Abbecedario di Scienze Umane e Sociali
(Parte di) quello che occorre conoscere per non vivere (troppo) tranquilli
Indice
Premessa
La pubblicazione di libri di psicologia volti a risolvere i molteplici problemi che gli esseri umani incontrano nel corso della vita – dal parto dolce alla buona morte – è ormai una moda che ingombra gli scaffali delle librerie e trabocca dai ripiani delle edicole. Il leit-motiv di questa letteratura di consumo è che con qualche “dritta” fornita dagli esperti e l’adozione di strategie ad hoc tutti possono raggiungere la tranquillità interiore e aspirare alla felicità, realizzando l’obbiettivo supremo di essere se stessi1.
Si tratta di una bufala che dà un’insufflatina all’Io megalomane e rattrappito2 proprio del nostro tempo.
Capire e cambiare, anche solo di una virgola, qualcosa della propria personalità richiede un duro lavoro. Bisogna, infatti, fare i conti con le trappole intrinseche al singolare congegno impiantato nella scatola cranica, con quelle, ancora più insidiose, che la cultura ha prodotto e produce per ridurre l’impegno personale di capire qualcosa della giostra della vita, e, infine, con la cronica tendenza dell’Io cosciente alla mistificazione, vale a dire a fare carte false pur di non vedere come stanno le cose (fuori e dentro di sé). Fare questi conti implica, però, sapere che queste trappole esistono e, almeno approssimativamente, come funzionano. Cosa tutt’altro che semplice in una società i cui membri, allevati nel culto della coscienza e dell’Io, sviluppano in genere, a partire dall’adolescenza, un narcisismo presuntuoso e patetico.
Bisogna insegnare alla gente ad avere orrore di se stessa, per fargli coraggio – ha scritto un filosofo3. Orrore è un termine ad effetto: un minimo di consapevolezza sulla condizione umana è imprescindibile, però, dalla messa in crisi delle certezze che quelle trappole producono, e quindi dallo stupore, dalla sorpresa e dal turbamento di viverci “naturalmente” dentro. Obbiettivo dell’Abbecedario è riuscire a provocare qualcosa del genere.
Scritto in un linguaggio adattato ad un target giovanile (dai diciassette anni in su), ma denso di contenuti il cui approfondimento richiederebbe di vivere quanto Matusalemme, il libro giunge ora ad una nuova edizione rinnovata e ampliata rispetto alla prima, esaurita da tempo. Solo l’aver varcato la soglia della terza età giustifica l’idea di tornare su di un testo venuto fuori quasi di colpo, in un’uggiosa estate di dieci anni orsono, dai recessi di un congegno che, evidentemente, aveva urgente bisogno di spurgare informazioni e umori accumulati negli anni.
Il rischio era quello di riscriverlo ex-novo, dando la stura all’impasto di rabbia critica e di pietas che si è addensata nell’anima in questo avvio del terzo millennio, del tutto buio per quanto concerne lo stato di cose nel mondo. Ho tentato per qualche tempo di limitarlo lavorando di fioretto. Ho capito, poi, che qualche sciabolata (ristrutturare alcuni capitoli, eliminare l’obsoleto, colmare alcune lacune, ecc.) non avrebbe arrecato danno. Il prodotto del rifacimento all’arma bianca è questo pamphlet.
È obbligatorio, ormai, per qualunque intellettuale rispettabile, licenziando un lavoro a stampa, affermare di non esserne soddisfatto. Mi astengo dalla formula rituale perché, dietro l’apparente umiltà, si cela di solito l’intenzione dell’autore di dare a credere di saperne più di quanto ha scritto. Per quanto mi riguarda, ritengo di aver spremuto al massimo le meningi utilizzando anche i fondi di bottiglia della mia cultura. Quello che manca (di sicuro parecchio), deve essere depositato in qualche altro congegno.
Note
1 H (happiness) = S (set point biologico) + C (condizioni di vita) + V (attività volontaria). È la formula della felicità secondo la Psicologia positiva, che sta avendo un grande successo perché rivolgendosi alle persone “normali” ma insoddisfatte, riesce ad ingannarle riconducendo la loro infelicità (indizio di una normalità mistificata) all’adozione di strategie difettose di vita, agevolmente rimediabili. Tenendo conto che il set point biologico dipende al 60% dai geni e che le condizioni di vita sono poco o punto modificabili, è evidente che il punto su cui fa leva la Psicologia Positiva è l’attività volontaria del soggetto, del quale si dà per scontata la libertà interiore. Basterebbe, insomma, per rendere positiva la formula, orientarsi verso una socialità affettivamente significativa, un’attività lavorativa affrancata dall’ossessione dello status e del consumismo, e – last but not least – la pratica di qualche valore o ideale che trascende l’individuo (se possibile mistico o religioso). Provare per credere…
2 L’ossimoro – figura retorica che consiste nell’accostare, nella medesima espressione, parole di senso opposto – è solo il primo dei tanti nei quali il lettore s’imbatterà. Più che un artificio, è una chiave della logica che occorre adottare per capire qualcosa della vita. Chiave preziosa per due motivi: primo, perché accostando gli opposti, che la mente umana produce quasi in automatico, consente di intuire la loro relazione reciproca; secondo, perché, data l’etimologia che significa “acuto sotto un’apparente stupidità”, sembra immediatamente applicabile all’uomo, ossimoro incarnato. Il problema è arrivarci, sotto.
3 Karl Marx, cultore della dialettica e, dunque, maestro di ossimori. Passato alla storia come (sciagurato) propugnatore del comunismo, ha analizzato, a ben vedere, un solo problema: come dovrebbe essere un mondo fatto a misura d’uomo. Quello che aveva sotto gli occhi evidentemente (e a ragione) non gli andava bene; quello che stolti eredi hanno tentato di costruire lo avrebbe orripilato; il nostro presumibilmente, lo getterebbe nello sconforto. Per riprendere il discorso, rimane solo da capire quale sia quella misura…
1. Tanto per cominciare
Una presentazione è d’obbligo. Io mi guadagno il pane facendo lo strizzacervelli, vale a dire aiutando le persone a scoprire che, in fondo in fondo, sono migliori di quanto pensano (e, a volte, di come agiscono). Di gente che accetta di farsi centrifugare la coscienza, gli annessi e i connessi per capire che razza di scherzi tirano, ce n’è di due generi: quelli che, a forza di praticare le virtù che gli sono state inculcate – essere bravi, buoni, responsabili, altruisti e via dicendo –, perdono il gusto della vita, e, sotto pelle, finiscono con il pensare di essere tutt’altro da come appaiono (in genere finti, al limite mostri); e quelli che, per non sentirsi vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro, all’insegna della vita è una lotta e guai ai deboli, tentano di darsi una maschera che non gli è congeniale – di durezza, insensibilità e cinismo –, dalla quale, a differenza dei modelli di riferimento, ricavano solo sensi di colpa.
Fosse possibile un trapianto incrociato, la cosa si risolverebbe in quattro e quattr’otto. E invece è una dura impresa per le persone mutar pelle, sia che si tratti di accasarsi finalmente nella propria o di rientrarci. Quando la muta sopravviene, il vantaggio è relativo: si campa meglio, ma si scopre che il mondo è pieno zeppo di gente che fa finta di essere normale. Dopo aver tanto desiderato l’omologazione, qualcuno ci rimane di stucco e protesta un po’ quando gli viene fatto presente che questo è il segno certo che la “cura” ha funzionato.
A forza di fare questo strano mestiere che sopperisce, sostanzialmente, alle insensatezze del mondo, m’è venuto il dubbio che, nella nostra società ipertecnologica, la cui presunzione è, forse, incommensurabile rispetto a quella di ogni altra mai esistita, il prodotto che viene peggio è l’uomo. Non solo perché aumenta di continuo il numero di quelli che, dopo anni e anni di acculturazione, hanno bisogno di un supplemento che li umanizzi un po’, togliendogli la maschera della virtù bigotta o dell’indurimento posticcio. Il problema è che gli altri, i “normali”1, non stanno per niente meglio, anche se spesso neppure se ne rendono conto. Vivono recintati nella propria coscienza, aggrappati alle tradizioni o alle mode correnti, tutti intenti ad adattarsi al mondo così com’è, convinti di essere padroni di sé e della propria vita, imbevuti delle informazioni che li bombardano mediaticamente (una paccottiglia indigesta). Se si gratta un po’ la superficie, viene fuori che questa sicumera, eufemisticamente definita senso comune, è una mistificazione perché delle tradizioni in cui credono e delle mode da cui sono catturati sanno poco o nulla, dell’uomo come essere naturale e della sua storia ancora meno, e, riguardo a se stessi, ripongono una fiducia cieca nel loro Io, che continua a narrargli la favoletta dell’unità, della coesione e della continuità che li tiene tranquilli. Quanto al congegno che si ritrovano nella scatola cranica (tutto compreso: materia grigia e spirito), lo ritengono un oggetto misterioso, roba da specialisti, che – a sentirli parlare – è chiaro che non ci capiscono molto neppure loro.
Insomma, l’uomo oggi è affetto da una sorta di analfabetismo del tutto particolare che riguarda la sua natura, il congegno, l’uso che ne fa e che, nel corso del tempo, ne è stato fatto, da tutte le generazioni che si sono succedute, producendo la cultura (materiale e spirituale), la storia e l’organizzazione sociale. L’analfabetismo è aggravato da un’infarinatura di psicologia, di psicoanalisi e di varia umanità dovuta ai mass-media che lo rende intollerabile poiché spinge alla perpetua esibizione del non sapere di non sapere. Per arrivare all’abc, basterebbe prendere atto che la cultura – vale a dire il tentativo dell’uomo di mettere ordine nel caos e di abitarvici – alcune idee gliele ha chiarite, altre confuse. Evidentemente, non è una quisquilia.
Il problema, d’altro canto, è di antica data. Producendo il cervello attraverso l’evoluzione, la natura ce ne ha concesso il diritto di uso senza il libretto delle istruzioni. L’umanità ha fatto quello che ha potuto: ne ha ricavato la capacità di sopravvivere industriandosi e sviluppando delle tecniche2 che piegano la natura a fare ciò che essa spontaneamente non farebbe. Essendosi ritrovata, poi, a dovere dar senso alla sua strana esperienza, ha prodotto anche un sacco di idee, convinzioni, opinioni, pregiudizi, miti, alcuni azzeccati, altri strampalati. Se è sopravvissuta, ciò attesta che, pur procedendo alla cieca, i tentativi riusciti – pratici e teorici – sono stati maggiori degli errori, pure madornali, commessi (il più recente, la produzione delle armi nucleari, ci ha portato sull’orlo della catastrofe, e il più attuale, l’inquinamento, sta lì lì per affossarci). Continuare, però, a confidare nello stellone è azzardato.
Non solo perché la nostra civiltà, che presume di aver imboccato la via giusta per assicurare a tutti il benessere, tenta di imporre il suo modello di sviluppo consumistico al mondo intero, incurante del fatto che se esso fosse universalmente praticato il pianeta collasserebbe in quattro e quattr’otto (anche solo per effetto dei rifiuti, che già non si sa più dove metterli). Il problema inquietante è che non si riesce più a capire chi ricava vantaggio dal correre dietro alla lepre meccanica dello sviluppo illimitato, visto che, oltre alla natura, anche l’uomo se la passa male.
Le statistiche vanno prese sempre cum grano salis. Quelle che attestano, però, che negli ultimi venti anni, in tutti i Paesi avanzati, il PIL è raddoppiato mentre l’Indice di Salute Sociale3 si è dimezzato, lasciano pochi dubbi sullo status quo. Ancor più preoccupanti delle statistiche, sono le previsioni. Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), tra trenta anni i disturbi psichici rappresenteranno la malattia più diffusa sulla faccia del Pianeta. La miscela di ricchezza economica e di miseria psicologica rischia, insomma, di diventare tossica.
Come spiegare questo trend?
Le spiegazioni, a dire il vero, abbondano, ma quella giusta, probabilmente, è la più semplice. Bene o male, l’uomo ha raggiunto un notevole (e inquietante) dominio sul mondo esterno, ma è parecchio in ritardo nell’amministrare quello interno. Soffre, insomma, in conseguenza di uno scarto sempre più rilevante tra l’efficienza tecnica e la miseria psicologica, vale a dire il rapportarsi a sé e agli altri praticamente alla cieca.
C’è un’alternativa? Sulla carta, sì.
Per effetto del congegno, l’uomo è stato costretto, fin da quando è comparso sulla Terra, a teorizzare su tutto, anche su se stesso. Bon gré, mal gré, si è dovuto trasformare in “scienziato” prima ancora che esistesse la scienza. Ha accumulato, per ciò, un sapere incredibile ma limaccioso nel quale l’acqua pulita e quella sporca sono confluite senza sosta. Certo, i filosofi qualche verità l’hanno azzeccata, ma la loro audience è risultata sempre un po’ ridotta a favore della propaganda dei preti, che i problemi – chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo – li risolvono in quattro e quattr’otto.
Solo da due secoli l’uomo (occidentale) ha preso se stesso come oggetto di studio, simulando nella raccolta dei dati e nella loro elaborazione le scienze naturali, che sono andate avanti un bel pezzo. Ha cominciato da lontano, dall’interazione tra fatti fisici e fatti umani (geografia) e dallo studio di culture diverse dalla sua (antropologia culturale). Poi si è dedicato alla società (politologia, sociologia), alla produzione dei beni (economia), alla ricostruzione del passato (storia), al linguaggio e all’uso dei segni comunicativi (semiotica). Infine è arrivato al soggetto, conscio (psicologia) e inconscio (psicanalisi). Qui si è avvitato su se stesso, perché si tratta di darsi una guardatina allo specchio (e anche dietro lo specchio). Ha depistato l’attenzione sul comportamento degli altri animali (etologia) per mettere meglio a fuoco i rapporti di parentela. Poi, sull’onda della tecnologia, ha tentato (e sta tentando ancora) di accedere al sancta sanctorum del cervello (neurobiologia).
Questo sforzo immane ha prodotto una mole di dati imponente, intrigante e, naturalmente, contraddittoria. Anche se ne manca ancora qualcuno (quanti nessuno lo sa), parecchi pezzi del puzzle sono disponibili: il problema è assemblarli. La cosa migliore da fare, sulla carta, sembrerebbe coinvolgere l’umanità tutta intera nell’impresa. Il gioco invece rimane riservato agli specialisti, ciascuno dei quali tira l’acqua al suo mulino per accreditare la disciplina cui si dedica come una scienza, mentre, per ora, mettendole tutte insieme, viene fuori tutt’al più un sapere4.
Se ci si chiede perché questo patrimonio (comprese le domande ancora aperte) non fa parte della cultura comune, perché la maggioranza degli uomini non possono utilizzarlo, nonostante potrebbe permettere loro di partecipare un po’ meno casualmente all’avventura umana, perché, infine, nel-l’ordinamento degli studi, dalle elementari alle superiori, non si parla (se non per incidente) di genetica, neurobiologia, psicologia, psicoanalisi, sociologia, antropologia culturale, ecc. – rimozione che fa il paio con l’assenza dell’economia5 – è difficile rispondere. Di sicuro, a qualcuno fa gioco questa rimozione. A chi e perché è da vedere.
L’ignoranza (incolpevole) dei “fondamentali” è il tormentone quotidiano del mio mestiere. La gente – in genere – cade dalle nuvole quando scopre che l’abc della natura umana e del can-can mentale che si organizza a partire da essa nell’interazione con l’ambiente culturale, conosciuto prima, gli avrebbe evitato un sacco di guai.
Stanco di questa manfrina, com’è come non è, m’è venuto di affrontare il problema di petto: in pratica, di debordare dal terreno specialistico e di mettere sulla carta quest’abbecedario ad usum delphinorum, visto che gli eredi – se non altro perché in media sono malmessi – danno più affidamento dei padri.
E già, perché la favoletta dei giovani ai quali oggi non manca nulla, fa acqua da tutte le parti. Se si prende un campione a caso – tra i quattordici e i vent’anni – e si va al di là delle apparenze, si rimane basiti: tra manie, fobie, tic, paranoie, attacchi d’ ansia, depressioni, anoressia, bulimia, angosce estetiche, problemi sessuali e via dicendo, non se ne salva quasi nessuno. Quelli che si salvano, perché hanno già le idee chiare su quello che vogliono – far soldi ad ogni costo – filano come treni, ma, se ad un certo punto non si bloccano di colpo, come se gli si fosse esaurito il carburante, sono destinati a diventare automi semoventi.
Il problema è all’ordine del giorno da parecchio tempo. Anni fa, alla maturità è stato dato un tema sulla solitudine giovanile. Andando avanti di questo passo, tra poco si comincerà il cursus scolastico dovendo parlare di sé e della propria famiglia e lo si terminerà con l’autodiagnosi della propria nevrosi. Nei discorsi dei politici, il problema giovanile è onnipresente, anche se di solito sembra che si riduca alla mancanza di una qualunque occupazione, e dunque di un po’ di money da spendere nel week-end. Quando intervengono, poi, i soloni – sociologi, psicologi, psicoanalisti, tuttologi –, il discorso tende sempre a cadere sulla crisi dei valori. Ci si aspetterebbe che qualcuno, che li ha messi da parte come BOT, li tirasse fuori una buona volta. Macché! La Chiesa, che è convinta di avere la zecca giusta, è disposta ad elargirli, ma solo a chi crede, e cioè accetta le sue fisime. Per gli altri, fioriscono come funghi gli ambulatori pubblici e gli studi privati psichiatrici o psicologici, ove in genere non si parla della vita nel suo complesso e di come è fatto l’uomo, ma quasi sempre del privato: il papà, la mamma, la scuola, il sesso, l’autostima, e via dicendo. Cose importanti, è ovvio: solo che uno ci può passare su degli anni a rivoltolarcisi senza capire perché il magone non va via.
In sé e per sé, l’inghippo della vita è un uovo di Colombo. L’uomo è un animale naturalmente ansioso, perché, da quando prende coscienza di sé sino alla fine, ha bisogno di capire se lo scherzetto che la sorte gli ha tirato facendolo venire alla luce, e concedendogli la consapevolezza di ex-sistere, vale la pena di essere preso sul serio. È ansioso perché, più di tutti gli altri, si porta confitta nella scatola cranica l’ossessione della felicità, e, unico, sa in anticipo che nel corso della vita s’imbatterà nel pedaggio del dolore (delusioni, incidenti, lutti, malattie), e alla fine abbandonerà la scena.
Dovrebbero educarci a coltivarla quest’ansia, fino al punto di farci venire il gusto del nostro tempo finito da vivere e quello di condividerlo con gli altri, anziché volerci far felici a tutti i costi con le ricettine laiche – che insegnano a pensare solo ai fatti propri – o con quelle religiose – che impongono di pensare solo a quelli altrui. Dovrebbero educarci ad apprezzarla la natura umana, con le sue contraddizioni, e farcene capire i pregi e i limiti, che si esprimono entrambi nella cultura, anziché squalificarla. Dovrebbero dirci – se lo sapessero – che l’uomo non è padrone di se stesso, né della propria vita, né del mondo: è un amministratore delegato dal caso (o da Dio: per questo aspetto non fa differenza), che ancora rischia, sul piano individuale e collettivo, di fallire. Dovrebbero, insomma, metterci sulle spalle precocemente, anziché gli zainetti pieni di libri inutili e di merendine, la responsabilità di esistere.
Se l’educazione servisse a questo, a mettere l’uomo con le spalle al muro, e, una volta inchiodatolo, a spingerlo a farsi un po’ di domande sulla sua singolare condizione complessa di essere naturale, storico, culturale e psicologico, sarebbe una gran bella cosa. Quelle domande uno se le porterebbe dentro per sempre e vivrebbe – consapevolmente – per cercare delle risposte. L’educazione invece è tutto un tam-tam – famiglia, scuola, parrocchia, televisione – di formule prêt-a-porter che insegnano a vivere (come si deve). Dato che ogni agenzia sociale deputata a produrre cittadini ha i suoi obbiettivi e i suoi scopi, capita che le formule proposte sono, per molti aspetti, in contraddizione tra loro. La crisi dei valori dipende insomma dal manico, e non v’è da sorprendersi che i giovani – s’impegnino o meno (oggi sempre meno per via di un universale scetticismo sul futuro) – si ritrovino ad essere sprovveduti per quanto riguarda i fondamentali e giungano, sempre più spesso, ad aderire, consapevolmente o inconsapevolmente, al nichilismo ultramoderno (quello dimentico che per i grandi nichilisti la merda è anche concime...).
Volendo – si dice – uno si informa da solo. Le librerie e le edicole traboccano di ogni ben di Dio, dall’opera omnia di Freud, che tutta non l’hanno letta neppure i traduttori, ai libricini che spiegano come si vincono la depressione, le fobie, l’insonnia, l’impotenza, il malocchio e via dicendo. Persino nei supermarket, accanto al ketchup, si vendono libri di astrologia, cartomanzia, scientologia, ecc. In televisione alcuni talk-show sono dedicati in pianta stabile a dibattere i due mali del secolo: l’esser giovani e l’essere depressi. E, poi, dulcis in fundo, c’è la Grande Madre, la Rete che permette, in un colpo solo, di scaricare diecimila documenti sulla pianta del thè, figuriamoci sull’uomo. Neppure col lanternino, però, si trova un libro interdisciplinare, nel quale – messe da parte le formulette – si tratta dell’uomo come un essere naturale, costretto, dal cervello che la sorte gli ha dato, a produrre una cultura e una storia che lo condiziona più di quanto in genere egli ama pensare, il quale, in quanto individuo, deve farsi qualche idea su se stesso e sul mondo per non andare avanti a casaccio.
Nelle pagine che seguono – saccheggiando storia sociale, antropologia culturale, etologia, neurobiologia, psicologia evolutiva, psicoanalisi, economia, sociologia, ecc. – ho tentato di condensare parte di quello che può servire a porsi un po’ di domande e a darsi qualche lumicino di risposta sulla vita. È un libro serio – di panantropologia, oserei dire – anche se d’acchito non sembra, perché, parlando dell’uomo, un po’ d’ironia non guasta. È uno zibaldone, però, non una guida per la caccia al tesoro. Le mappe bisogna che ciascuno se le faccia da sé.
Sarebbe già molto se, qua e là, capitasse di rimanere perplessi. L’ovvio, ciò in cui si inciampa procedendo dritti per la propria strada, è il motore dell’autoconsapevolezza: se si resta lì col piede gonfio, si può essere certi di essersi imbattuti in qualche ciottolo di verità. Il trauma è l’iniziazione al sapere, tant’è che gli esploratori dell’umano è tutta gente ammaccata.
I dati scientifici e le idee di altri, miscelati in un discorso il cui flusso è continuo, si possono prendere per buoni: in gran parte, come fanno fede le note, lo sono. Quello che se ne può ricavare riflettendoci un po’ su (cum grano salis, rimanendo sul concreto) anche. Quanto ad alcune opinioni personali, le giudichi ciascuno come vuole, tenendo conto che quello che è vero (o si approssima alla verità) fa un certo effetto alla bocca dello stomaco prima che nella zucca.
Note
1 Per normale s’intende di solito un soggetto che ha sviluppato un certo grado di adattamento al mondo in cui vive tal che ne rispetta le regole, adempie i doveri inerenti i suoi ruoli e aderisce, nel modo di sentire, pensare ed agire, alla miscela di sapienza/insipienza che vasotto il nome di senso comune. È questa miscela che rende un po’ problematica la definizione, perché porta a chiedersi se il mondo al quale l’individuo è chiamato ad adattarsi sia normale, cioè conforme alla sua natura.
Purtroppo, un giudizio critico a riguardo può essere fornito solo a posteriori, e finora spesso l’anormalità è risultata un presagio di sviluppi sociali e culturali evolutivi. Spartaco, che sobillava gli schiavi a rivendicare i diritti umani con parecchi secoli di anticipo, era, per i Romani, il male incarnato al punto che, una volta sconfitto, lo crocifissero e con lui ottomila dei suoi seguaci. Le “suffragette” dell’800, ritenute assatanate, erano imputate di voler stravolgere l’ordine sociale “naturale” (patriarcale e maschilista). Per merito loro le pronipoti delle donne tradizionali, che le ingiuriavano, hanno conseguito almeno il diritto di votare (spesso a favore dei maschi).
In diretta, ovviamente, il giudizio riesce più difficile. Erich Fromm, comunque, ci ha provato (Psicoanalisi della società contemporanea) e, non soddisfatto, ha scritto addirittura un saggio (I cosiddetti sani) per confermare ciò che aveva scritto nel primo: essere i “normali” non di rado soggetti strutturalmente deficienti sotto il profilo caratteriale. Intendeva fare riferimento ad uno sviluppo parziale e incompleto della personalità. Il lapsus comunque gli è sfuggito.
2 Senza Techne, l’uomo non sarebbe sopravvissuto, dato che la natura in cambio di un bel cervello gli ha tolto la “saggezza” adattiva che è propria degli altri animali. Chi contesta la tecnica (l’elenco occuperebbe pagine e pagine), può farlo dall’alto del tenore di vita che essa ha assicurato. Cade sempre in contraddizione (e i tecnoapologeti lo rimproverano aspramente) perché, per scrivere un saggio contro la tecnica, usa abitualmente il computer. Non gli si può dare torto però se fa presente che le opere dell’ingegno, che hanno permesso la sopravvivenza della specie, oggi rischiano di affossarla.
3 Ancora oggi la crescita del PIL rimane l’obbiettivo primario di ogni governo. I politici fanno finta di non sapere che si tratta di un indice di ricchezza bugiardo, in quanto cresce anche in virtù delle guerre, delle catastrofi naturali, dell’inquinamento, delle bolle speculative, dell’industria del crimine, ecc. Il denaro non puzza, dicevano i Romani. Come l’ossido di carbonio, però, intossica, se è vero che dalla metà degli anni ’80 l’Indice di Salute Sociale, che fa riferimento alla qualità della vita, sta andando progressivamente a picco.
4 L’ossessione di psicologi, psicoanalisti, antropologi, sociologi, economisti, storici di voler trasformare le loro discipline in scienze è dovuta semplicemente all’essere rimasti traumatizzati dal credito conseguito dalla biologia, dalla fisica e dalla chimica a partire dal XVII secolo, che è cresciuto progressivamente e ha raggiunto l’acme negli ultimi cento anni con l’esplosione della tecnica. Essi insistono nell’impresa nella maniera più stupida, vale a dire applicando pedissequamente il metodo sperimentale alle loro ricerche e utilizzando, per elaborare i dati, il metodo statistico. Quello che vien fuori, con rare eccezioni, è una mole di risultati complessivamente insignificanti. Quando l’oggetto dello studio – l’uomo e i fatti umani – coincide con il soggetto che li indaga, occorre prescindere dalla scientificità, e arrendersi al tentare di capire qualcosa. Non è poca cosa, se si ha il gusto del sapere.
5 Queste due lacune, oltre a indurre fortemente a dubitare del valore formativo della scuola, bastano da sole a capire perché c’è in giro tanta gente colta, laureata, che parla forbito e sforna di continuo citazioni ma non capisce un tubo. Gente che, non di rado, pretende di insegnare agli altri come si vive. I tentativi di riformare la scuola urtano sempre contro lo stesso problema: chi educa gli educatori? Oggi si dovrebbe aggiungere: chi educa i riformatori? L'ultimo tentativo, quello che porta l'obbligo di istruzione a sedici anni, è emblematico. L'equiparazione tra discipline umanistiche e scientifiche è un salto di qualità epocale. Nel progetto, però, eccezion fatta per un'infarinatura di economia, delle scienze umane e sociali non c'è traccia. Forse, perché non si sa bene dove collocarle. Basterebbe introdurre una nuova disciplina - la panantropologia - e assumerla come l'asse degli assi: quella che regge tutto in termini di formazione dell'uomo.
Commento di Tiziana Silvestri sull’Abbecedario
"Signori..la vita (NON) è servita!"
Si potrebbe dire a mò di slogan, avendo nella mente e nella pancia la lettura di un ABC (!..direi un Alfa-Omega) che ci consegna la grande nozione del dubbio come esercizio salutare alla riconciliazione con il mondo.
Abituati (o no) a sentire quotidianamente, da fronti eterogenei più o meno accreditati, ricette e ricettine laiche o religiose sulla panacea che vinca il Male e ci conduca tutti alla felicità senza grandi problemi, l'Autore non cede mai alla tentazione di fornirci segreti e scorciatoie per tragitti che richiedono invece, vuoi o non vuoi, tempo e sforzo.
L'ansia della felicità che è connaturata ad ogni uomo, si lega intrinsecamente alla natura precaria del nostro vivere, alla presunzione (che inevitabilmente si avvererà) del dolore fino alla certezza della morte.
Una riflessione seria sulla condizione dell'uomo oggi (e qui è serissima, se solo si apprezzano i contributi interdisciplinari forniti dall'Autore) ci conduce passo passo, tra un inciampo ed una risata, alla importante conclusione che la presa di coscienza dei propri limiti, della propria precarietà e finitezza (intrinseca al dato di realtà che siamo biologicamente determinati) deve essere alla base di ogni tentativo di interpretazione del mondo, dovendo dare per assunto che ogni interpretazione in quanto frutto mediato dell'attività cosciente, ha già di per sé dei limiti oggettivi.
Quello che più colpisce è la franchezza con cui l'Autore ci mette di fronte a concetti che, nella maggior parte dei casi, o vengono ignorati, o rimossi o faticosamente ricercati.
Cosicchè, peccando irrimediabilmente di ubris (ma senza castigo infernale) l'uomo ha distolto la sua attenzione e le sue energie dal cercare per sé ed i suoi simili un ambiente sereno e coerente in cui dar sfogo ai suoi bisogni finalmente autentici e dall'adoperarsi, senza anni ed anni di Cultura, al fine di vivere degnamente e pienamente il suo passaggio casuale nel mondo.
L'intuizione dell'infinito, che più o meno precocemente si affaccia agli animi impreparati a sostenerla, è tale da mescolare non poco le carte, e produce un'ansia che, se non compresa, pregiudica totalmente la possibilità di godere della pienezza del vivere.
Così come sembra strano a chi legge, che l'uomo contemporaneo si dia tanto da fare per mistificare, cancellare, addirittura anestetizzare (salvo poi pagarne il prezzo!) quel bagaglio di emozioni, che rappresenta l'unica possibilità data ad ognuno di noi, di legarsi veramente al mondo in cui vive, respira e sospira, di assicurarsi il senso di appartenenza e partecipazione alle sorti e ai dolori altrui (che poi sono anche i nostri) e di toccare, sfiorare o lasciarsi penetrare da quella felicità, quel benessere, che tutti ricerchiamo , ma che pochi sanno dove e soprattutto come trovare...
L'Autore ci conduce per mano lungo tutto lo sviluppo evolutivo, in modo da apprezzare consapevolmente le tappe fondamentali che hanno portato da un sostanziale equilibrio primigenio fino all'irrequietezza, all'incompiutezza contemporanea, spesso insensata, di un mondo che pare aver dimenticato di tributare gratitUdine per chi ci ha consegnato le chiavi attraverso cui conoscere, capire e di nuovo scoprire. E sempre di uomini si parla...
Sembra difficile per la gran parte di noi, per non dire arduo, pensare che ci sia un patrimonio dato ed ingovernabile, determinato e fisso, sul quale però poter declinare, a seconda delle condizioni dell'ambiente in cui per sorte o sortilegio ci si trova, infinite possibilità di esser-ci, di esistere, di stare... facendo fruttare al meglio conoscenze, intuizioni e memorie.
Il terreno è scosceso e periglioso, ma vale la pena trovare ed assaporare il gusto di riuscire a superare condizioni e costrizioni (culturali/storiche), attraverso un processo di individuazione (che nulla ha a che fare con l'ansia, propria di ogni spurio individualismo, di pone l'uomo al centro di tutto, ma solo per egoismo e/o interesse), che approda al superamento personale del bagaglio di valori che possono averci felicemente infarcito o tristemente inquinato, e che comunque ci fa uscire dall'Ovvio e dall'essere Conforme A, cosa che oggi, non solo non ci mette a rischio di morte (...), ma che forse ci sottrae proprio al senso di morte che negli animi più sensibili inevitabilmente si affaccia quando la stoffa del mondo non riesce mai a tramutarsi in una pelle che ci copra, ci assomigli e ci riveli, nudi e veri per quello che siamo...
E dunque, grazie a questo gigantesco (inteso in senso ontologico) zibaldone percorriamo nodi e snodi decisivi per capire qualcosa su come organizzare una vita che abbia un senso, in primis per noi stessi, accettando la lectio (magistralis, direi), che :" per avere un po' di pace l'uomo è costretto a sviluppare tutte le sue qualità, fisiche e psichiche, in rapporto significativo, cioè vissuto, partecipato, con il mondo (se stessi, la natura, gli altri, la cultura)".