Capitolo sesto

Normalizzazione, individuazione e ideologie sociali

L’attribuzione alla natura umana di un corredo binario di bisogni intrinseci che si dispiegano, nel corso dell’evoluzione della personalità, assumendo la configurazione di due funzioni psichiche – il Super-Io e l’Io antitetico -, che, rappresentando rispettivamente i doveri sociali e i diritti individuali, sottopongono l’Io cosciente ad una tensione continua orientata a mediarli per conservare un equilibrio e una parvenza unitaria, è un’ipotesi forte che può essere estesa a tutto il campo delle scienze umane e sociali.

Per quanto riguarda la psicopatologia, essa consente di definire una legge universale, tale per cui, ovunque, nello spazio e nel tempo, l’interazione con l’ambiente determina una scissione dei bisogni intrinseci e delle funzioni che li rappresentano, si danno i presupposti per la genesi di un disagio psicopatologico.

Questa legge rischia però di rimanere meramente formale se non si tiene conto che essa implica il riferimento a tre variabili che presiedono alla sua realizzazione.

La prima riguarda la dotazione di bisogni dei diversi corredi genetici. Posto infatti che essi, in quanto specie-specifici, sono rappresentati in ogni genotipo, non sono di certo rappresentati con la stessa intensità. L’ipotesi più semplice, che trova un qualche conforto a livello psicopatologico, è che la loro distribuzione segua due diverse curve, la prima delle quali riguarda la loro intensità assoluta, la seconda la loro complementarietà. Si darebbero, dunque, corredi nei quali i bisogni sono rappresentati con gradi diversi di intensità e corredi nei quali uno di essi è prevalente rispetto all’altro.

La seconda variabile fa riferimento al modo in cui l’ambiente culturale recepisce e significa i bisogni intrinseci. Da questo punto di vista, l’unico dato certo riguarda l’esistenza, comprovata dalla storia, di due diverse configurazioni culturali, la prima delle quali privilegia l’appartenenza comunitaristica, mentre la seconda riconosce l’individuo come ente differenziato da tutti gli altri e dotato di diritti suoi propri.

La terza variabile è da ricondurre ai codici culturali che ogni ambiente offre ai soggetti per sviluppare la propria personalità sulla base delle esigenze di coesione e di stabilità del gruppo sociale cui appartiene.

Specificare in maniera più rigorosa e correlare queste tre variabili è un’impresa, allo stato attuale, impossibile. Ciò che si può fare è tenere conto dell’universalità del processo di normalizzazione e tentare, in rapporto alla nostra società, di definire, sia pure in termini generali, i codici culturali che presiedono ad essa.

Ogni soggetto, venendo al mondo, va incontro ad un processo di normalizzazione, che consiste nell’interiorizzare e nell’acquisire un insieme di regole prescrittive o proscrittive il cui rispetto è ritenuto socialmente importante al fine di definire la sua appartenenza a pieno titolo (come cittadino) ad un determinato gruppo, etnia, società, nazione, civiltà. L’attribuzione alla natura umana di un bisogno intrinseco di appartenenza/integrazione sociale lascia pensare che questo processo, a differenza di quanto ipotizzato da Freud, sia favorito da una predisposizione sociale che, determinando un legame affettivo dell’infante con il mondo degli adulti, lo rende influenzabile culturalmente.

La replicazione di generazione in generazione dei valori culturali non è peraltro un processo meccanicistico, omologabile, per esempio, alla replicazione genetica. In questo caso, eccezion fatta per il sopravvenire di mutazioni, la replicazione implica la produzione di una copia identica all’originale. La normalizzazione culturale non può ambire a questa precisione, essendo ostacolata per un verso dal carattere sostanzialmente generico delle regole morali, che vanno applicate di volta in volta alle diverse circostanze della vita, e, per un altro, dalla struttura stessa della soggettività che se ne appropria e le rifrange in ordine alla sua dotazione emozionale e cognitiva.

Essa tende però, sostanzialmente, ad operare una pressione nella direzione della riduzione della varietà individuale che, all’interno di ogni società, anima il fantasma della disgregazione del gruppo e dell’anarchia.

La normalizzazione riconosce nel Super-Io un alleato potentissimo. Posta l’interiorizzazione di un sistema di valori, il Super-Io, in quanto rappresentante della società, lo adotta come un codice di valutazione non solo del comportamento individuale ma anche dei contenuti psichici consci e inconsci. Laddove questi non risultano conformi ai valori di riferimento, esso produce sensi di colpa consci e inconsci il cui fine è di promuovere una correzione dell’esperienza soggettiva nella direzione del rispetto degli stessi.

Il Super-Io presiede dunque all’adattamento dell’individuo all’ambiente culturale cui appartiene. Il suo limite funzionale consiste nel fatto che gli obblighi o i divieti cui fa riferimento sono sostanzialmente riconducibili a doveri di ruolo, che non tengono conto né della storia sociale e interiore dell’individuo né della sua personale vocazione ad essere.

La normalizzazione tende a ridurre la varietà intrinseca ai corredi genetici e a ricondurre i modi di essere e i comportamenti entro un’alveo funzionale alla coesione e alla riproduzione sociale.

Ad essa si oppone il bisogno di individuazione, che promuove invece la differenziazione del modo di sentire, di pensare e di agire del singolo soggetto sulla base della sua personale vocazione ad essere.

L’individuazione, che fa capo ad un bisogno intrinseco non meno radicale di quello che presiede la normalizzazione, si realizza necessariamente in virtù di fasi critiche che raggiungono l’acme a livello adolescenziale. Le fasi critiche sono sottese da una funzione psichica – l’Io antitetico -, in gran parte inconscia, la cui spinta motivazionale, necessaria per sottrarre l’Io all’influenza della società, si realizza attraverso l’opposizione al potere superegoico. E’ importante considerare che tale ristrutturazione è alimentata dall’Io antitetico, ma può realizzarsi solo a livello cosciente.

Se il processo di individuazione non giunge a termine, è inesorabile che si definisca una scissione del patrimonio dei bisogni e un conflitto tra il Super-Io e l’Io antitetico, l’uno che rimane attivamente garante del rispetto dei valori normativi, l’altro che si attesta su di un’opposizionismo più o meno radicale, che fa riferimento ad un sistema di valori antitetici.

Adottando questa ottica, struttural-dialettica, è evidente che ogni esperienza individuale, al di là delle interazioni interpersonali e dei vissuti soggettivi, è caratterizzata da un’infrastruttura culturale che comporta valori normativi interiorizzati, valori antitetici e, eventualmente, nuovi valori che l’Io cosciente riesce a produrre mediando e integrando gli uni e gli altri.

L'attenzione ai valori culturali, che storicizzano le forme psicopatologiche, fa della psicopatologia dialettica uno strumento privilegiato di indagine sulle ideologie sociali e su come esse si rifrangono, attraverso la mediazione del gruppo di appartenenza, a livello soggettivo.

L'impresa di estrapolare dalle strutture psicopatologiche i codici culturali che le sottendono e di correlare questi codici alle ideologie sociali attive nel contesto della nostra civiltà è, però, estremamente ardua. Deve essere chiaro fin da ora che l’intento — criticabile ma non equivocabile — non consiste nel dimostrare che le esperienze psicopatologiche contemporanee riflettono, distorcendoli, i sistemi di valori propri del contesto socioculturale in cui essi si realizzano. Nessuno pone in dubbio, ormai, che gli uomini siano figli del loro tempo. Intendo piuttosto dimostrare che quei sistemi di valore, siano essi tributari della logica comunitaristica o di quella individualistica, sono adialettici, vale a dire non forniscono strumenti adeguati per integrare la doppia natura dell’uomo.

A tal fine occorre tenere conto di una contraddizione intrinseca alla nostra civiltà, rilevata già cinquant’anni orsono da K. Horney (op. cit.), che si sovrappone al dramma della doppia natura umana e lo complica.

In nessuna società, forse, fatta eccezione per gruppi primitivi nei quali i comportamenti individuali sono fortemente ritualizzati, si dà un quadro di valori normativo assolutamente coerente e integrato. Lo sviluppo storico riconosce molteplici fasi evolutive nel corso delle quali il conflitto tra diversi sistemi di valori ha prodotto una situazione anomica. Basta pensare al passaggio dalla cultura pagana a quella cristiana, al passaggio da questa alla cultura laica e illuministica, ecc.

In nessuna società però, come nella nostra, si è verificata la convivenza tra due sistemi di valore incompatibili tra loro quali il Cristianesimo e il Liberismo: comunitaristico, solidaristico e incentrato sulla virtù del sacrificio l’uno; individualistico, competitivo e fondato sull’autorealizzazione sociale dell’individuo l’altro. Se si tiene conto del fatto che tali sistemi di valore influenzano, sia pure in misura diversa a seconda del contesto ambientale (familiare, scolastico, ecc.), l’evoluzione di ogni personalità e giungono a far parte dell’infrastruttura profonda della stessa, non è azzardato affermare che la nostra cultura riconosce una dissociazione intrinseca che può ovviamente riverberarsi facilmente nella trama della soggettività.

L’universo psicopatologico è l’ambito di fenomeni in cui questa scissione riesce in assoluto più evidente.

Ogni struttura psicopatologica si articola, infatti, su di una visione del mondo interno ed esterno incentrata su di un codice culturale che distingue, nella natura umana, nelle relazioni interpersonali e nella società, un "alto" e un "basso". La pressione dei codici di normalizzazione — l'uno di matrice religiosa, l'altro laico-liberale — è restituita immediatamente dalla connotazione dell'alto in termini spirituali — di perfezione morale e intellettuale —, o in termini sociali — di potenza e di prestigio, e, viceversa, dalla connotazione del basso in termini rispettivamente di immoralità, degradazione, “vizio” o di inadeguatezza, mediocrità, disvalore. Ogni struttura, per quanto riguarda la funzione superegoica, può configurarsi come tributaria dell'una, dell'altra ideologia o di entrambe.

Essa però comporta anche, per effetto dell’Io antitetico, un rovesciamento delle categorie, in conseguenza del quale la perfezione morale si pone come inibizione dei desideri, bigottismo, soggezione ad un potere trascendente e la potenza sociale come egoismo, individualismo, volontà illimitata di potenza ad ogni costo. A ciò corrisponde, una rivalutazione, per un verso, della libertà, della spontaneità dell’abbandono ai desideri, e, per un altro, dell’anticonformismo, del venir meno della soggezione al giudizio sociale, della contestazione delle regole tradizionali.

Posto che queste categorie risultino scisse e in opposizione, l’Io cosciente, quali che siano i suoi livelli di consapevolezza, è costretto ad operare una scelta. Il termine scelta è peraltro impreciso. La scissione del Super-io e dell’Io antitetico produce infatti regolarmente la scissione dell’Io che, come ha intuito Freud, è rappresentato anche a livello inconscio. La scelta in questione consiste, dunque, da parte dell’Io cosciente nello sviluppare un Ideale dell’Io deputato a tenere in equilibrio il conflitto privilegiando una delle due polarità.

Si può facilmente capire che gli Ideali dell’Io, vale a dire i modelli verso cui il soggetto si orienta con l’intento, spesso inconsapevole, di stabilizzare il conflitto strutturale, hanno un’importanza fondamentale dal punto di vista psicopatologico. Essi, infatti, di solito, privilegiando un bisogno e reprimendo l’altro, concorrono ad aumentare la scissione strutturale e ad intensificare il conflitto.

Gli Ideali superegoici promuovono, infatti, una integrazione sociale che postula la frustrazione del bisogno di opposizione; gli Ideali antitetici, viceversa, promuovono un'individuazione pagata al prezzo della frustrazione del bisogno di integrazione sociale.

Sul piano psicopatologico, solo raramente gli Ideali dell’Io sono denunciati dal soggetto. Più spesso, essi si pongono come difese inconsapevoli dell’Io dalla turbolenza dinamica che lo minaccia. Ciò non toglie che, nell’ottica struttural-dialettica, le difese non sono solo meccanismi psichici: esse, infatti, implicano sistemi di valori culturali.

Un’analisi di tutti i codici culturali che sottendono questi Ideali, che si sovrappongono alla pressione esercitata a livello inconscio dal Super-Io e dall’Io antitetico, va al di là dei limiti di questo saggio. Mi limito pertanto a riportare una tabella nella quale tento di dare loro un ordinamento logico.

Codici culturali

Un dato significativo della psicopatologia contemporanea è la persistente incidenza dei codici culturali di matrice religiosa, associata, però, alla incidenza crescente dei codici culturali di matrice liberale. A differenza dei primi, ormai ben noti e sostanzialmente repressivi, il sistema di valori culturale liberale è apparentemente propositivo, poiché promuove l'affermazione personale, il prestigio, la libertà, la razionalità pragmatica,. Un’analisi approfondita di tale sistema porta però facilmente a capire che esso è animato in realtà da quattro nuclei fobici, che fanno capo all'essere inadeguato e impotente, all'esibizione di comportamenti che attestano origini miserabili o una condizione attuale di indigenza, al trovarsi in una condizione di penosa costrizione che attesta l'appartenenza al mondo simbolico degli schiavi, e alla manifestazione di una sensibilità che, in quanto debolezza, rende vulnerabili ad un attacco. Questi quattro nuclei fobici integrano altrettanti codici culturali, che possono essere definiti rispettivamente come adultomorfo, rupofobico, claustrofobico, anestetico.

L'interesse analitico che dedicheremo ad essi è imposto dalla pressione ideologica che esercitano a livello psico-sociologico. Ma ciò non deve indurre ad ignorare che la loro pretesa imperialistica urta ancora contro la sopravvivenza, a livello di storia sociale, di codici antitetici sia di ispirazione religiosa che socialista e marxista. L'analisi dei codici neoliberali ha, dunque, un carattere parziale e non esauriente, il cui scopo è, anzitutto, di mettere a fuoco una possibile metodologia dialettica di ricerca sulle ideologie sociali.

Analizzeremo, ora, i singoli codici, accennando alle loro matrici storiche quanto basta per comprendere la configurazione che essi hanno assunto a livello di mentalità: una configurazione psicologica e astratta, che permette ad ogni individuo, che li interiorizzi, di sentirsi integrato nel suo essere e nella società. La psicopatologia contemporanea, nella misura in cui amplifica questo effetto normalizzante in virtù dell'opposizionismo, rivela il carattere alienante di quei codici in rapporto al corredo dei bisogni umani.

6. 1 Il codice adultomorfo

Alle sue origini, che coincidono con l'avvento della borghesia, il codice adultomorfo si contrappone a due modelli negativi: quello delle masse popolari, e soprattutto dei poveri, fondato su un'incoercibile tendenza all'ozio e all'abbandono agli appetiti "bestiali", e quello nobiliare, parassitario e frivolo. Entrambi questi modelli sono colti come esempi d'imprevidenza e di dipendenza — passiva l'una, tirannica l'altra —: espressioni, dunque, di debolezza di carattere dovuta a lassismo morale.

In contrapposizione ad essi, il modello adultomorfo propugna la forza di carattere come attributo proprio dell'uomo nuovo. Per quanto questa possa far capo ad una predisposizione individuale, essa va promossa e forgiata attraverso un'educazione rigorosa, mirante ad espungere dalla natura umana i germi maligni che essa alligna. Tale educazione deve inculcare nel soggetto la fiducia nelle sue capacità individuali, l'accettazione della competizione e della lotta come legge dell'esistenza, l'etica del lavoro e, come obiettivi ultimi, l'indipendenza e l'autosufficienza.

Proposto originariamente come modello di normalità e di maturità valido universalmente, il codice adultomorfo è venuto ad urtare rapidamente contro un problema inerente la struttura sociale: l'impossibilità di concedere a tutti le stesse opportunità di sviluppo, e la necessità fisiologica di mantenere una quota della popolazione in uno stato di indigenza. L'ostacolo è stato utilizzato paradossalmente: anziché emarginati dal sistema, i poveri sono divenuti i rappresentanti di una categoria — quella degli esseri deboli e privi di tensione morale — che, per demeriti personali, nonché elevarsi, tende a scivolare verso il basso. Ciò ha permesso di significare quella categoria come un fantasma fobico, atto ad alimentare una dinamica sociale di fuga verso l'alto.

Un'ulteriore estensione della categoria è più recente, e si deve, in larga misura, alla scoperta psicoanalitica del bambino come rappresentante ottimale di essa, in quanto radicalmente bisognoso e dipendente dagli altri. Questa scoperta ha provocato un ulteriore rafforzamento del codice adultomorfo, che è giunto a configurare, in ogni vicenda individuale, una soluzione di continuità tra esperienza infantile ed esperienza adulta: soluzione critica che fa coincidere la morte del bambino con la nascita dell'adulto come essere forte, autonomo, autosufficiente, capace di affrontare il mondo e di lottare per affermare la sua potenza.

La contestazione fascista del modello adultomorfo borghese, giudicato mediocre, egoisticamente dedito all'interesse privato e scarsamente incline a correre dei rischi, è stata integrata al modello stesso, con l'effetto di togliere ad esso ogni residua valenza morale.

Dagli anni '70 in poi, il codice adultomorfo è giunto a definirsi nei termini di una cieca volontà di affermazione contro tutto e contro tutti. Ma la realizzazione di questa volontà impone di nascondere e di negare ogni bisogno che possa essere vissuto e interpretato come debolezza.

L'effetto del codice adultomorfo a livello educativo consiste nel pretendere dai bambini prove sempre più precoci della loro predisposizione a divenire indipendenti e forti di carattere. Dall'adolescenza in poi, l'influenza delle istituzioni educative viene soppiantata dai mass-media, che, con frequenza sempre maggiore, propongono dei modelli di normalità di tipo adultomorfo. La somma di questi effetti è l'introiezione di un ideale superegoico che fa incombere una cappa di ridicolo e di vergogna su tutti gli aspetti della personalità che, alla luce di esso, rientrano nella categoria della debolezza e dell'inadeguatezza.

La crescente pressione a livello di mentalità del codice adultomorfo e attestata da numerose esperienze psicopatologiche.

In alcuni casi, l'introiezione del codice adultomorfo orienta gli individui ad un perpetuo inseguimento di una normalità che è sempre lì lì per essere realizzata, ma fugge in avanti come un miraggio. Sotto il profilo sociale, queste esperienze, incentrate spesso su una dedizione totale allo studio e al lavoro, danno luogo a risultati eccellenti. Ma, a livello di vissuto, i soggetti continuano a vivere nell'incubo di essere inadeguati e non all'altezza rispetto all'ideale superegoico. Ciò li induce a non sentirsi mai soddisfatti, e ad investire quote sempre maggiori di energie nella direzione di una piena realizzazione di sé, che li affranchi da un'angoscia penosa e perpetua di precarietà, che fa riferimento ai bisogni personali mortificati in nome del codice adultomorfo. Questa dinamica, che fa capo alla struttura ossessiva, può, ovviamente, evolvere in molteplici direzioni psicopatologiche.

Più drammatiche sono le esperienze — sempre più frequenti nel corso degli ultimi anni — di soggetti che, in nome del codice adultomorfo, rifiutano di vivere l'adolescenza e, al suo esordio, si chiudono in una rigida maschera di autocontrollo.

La negazione dell'esperienza infantile, vissuta drammaticamente, e la paura di esporre la propria inadeguatezza agli occhi di un mondo cui si attribuisce un univoco metro di misura adultomorfo creano i presupposti di catastrofi psicologiche di vario genere. Talora, in conseguenza di una totale inibizione della vita sociale, esse sono repentine, configurandosi sui registri del delirio di vulnerabilità, di innocenza o di colpa. Talaltra, esse evolvono lentamente. La persistente dipendenza familiare viene occultata, il più spesso, da atteggiamenti di distacco, di sfida e, talora, di prepotenza tirannica.

A livello sociale, l'identificazione dell'Io con un ideale adultomorfo promuove o un atteggiamento di fredda superiorità sui coetanei o la tendenza ad imporsi ad essi nella logica della legge del più forte.

Non di rado, la paura di manifestare la debolezza o la sottomissione dà luogo all'esibizione di comportamenti temerari e rischiosi come pure a una spiccata tendenza a sfidare l'autorità costitutiva. Talora questi atteggiamenti si radicalizzano, configurandosi un delirio di trasgressione.

L'esito di queste esperienze è sufficientemente prevedibile. O il soggetto, infatti, deteriorati tutti i rapporti sociali, si ritira in una solitudine animata da vissuti rabbiosi di riscatto onnipotente; o egli comincia a sentirsi smascherato nel suo vergognoso "nanismo" da sguardi, allusioni, dicerie e calunnie, che inducono spesso una reazione violenta.

6. 2 Il codice rupofobico

Mentre il codice adultomorfo ha conosciuto una progressione lineare, vanamente ostacolata dal conservatorismo religioso e politico, oscillando solo tra l'esaltazione della potenza individuale in nome dei fini supremi dello stato o dei fini privati, il codice rupofobico, codice di differenziazione incentrato sulla categoria adialettica pulito/sporco, ha una storia più complessa.

Le sue origini sono molto più antiche dell'avvento della civiltà borghese, risalendo alla contestazione cristiana del formalismo farisaico, alla cui moralità meramente esteriore viene contrapposta una moralità interiore, che propone all'uomo una lotta perpetua contro tutto ciò che di sporco agita la sua anima per effetto del Maligno.

Codice morale e, successivamente nel corso del Medioevo, codice igienico, mirante a scongiurare i contagi, esso, a partire dal Settecento, si è definito come codice sociale, devoluto a sottolineare la differenza di rango, soprattutto in rapporto alle necessità o meno di sporcarsi lavorando.

Valenze morali e valenze sociali sono poi confluite nell'ideologia della rispettabilità borghese, che implica un'intima corrispondenza tra forme esteriori e valori interiori. Alla luce di questa ideologia, l'elevazione sociale è imprescindibile da un'elevazione culturale e spirituale: lo sporco, dunque, viene ad identificarsi con la miseria, la volgarità, l'animalità istintuale, il disordine morale; il pulito, viceversa, con l'agiatezza, la superiorità, la distinzione, l'autocontrollo istintuale, la cultura e la moralità.

Proponendo un sistema di valori che associa allo status e al rango la funzione di indicatori sociali, morali e culturali, il codice rupofobico borghese tende a squalificare tutto ciò che, nella natura umana non meno che nel corpo sociale, sta in basso come primitivo, selvaggio, non evoluto, e quindi tendenzialmente amorale e asociale.

Da questo punto di vista, si può comprendere in quale misura la psicoanalisi freudiana, accreditando la teoria istintualistica, e cioè attribuendo alla natura umana un corredo filogenetico che postula la repressione come momento individuale e collettivo di civilizzazione, abbia contribuito a convalidare quel sistema di valori.

In tempi più recenti, il codice rupofobico ha subìto però un'ulteriore trasformazione. Le esigenze del capitalismo avanzato hanno trasceso la morale dell'ascetismo e della rinuncia al piacere su cui si fondava, nell'Ottocento, la rispettabilità. L'ascesa sociale e intellettuale delle classi superiori, cooptate al consumismo, ha imposto nuovi criteri di differenziazione. Nell'ottica neoliberale, stare in alto non implica più la rispettabilità, valore ormai ampiamente condiviso da tutte le classi, eccezion fatta per la categoria degli emarginati, bensì l'ostentazione di status symbols attestanti il prestigio e il successo.

Il codice rupofobico contemporaneo identifica nel lusso e nel consumo di beni materiali e culturali riservati a pochi — dai capi d'abbigliamento alle opere d'arte — l'indice di una condizione sociale prestigiosa, il cui potere di differenziazione come vedremo ulteriormente — consenta anche l'affrancamento dalla morale comune; lo stare in basso è, di conseguenza, definito immediatamente dalla miseria e in maniera indiretta da un consumo costretto entro i confini di beni necessari.

La psicopatologia contemporanea restituisce compiutamente la storia del codice rupofobico, sino alle più estreme e più recenti configurazioni.

In alcune esperienze, facenti capo alla struttura ossessiva e a quella depressiva, la necessità di occultare e di mortificare gli istinti sembra fare immediatamente riferimento ad un ideale superegoico che coincide punto per punto con l'ideologia della rispettabilità borghese, che privilegia le pubbliche virtù.

In altre ancora, di matrice religiosa, la frustrazione istintuale non si esaurisce a livello di maschera sociale, ma impone al soggetto l'identificazione con un ideale superegoico la cui elevatezza morale e culturale è attestata dalla repressione di ogni vizio privato.

Confuse con la sociologia della vita quotidiana sono molte esperienze, soprattutto femminili, nelle quali l'amore per il decoro, l'ordine, la pulizia e l'igiene investe l'ambiente domestico. In tali casi, l'elevatezza dell'ideale superegoico è restituita direttamente dall'entità delle prestazioni erogate, che danno la misura della schiavitù dell'Io rispetto ad un occhio inquisitorio superegoico perennemente attento a scovare indizi sia pure minimali di disordine e di sporcizia.

Gli effetti del codice rupofobico neoliberale sono imponenti a livello giovanile. In molti casi, esso si somma al codice adultomorfo e dà luogo ad un'identificazione onnipotente dell'Io, che impone di esibire e di ostentare la prova di appartenenza ad un "razza" superiore. Ciò può avvenire in maniere molteplici. Talora l'individuo è indotto ad un aristocratico distacco e isolamento rispetto al mondo: il valore che egli si attribuisce, in tali casi, si fonda su autentiche qualità di ordine intellettuale e morale. Ma tali qualità sono irretite da un ideale superegoico, che promuove un disprezzo viscerale nei confronti di un mondo vissuto come degradato, tal che il soggetto deve rifuggire da ogni contatto con esso. In altre esperienze la superiorità è esibita sotto forma di qualità personali, — fisiche, culturali, economiche — la cui ostentazione mira a sedurre gli altri, senza che si instauri alcun rapporto intimo.

La frustrazione del contatto con il mondo che queste esperienze comportano è, naturalmente, esposta a molteplici sviluppi psicopatologici.

Non si può ignorare, infine, che il codice rupofobico, non meno di quello adultomorfo, e spesso condensato con esso, è all'origine del disagio sociologico che investe larghe fasce giovanili di matrice non abbiente. Tale disagio, caratterizzato da un sentimento di impotenza e di umiliazione sociale, promuove deliri di onnipotenza, ma anche, e in misura maggiore, fenomeni di criminalità orientati a colmare uno scarto vissuto come espressione di disvalore personale e familiare.

6. 3 Il codice claustrofobico

Se il mito gerarchico ha segnato la storia dell'umanità, configurandola come storia di schiavitù, servaggi e sottomissioni, l'aspirazione alla libertà deve avere sempre animato, sotterraneamente, i cuori umani. Ma il tradursi di questa aspirazione in un codice claustrofobico, che identifica la libertà con l'affrancamento da ogni legame e da ogni costrizione, è di data recente. La scoperta di questo codice, sia pure inconsapevole, la si deve a Freud. Questi, esplorando gli universi soggettivi come pareti di caverne sulle quali vede riflettersi fantasmi di cui non può cogliere il nesso con le strutture — sociali e mentali — della realtà che in essa, con la mediazione del soggetto, si riflettono amplificandosi, coglie in quei fantasmi la prova della asocialità e amoralità della natura umana. A posteriori, tenendo conto del contesto storico ancora impregnato di conservatorismo gerarchico, è agevole vedere in essi l'espressione di un bisogno di individuazione alienato, costretto ad esprimersi nella forma del rifiuto e dell'attacco ad ogni vincolo coercitivo, sia pure esso di natura affettiva.

Il fraintendimento di Freud è dovuto al fatto che questo codice si definisce in un contesto di civiltà che ormai da circa un secolo ha riconosciuto formalmente la libertà individuale come attributo e diritto proprio di ogni essere umano.

A metà del sec. XVIII, Rousseau (Emilio, in Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1972, p. 353) ha preconizzato il dramma della scissione tra esigenza sociale e natura umana, sostenendo che produrre un cittadino e produrre un uomo sono processi antitetici, sì che si sarebbe dovuto incidere in un senso o nell'altro, essendo le due cose incompatibili.

Nei Manoscritti del '44 Marx (Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1970 p. 75) documenta il prezzo pagato alla produzione del cittadino borghese dal proletariato, che rappresenta una nuova forma di schiavitù:

«...l'uomo (l'operaio) si sente libero solo nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt'al più l'abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane (cioè il lavoro). Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale».

In virtù del suo osservatorio particolare, Freud scopre qualcosa di più drammatico: la trasformazione dei bisogni di libertà in pulsioni anarchiche nel cuore stesso del cittadino borghese. E non si tratta di una scoperta riducibile nell'ambito psicopatologico, o a un contesto conservatore. Ne Il disagio della civiltà, Freud infatti la estende all'intera società europea, individuando negli eccessi della civilizzazione borghese la causa di un malessere psicologico diffuso. Il prezzo di questi eccessi, che tendono, peraltro, a cooptare tutte le classi sociali, è la dissociazione tra comportamento sociale ed esperienza interiore: più il primo sembra conformarsi ad un modello di "urbanità", più la seconda si anima di convulse fantasie anarchiche, che attestano la pressione di un desiderio di libertà avverso ad ogni convenzione sociale e ad ogni legame affettivo.

Quest'ultimo aspetto sgomenta Freud. Che l'uomo, con la sua natura pulsionale, mal si adatti alle esigenze della vita sociale è, nella sua ottica conservatrice, un fatto ovvio; ma che la natura umana si ribelli anche al dolce gioco degli affetti privati, e li attacchi in nome di una cieca distruttività, appare a Freud mostruoso. Al punto che egli è costretto a riconoscere questa distruttività solo nella forma del parricidio fantastico, nonostante la sua esperienza lo ponga di fronte al fatto che, nei contesti familiari, la rabbia distruttiva può investire tutti i rapporti, e promuovere dunque fantasie di parricidio, matricidio, uxoricidio, figlicidio, fratricidio.

Il codice claustrofobico è il codice di una libertà individuale in opposizione ad ogni forma di legame sociale: libertà dunque che postula l'attacco e la dissoluzione dei legami.

Freud non può comprendere che non sono i legami interpersonali e sociali in sé e per sé ad essere odiati, ma ciò che in essi scorre: i sistemi di valori mortificanti, mistificanti, alienanti. Ma nessun altro, a dire il vero, sembra in grado di comprendere il dramma sociologico e psicologico di un bisogno di libertà che è esploso entro forme sociali e mentali che lo riconoscono solo in astratto, giuridicamente, ma di fatto lo soffocano, distorcendolo. Consiste in questo la crisi dell'ideologia liberale, che, mossa dall'intento di affrancare le potenzialità dell'individuo e della società nel suo complesso dalle costrizioni del mito gerarchico repressivo, rappresentato dallo stato e dalla chiesa, è giunta ad atomizzare l'individuo e a configurare una società civile all'interno della quale, sia a livello pubblico che privato, ciascuno si sente oppresso dall'altro.

L'ideologia fascista muove dalla crisi della civiltà borghese, che rende l'individuo avverso ad ogni progetto di riforma sociale e, nel contempo, intimamente anarchico, e tenta di risolverla riabilitando un sistema di valori collettivi atto a porre la volontà di affermazione personale, incentivata al massimo, al servizio del corpo sociale, della nazione e dello stato. Ma questa soluzione, nonché risolverlo, sposta il problema: le nazioni che la adottano giungono a sentirsi costrette entro una camicia di forza di convenzioni formali, diplomatiche. Il codice claustrofobico, che sottende l'ideologia nazionalista, esplode nell'anarchia della politica di potenza, del razzismo e della guerra.

Il sistema liberale, nel dopoguerra, non può non tener conto della crisi che ha minacciato la sua sopravvivenza. Ma, non potendo esso rinunciare all'opposizione tra libertà individuale e uguaglianza sociale, che rappresenta l'elemento dinamizzante la gerarchia sociale, l'individualismo va rilanciato inducendo un'ulteriore accentuazione claustrofobica dei legami sociali. Nonché repressa, l'aggressività viene assunta come un aspetto proprio della natura umana e autorizzata nella misura in cui essa viene devoluta a fini competitivi. In conseguenza di ciò, la moralità borghese viene riformulata e perde ogni residua connotazione religiosa. Il ceto dominante, scaricando sui ceti subalterni i valori tradizionali dell'autocontrollo emotivo e della frustrazione pulsionale, riabilita una teoria della élite che le consente di farsi promotrice di nuovi valori. Il rispetto dell'autorità viene soppiantato da una polemica antiburocraticista, che assume talora connotazioni di antistatalismo; la rispettabilità da un anticonformismo più o meno radicale incline alla sperimentazione di nuovi costumi morali; l'etica della rinuncia al piacere dall'edonismo. Ostentata senza pudore e propagandata dai mass-media, la teoria di un'élite, che sembra affrancata da ogni costrizione e irreversibilmente felice, incide nell'immaginario collettivo, schiacciando la società civile sotto il peso di un quotidiano, pubblico e privato, che non può non essere avvertito come penoso.

Non è più, come ai tempi di Freud, la repressione pulsionale — venuta apparentemente meno in conseguenza della valorizzazione dell'aggressività competitiva e della liberazione sessuale — a generare disagio sociologicamente, bensì la proposizione di modelli di libertà irraggiungibili che, a livello individuale e collettivo, funzionano come miraggi atti ad alimentare una dinamica sociale orientandola verso il regno della libertà identificato con il paradiso artificiale dei V.I.P.

Trattandosi, però, di un paradiso necessariamente riservato a pochi, non c'è da sorprendersi per il fatto che la diffusione del codice claustrofobico si traduca, negli altri, in sterili fantasie di liberazione dai pesi della vita. La psicopatologia contemporanea restituisce il codice claustrofobico nelle due versioni che esso ha sinora assunto. In alcune esperienze, tipicamente ossessive, esso si manifesta con la stessa fenomenologia descritta da Freud. Ma, in questi casi, la libertà, proprio perché si presenta con fantasie tali da evocare immediatamente la paura di un'esclusione radicale sociale, rimane inespressa sotto il profilo comportamentale, quando addirittura non dà luogo ad un aumento del controllo.

In altre esperienze, che rientrano nell'ambito isterico, l'esplosione della libertà claustrofobica avviene dopo lunghi periodi di normalizzazione. A differenza del passato, quando esitavano rapidamente in disagio psichico, queste esperienze, grazie a nuove possibilità offerte dal sistema sociale, danno luogo a rivoluzioni private a vicolo cieco. Sollecitate da una incoercibile ansia di libertà, le persone attaccano tutti i legami con la realtà, separandosi dalla famiglia, abbandonando il lavoro, cambiando abitudini di vita. Si tratta di una vera muta, che, prima o poi, dà luogo a crisi psicopatologiche, di solito depressive, dovute sia ai sensi di colpa che alla delusione legata alla scoperta della difficoltà di realizzare un'autentica libertà al di là del movimento rivoluzionario di affrancamento dalle catene del quotidiano. Quando il codice claustrofobico si attiva precocemente, a livello giovanile, gli esiti possono essere diversi. Talora, esso si traduce in una rivoluzione passiva: i soggetti abbandonano la scuola, rifiutando ogni impegno costrittivo, come ad es. il lavoro, si ribellano ad ogni legame parentale e al senso del dovere, si votano ad un'inerzia speso alimentata da sogni di onnipotenza. Talaltra, la rivoluzione imbocca direttamente il tunnel della trasgressione sistemica, sia nel contesto familiare che a livello sociale. Per qualche tempo, può sembrare che questi soggetti amino solo la "bella vita": di fatto, via via che le esperienze progrediscono, risulta chiaro che esse sono animate da una sfida "viscerale" nei confronti dell'ordine esistente, vissuto come una universale prigione, che postula, in nome di una libertà astratta, la messa in gioco dell'identità personale e sociale, e talora della vita stessa.

6. 4 Il codice anestetico

«Storia e sensibilità: ecco un argomento nuovo»: è l'esordio di un articolo di L. Febbre (Problemi di metodo storico, Reprint Einaudi, Torino 1976, pp. 121 e seg.) del 1941. L'argomento, di fatto, è nuovo per gli storici piuttosto che per la storia. Su cos'altro fonda il suo potere il mito gerarchico se non sulla capacità di catturare la sensibilità umana, e di piegarla alla sottomissione ad un'ideologia dominante — religiosa, politica, culturale — che sancisce l'appartenenza dell'individuo al gruppo sociale, e risponde ad un bisogno primario di sicurezza e di identità?

La novità della proposta di Febvre consiste nell'inaugurare e nel promuovere una riflessione critica sulle configurazioni ideologiche che, istituzionalizzando la vita affettiva, la determinano, a livello collettivo non meno che individuale, ad esprimersi e a manifestarsi fenomenologicamente in certi modi piuttosto che in altri egualmente possibili. Senza alcun riferimento a Freud, ma con un esplicito riferimento a Wallon, Febvre contesta il soggettivismo psicologico, e cioè l'assunzione della vita emozionale come espressione primaria e irriducibile dell'individualità. Una lunga citazione, che promuove un nuovo approccio al problema, si impone:

«È importante notare che le emozioni… hanno un carattere particolare da cui non può fare astrazione in tal caso chi si occupi della vita sociale dei suoi simili. Esse implicano rapporti fra uomo e uomo, relazioni collettive.

Nascono senza dubbio nelle profondità organiche di un dato individuo e spesso in occasione di un evento che colpisce solo questo individuo o almeno lo tocca con una gravità, con una violenza particolare. Ma si esprimono in modo tale, o meglio la loro espressione è il risultato di una tale serie di esperienze di vita comune, di reazioni simili e simultanee all'urto di situazioni identiche e di contrasti della stessa natura, o meglio ancora è il frutto di una tale fusione; di una tale riduzione reciproca di diverse sensibilità che velocemente acquistano il potere di provocare fra tutti i presenti — per una specie di contagio mimetico — il complesso affettivo — motore corrispondente all'avvenimento sopraggiunto e risentito da un solo. Così, a poco a poco, le emozioni, associano diversi partecipanti che sono a loro volta iniziatori e seguaci, arrivando a costituire un sistema di incitamenti interindividuali che si diversifica a seconda delle situazioni e delle circostanze, diversificando insieme le reazioni e le possibilità di ognuno. Tanto più che una volta stabilitasi questa concordia, regolatasi la simultaneità delle reazioni emotive e rivelatesi di natura tale da conferire al gruppo una sicurezza maggiore o una maggior potenza, si trova ben presto l'utilità di giustificare la costituzione di un vero e proprio sistema di emozioni. Esse diventano come un'istituzione. Sono regolate alla stregua di un rituale».

Questo approccio rende conto della proposta rivolta da Febvre agli studiosi di scienze umane e sociali: «L'apertura di una vasta inchiesta collettiva sui sentimenti fondamentali degli uomini e la loro modalità». Una storia, dunque, come suggerisce Febvre, dell'Amore, della Paura, della Morte, della Pietà, della Crudeltà, della Gioia: una storia infine della Sensibilità attraverso i quadri mentali che, comuni a tutta una società in un dato momento ma non percepiti o scarsamente percepiti dai contemporanei, impongono alla vita affettiva, non meno che al pensiero e al comportamento, regole e valori che prescrivono o proscrivono le sue modalità espressive, a livello collettivo e individuale.

La proposta di Febvre è stata accolta e approfondita dagli storici della scuola "Les Annales", ma è stata ignorata dalle scienze psicologiche e psichiatriche. Inopportunamente, perché, anzitutto, i codici mentali inerenti il rapporto tra ragione ed emozioni seguono la loro stessa storia. Pinel che libera i folli dalle catene rappresenta, non solo inconograficamente, la ragione illuministica che presume di poter funzionare come una buona medicina per ogni tipo di disordine passionale. Kraepelin, altresì, rappresenta il razionalismo borghese positivista, che, dall'alto di un supremo autocontrollo emotivo, pretende di oggettivare fatti umani carichi di intense risonanze emozionali. Freud, infine, conscio della crisi del razionalismo, ma, nondimeno, incapace di rinunciare ad un'ottica positivista, tenta la quadratura del cerchio, creando una metodologia atta a far affiorare la vita emozionale con le sue connotazioni passionali e, nel contempo, ad imbrigliarla entro un set interpersonale capace di controllarla e a squalificarla entro una cornice teorica che vede in essa solo l'infinito disordine della natura cui può porre rimedio solo una cultura illuminata.

Ancora oggi, in ambito psichiatrico, ai teorici dell'empatia, che identificano in un generico — e solitamente ipocrita — "calore" umano l'elemento terapeutico per eccellenza, si contrappongono, in misura crescente, i teorici dell'intervento meramente tecnico, i quali ritengono necessario, a fini terapeutici, oggettivare, manipolare esperienze umane, e, soprattutto, non lasciarsi coinvolgere nei giochi senza fine di cui i disagiati psichici sarebbero maestri. Il codice iperestesico della vibrazione empatica si contrappone, in ambito psichiatrico, al codice anestetico dell'oggettivazione tecnicistica. Il presente, anche sotto il profilo specialistico, riassume il passato, e prefigura, per la massiccia pressione del codice anestetico, un futuro inquietante.

Occorre, necessariamente, ripercorrere i quadri mentali inerenti la sensibilità per capire ciò che sta avvenendo a livello psicopatologico, oggi.

Con i suoi ideali di libertà e di giustizia, frustrati secolarmente, l'illuminismo, che non è affatto preda del mito di una fredda ragione, mette in movimento, in tutta Europa, uno sconvolgimento emozionale di massa, che rapidamente si configura come incontrollabile.

La civiltà borghese che utilizza, per affermarsi, questo sconvolgimento, orientato verso l'assolutismo conservatore e la religione, si legalizza contrapponendo all'isterismo delle masse popolari, inclini alle passioni, ai pregiudizi e alle superstizioni, il modello morale e sociale del gentiluomo dotato di un perfetto autocontrollo emotivo e capace di mantenere, in ogni circostanza, un atteggiamento equilibrato. Uno degli elementi costitutivi della forza di carattere, necessaria ad affrontare attivamente le difficoltà della vita, diventa il "sangue freddo", che, a differenza del sangue blu, può essere acquisito solo in virtù d'un'educazione mirante a temperare e a controllare gli eccessi passionali propri della natura umana.

Il codice dell'autocontrollo emotivo, che non è ancora un codice anestetico, implica un rapporto pragmatico con il sociale, un ritiro nel culto degli interessi privati e degli affetti familiari, un bisogno estremo di sicurezza che giunge, rapidamente, a configurare il modo d'essere borghese sul registro dell'aurea mediocritas. La misura emotiva è in realtà, un difetto di spontaneità, che mortifica l'identificazione con l'altro e sconsiglia, al di là del sistema familiare, ogni autentico investimento emozionale. Questa ideologia, vagamente ossessiva, fondata sul calcolo, sulla previdenza e sulla prudenza, promuove una serie di reazioni irrazionalistiche il cui rappresentante principale è Nietzsche, che al modello borghese contrappone l'uomo dionisiaco, il barbaro capace di dare sfogo a tutte le passioni positive — l'orgoglio, la gioia, l'amore sessuale, l'odio, la brama di potere. In realtà, l'irrazionalismo nietzschiano coglie un pericolo reale: che l'uomo rinunci a "sentire" per vivere tranquillo, e che il suo orizzonte vitale si esaurisca nella difesa della sua vulnerabilità emozionale rispetto ad un mondo che i fenomeni dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione rendono socialmente inquietante e carico di tensioni.

Il conflitto tra bisogno di sicurezza e di appartenenza sociale, e bisogno di individuazione, il quale ultimo postula il coraggio di "squilibrarsi" emotivamente in rapporto al mondo, è colto drammaticamente anche da Freud, che, però, pur stigmatizzando le costrizioni eccessive che la civiltà pone all'espressione delle emozioni, non può non giungere a ritenere la normalità una condizione difensiva, configurandosi l'Es, con le sue passioni selvagge, come una fonte pulsionale controllabile ma, in sé e per sé, indomabile.

L'urto tra razionalismo borghese e irrazionalismo vitalistico si realizza, inesorabilmente, nel corso della seconda guerra mondiale. E lascia tracce nelle popolazioni civili, che hanno sofferto l'indicibile nella memoria collettiva.

Nel corso del dopoguerra, in rapporto agli sviluppi della scienza e della tecnologia, il richiamo alla razionalità pragmatica diventa un'ideologia ufficiale. La passionalità viene stigmatizzata come promotrice di utopie pericolose, che possono disinnescare le potenzialità distruttive che incombono sull'umanità. Coinvolti in un processo storico che ormai sembra sfuggire al controllo di chicchessia, e si tiene sul filo del rasoio di equilibri precari, gli uomini non possono trovar rifugio che in ritiro emotivo dal mondo.

Ma non si tratta di una difesa che assicura la quiete: perché il ritiro emotivo dal mondo non coincida con un'autoesclusione, occorre adattarsi razionalmente e rispondere alle pretese di una società in cui i ritmi di sviluppo diventano vieppiù affannosi. Il codice anestetico si fa carico di questa duplice necessità — di isolarsi emotivamente e di competere senza tregua — e promuove un nuovo modello antropologico: quello dell'uomo che, alla stregua di un elaboratore elettronico, valuta razionalmente i suoi investimenti nel mondo — sia a livello sociale che privato — in termini di costi e di benefici.

Anni fa, un film fantascientifico — L'invasione degli ultracorpi — aveva preconizzato l'avvento del codice anestetico: liberati dalle emozioni da una trasformazione parassitaria, che, per il resto, rispettava tutte le altre caratteristiche, fisiche e psichiche, gli individui attestavano una completa beatitudine. Il protagonista, che rifiutava visceralmente quella trasformazione, riusciva a scampare all'invasione e a dare l'allarme al mondo. In un remake più recente il lieto fine saltava: non c'era più scampo per nessuno.

La psicopatologia contemporanea, più della sociologia, che ha indotto Lasch a definire la condizione dell'Io minimo, che, sentendosi assediato e vulnerabile, mira unicamente a sopravvivere, funziona come un'inquietante documento dell'incessante pressione del codice anestetico. Già le statistiche attestano che, negli Stati Uniti, un quarto degli utenti si rivolgono a psichiatri e psicoterapeuti per una sorta di apatico interesse nei confronti della vita, che invano si tenta di inquadrare in una fenomenologia depressiva, mancando, di fatto, ogni altro sintomo che non sia un difetto di sensibilità. Ma, al di là delle statistiche, i dati tratti dalla pratica sono ancora più inquietanti. Indubbiamente, gran parte delle depressioni larvate attuali, che non compromettono l'efficienza individuale, ma tolgono la gioia di vivere, attestano la necessità di una difesa anestetica dalle tensioni della vita.

Ma c'è di più. La struttura isterica si va trasformando ed estendendo a macchia d'olio: anziché le brusche esplosioni emozionali di un tempo, essa si esprime nell'accettazione della vita nella logica della sopraffazione. Molti giochi relazionali senza fine, tra coppie coniugali o tra genitori e figli, sono caratterizzati da dinamiche sado-masochiste il cui obiettivo è l'insensibilità, che viene perseguita da ciascuno sia esprimendo cinismo che ricevendo dall'altro rappresaglie che, facendo soffrire, dovrebbero produrre una sorta di mitridatizzazione al dolore.

Più drammatica è la condizione di adolescenti che, avendo adottato il codice anestetico, tendono a socializzare a partire da una identificazione immaginaria dell'Io come invulnerabile e immune da risonanze emotive. Essi vivono, per periodi più o meno lunghi, in una maschera che attesta l'insensibilità. Ma, prima o poi, vengono ad urtare in situazioni di coinvolgimento emotivo che comportano catastrofi di destrutturazione.

Del tutto recente, infine, è un quadro psicopatologico giovanile, tributario della struttura ossessiva, caratterizzato dall'identificazione del soggetto con il computer. Tale quadro si presenta o sotto forma di un ideale dell'Io compiutamente razionalizzato, che esclude qualsivoglia squilibrio emozionale, o sotto forma di delirio.

In quest'ultimo caso il soggetto vive un'avvenuta trasformazione del suo essere, che è divenuto una macchina senza alcuna emozione: e la trasformazione giustifica il fatto che egli non solo non ne risente, ma giunge a gioirne.