Riflessioni sulla Neuroetica, di Luigi Anepeta |
Era del tutto prevedibile che la crescita dei dati accumulati negli ultimi venti anni dalle neuroscienze avrebbe prodotto un terremoto nell’ambito delle discipline il cui oggetto è la riflessione dell’uomo su se stesso. Il terremoto si è avviato all’insegna di una nuova branca interdisciplinare - la Neuroetica, appunto - che, anche se nessuno, che io sappia, lo esplicita, si è posta immediatamente in opposizione con la bioetica la quale, dalla sua nascita, è stata caratterizzata da una volontà egemonica degli studiosi religiosi. In quanto intesa ad interpretare, sulla base del funzionamento del cervello, il comportamento umano, assunto caratterizzato di continuo da scelte che vertono su ciò che è buono e cattivo, lecito e illecito, giusto e ingiusto, ecc. (l’ethos appunto), la Neuroetica opera un’opzione di fondo radicalmente materialistica. Non mancano, certo, al suo interno, studiosi e pensatori che criticano il riduzionismo neurogenetico e contrappongono ad esso un richiamo più o meno marcato all’irriducibilità dei fenomeni mentali al funzionamento cerebrale. Ma si tratta di una minoranza che non riesce a fornire un modello alternativo al riduzionismo. In un certo senso, la Neuroetica ha molto da spartire con la disciplina che ho definito da alcuni anni Panantropologia. Non avrei alcunché in contrario a rinunciare ad un neologismo per molti versi equivocabile e ad aderire tout-court alla Neuroetica se non ci fossero di mezzo alcune differenze che mi sembrano fondamentali. Nell’inaugurare la sezione di Nilalienum dedicata alle Neuroscienze criticai il fatto che il suo oggetto è un cervello isolato e destorificato. Penso che questa critica possa essere rivolta anche alla Neuroetica, nella misura in cui essa, avvalendosi di raffinati strumenti neuroradiologici e di situazioni sperimentali di indubbio interesse, cade nella stessa trappola di generalizzare dati inerenti l’esperienza neurofisiologica, comportamentale e psicologica di singoli individui la cui unica dimensione si riduce all’avere un cervello. Nel materialismo della neuroetica non c’è alcuna rozzezza positivista. Sia gli autori che gli studiosi che si dedicano ad essa sembrano adeguatamente attrezzati sotto il profilo epistemologico e inclini a tenere conto delle riflessioni filosofiche sull’uomo che hanno preceduto l’era delle neuroscienze. Al tempo stesso, però, sorprendentemente, i neuroeticisti tendono se non ad ignorare a tenere poco conto della psicanalisi e della storia sociale. Dallo scarso rilievo accordato alla scoperta psicoanalitica, per cui il funzionamento mentale avviene a due livelli, uno dei quali, sorprendentemente povero di contenuti è quello cosciente, mentre l’altro, ricchissimo e iperattivo, è privo di consapevolezza, discende l’opposizione tra l’esperienza mentale, confinata nella coscienza, e quella cerebrale, che appare di ordine meramente neurofisiologico. Basta pensare ad un comune lapsus, che pone in luce l’interferenza dell’attività mentale inconscia sulla coscienza, per rendersi conto della sostanziale povertà dell’approccio neuroetico all’esperienza soggettiva. Questo aspetto sembra ancora più rilevante se si considera che uno dei temi più inquietanti della Neuroetica riguarda il problema del libero arbitrio. Gran parte dei neuroeticisti sembra orientato se non a negare il libero arbitrio a ridurlo ad un potere minimale dell’io cosciente rispetto a ciò che si pensava in passato. Questa negazione, però, non poco problematica, è già presente in Nietzsche e traspare con evidenza nel pensiero di Freud, soprattutto per quanto concerne la sostanziale schiavitù dell’Io rispetto alla spinta motivazionale delle pulsioni e alle esigenze sociali di controllo delle stesse. Se si ammette che il comportamento è governato e per molti aspetti determinato da una serie di motivazioni significative che pervadono l’inconscio e possono essere dinamicamente in conflitto tra loro, la possibilità che un comportamento sia promosso all’insaputa della coscienza da un’attività cerebrale è fuori di dubbio. In questo caso, però, occorre ammettere che l’attività cerebrale sia imprescindibilmente legata ad una motivazione. Il comportamento, di conseguenza, appare espressivo di una medaglia a due facce: l’una è il funzionamento del cervello, l’altra la motivazione che l’attiva. Ma le motivazioni non traspaiono a livello cerebrale, nonostante le raffinate tecniche neurodiologiche, se non sotto forma di attivazione di determinate aree che innescano o si associano ad un determinato comportamento. La loro storia e il loro peso dinamico, che rappresentano il patrimonio dell’esperienza soggettiva, affondano le radici nell’intera vicenda dell’interazione tra un determinato individuo e un determinato contesto socio-storico. Le ricerche neuroetiche assumeranno un maggior significato allorché esse si fonderanno con un approccio psicoanalitico e storico alla tipologia della personalità e alla sua organizzazione dinamica. L’integrazione della neuroetica con la psicoanalisi e la storia sociale può favorire un approccio più integrato al problema della complessità umana. Un esempio può essere fornito in rapporto proprio al problema del libero arbitrio, la cui importanza è difficile da minimizzare. Porre il discorso in termini di ammissione o negazione del libero arbitrio sembra piuttosto sterile. In ogni personalità si dà, presumibilmente, uno spettro motivazionale che in minima parte è rappresentato a livello cosciente, e dunque definisce un certo grado di libertà, e in massima parte scorre al di fuori della coscienza. Non è detto che questo scorrimento azzeri la libertà umana. Se non consapevolezza, infatti, ci può essere sintonia tra il mondo delle motivazioni inconsce e l’organizzazione della coscienza. Se non lo azzera, però, lo riduce di certo di gran lunga, e, al limite, può comportare la realizzazione di comportamenti che si impongono alla coscienza, anche laddove essi sono giudicati come sbagliati dall’individuo. Non è certo azzardato ipotizzare che la libertà umana non è un dato positivo inerente la coscienza, ma una conquista che avviene a partire dalla consapevolezza che l’individuo stesso riesce a raggiungere in rapporto ai condizionamenti ambientali e storico-culturali cui è andato incontro nel corso della sua esperienza di vita. L’integrazione della neuroetica con la psicoanalisi e la storia sociale la trasforma però da disciplina che presentifica il problema del comportamento umano in disciplina che lo storicizza. In questo senso continuo a preferire il termine Panantropologia (anche se mi rendo conto che esso richiede una specificazione metodologica e concettuale più profonda). Nonostante i limiti cui ho fatto rapidamente cenno, la Neuroetica rimane un’impresa destinata a mutare profondamente l’immagine che l’uomo ha di sé. Il materiale che pubblico, raccolto con la collaborazione della dott.ssa Lisa Cecchi, è molto suggestivo a riguardo. |