Sulla funzione superegoica |
La riflessione sulla struttura dell'apparato mentale, che Freud ha avuto il merito di porre in luce per primo, è stato un filo continuo della mia ricerca. Leggendo, studiando, approfondendo Freud all'epoca della mia formazione e, successivamente, elaborando i dati tratti dall'esperienza terapeutica, ho colto il paradosso centrale del sistema freudiano: la negazione di un bisogno sociale intrinseco alla natura umana nonostante la scoperta del Super-Io, il cui radicamento e la cui attività nella struttura psichica profonda di ogni soggetto non può essere spiegata prescindendo da esso. Il paradosso viene solitamente ricondotto, e io stesso ho ceduto a questa tradizione, all'antropologia pessimistica di Freud la cui matrice borghese è indubbia. Ora, senza escludere l'influenza di Hobbes, sarei portato piuttosto a valorizzare una confusione tra legalità e moralità, tra leggi coercitive e principi o valori che non potrebbero essere recepiti se non in nome di una sensibilità sociale e della percezione dell'altro come socius o simile. Rimane il fatto che la riflessione teorica sul Super-Io ha assunto un rilievo centrale nella costruzione del modello struttural-dialettico, inducendomi, tra l'altro, lentamente ad ipotizzare l'esistenza di un'altra funzione psichica, complementare e in tensione dialettica con il Super-Io: l'Io antitetico. Il ritardo con cui è avvenuta questa scoperta, che per ora rimane vincolata alla mia teoria psicopatologica, non essendo stata riconosciuta da nessun altro studioso, spiega le vicissitudini delle riflessioni sul Super-Io di cui questa area tematica dà conto. Assumendo questa funzione come il prodotto dell'interiorizzazione della cultura e del controllo sociale esercitato dalla società sull'individuo, la psicopatologia struttural-dialettica si è configurata originariamente come un universo univocamente caratterizzato dal fatto che le istanze di individuazione e di libertà personale, nella misura in cui entrano in conflitto con i valori superegoici interiorizzati, attivano una rappresaglia che, in conseguenza dei sintomi psicopatologici, condannano il soggetto a soffrire, ad espiare e a sperimentare limitazioni di vario genere della libertà. In questa ottica, che ha dominato la mia ricerca sino alla metà degli anni '90, la psicopatologia è l'espressione univoca di un conflitto tra diritti individuali e doveri sociali, rappresentati a livello soggettivo dal Super-Io, che volge costantemente a favore di quest'ultimo, poiché tra i molti e l'uno, a livello sociale come soggettivo, sono i primi a prevalere. L'originario modello struttural-dialettico è, dunque, caratterizzato dal primato dinamico del Super-io, che assume una valenza di controllo sulla libertà individuale che, in alcuni casi, diventa persecutoria. Dal '95 in poi si è avviata una riflessione, legata soprattutto ad esperienze psicopatologiche giovanili, esitata in una ristrutturazione teorica non radicale ma abbastanza profonda. Ancora oggi non ho alcun motivo di mettere in discussione il primato dinamico del Super-io nell'assetto inconscio della personalità umana. Ritengo, infatti, che questo sia un aspetto universale, maturato nel corso della filogenesi, il cui significato funzionale è di consentire la replicazione della cultura è non può essere minimizzato. Esso, peraltro, è attestato dall'automatismo per cui si generano a livello inconscio sensi di colpa allorché si definisce un conflitto strutturale tra l'Io e la società (reale o interiorizzata). Tale automatismo però è infinitamente più attivo in soggetti dotati di una ricca sensibilità sociale. Se così non fosse, la mente umana disporrebbe di una sorta di servo-meccanismo deputato a far pagare ogni "colpa": circostanza smentita dalla presenza nel mondo di sopraffazioni, arbitri e violenze di ogni genere dell'uomo sull'uomo. A livello psicopatologico, ciò che sorprende è l'entità dei sensi di colpa che intervengono in soggetti che, sul piano reale, non fanno male a nessuno o ne fanno molto meno rispetto ad altri che non ne sono affetti. E' evidente che ciò porta a riflettere sul terreno su cui il Super-Io si impianta e si edifica. Già nell'analisi critica della teoria freudiana ero giunto alla conclusione che il Super-Io riconosce come sua matrice il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e non la necessità di contenere e reprimere le spinte pulsionali. Dal '95 in poi, mi è risultato chiaro che il terreno d'impianto non è una variabile secondaria. Tanto più, infatti, il bisogno di appartenenza è rappresentato nel corredo genetico, tanto più l'impianto del Super-Io può porre un limite al dispiegamento del bisogno di individuazione. Tale limite, però, è tanto più repressivo quanto più il bisogno d'individuazione assume un carattere alienato, vale a dire si configura in termini tali da potersi realizzare solo anestetizzando la sensibilità sociale. In casi del genere, è evidente che il Super-Io svolge una funzione protettiva in rapporto alla possibilità che il soggetto mortifichi o violenti la sua sensibilità sociale. Certo, si tratta di una protezione quasi sempre associata a sintomi che attestano anche una componente punitiva. Lo spettro funzionale che viene fuori da questa concezione del Super-io, che tiene conto delle sua matrici psicobiologiche e degli aspetti culturali che lo strutturano, sembra molto fedele ad una realtà clinica che va dall'estremo di un soggetto che sviluppa una grave depressione in conseguenza di fantasie di rabbie che non potrebbero mai tradursi in comportamenti dannosi per gli altri all'estremo opposto di un soggetto che cade in depressione per impedirsi di fare qualcosa di dannoso per sé o per gli altri. L'evoluzione della teoria struttural-dialettica del Super-Io, da un modello originario univoco ad un modello molto più articolato e suggestivo (penso definitivo), rende pienamente conto di un tragitto di ricerca che, anziché tentare di far rientrare i sintomi e i vissuti psicopatologici entro uno schema, si è sempre sforzato di approfondire la teoria per renderla più comprensiva ed esplicativa. In questa appendice riporto solo alcune riflessioni recenti su questo denso problema. da Abbecedario di scienze umane e socialiCap. XX VOLONTA' ALTRUI, VOLONTA' PROPRIANegli animali non umani tutto o quasi fila liscio: l'istinto, le emozioni e il comportamento; nell'uomo, che è dotato di autoconsapevolezza, ragione, libertà e cultura, poco fila liscio. Il motivo ci deve essere. E infatti c'è. Singolare per tanti aspetti, l'esperienza umana lo è in assoluto perchè l'uomo è programmato in maniera tale che, nella migliore delle ipotesi, ha due teste. Per capire quest'aspetto, occorre partire ab ovo. L'essere umano viene al mondo col suo bel cervello plastico pronto ad essere modellato e ad apprendere attraverso l'esperienza. Viene al mondo anche coi suoi bisogni di aggrappamento affettivo, visto che, a differenza degli altri animali, ci mette un bel pezzetto a svezzarsi dalla dipendenza. E per giunta - per compiacere gli educatori - la natura gli gioca anche un tiro mancino: lo porta, per qualche anno, ad affidarsi ciecamente a loro e a vederli come padreterni. L'acquisizione della cultura, con gli annessi e connessi, è favorita da questa condizione illusionale, quasi ipnotica del bambino che gratifica gli educatori di un'onnipotenza che non hanno di fatto, come persone. Ma ritrovandosi ad averlo (e a molti non sembra vero di sentirsi onnipotenti agli occhi dei piccoli), agli educatori questo potere viene da usarlo senza misura alcuna, per modellare la cera finchè è molle. La conseguenza è che il tu devi, tu non devi, questo è bene questo è male, questo è vero questo è falso ci si stampa nella zucca precocemente, associato a una condizione di inganno, sicchè quando uno si risveglia dall'ipnosi (è un risveglio lento, da sette anni in sù: c'è chi muore e ancora non s'è ripreso del tutto) può darsi che parecchie di quelle cose non gli risultino. Ma intanto ce l'ha dentro, e se non gli vanno a genio deve lavorare parecchio per liberarsene. E, mentre lavora per chiarirsi le idee sui valori culturali che gli hanno trasmesso, deve fare attenzione a non farsi contagiare da altri che sono nell'aria. Veniamo acculturati, e cioè ricondotti a prendere per buono quello che è il prodotto di coloro che ci hanno preceduto, prima di poter pensare con la nostra testa. Alcuni psicologi, sempre quelli del self-made man, dicono che questo non è vero. Il bambino non è una tabula rasa, ha un suo modo di essere, di sentire e di interagire precoce. Giusto, a tavolino. Ma in che mondo vivono, gli specialisti? Le variazioni sul tema, fino ad una certa età almeno, non incidono sul tema stesso, che è quello di riconoscere il primato della volontà altrui su quella propria. E anche dopo non sempre le cose vanno diversamente. E qui veniamo al nodo. La vita, a livello cosciente e ancora più a livello inconscio, si svolge tutta sul registro, più o meno conflittuale, dell'interazione tra volontà altrui e volontà propria. La volontà altrui in questione non è solo quella delle persone con cui si interagisce. Tutte le norme, le regole, i valori culturali, le istituzioni, le leggi, i costumi, le usanze, le tradizioni, le mode, le tendenze - sia esplicite che implicite - rappresentano simbolicamente la volontà altrui. In tanto esistono in quanto esprimono una convenzione intervenuta ad un certo punto tra più persone - talvolta una minoranza, talatra una maggioranza - che, per effetto del potere o del tempo, ha assunto un carattere impersonale, astratto. Tutte hanno un senso e un non-senso, poichè sono prodotti storici. Anche le più futili. Prendiamo - per dirne una - il taglio dei capelli. Una cultura assume il capello lungo come simbolo di vitalità, di forza, di potenza; un'altra, come simbolo di mollezza, di disordine, di scarsa igiene; un'altra ancora, come la nostra, il capello lungo, ch'è anarchico, lo fa diventare di sinistra, quello corto, alla militare, di destra. Andando semplicemente dal barbiere, uno deve prendere posizione e risolvere un bel po' di problemi ideologici. Di solito non ci si rende conto che tutta la vita si svolge sulla base di valutazioni che portano a consentire o a dissentire rispetto alla cultura, vale a dire alla volontà altrui. Nè che per consentire e dissentire liberamente occorre avere una qualche consapevolezza di ciò che è in gioco. L'uomo, insomma, - non pare ma è così - è un animale politico. Il problema viene da lontano. Stando ai teologi, il la pare che l'abbia dato il Padreterno stesso. Prima di avere la bella idea dell'uomo, crea un essere angelico, vicino alla perfezione: non un automa, ma una persona dotata di volontà personale. Poi gli dice: visto che t'ho creato, e tu mi devi riconoscenza, sottometti la tua volontà alla mia in segno d'amore, e siamo pari. Lucifero, che non ci sta, rivendica di volerla usare liberamente la sua volontà e precipita dalle stelle alle stalle. Deluso, il Padreterno ci riprova con l'uomo, gli va male una seconda volta, e lo precipita nella valle di lacrime. E qui accade il peggio. La storia si può leggere in tanti modi, ma, ovunque ci si gira - dal neolitico in poi - si trova qualcuno che vuole sottomettere un altro con le buone o con le cattive. Le catene sono l'attrezzo più importante della storia. Quelle fisiche, che ne hanno segnato il corso sino a poco più di un secolo fa, e quelle mentali, che spesso la gente non si accorge neppure di avere. Uno storico58 ha scritto che ogni cultura è un recinto mentale. Nel recinto ci si può stare anche bene. Importante è sapere che ci si sta, e come è fatto. C'è chi giustifica il Padreterno e, implicitamente, tutte le controfigure che ne hanno proseguito l'opera. La volontà umana - si dice - è naturalmente pigra e ribelle, e va piegata alle leggi, alle norme e alle convenzioni sociali. Occorrerebbe però dimostrarlo. Gli uomini più liberi sono quelli che, senza nessuno glielo chieda, si dedicano ad imprese apparentemente senza senso è per esempio scalare montagne o scrivere libri -, e si impongono una disciplina che nessuno schiavo rispetterebbe; quelli che, per una causa che va molto al di là del loro interesse, sono disposti a dare la vita; quelli insomma che agiscono in nome di un bisogno che sentono nelle viscere e di valori culturali che sono sangue del loro sangue. Ai pigri e ai ribelli i valori culturali gli sono rimasti sullo stomaco. E non sarà allora che questa storia della volontà che va piegata corrisponde alla fissa di quelli che, non essendo padroni di sé, devono fingere di esserlo dominando qualcun'altro? Oggi - si dice - le cose sono cambiate. L'autorità repressiva, eccezion fatta per la giustizia penale, non esiste più, almeno dalle nostre parti. Ormai tutto si fonda sul consenso, dalla famiglia allo Stato. Una formuletta che può riuscire utile nel corso della vita a misurare la propria libertà è questa: uno che consente può essere sicuro di essere libero solo se riesce a dissentire. Se ci riesce, bene: può continuare a consentire; se non ci riesce, deve continuare ma senza l'illusione di essere libero. E poi, è vero che non si usa più il bastone. Ma questo che significa? Che la gente è diventata più libera o che la volontà altrui è diventata più impersonale, più simbolica, più insidiosa? Il Gran Capo - che non ha testa - oggi impone di non sentirsi inferiore a nessuno. Nel garage del condominio, uno si fa una macchina nuova, più potente. Nel giro di un anno, la cambiano quasi tutti i condomini. Chi è il Gran Capo? La vergogna sociale, che impone a tutti di far l'impossibile (tipo sessanta cambiali e la cessione del quinto sullo stipendio) per non sentirsi inferiori agli altri. Ma questa schiavitù dalla volontà altrui da dove viene se l'educazione ormai è liberale? se tra famiglia e a scuola, è tutt'un riempirsi la bocca di luoghi comuni sul bambino che va lasciato libero di sviluppare la sua personalità? Chi può mettere in dubbio la buona fede degli educatori? E già. Il problema è che gli educatori non spuntano come funghi, e, se spuntano, perchè non se ne sono mai dati tanti come oggi, mettono radici laddove non sanno neppure di averle, nella storia sociale che gli passa attraverso.
da Abbecedario di scienze umane e socialiCap.XXI L'INCONSCIO SOCIALENon ci si può fidare di quello che un uomo pensa o dice di sé, meno ancora di quello che dice o pensa di sé una società. E d'accordo, anche la società come la natura non ha una testa, ma non è neppure vero che quello che si pensa in una società è la somma di quello che pensano gli individui che la compongono. Dalle nostre parti, la libertà di pensiero è un diritto inalienabile dell'individuo. Sulla carta. Di fatto, pochi si danno la briga di capire come sia possibile per uno che viene al mondo senza arte nè parte ed è predisposto ad assorbire tutto quello che gli viene dall'ambiente come una spugna (compreso quello che l'ambiente trasmette senza neppure saperlo) giungere a pensare liberamente. I più - educatori, gente di chiesa, giornalisti, intellettuali, politici - sembrano impegnati, riconosciuto quel diritto, a vedere che uso se ne può fare, come cioè l'individuo possa continuare a ritenersi libero pur pensando quello che deve pensare. Altrove, come in Giappone, laddove l'educazione si fonda sul rispetto delle tradizioni, e l'individuo è sociale nella misura in cui si conforma ad esse, il nostro culto della liberta di pensiero individuale è ritenuto una mania, un'illusione. Non vanno mica lontano dal vero, anche se la sacralizzazione delle tradizioni che vige presso di loro, e che gratifica gli antenati di un'improbabile saggezza, non realizza effetti molto diversi dalla nostra illusione. La libertà umana non è una balla in sé e per sé, come potenzialità del congegno, ma intanto è sempre e comunque relativa in rapporto all'ambiente in cui la personalità si sviluppa, e, in secondo luogo, è resa certa solo dalla consapevolezza che l'individuo assume - se l'assume - del grado della propria schiavitù dalle tradizioni e dai valori culturali dominanti nella società. Questa consapevolezza è imprescindibile dall'altra per cui chi glieli trasmette non ha necessariamente le idee chiare riguardo a quello che trasmette. Un bel tema da dare alla maturità, di perenne attualità, sarebbe questo: parlami delle tue schiavitù mentali e di come pensi, occhio e croce, di potertene liberare. Il Ministro che azzardasse una bravata del genere sarebbe messo al rogo. Ci vuole una riforma radicale della cultura perchè gli uomini giungano a capire che il non avere le catene ai polsi è importante, il poter dire quello che si pensa anche, ma ricavare da questo che si è liberi è un'amenità. Sia chiaro (e già dovrebbe esserlo per alcuni accenni fatti): l'illusione della libertà, ch'è la droga pesante che scorre a fiumi nel nostro mondo, non è un complotto. Non c'è nessuno (nè uno nè più messi insieme) che manipola quella degli altri. Anzi, si può esser certi che i manipolatori (e ce ne sono), in quanto a libertà, stanno in media peggio degli altri. Quell'illusione ha radici nella storia, e attesta quanto poco ancora gli uomini capiscano com'è fatto il congegno e l'uso che ne hanno fatto, finora. Il congegno, infatti, per un aspetto è plastico - e su questo si fonda la possibilità di giungere a pensare e a vivere con una relativa libertà - ma, per un altro è rigido, anzi rigidamente conservatore, avverso o quasi alle novità. Per capire questo aspetto, dobbiamo tornare alla logica della natura. Dunque siamo animali sociali dotati di individualità e di soggettività. Per la natura, però, l'individuo esiste solo come un ente differenziato attraverso il quale le potenzialità della specie vengono messe alla prova per vedere se esse hanno o no valore adattivo. E' la sopravvivenza della specie, e non dell'individuo, importante, e neppure più di tanto, se le specie a un certo punto (com'è accaduto ai dinosauri e a tante altre) scompaiono dalla faccia della terra. Per questo, pensare che, nella progettazione del nostro congegno, possa esserci stata una preoccupazione per l'individuo, ch'esso possa essere stato prodotto per l'individuo (come a noi viene da pensare), è un non senso. E' stato prodotto per una specie particolare, capace di produrre attraverso la cooperazione sociale cultura, e quindi congegnato in maniera tale da poterla trasmettere e da conservare. Produrla è l'effetto della creatività, dell'ingegno umano, apprenderla della plasticità, conservarla attraverso le generazioni della rigidità. Anche gli animali producono cultura in senso proprio, e cioè modi di rapportarsi all'ambiente e di usarlo che non sono naturali. Un etologo ha fatto una singolare scoperta. Un gruppo di scimmie che viveva vicino al mare si cibava spesso di patate, sporche così come la terra le produce. Com'è come non è, uno del gruppo a un certo punto si fa venire la fregola di immergere una patata nell'acqua e di strofinarla ben bene. Sente che alle papille la cosa sta meglio, e, non essendo egoista, comunica la scoperta agli altri. Nelle generazioni successive, tutte le scimmie di quel gruppo lavavano (e salavano) le patate. La cultura non avrebbe senso se non potesse essere trasmessa, ricevuta, acquisita e conservata. Prodotta in società (anche se qualcuno può avere delle idee più brillanti degli altri), nel momento in cui si rivela funzionale ai bisogni del gruppo e quindi della specie, diventa un patrimonio sociale, una tradizione. Dacchè esistono, gli uomini non fanno altro che produrre cultura. Ma come si organizza e si trasmette questo patrimonio? Concediamoci un esempio immaginario. Le scimmie di cui sopra acquistano la parola, e, dopo varie generazioni dalla scoperta della patata lavata, si mettono d'accordo sul fatto che mangiare patate lavate è un obbligo perchè nascono dalla terra in cui si seppelliscono i morti. Questa interpretazione dà un significato diverso alla scoperta originaria, che, in sé e per sé, dal punto di vista del gusto, continua a funzionare. Solo che, a differenza di prima, se a uno del gruppo, pigro o contestatore, venisse da mangiarsi una patata raccolta dalla terra, violerebbe un tabù e sarebbe perseguito. Le cose per quanto riguarda la cultura umana non sono andate in maniera diversa da questo esempio ipotetico. Gli uomini, di cultura, ne hanno prodotta tale e tanta che trasmetterla col marchio di fabbrica, con le istruzioni sulle origini, è diventata una fatica immane. Viene più semplice interpretarla, anche alla bell'e meglio, e la più semplice delle interpetazioni verte sul fatto che le cose stanno così e basta. Quando questo accade, e accade quasi sempre, la cultura si naturalizza, si pone non più come un prodotto dell'uomo ma come una legge di natura. Si trasforma, insomma, in tradizione, e diventa qualcosa che è come è e non c'è bisogno di spiegare perchè. Quando ci insegnano le buone maniere di stare a tavola - composti, senza appoggiare i gomiti nè accostare la testa al piatto, usando le posate (quando si è in un posto chic anche per mangiare il pollo e pelare le pere Williams che schizzano dappertutto), masticando senza aprire la bocca, astenendosi dall'arraffare la roba nei piatti degli altri e (tassativamente) senza scorreggiare nè ruttare - gli educatori non ci dicono perchè si usa così, qual'è l'origine di quelle regole. Non potrebbero farlo, perchè, quasi solo per capire questo, uno studioso59 , che è morto a più di novant'anni, ci ha impiegato la vita. Non dico che non siano giuste, quelle regole. Certo, se ci si attenesse ad esse in un diverso contesto culturale - neppure tanto diverso, primitivo o barbarico: basta pensare al nostro Rinascimento -, si rischierebbe di essere sbattuti fuori della porta come degli zoticoni che non assolvono i doveri dell'ospite di manifestare il piacere del cibo che gli viene offerto ruttando e scorreggiando. Ma, presumibilmente, non ci si ritroverà mai (neppure quando inventeranno la macchina del tempo) catapulati fuori dal nostro mondo, e così - tranne, diciamo, qualche momento di relax - ci comporteremo a tavola sempre come si deve. Ma non sapremo mai le origini storiche del come si deve. E, nei pranzi di etichetta, ci verrà naturale tenere i gomiti lontano dal tavolo, anche se non rischiamo come i nobili di un tempo di inzuppare di sugo le trine, non accostare la testa al piatto, per non simulare la voracità del volgo che ne rivela l'imparentamento con le bestie, e non allungare la forchetta nel piatto di un altro nel rispetto della proprietà privata. A tavola, insomma, quando ci comportiamo a modo, siamo un concentrato di storia sociale. Senza saperlo e senza che lo sappiano coloro che ci hanno educati. Esiste, altro se esiste l' inconscio sociale. E' il serbatoio delle tradizioni culturali, e cioè delle cose buone che sono riusciti a metter su gli antenati come pure delle loro fisse, dei loro pregiudizi e delle loro contraddizioni. Così, per fare un esempio, il culto delle buone maniere a tavola, vanto della nobiltà terriera, ereditato dalla borghesia, non impediva ai nobili, che ci tenevano tanto a differenziarsi dai contadini, di succhiargli il sangue e di pretendere, anche in caso di carestie, gran parte del raccolto, impedendogli di fatto di esercitarsi in quelle buone maniere. E' vero: il peso di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul nostro cervello. Per fortuna, non ce ne rendiamo conto (anche se, per alcuni aspetti, ci tornerebbe utile). Uno storico60 ha chiarito ancora meglio il problema, dicendo che ogni società, inserita nel corso storico, è come un fiume che raccoglie tutto ciò che è confluito nel suo alveo dalla sorgente in poi. In un fiume, le acque di superficie scorrono rapidamente, le acque al di sotto della superficie hanno una velocità media, quelle che scorrono sul fondo sono, per via dell'attrito con il letto, le più lente. I valori culturali, che, nel loro insieme costituiscono la "mentalità" propria di una società, scorrono appunto sul fondo, al di sotto della coscienza che la società ha di se stessa e delle coscienze degli individui. E, per chiarire meglio il senso della metafora, ha scritto pure che, per ogni società, la mentalità rappresenta un recinto mentale, nel senso che agli uomini viene naturale pensare entro quel recinto, e sentirsi liberi. Afferrata questa chiave, ci si può divertire (per dire) a pensare che una parte della nostra mente è e non può essere che schiava di tradizioni, di modi di vedere, di sentire e di pensare che non conosciamo, il cui significato e le cui origini non sono chiare, e che non conoscono neppure quelli che ce le hanno trasmesse. Se uno arriva a rendersi conto di questa schiavitù, ch'è universale, rischia di non dormirci la notte. E, se è dotato di genialità, come il filosofo pazzo che è stato citato più volte, rischia di mettere tutto in discussione col pericolo di arrivare a sentirsi lui un dio. La chiave serve ad avviare la liberazione dalle tradizioni (e dalle mode, che, se non muoiono, diventano poi tradizioni), ma va usata con prudenza. Il congegno è conservatore - s'è detto. Fa il suo mestiere. Si tratta di capire come e perchè.
da Abbecedario di scienze umane e socialiCap. XXII LA REPLICAZIONE CULTURALEQuesta storia delle tradizioni che si replicano di generazione in generazione, e che ci rende tutti, per qualche aspetto, dei replicanti, non si accetta volentieri. Oggi meno che mai. La smania di essere diversi, di avere una propria personalità, di essere unici la si vede in azione già nei bambini, che appena arrivano a dire io (e ci arrivano presto) se ne riempiono la bocca. Gli adolescenti in genere s'arrabbiano se qualcuno gli fa presente che, nel gestire, nel parlare o nel pensare, somigliano a mamma o a papà. Poi, com'è come non è, si diventa adulti e, col lavoro e la famiglia, cominciano a venir fuori dei tic, delle abitudini, dei comportamenti che ci mettono di fronte alla verità, di esseri simili a quelli che ci hanno educato più di quanto, in media, ci vada a genio. Ed è già una fortuna, se, con l'andare dell'età, non finiamo col somigliare ad essi - nel bene e nel male - come gocce d'acqua. Tempo fa era un luogo comune, non privo di fondamento, dire che a vent'anni si è rivoluzionari e a quaranta conservatori. Non vale più. C'è una galassia di ventenni, oggi, che, in quanto ad essere conservatori (anche senza saperlo) danno punti ai padri e e ai nonni. Ogni tanto capita che una generazione intera cade nell'illusione di potersi liberare dalle tradizioni con un colpo di spugna. E' accaduto anche di recente (relativamente), intorno al '68. Dalla scuola alla fabbrica, dalla famiglia alle istituzioni, di cose insopportabili da cambiare ce n'erano tante e tali da giustificare una bella esplosione. Ma quando nelle assemblee si sentiva gente di quindici anni che parlava di cambiare radicalmente le cose come se il mondo fosse un meccano, venivano i brividi, perchè non si capiva da dove fossero spuntati questi esseri così sicuri di sé e della loro diversità rispetto ai padri. Le idee erano in gran parte belle, ma ci voleva poca intuizione a capire che la scarsa conoscenza del congegno avrebbe finito col giocargli un tiro mancino. E infatti è avvenuta una catastrofe: i più duri sono arrivati alle estreme conseguenze con la droga prima e la lotta armata poi, i meno duri hanno tirato un po' la corda e poi sono refluiti a ranghi sparsi verso le famiglie e le odiate istituzioni per farsi aiutare a campare e a lavorare (se ne trovano parecchi nelle aziende familiari o nei ministeri: ai beni culturali o all'ambiente, casomai). Quelli capitati per caso poi si sono pentiti, convertiti e si sono integrati più dei padri. Con le tradizioni bisogna andarci piano, perchè non le si può estirpare. E non per il fatto che, rappresentando il condensato dell'esperienza delle persone del passato, e di tante generazioni, in esse ci debba essere per forza del vero o del giusto (come pensano i conservatori). Ci può essere, ma più spesso si tratta di giochi di potere. Prendiamo la storia dei re, che, dall'impero egiziano sino a non molto tempo fa, sono riusciti a far credere alla gente di essere stati investiti direttamente da Dio, sicchè la loro testa - bene o male che funzionasse - era sacra e intoccabile. A ripensarci sembra incredibile. Passi per il Faraone, che i sudditi vedevano col binocolo, e da lontano, abbigliato com'era, poteva essere scambiato per un extraterrestre. Ma che dire del fatto che, fino ai primi del Settecento, i francesi accorrevano a frotte per partecipare a un rito nel corso del quale il re imponeva le sue sacre mani ai malati (in gran parte di disturbi dovuti alla fame) che speravano con ciò di guarire? La balla della legittimità è andata avanti finchè una testa incoronata non è stata messa sotto la ghigliottina rotolando giù come le altre, senza che l'Investitore intervenisse. Evento tragico, perchè un uomo ha diritto alla sua testa comunque la usi, ma salutare, perchè la storia dell'investitura divina è andata a farsi fottere, e s'è sgombrato il campo da una tradizione fasulla. Anche se, come tutte le tradizioni, non prive di senso. Se non si fossero spacciati come eletti da Dio, come potevano pretendere i re che il loro potere fosse trasmesso al primogenito anche citrullo? Le tradizioni vanno trattate con le pinze per un motivo che riguarda più il congegno - e il modo in cui è stato programmato dalla natura - che non il loro grado di verità. La plasticità e la rigidità di cui s'è parlato sono già aspetti generici di questa programmazione. Ce ne sono di più specifici. La trasmissione - conscia e inconscia - dei valori culturali da una generazione all'altra avviene entro un contesto di rapporti che hanno una forte connotazione affettiva. Se il bambino è recettivo, lo si deve alla plasticità cerebrale, se è ciecamente fiducioso, lo si deve al legame affettivo che lo vincola a coloro cui la sorte lo ha affidato (e all'ipnosi per cui li vive come padreterni). Gli affetti rappresentano i canali attraverso cui scorrono i contenuti educativi, i valori, che vengono ingurgitati mentalmente, introiettati dal bambino. Indipendentemente dal loro grado di verità e di corrispondenza ai bisogni dell'individuo, quei valori rimangono associati a livello inconscio all'affettività che ne ha determinato l'introiezione. Rimanere fedeli ad essi si pone, pertanto, come un obbligo che fa capo al debito di gratitudine contratto nei confronti di chi li ha trasmessi. Se questo debito è riconosciuto coscientemente dall'individuo, non gli rimane altro che essere un conservatore. Se non è riconosciuto, fa lo stesso: a livello inconscio i valori si conservano. Lo stratagemma è potente. Se la natura voleva trovare un mezzo per assicurare alla replicazione dei valori culturali un'efficacia non molto diversa da quella che assicura la replicazione dei geni, di meglio non poteva fare. Non è un caso infatti che la specie umana, dalla sua comparsa, evolve ormai solo culturalmente e non geneticamente. Replicazione è un termine un po' imbarazzante, perchè fa pensare ad un processo automatico, macchinoso, poco compatibile col grado di capacità autocostruttiva del soggetto che, senza farne un mito, occorre ammettere. Un biologo evoluzionista ha tirato fuori a riguardo una ipotesi affascinante secondo la quale ogni cultura ha dei micro-tratti, definiti memi, che la specificano e la differenziano rispetto a tutte le altre. Un meme proprio della nostra cultura potrebbe, per esempio, essere identificato con il dovere, considerato come un valore astratto e una qualità morale piuttosto che come un debito contratto inconsapevolmente (come il debito pubblico) e il cui tasso di interesse è spesso fissato arbitrariamente. Alla stregua dei geni, i memi sono dotati di un potere informazionale straordinario che viene decodificato a seconda della ricettività individuale, vale a dire della capacità emozionale e cognitiva proprio del soggetto. L'ipotesi affascinante risolve il problema del meccanicismo replicativo. Lo stesso meme si rifrangerebbe nei diversi soggetti in valori culturali diversi, per quanto riconducibili al potenziale informazionale. Basta aggiungere che i memi si trasmettono in larga misura a livello inconscio. C'è anche un altro particolare di non poco conto. Una volta mandati giù col cibo, con l'affetto e con l'aria che si respira, che fine fanno i valori culturali? Alcuni rimangono a livello cosciente e concorrono a formare la coscienza morale (che lo è più o meno a seconda dei valori). Ma la maggior parte saltano la coscienza e si depositano a livello inconscio, dove concorrono a strutturare una funzione un po' particolare. Una funzione che, nel cuore stesso della soggettività individuale, rappresenta la società, che è la matrice di quei valori, e li utilizza come metri di misura delle fantasie, delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri e dei comportamenti. Una specie, dunque, di occhio giudicante interno a cui nulla sfugge. Capita perciò a chiunque, almeno una volta nella vita, di sentirsi osservato anche quando sta da solo, o di vergognarsi di qualcosa che ha fatto anche se è certo che nessuno potrà mai venirlo a sapere. Da bambini ci dicevano ch'è l'occhio di Dio. E chi lo sa se Dio ci tiene poi tanto a ficcare il naso nel nostro privato. A scanso di equivoci, comunque, il Padre fondatore della psicoanalisi quella funzione l'ha definita Super-io. Il termine è orribile, ma rende l'idea di un potere che ci sovrasta, e che è in fondo la società (dei vivi e dei morti) o, meglio, la volontà altrui rappresentata dentro di noi. Il Grande Vecchio insomma esiste, come espressione del culto che una parte della mente umana tributa alle tradizioni. Le idee chiare riguardo a quanto ci si può affidare alla saggezza di quelli venuti prima di noi, e di quanto ci si può fidare della propria testa (date tutte le bazzecole di cui s'è parlato), non ce l'ha nessuno. E se uno per non sbagliarsi, aderisce ai valori nuovi della modernità, a quelli praticati dalla maggioranza dei contemporanei, rischia di cadere dalla padella nella brace. Perchè i valori nuovi, tranne nei casi in cui interviene una rivoluzione culturale - che dipende da tanti fattori, e solo da ultimo dalle coscienze -, sono spesso un remake, spesso peggiorato, di valori già in atto da tempo. Prendiamo ad esempio l'affermazione della personalità, che è il verbo di oggi. Suona bene, perchè fa riferimento al raggiungere coi propri mezzi uno status di sicurezza e di prestigio sociale. Ma, sotto sotto, significa nè più nè meno che la vita è una lotta per sopravvivere e, per sopravvivere e se possibile vivere di più e meglio degli altri, non bisogna farsi troppi scrupoli. Affermarsi è imprescindibile, oggi, da un certo grado di indurimento caratteriale e di anestesia emozionale. Lo dicono anche gli psicologi ormai che un po' di sano egoismo e di sana aggressività ci vuole nella vita. Il problema è negli aggettivi. Perchè, dato che chi perde, chi si fa mettere sotto, chi si lascia fregare, è un inetto, la fobia della debolezza rende lecita qualunque carognata. E si diventa paranoici al punto che anche i rapporti d'amore diventano un estenuante battaglia per mantenere un potere maggiore dell'altro, essendo ormai scontato che, chi si lascia andare, viene abbandonato per via del fatto che i deboli non meritano rispetto. Un filosofo, anni fa, ha intuito che la logica della Borsa, per cui chi perde quota viene fatto fuori, avrebbe finito con l'invadere il privato, e che alla fine le persone si sarebbero intossicate del potere al punto da non capire più niente della vita. Detto fatto. I nuovi valori sono vecchi come il cucco. Sono i valori in virtù dei quali la borghesia è ascesa storicamente, si è affermata differenziandosi rispetto alle classi meno abbienti, e si è chiusa nel culto di se stessa e del privato: nell'egoismo, insomma, che è la sua virtù prediletta. Questi valori però hanno un prezzo: via via che vengono adottati collettivamente, l'identificazione con l'altro va a farsi fottere, perchè l'altro diventa un nemico, anche se ci dorme accanto. In breve: per via della replicazione culturale, ciascuno si porta dentro un bel po' di valori tradizionali, per via dell'aria che tira in società ciascuno poi acquisisce quelli dominanti. E' incredibile quanta gente schizzata, c'è in giro che alberga gli uni e gli altri, anche se fanno a botte, come nulla fosse. Su che si fonda il potere dei valori culturali? Sul fatto che essi rappresentano la società, sia quella passata sia quella attuale. Ed è una parte della mente individuale che svolge questa funzione di rappresentanza. Questa scoperta si deve (onore al merito) al Padre fondatore della psicoanalisi che vi ha impiantato su una storia che non sta nè in cielo nè in terra. Sarebbe bastato riconoscere che il Super-io è una funzione programmata per favorire la replicazione dei valori culturali e per tentare di conservarli il più possibile, riconducendo i comportamenti individuali verso la media del gruppo cui appartiene. Sarebbe bastato, per evitare l'equivoco di scambiare il Super-io per un computerino, aggiungere che i valori vengono interiorizzati in misura direttamente proprozionale alla sensibilità individuale e in rapporto al modo in cui il soggetto li interpreta. Circostanza questa che spiega perchè, nello stesso contesto familiare in cui circola il dovere di non perdere tempo (che è frutto della catena di montaggio), un figlio, che lo interpreta come una coercizione, è costretto a sprecarlo, e un altro a diventare schiavo di un implacabile perfezionismo. Sarebbe bastato, infine, ammettere che la replicazione dei valori culturali e il potere che essi conservano vita natural durante non può essere attribuito nè solo al fatto che l'uomo è un animale sociale nè alla soggezione del bambino nei confronti dei grandi. Se una parte della mente umana svolge una funzione di rappresentanza sociale, ciò dimostra che la natura umana contiene, sotto forma di bisogno, una predisposizione alla socialità. E no, troppo semplice per essere credibile.. Il Padre fondatore aveva una concezione della natura umana così dannatamente pessimistica che l'idea che gran parte dei mali potesse venire dalla cultura non lo sfiorava nè meno. E via, dunque, con l'elogio del Super-io, che, in nome della società e della paura che l'individuo ha di essere isolato e perseguito, ci costringe a civilizzarci e ci protegge dal rimanere quello che, secondo lui, saremmo per natura: degli esseri asociali, animati solo da istinti egoistici e distruttivi. Questa bislaccata - un remake dell'homo homini lupus - ha avuto un tale successo che ancora oggi va in giro e sembra quotidianamente confermata dal la nostra civiltà, che, nonostante si fondi sui diritti universali dell'uomo e del cittadino (ahimè borghese), fomenta l'asocialità e l'egoismo. Il problema vero è che lo stratagemma che la natura ha trovato per favorire la replicazione dei valori culturali è del tutto neutrale per quanto concerne i valori stessi. E che doveva fare la natura: dirci anche quello che è giusto e quello che non lo è? Dio Padre - si dice - lo ha fatto, e non gli è andata egualmente male? Dunque i valori si replicano così come vengono trasmessi e - finchè l'individuo non riesce a prendere le distanze e a valutarli criticamente - agiscono coercitivamente dall'interno della personalità. Ma quali valori? Quelli propri di un contesto culturale, indipendentemente dalla loro qualità morale (che può esserci o non esserci). La moralità naturale esiste, e trova il suo fondamento nell'identificazione con l'altro. La moralità culturale è null'altro che costume, consuetudine, tradizione, convenzione. Il Super-io nazista, che ha contagiato un popolo tra i più dotati e ricchi di cultura della terra, ha fatto semplicemente il suo dovere: programmato dal nazionalismo, dal patriottismo, dal culto della razza e dell'etnia, ha impedito ai più di diventare dei traditori Ma allora, siamo o non siamo liberi? E certo che lo siamo: la cultura, proprio per il fatto che può portarci anche fuori della natura, lo attesta. In rapporto alla cultura, ogni individuo, per il fatto che ha il suo bel Super-io impiantato nella testa (e radicato a livello inconscio), lo è molto meno. Può diventarlo casomai, relativamente, se riesce a oggettivare i valori che si porta dentro.
Il Super-Io e la patologia giovanile1. Centrale nell'ottica della teoria struttural-dialettica, il concetto di super-io, anche se ormai il termine appartiene al linguaggio corrente (almeno delle persone colte), sembra obsoleto. Anche gli psicoanalisti, nella loro pretesa di aggiornarsi, tendono ad abbandonarlo. Le nuove patologie giovanili, caratterizzate sempre più spesso da una depressione incentrata sullo svuotamento di senso dell'esperienza personale, su forti valenze narcisistiche o su di uno scarso controllo pulsionale, attesterebbero, secondo loro, una sempre più debole strutturazione superegoica. Questa sarebbe una conseguenza delle trasformazioni sociali cui è andata incontro la società, che non ha più un assetto patriarcale e gerarchico, fondato sul principio dell'autorità. Il rapporto tra genitori e figli si giocherebbe ormai prevalentemente sul registro dell'affettività (ambivalente) e dell'interazione comunicativa. L'evoluzione della personalità delle giovani generazioni sarebbe, peraltro, sempre più influenzata dal rapporto con i coetanei e con i nuovi valori (o disvalori) da essi prodotti nell'interazione di gruppo o in conseguenza delle informazioni mass-mediatiche. Ferma restando l'importanza dei primi periodi dello sviluppo della personalità e dell'interazione con le figure genitoriali, e il rilievo dell'inconscio, le nuove patologie giovanili sarebbero dunque prevalentemente patologie dell'io, dell'identità personale, e in esse giocherebbero un ruolo rilevante le dinamiche pulsionali. C'è qualcosa di singolare nell'evoluzione del pensiero psicoanalitico: in particolare, la fretta di recuperare teoricamente un rapporto con la realtà storica misconosciuto da Freud. Questa fretta però, funzionale ad arginare la crescente diffusione del cognitivismo, non ha alcuno spessore critico. E' vero che Freud, preda dell'ambizione di mettere a punto un modello di personalità universale, ha trascurato di considerare l'influenza della storia e della realtà sociale. Nondimeno, quest'influenza, esercitatasi inconsciamente, è assolutamente evidente nella sua stessa teoria. Le pulsioni freudiane sono null'altro che una trasposizione ideologica degli spiriti animali promossi dalla rivoluzione borghese. Il super-io freudiano, inteso come istanza di controllo sociale interiorizzato, distorto peraltro dall'impasto con le pulsioni, con le sue connotazioni prevalentemente repressive e moralistiche, è l'espressione di una società e di una cultura incentrata sul principio dell'autorità, sulla pruderie sessuale, sul conformismo e sul perbenismo. Nella misura in cui Freud ha misconosciuto le valenze ideologiche della sua teoria, era pressoché inevitabile che i cambiamenti socioculturali, come di fatto è avvenuto, la ponessero in crisi. Il problema di una revisione della teoria freudiana si è posto da tempo, ed è stato affrontato con coraggio in particolare dalle correnti culturaliste. Oggi il rischio è di buttare l'acqua sporca con il bambino, vale a dire di ritenere obsolete intuizioni di grande portata, come quella del super-io, solo perché la Freud, per i suoi limiti ideologici, non è stato in grado di dare ad esse uno sviluppo adeguato. 2. Il tema del controllo sociale sul comportamento individuale è un tema classico dell'antropologia culturale e della sociologia. Ogni società umana è ordinata da norme, legali, morali o di costume, che vengono apprese e che definiscono, con un limitato margine di discrezionalità individuale, come ci si debba comportare e viceversa come non sia lecito agire nelle varie circostanze. L'apprendimento di tali norme è favorito da un insieme di strumenti di controllo sociale che agiscono su ogni individuo perché si conformi ai precetti del gruppo. La maggior parte di queste norme non è codificata ed è talmente connaturata ai costumi e alla cultura da passare del tutto inosservata, o dal farla ritenere non tanto la conseguenza dello sviluppo della cultura, quanto addirittura "naturale", cioè legata alla stessa struttura biologica dell'uomo. La teoria del super-io freudiana è stata la prima teoria che ha tentato di chiarire in quale modo il controllo sociale viene interiorizzato psicologicamente e giunge a far parte della struttura della personalità. Essa ha influenzato potentemente le scienze umane e sociali, in particolare la sociologia e l'antropologia culturale. Purtroppo, la sua elaborazione è stata improvvidamente determinata da presupposti ideologici inerenti la natura umana i quali permettono di comprendere perché essa abbia progressivamente perduto di significato.- Posto che, per Freud, la natura umana in sè e per sé è animata solo da pulsioni libidiche e aggressive (depositate e attive nell'Es, lo strato più profondo e inconscio della mente), l'interiorizzazione avviene nel corso delle fasi evolutive in virtù del legame affettivo e di soggezione che lega l'infante alle figure significative adulte con cui interagisce (genitori, parenti, insegnanti, ecc.). L'affettività, che comporta l'identificazione e l'imitazione, rende il bambino permeabile alle influenze dell'ambiente e facilita la trasmissione dei valori culturali. L'impianto di questi, e dunque la strutturazione del super-io, urta però contro la resistenza delle pulsioni la cui tensione tende univocamente verso la scarica e la soddisfazione. Il controllo e l'inibizione delle pulsioni, in ciò che esse hanno di incompatibile con le esigenze della vita associativa, avviene solo sulla base della paura della rappresaglia sociale, cioè della riprovazione, del rimprovero e della punizione associata all'esercizio anarchico delle pulsioni stesse. Il super-io freudiano rappresenta la società all'interno della personalità, ma la rappresenta solo sulla base del potere che i molti hanno rispetto all'individuo di sanzionare e eventualmente punire l'esercizio illecito, legalmente o moralmente, della sua libertà. Per questo motivo la sua rappresentazione antropomorfica si riconduce, nell'ottica freudiana, a quella di un Giudice o di un Censore. Freud esclude pertanto che la natura umana abbia una predisposizione sociale, e interpreta, in conseguenza di questo, i conflitti psicodinamici come dovuti alla resistenza accanita e incoercibile delle pulsioni in rapporto alle norme sociali, alle quali l'io cosciente tende ad attenersi per conformismo e per influenza del super-io che fa valere il potere della collettività. Si tratta dunque di una teoria che riconosce come suo fondamento un'ideologia della natura umana che Freud ritiene confermata da tanti indizi tratti dall'esperienza psicoanalitica e dalla storia dell'uomo. 3. Ho analizzato la concezione del super-io freudiana ne La politica del super-io, giungendo ad una conclusione che ho poi approfondito successivamente. Tale conclusione porta ad identificare il super-io come una funzione psichica prevalentemente inconscia nella quale si danno due componenti: una, innata, fa riferimento al bisogno di appartenenza/integrazione sociale, la cui logica inconscia assume l'individuo come membro di un gruppo e gli impone il rispetto dei suoi doveri di ruolo; l'altra, appresa, fa capo ai valori culturali interiorizzati che prescrivono quali comportamenti il soggetto deve agire per assolvere quei doveri. Distinguere queste due componenti è estremamente importante: la componente innata, infatti, è universale, e comporta una programmazione incentrata sul primato del sociale sull'individuo a livello inconscio, mentre la seconda dipende dal contesto socio-storico. Ciò significa due cose. La prima è che il primato del sociale sull'individuo è, a livello inconscio, un dato di realtà primario che nessuna evoluzione culturale può estirpare. La seconda è che, utilizzando questo primato, qualunque cultura, quali che siano i suoi valori, dal momento in cui diventa egemone all'interno di un gruppo sociale, si trasmette e si replica. Le cose insomma stanno in termini rovesciati rispetto alla teoria freudiana. Nel suo strato più profondo, la mente umana è predisposta alle influenze sociali di ogni genere. I valori culturali che vengono, di conseguenza interiorizzati, sono quelli propri del contesto socio-storico: che essi siano civili o incivili, umanizzanti o alienanti, positivi o negativi è del tutto insignificante per la maggioranza delle persone che appartengono a tale contesto. L'avere assunto il Super-io come difensore repressivo dei valori più elevati della civiltà (occidentale, tra l'altro) contro una natura umana tendenzialmente riottosa e anarchica rappresenta dunque, in Freud, un errore teorico fatale e fuorviante. Questo permette di comprendere l'abbandono della teoria del Super-io anche da parte degli analisti via via che la civiltà è divenuta meno repressiva, l'educazione più permissiva, il controllo sociale più labile. Sembra che nessuno si renda conto che l'evoluzione della personalità umana postula l'interiorizzazione dei valori culturali come un momento indispensabile, e che tale interiorizzazione, che si fonda sull'apprendimento conscio e inconscio, implica una programmazione costante della mente umana. Se ci si riconduce a questo principio, i cambiamenti della psicologia e della psicopatologia giovanile possono essere interpretati senza grandi difficoltà. E' solo un'impressione superficiale, infatti, che i giovani oggi vivono un difetto di valori o aderiscono a valori prodotti dal gruppo dei coetanei. La realtà è che essi risentono di una terribile confusione la cui causa è che i valori trasmessi dalle generazioni precedenti sono contraddittori. All'epoca di Freud la civiltà europea, nonostante le sue tensioni, legate al contrasto tra democrazie liberali e Stati assoluti, era piuttosto integrata culturalmente. L'integrazione era dovuta al fatto che la borghesia, il cui peso sociale e politico era ovunque elevato, aveva sostanzialmente accettato il primato dei valori cristiani. Le sue pretese egemoniche, che già avevano fatto affiorare la formula del libero Stato e della libera Chiesa, non contrastavano con il riconoscimento delle matrici cristiane della civiltà europea. Tale riconoscimento persiste ancora oggi, ma è meramente formale. Lo sviluppo della civiltà capitalistica ha assunto, negli ultimi decenni, un ritmo vieppiù elevato, giungendo a configurare un capitalismo selvaggio il cui quadro di valori è radicalmente laico e anticristiano, nella misura in cui enfatizza la realizzazione egoistica dell'individuo e l'assunzione dell'altro come rivale. La realtà dunque è che la nostra civiltà è ormai culturalmente dissociata. Due ideologie - quella cristiana e quella capitalistica - incompatibili tra loro convivono, anche se il processo della secolarizzazione è crescente. Questo significa né più né meno che, nel rapporto tra le generazioni, vengono trasmesse, sia pure im misura diversa, entrambe le ideologie. La conseguenza di questo è che le personalità giovanili le albergano entrambe, spesso a livello inconscio. Ciascuna delle due, in rapporto a cirostanze di vita, può assumere un significato egemonico, tradursi cioè in un codice superegoico. Di fatto la psicopatologia giovanile riconosce due categorie che, solo apparentemente, sembrano nettamente differenziate. Il numero dei giovani che crollano sotto il peso di valori religiosi colpevolizzanti - sviluppando attacchi di panico, depressioni, deliri, ecc. - è ancora elevato. Il Super-io freudiano, per questo aspetto, è ancora attivo, e esercita il suo potere in nome del fatto che l'educazione religiosa produce l'istintualizzazione dei bisogni individuali, rendendoli minacciosi. L'altra categoria, che rappresenterebbe una novità psicopatologica, è costituita da giovani che aderiscono acriticamente ai valori propri del capitalismo selvaggio, adottando i codici culturali (adultomorfo, claustrofobico, anestetico) che ho analizzato ne La Politica del Super-io, prevedendo tra l'altro la loro diffusione sociologica e la loro trasformazione in ideali superegoici. La nuova patologia, insomma, è figlia del capitalismo selvaggio. Essa esprime un orientamento individualistico, egoistico, narcisistico che dà luogo a fenomeni psicopatologici perché entra in conflitto con il primato che la socialità, vale a dire l'altro, mantiene a livello inconscio. Anche questa nuova patologia è sottesa da intesi sensi di colpa che vengono sistematicamente rimossi, e la cui rimozione spinge sempre di più i soggetti a radicalizzare la loro forza, l'anestesia, il cinismo e, in alcuni casi, la brutalità nei rapporti interpersonali. Non c'è nulla di nuovo, insomma, sotto il sole. La difficoltà degli analisti di interpretare la situazione discende, per un verso, dalle loro scarse competenze storico-culturali (che spesso si riducono allo studio dei simboli, come se questi non fossero un prodotto della storia sociale) e, per un altro, dal rifiuto della teoria freudiana del Super-io interpretata alla lettera. Per rivitalizzare questa teoria, e rendere più efficace l'analisi, basterebbe accettare che il bisogno d'appartenenza e d'integrazione sociale, su cui si costruisce il Super-io, può indurre ad interiorizzare qualunque codice culturale che assume un significato egemone. Ottobre 2003
da www.nilalienum.itAncora sul Super-Io1. Super-Io è, in assoluto, il termine che ricorre più frequentemente in tutta la mia opera. Per quanto, fin dal primo saggio (La Politica del Super-Io), ho sottoposto il termine, coniato da Freud, ad una revisione concettuale radicale, ricavando dall'attività superegoica, massimamente evidente nelle esperienze psicopatologiche, la prova dell'esistenza di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale intrinseco alla natura umana, geneticamente determinato, e assegnando, di conseguenza, al Super-Io la funzione primaria di favorire la replicazione culturale attraverso le generazioni e di privilegiare l'adempimento dei doveri di ruolo funzionali al mantenersi dell'ordine e della coesione sociale rispetto ai bisogni e ai diritti individuali, la decisione di continuare ad utilizzarlo (anche per l'impossibilità di trovare un sinonimo ugualmente efficace[1]) ha pesato parecchio sulla diffusione del mio lavoro. In parte ciò è dovuto al fatto che la sua assimilazione a livello di cultura comune, dovuta alle straordinarie capacità divulgative di Freud, è rimasta ferma al concetto originario di istanza psichica sostanzialmente rigida e repressiva, orientata a contenere le spinte pulsionali. Parecchi lettori dei miei saggi è me ne sono reso conto più volte è comprendono il nuovo significato concettuale del Super-Io nella cornice struttural-dialettica, ma, di fatto, continuano a fare riferimento al concetto freudiano. Un altro aspetto va ricondotto alla progressiva affermazione del cognitivismo che, privilegiando gli aspetti funzionali (pensiero, memoria, emozioni, ecc.) rispetto a quelli strutturali,, è giunto a gettare una luce di discredito sul sapere psicoanalitico. In questa nuova ottica, il Super-Io, in quanto istanza psichica o parte dell'apparato mentale differenziata rispetto all'Io, fino al punto di potersi autonomizzare in rapporto ad esso, è stato giudicato come un concetto incompatibile con il ruolo (totalizzante) che il cognitivismo assegna all'Io stesso. A ciò va aggiunto che, anche nel contesto della psicoanalisi, clamorosamente stagnante sotto il profilo teorico, non pochi studiosi, influenzati dal pensiero di Kohut e protesi a perseguire l'integrazione dei principi cognitivi nella cornice della teoria analitica, sono giunti addirittura ad affermare che il Super-Io sarebbe tramontato con la cultura gerarchica e repressiva che lo ha prodotto. Se fosse vero, ciò significherebbe che, anziché un'istanza strutturale, il Super-Io freudiano rappresenterebbe semplicemente l'espressione dell'influenza di una determinata cultura sull'organizzazione della psiche umana. Un'ipotesi del genere richiederebbe di ammettere una plasticità del cervello di gran lunga superiore a quella che oggi sembra ammissibile. Al presunto tramonto del Super-Io, che sarebbe reso evidente soprattutto dalle esperienze psicopatologiche giovanili, ho dedicato già un articolo al quale rinvio il lettore. Torno sull'argomento perché, riscrivendo la Politica del Super-Io (di cui ho pubblicato solo l'Introduzione, nutrendo la speranza di giungere ad una nuova edizione a stampa) e gli articoli sul significato funzionale dei sintomi, mi sono reso conto che, nel corso degli anni, la teoria del Super-Io è andato incontro a cambiamenti non radicali, ma di sicuro significativi. Che ne abbia preso coscienza a posteriori, prova semplicemente che il rimaneggiamento continuo dei contenuti concettuali, legato alla riflessione, avviene anche al di là della coscienza. Nel saggio originario, che era in gran parte il frutto del lavoro di ricerca effettuato nel corso degli anni, a partire dal 1982, documentato dai Seminari, il Super-io, pur avendo le sua radici nel bisogno di appartenenza/integrazione sociale e rappresentando la matrice della replicazione culturale, assolveva una funzione univoca di controllo sociale sulla libertà individuale: era teorizzato, insomma, come l'espressione nel cuore della soggettività della tendenza conservatrice propria della cultura, orientata ad impedire il più possibile il cambiamento culturale. Oggi tale funzione è ancora reperibile in numerose esperienze psicopatologiche, anche giovanili. A differenza di quanto sostengono i cognitivisti e ormai anche alcuni analisti, la patologia da senso di colpa (conscio o inconscio che sia) non è affatto scomparsa dall'orizzonte della soggettività contemporanea. G., per esempio, che ha ricevuto un'educazione rigorosa ma non moralistica, per la semplice influenza del catechismo, a 17 anni si chiude in casa perché, avendo lanciato per strada uno sguardo desiderante su di una donna adulta, che subito dopo si è accorta essere sposata, si sente investito, quando tenta di uscire, da occhiate rimproveranti che provengono da tutto il mondo. M., che ha avviato con successo un'attività autonoma come ragioniere commercialista, si ritrova a falsificare qualche fattura, consapevole del fatto che se egli pretendesse far pagare ai clienti tutte le tasse che lo Stato esige, li perderebbe. Il problema è che egli ha un carattere estremamente scrupoloso, per cui, dopo alcuni mesi, comincia a sviluppare il timore che il suo comportamento ex-lege possa essere scoperto e punito. Nel giro di alcune settimane, il timore è confermato dal fatto che, per strada, egli avverte giudizi piuttosto pesanti nei suoi confronti e, distintamente, minacce che fanno riferimento al tribunale e al carcere. In casi del genere, la funzione repressiva e moralistica del Super-Io, che difende l'ordine sociale dal disordine dei desideri e dei bisogni individuali, è del tutto evidente. 2. E' pur vero, però, che, negli ultimi anni, sempre più spesso, la funzione del Super-io, oltre che punitiva, sembra sempre più spesso preventiva e protettiva. La prevenzione si realizza quasi sempre allorché l'individuo, sotto la spinta della rabbia o di una cieca (quindi claustrofobica) rivendicazione di libertà, sta agendo comportamenti che potrebbero avere esiti catastrofici. V., per esempio, che ha avuto sin da bambino un rapporto oppositivo e conflittuale con la famiglia e con la scuola, pur essendo dotato di grandi potenzialità, a 15 anni decide di darsi allo ìsbracoî, abbandonando lo studio e incentrando la sua vita sull'uso di marijuana. Tale uso si trasforma rapidamente in abuso. V. vive alleggerito dalle angosce e dalle paure che hanno contrassegnato la sua esperienza infantile, ma in una dimensione molto simile ad una trance. Ad un certo punto, data l'assuefazione, avverte il bisogno di una droga più incisiva, la cocaina. Si sta approssimando a questa ulteriore svolta della sua vita allorché uno stravolgente attacco di panico lo chiude in casa e pone fine all'uso delle droghe. A. che, dall'adolescenza, ha ispirato la sua vita ad un modello di libertà totale, ritrovandosi in una ambiente universitario alternativo, assume un ruolo di leader della trasgressione, sollecitando gli altri a non aver paura di alcuna esperienza nuova. Per dare il buon esempio egli, oltre al fumo, sniffa cocaina e, ad un certo punto, comincia ad usare gli acidi e i funghi. Dopo un'assunzione di acidi, egli sviluppa un attacco di panico incentrato sulla paura di andare fuori di testa, sormontato il quale, assillato dalla convinzione di avere indotto un danno cerebrale grave e irreversibile, si trova ìvaccinatoî in rapporto al pericolo di usare droghe pesanti. In casi del genere, pur considerando che l'attacco di panico e le paure che ad esso residuano, sono sicuramente di matrice superegoica, il riferimento ad un Super-Io repressivo sembra piuttosto ridicolo. L'attivazione della funzione superegoica sembra orientata non solo a proteggere l'integrità psicofisica dei soggetti, ma anche a porre termine ad un'esperienza alienata, vale a dire influenzata da motivazioni ìideologicheî che si sovrappongono ai bisogni individuali e li mortificano. Si danno, però, esperienze ancor più significative. A. fin da bambino si rende conto di essere dotato di una sensibilità sociale eccessiva. Vive tormentato da essa, che lo costringe ad essere un figlio e uno studente modello, finché non si realizza una circostanza particolare. Il padre viene ricoverato in Ospedale per un ictus. Alessandro, che si rende conto del pericolo di perderlo (destinato a realizzarsi), soffre le pene dell'inferno, finché una mattina la sua mente non è attraversata da una singolare fantasia incentrata sul ìfregarseneî se il padre sopravvive o muore. Tale fantasia lo fa sentire immediatamente leggero, finché, dopo pochi minuti, non sopravviene un atroce senso di colpa che lo tormenterà per anni. Il problema è che quella fantasia ha portato alla luce un desiderio che, nel corso degli anni, si radicalizza: giungere a non sentire più nulla per nessuno, ad essere totalmente indifferente nei confronti degli altri, per vivere bene. Oppresso dalla sensibilità, infatti, egli si sente fragile e vulnerabile: rimane, infatti, profondamente turbato dal dolore altrui e sollecitato a fare qualcosa per rimediare. Se se ne liberasse, diventerebbe sicuro, forte e onnipotente. Per anni, dunque, vive all'insegna di una vera e propria fobia della sensibilità: quando non riesce a controllarla, infatti, repentinamente si sente crollare in una depressione profonda. Nei momenti in cui gli sembra di averla fatta fuori, tocca il cielo con le dita. Il problema è che l'ossessione stessa di liberarsi dalla sensibilità, la incrementa fino a livelli intollerabili. Se A. va in un ospedale identifica con coloro che soffrono fino a sentire un dolore lancinante, se incontra per strada un immigrato non può fare a meno di dargli tutti i soldi che ha, se si imbatte in un animale sperduto o ferito non dorme la notte. E' evidente che la sensibilità esasperata compensa e punisce la sua volontà di liberarsene del tutto. P. manifesta precocemente una iperdotazione introversa che si esprime in una carriera scolastica brillantissima, nella coltivazione di molteplici interessi culturali e nell'eccellere anche a livello sportivo. Attraversa l'adolescenza, muta sotto il profilo dell'interesse per l'altro sesso, senza rendersi conto della sua diversità, anzi disprezzando le coetanee che parlano solo di ragazzi, abiti, canzoni, ecc. A 19 anni, malauguratamente, il suo non avere ancora intrattenuto rapporti di alcun genere con gli uomini si configura repentinamente come un'espressione di intollerabile inferiorità. Anche se non se ne rende pienamente conto, questo vissuto riverbera una luce negativa sul passato eccezion fatta per il bisogno divorante di primeggiare. Ciò la induce a operare una scelta universitaria molto lontana dai suoi interessi umanistici, anche se funzionale ai fini di un'ascesa sociale, e ad installare la sua vita su di un registro ìsuperficialeî, caratterizzato dalla seduzione e dalla conquista di uomini importanti e di successo (per quanto psicologicamente e culturalmente mediocri) e dal culto delle apparenze (immagine estetica). Questa sciagurata ìsceltaî di vita, che inaugura una serie fallimentare di rapporti sentimentali, il blocco di una carriera professionale avviatasi fin troppo brillantemente, e un dissesto economico dovuto a spese compusive inerenti oggetti di lusso (abiti, gioielli, ecc.),coincide con l'affiorare di una depressione che viene diagnosticata come disturbo dell'umore e avvia una carriera psichiatrica destinata a protrarsi negli anni. E' evidente che la depressione segnala per un verso il tradimento dei valori piccolo-borghesi trasmessi dalla famiglia e, per un altro, il tradimento della sua vocazione ad essere, sostanzialmente intellettuale. Purtroppo quella scelta di vita viene confermata nel corso degli anni e dà luogo all'incremento della depressione e dei sensi di colpa sino a livelli drammatici. Esperienze del genere, incomprensibili e inspiegabili se non si ammette l'entrata in azione di un'istanza capace di contrapporsi all'Io e di inibire la sua libertà, non rientrano nella teoria formulata originariamente ne La Politica del Super-io, a cui ho fatto riferimento ancora, anche se in termini più articolati, in Star Male di Testa. Esse costringono a pensare che il Super-Io è una istanza psichica il cui spettro funzionale va dall'estremo di un'intensa colpevolizzazione e di una dura punizione all'estremo opposto di un controllo sulla libertà personale che si può ritenere protettiva e preventiva rispetto ai pericoli di un esercizio alienato della stessa. Non si tratta di un aspetto del tutto nuovo. Fin da Prassi terapeutica dialettica ho sottolineato che i sintomi psicopatologici, gran parte dei quali di fatto sono accomunati dal diminuire, in misura più o meno rilevante, la libertà personale, possono avere di volta in volta un significato punitivo, protettivo o preventivo. Non si può negare però che l'attribuzione al Super-Io di una capacità funzionale così ampia che, sia pure sulla base univoca del senso di colpa, comporta al limite la protezione dell'individuo dall'esercizio di una libertà alienata, pone di fronte ad una serie di problemi che costringono a rivedere la teoria struttural-dialettica del Super-Io stesso. Mentre infatti la funzione punitiva, con i suoi eccessi, sembra confermare che il Super-Io, una volta interiorizzati determinati valori culturali, li assolutezza e li utilizza come metro di misura della conformità o meno ad essi del comportamento individuale (attività che conferma il suo ruolo di servomeccanismo di regolazione dell'ordine sociale culturalmente definito), la funzione protettiva e preventiva può essere, d'acchito, facilmente equivocata come una conferma della teoria pulsionale freudiana. Questo equivoco, portato alle estreme conseguenze, invalida quasi totalmente la teoria struttural-dialettica. Certo la funzione protettiva e preventiva del Super-Io attesta che il suo radicamento avviene a partire da un bisogno sociale primario, dato che essa prescinde da qualsivoglia rappresaglia e sembra riabilitare, dall'interno della soggettività, un potere di controllo positivo sulla libertà che nessun essere in carne ed ossa sembra più in grado di agire sul soggetto. In un certo qual modo, essa sembra quasi sopperire alla perdita di potere di controllo delle figure genitoriali e vicariarla con l'entrata in azione di un loro rappresentante simbolico il cui intento è tutt'altro che repressivo. E' pur vero, però, che quella funzione argina, contiene e inibisce una libertà che sembra sottesa da incoercibili spinte pulsionali. Freud dunque avrebbe sbagliato nel misconoscere la presenza nella natura umana di un bisogno sociale e nell'attribuire al Super-Io una valenza univocamente punitiva, ma avrebbe colto nel giusto nell'identificare una componente pulsionale anarchica, facente parte della natura umana, che si esprimerebbe attraverso l'esercizio di una libertà compulsava e senza limite. Il problema è che un'interpretazione del genere è insostenibile in quanto contraddittoria. L'esistenza, infatti, nella natura umana di un bisogno sociale primario, vale a dire di un bisogno di appartenenza radicale, è incompatibile con quella di una libertà pulsionale anarchica, che implica un egocentrismo totale. Come interpretare, dunque, lo spettro funzionale del Super-Io che si evince dalle esperienze psicopatologiche contemporanee? 3. L'ipotesi più semplice consiste nel tenere conto che il Super-Io, nell'ottica struttural-dialettica, integra sempre e comunque due componenti, l'una psicobiologica e l'altra culturale. La componente psicobiologica è identificabile con una sensibilità sociale che, consentendo di sentire l'altro come dotato di bisogni e diritti, incide in due modi nella progettazione dell'autorealizzazione individuale: per un verso, infatti, essa definisce il legame sociale, intersoggettivo, come costitutivo dell'identità personale; per un altro verso, comporta anche una realizzazione sociale dell'Io. Su questo sfondo psicobiologico, l'interazione con l'ambiente, attraverso l'interiorizzazione dei valori culturali regola e modula la relazione sociale in termini di diritti e doveri dell'io nei confronti degli altri e degli altri nei confronti dell'Io. Il problema è che questa regolazione, per i motivi più vari, non ultimo tra i quali è l'estrema influenzabilità dei bambini (e soprattutto di quelli dotati di una maggiore sensibilità), di fatto può giungere a rappresentare non già un canale che permette il dispiegamento dell'individuazione entro limiti rispettosi dei bisogni e diritti altrui, bensì un canale che mortifica l'individuazione, impedendo ad essa di dispiegarsi. In circostanze del genere, come noto, il bisogno d'individuazione frustrato dà luogo allo strutturarsi di un Io antitetico che tende a promuoverne la realizzazione mortificando o reprimendo il bisogno sociale, che lo vincola, e giungendo di conseguenza ad assumere una configurazione più o meno intensamente anarchica e ìpulsionaleî. Il problema è che la rivendicazione di libertà si realizza non solo violando i valori culturali interiorizzati è circostanza che, in sé e per sé, non esclude un loro superamento in nome di nuovi valori riconosciuti come propri dall'io -, ma anestetizzando la sensibilità che ne ha consentito l'interiorizzazione. Il soggetto, insomma, si ritrova a vivere sì affrancato da valori che possono essere alienati o poco compatibili con la sua vocazione ad essere, ma anche al di fuori della propria pelle: su di un registro, dunque, alienato, espressivo di uno solo dei bisogni che sottendono la sua esperienza. In casi del genere, non c'è da sorprendersi che il Super-Io entri in azione con una doppia valenza: l'una punitiva in rapporto alla trasgressione morale, l'altra protettiva e riparativa in rapporto ad una sensibilità sociale profondamente radicata nelle viscere dell'apparato mentale. C'è ovviamente una contraddizione nell'attività superegoica: per un verso, infatti, per quanto concerne l'aspetto punitivo, essa tende a mantenere l'io in una condizione eterodiretta (dunque alienata); per un altro verso, essa, quando si contrappone ad un Io antitetico esasperato, mira a restaurare un bisogno autentico di socialità che la rivendicazione ìpulsionaleî di libertà ha anestetizzato, quindi a disalienare il bisogno stesso. Mi rendo conto che riflessioni del genere non hanno alcun interesse per chi, pur adottando una logica psicodinamica, ritiene che il Super-Io sia tramontato e, a maggior ragione, per i cognitivisti, per i quali il concetto di Super-Io non ha senso alcuno. Se si prescinde però dal ritenere la psicopatologia una scienza in senso proprio è statuto che, eccezion fatta per la linguistica, nessuna disciplina umana e sociale ha raggiunto e potrà raggiungere -, il suo obbiettivo non può essere altro che formulare teoria le quali consentono di interpretare sempre meglio i dati offerti dalle esperienze soggettive. Per questo aspetto, a me sembra che la teoria del Super-Io come funzione il cui spettro di azione pone in luce le due componenti a partire dalle quali esso si struttura sia estremamente efficace. E' o dovrebbe essere ovvio che tale teoria implica che anche l'Io antitetico sia una funzione a spettro, che va dall'estremo di una rivendicazione sostanzialmente giusta di una libertà intrinseca alla vocazione ad essere personale all'estremo opposto di una rivendicazione totale, anarchica e claustrofobia che porta il soggetto sul terreno dell'alienazione, dell'insensibilità ai suoi bisogni autentici e, al limite, della devianza. La concezione del Super-Io e dell'Io antitetico come funzioni dinamiche a spettro danno alla teoria del conflitto strutturale un'estensione e una flessibilità che sembrano adeguate a comprendere e a spiegare il continuum psicopatologico. Fermo restando, ovviamente, che si tratta di substrutture dell'Io che con esso interagiscono. Le forme diverse di tale interazione saranno analizzate in un ulteriore articolo. Nota [1] I sinonimi sui quali ho più riflettuto sono l'Altro generalizzato (coniato da Mead), il Noi (coniato nell'ambito della psicologia evolutiva degli ultimi anni) e il Sociale interiorizzato (o in alternativa l'Altro), che ho utilizzato in Miseria della neopsichiatria. L'Altro generalizzato è un concetto sovrapponibile per molti aspetti al Super-io. Esso però è inutilizzabile perché, almeno nella teorizzazione mediana, implica l'interiorizzazione delle originarie interazioni interpersonali: In breve, misconosce del tutto la matrice psicobiologica. Il Noi è efficace nella misura in cui implica l'appartenenza dell'Io ad un gruppo o ad una totalità sociale, di cui è membro e funzione, ma diventa confusivo laddove si devono analizzare esperienze psicopatologiche all'interno delle quali il Super-Io si contrappone all'Io e lo assume come oggetto. Il Sociale interiorizzato ha come limite l'alludere ad una condizione psicologica univocamente autodiretta e il non tenere conto che l'interiorizzazione delle influenze ambientali implica anche la sensibilità personale e l'interpretazione soggettive di esse. Se fossi costretto ad optare per uno dei tre termini, opterei (come ho fatto) per il terzo. Rimane il fatto che il termine Super-Io, pur nell'indeterminatezza di chi sovrasta l'Io, è il più suggestivo. da www.nilalienum.itInconscio psicobiologico e inconscio culturalizzato1. Quest'articolo tenta di portare alle estreme conseguenze la revisione che ho avviato sulla struttura dell'apparato mentale e sulle funzione dell'Io, del Super-Io e dell'Io antitetico. Sono perfettamente consapevole che le ipotesi che propongo sono, per molti aspetti, nuove e sorprendenti. Una ricerca che intende mantenersi fedele a se stessa (e allo spirito della scienza) non può né deve arretrare di fronte a qualsivoglia intuizione epistemologicamente stimolante. Non so se questo articolo potrà riuscire ad esprimere compiutamente gli sviluppi teorici che sono maturati in me in questi ultimi anni. Temo, però, di essere arrivato ad una frontiera al di là della quale si danno ancora infinite cose da comprendere, soprattutto per quanto concerne i correlati neurobiologici della struttura mentale delineata a partire dalla teoria dei bisogni. Dubito di essere in grado di varcare tale frontiera. Per agevolare la lettura dell'articolo, cerco di riassumere i termini della questione. Nell'esplorazione dell'apparato mentale umano, Freud è partito dall'intuizione che, al di sotto della coscienza, si dà una vivacissima attività mentale, rispetto alla quale l'Io rimane schermato in virtù di processi di rimozione e di repressione. La schermatura non solo consente all'Io di non stare perpetuamente a contatto con l'inconscio: essa favorisce anche la costruzione di un'immagine di sé tendenzialmente mistificata, che tiene conto solo di alcuni aspetti del modo di essere del soggetto e ne trascura altri (contraddittori, inquietanti o spiacevoli). Per interpretare questa situazione ìnormaleî di mistificazione, che viene compromessa laddove si danno conflitti psicopatologici, in conseguenza dell'affiorare sotto forma di sintomi dei contenuti inconsci, Freud ha elaborato la teoria dell'Es. L'Es è l'unica vera realtà psichica secondo Freud è è un serbatoio ribollente di pulsioni, cieche ad ogni principio di realtà, che di per sé tenderebbero solo alla scarica. La teoria dell'Es è stata invalidata dalla scoperta, avvenuta a livello di antropologia filosofica e successivamente di neurobiologia, che il passaggio dagli animali all'uomo è avvenuto sulla base di un critico allentamento degli istinti. Tra le pulsioni, nella cornice della seconda topica, Freud ammette anche l'esistenza dell'istinto di morte, vale a dire di una tendenza intrinseca dell'apparato mentale a ridurre la frustrazione del rapporto con il mondo esterno attraverso una regressione verso uno stato di quiete che comporterebbe lo scioglimento di tutti i legami con quello. Ammettendo l'istinto di morte, Freud giunge a negare l'esistenza nella natura umana di qualsivoglia bisogno di relazione oggettuale o sociale. Questo sarebbe solo il prodotto dell'angoscia legata all'istinto di morte: angoscia sociale, che giustificherebbe la presenza, nell'apparato mentale umano, di un Super-Io inteso come minaccioso rappresentante della società e delle regole minimali del buon vivere sociale. La teoria dell'istinto di morte è stata la cartina di tornasole del movimento psicoanalitico: accettata dagli analisti ortodossi, alcuni dei quali (come Melania Klein) l'hanno portata alle esterme conseguenze, essa è stata rifiutata dalla maggioranza degli psicoanalisti in nome dell'attribuzione all'uomo di un bisogno primario di relazione oggettuale. Il passaggio da un modello intrapsichico ad un modello relazionale, incentrato sull'intersoggettività, ha però prodotto una conseguenza negativa. Il punto di vista strutturale freudiano è stato abbandonato in nome dell'esigenza di ricostruire la personalità come espressione delle vicissitudini interpersonali. Nel corso degli ultimi decenni, poi, la pressione esercitata dal cognitivismo ha costretto progressivamente la psicoanalisi a sviluppare, sulla base delle intuizioni di Hartman, una psicologia dell'Io, che ha posto in ombra progressivamente la strutturazione del mondo interiore. La conclusione di tali sviluppi è stata la teoria del narcisismo di Kohut, incentrata sul Sé inteso come principio organizzatore di tutti gli aspetti della personalità. A livello psicoanalitico, il Sé è la notte in cui tutte le vacche sono nere. Può darsi che, in virtù di questo concetto, l'analisi abbia rimediato all'attacco portato dal cognitivismo. Si tratta, però, di un rimedio peggiore del male, che enfatizza a dismisura il ruolo dei genitori in quanto agenti affettivi e misconosce il loro ruolo di agenti culturali, deputati è vogliano o meno è a trasmettere valori normativi. 2. Questo breve excursus consente di capire più in profondità il tragitto di ricerca che ho seguito. Sono partito dal fatto che, con la scoperta del Super-Io, Freud ha definito l'importanza che la cultura del gruppo di appartenenza ha nella strutturazione della personalità umana: tramite il gruppo, il Super-Io definisce una relazione tra il soggetto e la storia sociale cui egli appartiene. Funzione psichica di acculturazione individuale, il Super-Io ha come finalità primaria quella mantenere la coesione e l'organizzazione di ogni società consentendo ad essa di riprodursi attraverso le generazioni sollecitando il soggetto a mantenersi fedele ai valori morali tradizionali. L'importanza del Super-Io riesce vieppiù evidente se si considera il rapporto tra Legge e Moralità e lo sviluppo di tale rapporto nel corso dell'evoluzione storica. Nella nostra società il Diritto esiste sotto forma di codici civili e penali di estrema complessità. Se si eccettua l'influenza religiosa, che assegna ai valori morali un carattere impositivo, i codici morali sono impliciti: sono attivi nelle singole soggettività, spesso a livello inconscio. E' evidente che l'allevamento dei bambini postula l'acquisizione precoce di tali codici, poiché la conoscenza della Legge richiede un'attrezzatura cognitiva adulta. Il Super-Io funziona dunque come un replicatore culturale il cui fine primario è l'interiorizzazione delle norme morali. A differenza di quanto pensava Freud, il Super-Io non serve affatto ad arginare e a reprimere un'energia istintuale caotica (le pulsioni), semplicemente perché, nel passaggio dall'animale all'uomo, il bagaglio istintuale si è criticamente allentato. La sua funzione è di sopperire all'angoscia dell'indefinita libertà sopravvenuta in conseguenza di questo, e di canalizzare l'esperienza soggettiva in maniera tale che essa contribuisca a stabilizzare e a corroborare la cultura del gruppo di appartenenza, vale a dire ad alimentare l'illusione, attraverso la condivisione collettiva degli stessi valori, che questi siano ìnaturaliî e oggettivi. E' vero che il Super-io mantiene a livello soggettivo l'ambivalenza sacrale con cui il bambino vive le figure dei grandi (genitori, insegnanti, ecc.). Nella misura in cui però il fascino e la soggezione nei confronti di essi si fonda sull'assumerli come rappresentanti di un'Autorità suprema, non c'è da sorprendersi che, a livello adulto, esso investa la società nel suo complesso (o al limite Dio). Il Super-Io è il rappresentante interiorizzato del sociale e della cultura su cui si fonda l'organizzazione sociale. Da questo punto di vista, esso è sempre altamente culturalizzato. Analizzarlo come erede delle vicissitudini affettive nel rapporto con i genitori è un grave errore, perché quelle vicissitudini sono sempre di minor peso rispetto al fatto che, comunque, attraverso il loro modo di essere i genitori incarnano e trasmettono valori culturali. Su quale base però avviene l'interiorizzazione di tali valori? Freud riteneva il Super-Io erede del complesso edipico, vale a dire strutturato sulla base dell'angoscia sociale prodotta dalla pulsione violentemente ostile nei confronti della figura paterna. Sormontata la teoria pulsionale, l'ipotesi non ha più significato. Occorre ammettere una predisposizione dell'essere umano all'interiorizzazione dei valori sulla base dell'identificazione con le figure genitoriali e in senso lato con gli educatori. Tale predisposizione mi ha portato ad ammettere l'esistenza di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale geneticamente determinato, che rappresenta l'attrattore su cui si struttura il Super-Io. C'è da chiedersi, però, perché, dato uno stesso ambiente familiare e culturale, la strutturazione del Super-Io raggiunge gradi diversi in diversi soggetti. Occorre ricondursi, ovviamente, a vari fattori, tra i quali io ritengo decisiva la sensibilità sociale. Con questo termine intendo sia l'empatia, la capacità di registrare le aspettative e i desideri presenti negli adulti (a livello conscio e inconscio), sia la predisposizione morale, la tendenza naturale del soggetto ad attribuire agli altri i suoi stessi diritti, e quindi a tenerne conto e a rispettarli. In questa ottica, l'empatia consente l'interiorizzazione dei valori culturali propri del gruppo di appartenenza su di un fondo che non saprei definire in altro modo se non facendo riferimento ad una moralità naturale. Nel Super-Io, dunque, occorre distinguere due diversi aspetti: l'uno psicobiologico, riconducibile alla sensibilità sociale, l'altro culturalizzato. Questa distinzione consente di comprendere meglio come funziona il Super-io soprattutto a livello psicopatologico. In alcuni casi, infatti, tale funzione è semplicemente repressiva, nel senso che essa mira a subordinare l'esperienza soggettiva a valori culturali interiorizzati che limitano arbitrariamente la libertà e lo sviluppo dell'individuo. Ancora oggi, la funzione repressiva del Super-Io è evidente laddove, in rapporto ad un'educazione religiosa, moralistica o perbenistica, il soggetto sviluppa intensi sensi di colpa in conseguenza di fantasie, desideri e pensieri che sono ìcriminalizzatiî superegoicamente, ma che, in sé e per sé attestano solo un grado di libertà interiore e potenzialità di sviluppo personale che fuoriescono dalla gabbia dei valori interiorizzati. In altri casi, però, la funzione del Super-io è preventiva e contentiva. Essa, in altri termini, serve ad arginare fantasie, desideri, pensieri e comportamenti prodotti da un'interazione conflittuale con l'ambiente sociale, ma che sono poco o punto compatibili con la sensibilità sociale e morale ìnaturaleî del soggetto. Questa funzione, oggi, è del tutto evidente all'interno di numerose esperienze giovanili che fanno capo ad un corredo introverso le quali vengono investite da una pulsione al cambiamento radicale che comporta l'anestetizzazione della sensibilità e l'agire comportamenti antisociali, aggressivi o trasgressivi del tutto incompatibili con il modo di essere introverso. Nel primo caso, dunque, la funzione superegoica agisce in nome della sua struttura culturalizzata; nel secondo, in nome del terreno psicobiologico su cui si è impiantata. 3. Analogo discorso può essere fatto per la funzione che ho definito con il termine Io antitetico, che, ancora oggi, non è riconosciuta al di fuori della stretta cerchia delle persone che aderiscono al modello struttural-dialettico della personalità. E' inutile che ripeta per l'ennesima volta che la scoperta di questa funzione o substruttura dell'Io è l'unico contributo originale che ritengo di aver fornito alla psicologia dinamica. Essa, però, maturata lentamente, ha costretto a ristrutturare tutta la conoscenza del campo psicopatologico. Anche l'io antitetico ha un impianto psicobiologico, che ho ricondotto al bisogno geneticamente determinato di opposizione/individuazione. Tale bisogno veicola la spinta verso la definizione di un'identità differenziata, dotata di una volontà propria e orientata verso la realizzazione di un progetto di vita espressivo delle potenzialità individuali. Tale spinta deve però fare i conti con l'ambiente culturale all'interno del quale evolve la personalità. Altrove ho scritto che la cultura, nella misura in cui risponde essenzialmente ad esigenze che sono proprie della società, non dei singoli individui, tende in genere ad esercitare un'azione normalizzante nei confronti della personalità: a ricondurla, insomma, verso la media. Se questo è vero per ogni cultura, è evidente che si dà uno spettro di culture più o meno rispettose delle esigenze di libertà e di sviluppo dell'individuo. A ciò occorre aggiungere che i potenziali d'individuazione sono diversamente distribuiti nei vari corredi genetici secondo uno spettro che comporta una spinta più o meno marcata. Nell'interazione del soggetto con l'ambiente, si possono dunque definire due diverse circostanze. La prima è legata al fatto che il bisogno d'individuazione giunge ad essere, almeno per alcuni aspetti, mortificato e represso dall'interiorizzazione dei valori culturali. Ciò accade in alcune esperienze normalizzate che soffrono perché la loro spinta verso l'individuazione e l'autorealizzazione rimane ingabbiata in un modo di essere molto povero e mediocre rispetto alle loro potenzialità di sviluppo e di differenziazione. La seconda circostanza, invece, è legata al fatto che, in seguito ad un'interazione repressiva, l'Io antitetico assume una configurazione che prescinde dallo sviluppo e comporta semplicemente la tendenza all'opposizionismo, al negativismo e alla trasgressione. Oggi, ciò si realizza sempre più spesso all'interno di esperienze giovanili che, dopo aver seguito nel corso della prima e della seconda infanzia un tragitto lineare e totalmente accondiscendente nei confronti delle aspettative ambientali, alle soglie o nel corso dell'adolescenza adottano, più o meno coscientemente, un sistema di valori del tutto opposto a quello che ha governato in precedenza la loro vita, e imboccano, a livello ideologico ma talora anche comportamentale, uno stile di vita contrassegnato dall'insensibilizzazione, dal ribellismo e dall'anarchia. Eè evidente che, nel primo caso, l'Io antitetico, rivendicando una libertà e uno sviluppo conforme al potenziale personale, funziona in nome del bisogno d'individuazione psicobiologico, mentre nel secondo, protendendosi verso un modo di essere alienato, esso manifesta una strutturazione culturale o ideologica che si sovrappone a quel bisogno e ne utilizza le potenzialità ma in forma alienata. 4. Mi astengo, per ora, dal valutare il ruolo che l'Io svolge all'interno delle varie situazioni descritte, limitandomi a rilevare che esso più spesso appare connivente con il Super-io o con l'Io antitetico culturalizzati che non con le loro componenti psicobiologiche. Perché però la distinzione tra questi due aspetti è quello psicobiologico e quello culturalizzato è si può ritenere particolarmente importante? La risposta è che essa fornisce una chiave interpretativa ed esplicativa dei fenomeni psicopatologici molto più potente di qualunque altra. Consente, in particolare, di capire che, posto che si dia una scissione tra di essi, sia il Super-Io che l'Io antitetico culturalizzati possono svolgere una funzione squilibrante. Le loro matrici psicobiologiche, invece, vale a dire i bisogni sulla cui base si edificano svolgono sempre un ruolo equilibrante, nel senso che tendono a riportare l'individuo nella sua ìpelleî di essere socialmente sensibile e/o bisognoso di individuarsi. Per comprendere meglio questi aspetti, già impliciti nella definizione delle quattro configurazioni psicopatologiche (handicappante, opposizionistica, riparativa, sfidante) fornita nella Prassi Terapeutica Dialettica e negli articoli che ho dedicato all'analisi funzionale dei sintomi psicopatologici, basterà fare degli esempi sintetici. A. è stato sempre un figlio docile per quanto tendenzialmente timido e, nonostante una buona intelligenza, appena sufficiente a scuola. Nel corso delle scuole medie e del liceo, per via della sua timidezza, viene preso in giro dai compagni in maniera pesante. Non reagisce, anzi apparentemente incrementa il suo essere paziente e tollerante. In realtà, nella sua anima si agitano rabbie e fantasie di vendetta di ogni genere. A. ne rimane inorridito per via dei valori religiosi in cui crede, che gli imporrebbero di perdonare, e s'impone di liberarsene. All'inizio dell'università, l'impresa sembra riuscita. A. appare disteso, sereno, posato. Ma è proprio allora che si attiva un delirio persecutorio acuto nel corso del quale A. sente che qualcuno vuole la sua morte. Superato l'episodio psicotico, le angosce si ripresentano periodicamente sempre associate a vissuti persecutori. E' evidente, in questo caso, che è in azione un Super-Io culturalizzato, la cui matrice è religiosa, che fa pagare ad A. la colpa di aver continuato a nutrire nel suo inconscio le rabbie e le fantasie di vendetta di cui pensava di essersi liberato. V. per quanto nel suo intimo sensibile, è un bambino oppositivo che reagisce drammaticamente ad una certa rigidità dei genitori e alla durezza della maestra elementare con un rendimento scolastico mediocre. Nonostante l'opposizionismo, è estremamente pauroso e subisce le angherie dei coetanei. Per questo, e per la perpetua umiliazione legata all'insufficienza scolastica, egli abbandona gli studi alla fine delle medie. Non ha alcun progetto di vita che non sia quello di liberarsi della sensibilità e delle paure che lo tormentano. Il rimedio lo trova nell'uso della marijuana, da cui diventa rapidamente dipendente, ma che lo trasforma in un altro, in un essere tracotante, aggressivo, sfidante. Finalmente non ha più paura di niente e di nessuno, non ha più sensi di colpa né remore nel tiranneggiare i suoi. Solo talvolta, avverte, nel suo intimo, una remota vibrazione di paura. Per tenerla a bada e aumentare l'indurimento del carattere, decide infine di provare l'eroina. Il proposito non va in porto in seguito al sopravvenire di un attacco di panico che lo precipita nuovamente in uno stato di paura e di tremore perpetuo. Anche se nella produzione dell'attacco di panico non si può escludere una componente superegoica repressiva, è fuor di dubbio che la componente prevalente va ricondotta ad una sensibilità sociale che V. ha tentato di estirpare. M. cresce all'insegna di un perfezionismo che s'incrementa nel corso degli anni. Quando arriva all'Università, egli si isola totalmente per fare nel modo migliore possibile il suo dovere di studente mantenuto dai suoi e con la propsettiva di una rilevante affermazione professionale. Conseguita la laurea, egli si immerge nel lavoro totalmente, ma comincia a sperimentare i vissuti di un perfezionismo ormai ampiamente patologico. Nonostante risultati eccellenti, si sente sempre inadeguato, esposto al rischio di fallire e di fare una brutta figura. Per arginare questi pericoli pensa al lavoro giorno e notte. Al di là del lavoro non coltiva alcun interesse né una vita di relazione sociale. Comincia ad avvertire sempre più spesso una profonda stanchezza, che sormonta con strenui sforzi di volontà. Nel giro di un anno, però, si realizza uno ìstressî che gli impedisce di lavorare e lo costringe a dare le dimissioni. E' evidente che, canalizzando tutte le sue energie in una direzione univoca, M. ha perseguito un obbiettivo di autorealizzazione molto mortificante in rapporto al patrimonio dei suoi umani bisogni. L'entrata in azione dell'Io antitetico, in questo caso, corrisponde alla rabbia per un maltrattamento che M. si è inflitto senza rendersene conto, e ad una rivendicazione di individuazione aperta su di un fronte più ampio rispetto all'ossessione lavorativa e più incline alla sperimentazione del piacere di vivere in opposizione ad un senso del dovere totalizzante. R. viene educata dalla famiglia piccolo-borghese e dalle suore come una madonnina e, con questo habitus, si inserisce in un liceo animato dagli inquieti fermenti della fine degli anni '70. Il contatto è traumatico, e rapidamente si traduce in un processo di emarginazione totale e in una dolorosa riflessione sull'educazione ricevuta. Nel giro di due anni, tale riflessione esita in un cambiamento radicale. R. diventa una ragazza estremamente seduttiva e disinibita, si aggrega a gfruppi la cui ideologia è trasgressiva, intrattiene un rapporto con un drogato, alla fine si droga essa stessa. Angosciato dalla sorte dell'unica figlia, il padre cerca in ogni modo di controllarla giungendo a realizzare il ricovero in una casa di cura privata. Nel corso del ricovero, R. sembra rinsavire e manifesta anche qualche senso di colpa per quello che ha fatto. Non appena esce dalla clinica, però, riprende la sua vita sull'onda di uno stato di eccitamento solo in parte dovuto alla droga. Nel caso di R., riesce del tutto evidente che il bisogno di opposizione/individuazione, gravemente conculcato nel corso delle fasi evolutive, si attiva a contatto con un ambiente che le restituisce il suo modo di essere come intollerabilmente vergognoso e, attraverso l'interiorizzazione di un'ideologia trasgressiva, dà luogo alla strutturazione di un Io antitetico il cui obbiettivo è l'infrazione di qualunque regola o valore che limiti la libertà personale. 5. Anche se, in virtù del suo essere un continuum che si definisce a partire da una matrice conflittuale costante, riconducibile ad una scissione dei bisogni intrinseci e delle funzioni che su di essi si edificano, la partizione dinamica dell'universo psicopatologico si può ritenere sempre precaria poiché ogni esperienza comporta la possibilità di molteplici sviluppi, gli esempi forniti consentono di capire meglio in che senso appare necessario distinguere l'inconscio psicobiologico e l'inconscio culturalizzato. E' facile intuire la portata di questa distinzione sul piano della pratica terapeutica, ma la sua portata maggiore è di ordine teorico. Uno degli assiomi portanti dell'antipsichiatria, ereditato peraltro dalla tradizione psicoanalitica, identificava nell'esperienza psicopatologica un tentativo di guarigione. Nella tradizione analitica tale assioma significava solo che, in virtù dei sintomi, quale che fosse la loro dimensione disfunzionale, l'apparato mentale riusciva a mantenersi al riparo da una catastrofica destrutturazione. Nell'ottica antipsichiatrica, invece, quell'assioma faceva riferimento al fatto che ogni crisi aveva in sé e per sé un significato potenzialmente evolutivo. Alla luce del discorso fatto, sembra possibile andare al di là di queste due interpretazioni, troppo pessimistica la prima, troppo ottimistica l'altra. E' vero che ogni crisi psicopatologica segnala un'instabilità degli assetti profondi della personalità non più contenibile nei limiti degli equilibri preesistenti. Per questo aspetto, sembra che si possa confermare che ogni crisi rende necessaria un'evoluzione della personalità, un miglior investimento dei bisogni e delle potenzialità proprie dell'individuo. Al tempo stesso, è importante affermare che, mentre l'attivazione del Super-io e dell'Io antitetico culturalizzato hanno di solito un effetto squilibrante è rispettivamente repressivo o disordinante è che aumentano il grado di alienazione soggettivo, l'attivazione delle matrici psicobiologiche del Super-Io e dell'Io antietico conseguono un effetto è rispettivamente riparativo o propulsivo è che può essere più facilmente utilizzato dal punto di vista terapeutico perché è orientato nella direzione della soddisfazione di bisogni autentici. Ci si può chiedere, infine, quale sia l'attualità di queste considerazioni in rapporto alla psicopatologia contemporanea. Posto che il Super-Io culturalizzato, nonostante quello che affermano anche alcuni psicoanalisti, continua ad essere vigorosamente rappresentato nelle soggettività, anche se esso sta assumendo sempre più marcatamente una configurazione normativa dipendente dalla mentalità piccolo-borghese (associata, ma sempre di meno, a valenze religiose e moralistiche), è fuor di dubbio che la psicopatologia legata all'Io antitetico culturalizzato (sul registro dell'immagine sociale, dell'insensibilità e della legge del più forte) sia continuamente in crescita, specie a livello giovanile. Per ciò è sempre più frequente reperire, in queste esperienze, sintomi che attestano l'attività del bisogno di appartenenza sociale. Lo spettro psicopatologico si sta modificando in rapporto ai cambiamenti della cultura contemporanea. Ma questo è sorprendente solo per chi ritiene che l'universo psicopatologico sia generato da disfunzioni cerebrali di natura genetica e biochimica. I cambiamenti che stanno intervenendo, però, non significano che, da un punto di vista psicodinamico, occorra cambiare paradigma. La teoria struttural-dialettica non ha alcuna difficoltà a riconoscerli, ad interpretarli e a spiegarli. Purtroppo, però, tutto questo, per ora, significa solo che ai mali antichi se ne stanno aggiungendo di nuovi. |