. L'ascesa, non facile, è stata pero rapida. Purtroppo nel Palazzo vige ancora la regola che spazializza i ranghi; ogni scatto di carriera mi porta al piano superiore. Ora sono al quarto; i miei guai sono cominciati al secondo. La poltrona dirigenziale che sancì il mio status di funzionario rivelò, infatti, la miseria dell'anima. Era collocata accanto alla finaestra, quando avvertii, per la prima volta, l'impulso di gettarmi nel vuoto. Una diversa disposizione di mobili, tentata inganuamente, non sortì alcuna effetto. Nelle stanze, ormai, per me non esisteva altro che quello spiraglio aperto su una libertà fascinosa e terrificante. Ho impiegato due anni a capire che quello scampo rimediava paradossalmente alla paura, cresciuta con la carriera, che qualcuno denunciasse la mia pochezza, il difetto di un titolo di studio adeguato, la vergogna delle origini, i sistemi millantatori con cui avevo acquistato credito. Ignoro i motivi per cui la mente mi imputa un reato inesistente - l'esercizio abusivo di prestigio - e mi condanna a tornare nel fango da cui provengo. Forse c'entra il fatto che i potenti, ai cui piedi striscio opportunisticamente, li disprezzo. A questa reiterata ingiustizia, ho reagito con unulteriore spinta verso l'alto. Al quarto piano già soffro le pene dell'inferno. Ma i gironi - lo intuisco - sono da percorrere ancora più in fretta, benché l'accelerazione, che sbalordisce gli altri, apra sotto i miei piedi la voragine della catastrofe. L'usciere, che mi vide entrare, la prima volta, con la coda tra le gambe, e mi saluta ormai con riguardo, ignora quanto lo invidio. A onor del vero, ignora anche quanto lo disprezzo. 95. Una coppia male assortita secondo tutti: io femminista, trasgressiva, comunista; lui un impiegato di banca tradizionalista, conservatore, legato alle forme. Dopo avergliene fatte vedere di tutti i colori, cedetti alla sua corte insistente ma sottile. Col matrimonio avvenne in me un sorprendente cambiamento. Mi ritrovai calata nel ruolo di casalinga, di moglie e di madre e scoprii, non senza sorpresa, di sentirmi non solo a mio agio ma di non desiderare altro. Rinunciai perciò ad un lavoro creativo che, a detta di tutti, mi avrebbe assicurato il successo. Dopo un anno ero incinta del primo figlio - lui divenne quasi del tutto impotente. Ne avessi avuto la forza, avrei dovuto lasciarlo. Invece, frustrata e umiliata nella giovinezza e nell’ amore, rimasi al mio posto. Gli ho scaricato addosso una rabbia terribile per vent’anni. Ho assistito al suo travolgente successo professionale, adeguandomi ad un’agiatezza alla quale non saprei rinunciare. Ho pensato di tutto riguardo al disturbo che ci ha rovinato la vita. Ma non sarei mai potuta giungere ad una verità che egli ha confessato solo di recente. L’impotenza è relativa. Con altre donne è riuscito a fare l’amore ma sempre e solo in situazioni trasgressive. Ciò che lo ha bloccato è l’essersi trovata accanto una donna del tutto diversa da come apparivo: in breve una moglie. Ciascuno di noi era una medaglia a due facce. Col matrimonio si sono rovesciate. 96. Un banale intervento chirurgico ha fornito ad una cronica depressione uno spunto che la nobilita. Era li da sempre, innicchiato in una cisti sotto la clavicola: un residuo embrionale, ridotto a pochi annessi, che ora fa mostra di sè in un museo anatomico. Un gemello - mi è stato detto - che, concepito, ha rifiutato di esistere. Non posso più ignorare di aver usurpato una vita e di essere la metà di un tutto. La scienza conforta l'ipotesi che sia stata la sorte a decidere. Sarei potuto essere io, dunque, un ciuffo di peli sotto formalina. Ho sempre sofferto della solitudine del figlio unico come di una colpa. Ora so che l'altro - il fratello l'amico, il rivale - è rimasto impietrito dentro di me da non so quale sgomento. Sono colui che rifiutò di venire al mondo. E ridicolo che affermi di aver presagito il delirio puerperale che permise a colei che non fu mai mia madre di ignorare di aver dato alla luce un figlio. Imboccando però casualmente la via del nulla, mi sottrassi ad uno sterile dolore. 97. Un contadino rinuncia ad una piccola proprietà terriera che lo affama e, dovendo andare sotto padrone, sceglie di servire lo Stato. Secondo quanto mi è stato riferito, questo è l'antefatto. Quando nacqui, mio padre era una guardia di finanza, si viveva a Roma in una borgata malfamata, e la miseria dello stipendio era esasperata dalla necessità di risultare rispettabili. Una divisa, benché logora, rappresenta pur sempre lo Stato e, per quanto indossata da uno solo, essa impone a tutti i membri della famiglia un certo decoro. Mi fu impedito di frequentare gli altri bambini, che avevano modi volgari e dicevano parolacce. L'isolamento, i giochi solitari, il clima familiare un po' cupo, e segnato da un'acuta nostalgia del paese originario, mi frastornarono. A scuola, ove, per la prima volta, mi trovai in compagnia di coetanei, la timidezza bloccò l'apprendimento. La licenza elementare, dopo sette anni, mi fu elargita per non umiliare mio padre. Non mi si propose neppure di lavorare. Fui abbandonato a me stesso, e mi fu concesso di vivere in casa come una pianta. Avevo quasi venti anni quando, in un giorno di densa primavera, guardando i ragazzi e le ragazze del quartiere che amoreggiavano, mi risvegliai da un lungo sonno, e mi chiesi cosa stessi facendo della mia vita. Prima ancora di poter ragionare, la disperazione si trasformò in un urlo e in una furia che mi indusse a infrangere il trumeau della sala da pranzo che ostentava pretenziosamente le insegne della nostra miseria. Su due piedi, fui dichiarato pazzo. 98. Un maschio anoressico pare che sia una rarità. Io lo diventai a 14 anni, e, un anno dopo, ero sul filo del rasoio. La psicoterapia non mi faceva nè caldo nè freddo. Mi salvò un rozzo medico di base che, senza alcun riguardo, mi fece presente che, continuando a non ingerire cibi, il cervello sarebbe andato in malora. Ricominciai a mangiare il giorno stesso. Adesso, che ho 20 anni, il mio cervello funziona a mille. Solo che non lo controllo più. Mi impone di difenderlo da tutti i pericoli che possono minacciarne l'integrità. E' incredibile quante paure abbia quest'organo. Ciascuna di esse, per essere scongiurata, richiede l'esecuzione di un complesso rituale. Dalla mattina alla sera sono impegnato nella sua manutenzione, che non so bene a cosa possa servire, se mi impedisce di usarlo per dedicarmi agli amati studi di matematica superiore. Un vecchio paralizzato, con gli occhi inquieti giorno e notte alla ricerca di un'impossibile scappatoia, fa paura. Cionondimeno, l'ho aiutato lavandolo, imboccandolo e, talora, elusa la sorveglianza degli infermieri, concedendogli qualche boccata di fumo. A parole, affermava di essere stanco del mondo, del manicomio, ove entrambi eravamo internati, e di non augurarsi altro che la morte. Ma, con gli occhi, insidiava con una invidia feroce la mia giovinezza. Una notte, svegliandomi di soprassalto da un incubo, mi accorsi che mi guatava. La ragione mi avrebbe indotto a soffocarlo con un cuscino; per pietà, mi limitai a cavargli gli occhi. 100. Chi ignora il mal di mare, difficilmente comprenderà. Ma anche chi lo ha provato, con gli occhi fuori delle orbite, stenterà a credere che esso si produce senza rollio. Sulla terraferma. O, addirittura, nel proprio letto, di notte, ad ogni cambio di posizione. Sono costretto ad una quasi perpetua immobilità. Invano gli esami hanno sondato il vestibolo: non è lì il microscopico mare perpetuamente in tempesta che non mi consente né requie né sbarco. Per quanto i medici sostengano il contrario, nel mio male c'è alcunché di metafisico: esso, la prima volta, mi risvegliò da un sogno nel quale inseguivo con lo sguardo le ogive di una cattedrale gotica. Da allora, il cielo mi è ignoto, e non c'è luna piena o stormo di uccelli che mi attragga. C'è, sempre e solo, il mare in tempesta e l'abisso. 101. Non ci si affanni a capire. La vita scorre come un fiume neghittoso sulla cui superficie repentinamente, di rado, si formano dei vortici. Una pagliuzza, giunta lì perché incapace di opporre resistenza, scompare nel gorgo. Che importa? All'alba, ai piedi del letto, ha preso forma il mio destino. Un molle ovale che interseca, quasi fratturandosi, la giuntura del parquet. L'ombra si prolunga in un filo che svanisce nel nulla. Attendo immobile che l'incerta luce dell'alba decida di me. Squilla il telefono. Stacco la spina. Il trillo continua a rimbombare disperato dentro di me. Una voce, anonima, mi scongiura di continuare ad esistere. Sono il cappio di cui ha bisogno per infilarselo al collo e urlare di gioia quando, all'ultimo istante, riesce a scampare. Chi sarà mai? La luce, interferita da un sottile velo di nuvole bianche, stenta ad avanzare. Chiudo gli occhi e, nel dormiveglia, mi abbandono ai ricordi. La nebbia, che diventa sempre più fitta via via che retrocedo nel tempo,mi impedisce di fissare il momento in cui intuii di albergare, sotto le apparenze innocenti, una natura demoniaca. Di sicuro, ne presi coscienza piena a vent'anni. Mio padre, ancora giovane, era moribondo in ospedale, assistito dalla moglie. Rimasta sola, organizzai a casa una festa invitando amici, conoscenti e sconosciuti. Inebriata dall'alcool, ballai sino all'alba nello sbigottimenti di coloro che sapevano di mio padre. Quando andarono via tutti, la casa era devastata. Nella tarda mattinata, appresi che mio padre, dopo aver rantolato tutta la notte, stava per finire. Non provai nulla, tranne che l'atroce gioia di non essergli stata accanto. Il ricordo si è risvegliato stamattina. La monocamera in cui vivo da sola è in uno stato penoso di abbandono. Abiti, biancheria, libri e riviste sono sparsi ovunque. Sulla scrivania, c'è la busta del latte e i resti della frutta con cui, forse, ho cenato ieri sera. O l'altra, o l'altra ancora. Da quanto tempo mi sono ritirata nella cella della morte? A ventuno anni avevo già imboccato la via giusta, perdendo il sonno, l'appetito e la voglia di vivere. Smagrii, persi i capelli e, per sei mesi, il sangue non mi visitò più. Esploravo con gioia nello specchio l'immagine raggrinzita che, finalmente portava alla luce, quello che ero dentro. Le medicine, il tempo, il caso furono inclementi. Agli occhi degli altri, tornai ad essere me stessa.Ero un'altra invece, perché avevo gustato il dolce nettare dell'annullamento. Tentai invano di rimanere come sarei dovuta essere: una bambola caricata a batteria. Il demonio ha tentato di infondermi la vita, di risvegliare il corpo e l'anima dal sogno dei miei di cui sarei dovuta rimanere prigioniera. Non ha tenuto conto che, ad ogni risveglio, il dolore di non essere vissuta mi spingeva a diventare preda degli altri. A venticinque anni, sposandomi, tentai l'azzardo di diventare normale senza esserlo. Da una docile subordinazione a mio marito e alla sua famiglia affondai in un'inerzia passiva. Non è un caso che il mio ventre sia rimasto sterile, né che mio marito non si sia arreso a perdermi. Quando mi sono ribellata, drogato della mia dipendenza, ha preso a perseguitarmi. Liberando me stessa, libero anche lui. Ora mi sento innocente. Il mio corpo nudo e magro sotto le lenzuola appare quello di una bambina. Nessuno approfitterà più di me, a nessuno farò pagare il prezzo di avere approfittato di me. Non più angelo né demonio, né serva né padrona, né maschera né vuoto. La luce ormai è alta. L'anello del cappio è ben sostenuto dalla corda che appare salda controluce. Non è tempo di indugiare. Qualcuno pensi alla gattina, che rimarrà con gli occhi sbarrati vedendomi, infine, penzolare dalla mia libertà. Andando a raggiungere suo padre, mia figlia non ha lasciato per me neppure un biglietto. Sul tavolo c'era solo un'agenda scarabocchiata. Solo due pagine erano nitide. Su una era scritto: "Sul ballatoio della casa ove ho trascorso l'infanzia, una finestra si spalanca. Due mani avvolte in guanti di gomma scaraventano fuori un gattino bagnato e tremante. Con gli occhi smarriti avanza a sghimbescio verso l'inferriata e precipita nel vuoto. Assisto sgomenta all'evento. Tutto avviene in silenzio." Sull'altro: "Sono sul banco degli imputati di fronte ad un tribunale che non consente di sperare nella clemenza. Di cosa mi si accusa? Non so né posso saperlo. La sentenza, appena sussurata, mi obbliga a subire l'asportazione totale dell'utero e delle ovaie. Purtroppo esulto, e la pena viene rimandata sine die. E' una punizione o una liberazione?" Il medico di famiglia dice che, quasi di sicuro, si tratta di sogni. Chissà che significano. |