Letture nietzschiane

Lettura IV

Dal crollo dei valori al Nichilismo positivo

“L'uomo moderno crede in modo sperimentale ora in questo, ora in quel valore e poi lo lascia decadere: la sfera dei valori superati e decaduti diventa sempre più grande; si sente sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile benché sia stata tentata in grande stile la decelerazione.

Alla fine egli tenta una critica dei valori in generale; ne conosce l'origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido...

Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli...”                                                                                La volontà di potenza

                                                                 

Indice
Normalità e Devianza
La critica della morale e del costume
Mentalità, Super-Io e neuroni specchio
Nietzsche, l’Anticristo
Il pensiero politico di Nietzsche
Il Nichilismo attivo e il Superuomo

Normalità e Devianza

La conferenza precedente si è conclusa rilevando il ruolo di Nietzsche come precursore della psicoanalisi freudiana. Occorre però tenere conto di una differenza oltremodo importante tra Nietzsche e Freud: la valutazione radicalmente diversa che essi danno di ciò che giace al fondo della mente come espressione dell’evoluzione naturale (alla quale credono entrambi, anche se nessuno dei due sembra avere letto attentamente L’origine dell’uomo di Darwin), vale a dire una spinta motivazionale che Nietzsche definisce volontà di potenza e Freud riconduce alle pulsioni.

Per Nietzsche, tale spinta è fondamentale nel promuovere l’affermazione dell’individuo e la sua realizzazione al di là dei vincoli posti dall’istinto del gregge.

Per Freud, come vedremo nel prossimo ciclo di conferenze, essa, che ha un carattere primitivo, selvaggio e malvagio, è un pericolo permanente per per il buon vivere civile, che, attraverso i diversi dispositivi di controllo sociale, deve in ogni modo reprimerla e contenerla.

Freud, insomma, difende la Civiltà (occidentale); Nietzsche, viceversa, intende abbatterla dalle fondamenta. Nell'ottica nietzschiana del rovesciamento degli idoli, la normalità corrente, che è il prodotto della "civilizzazione" dell'individuo, è una pavida rinuncia ad accettare la sfida della Natura, mentre la devianza, comunque essa si esprima, implica un’accettazione di questa sfida.

In ogni caso, sia assoggettato all’istinto del gregge o agito dalla volontà di potenza, l’uomo, per Nietzsche, non è libero perché il suo comportamento è la risultante delle diverse motivazioni che egli alberga, che fanno capo all’intera vicenda del singolo soggetto nella sua interazione con il mondo. In quanto tale esso è determinato, necessario, fatale quindi non imputabile.

La negazione del libero arbitrio ha un significato fondamentale nel pensiero di Nietzsche. Essa infatti rappresenta il presupposto dello scopo che più di ogni altro gli interessa: liberare l’umanità dai sensi di colpa, vale a dire dal terribile fardello prodotto dall’interiorizzazione del controllo sociale e dei codici normativi in virtù dei quali il gruppo pretende di “addomesticare” il singolo individuo subordinandolo alle sue esigenze.

Tale scopo, ritenuto essenziale per restituire all'umanità la capacità di coltivare la libertà sulla quale incombono incubi moralistici e vincoli sociali, riconosce, come in tutta l'opera di Nietzsche, una motivazione soggettiva inconscia. Una serie di indizi, tra cui le ricorrenti depressioni che esitano nella catastrofe psichica finale, attestano che egli è stato letteralmente perseguitato dai sensi di colpa.

Non insisterò su questo aspetto. Si tratta di valutare, al di là di esso, l'incidenza del pensiero nietzschiano sul problema ancora attuale della Normalità e della Devianza.

Nietzsche naturalmente non ignora la distinzione che si dà tra devianza intesa in senso generale e criminalità. Riguardo a quest’ultima, però, le sue idee sono estremamente originali (fin troppo, come vedremo). Nietzsche, infatti, contesta l’esistenza del libero arbitrio e, di conseguenza, il diritto della società di punire il criminale sulla base della sua responsabilità personale:

"102. «L’uomo agisce sempre bene.» - Noi non accusiamo la natura di immoralità quando ci manda un temporale e ci fa bagnare: perché chiamiamo immorale l’uomo che fa il male? Perché in questo caso supponiamo una volontà libera, dominatrice nel suo arbitrio, e nell’altro, invece, una necessità. Ma questa distinzione è un errore. Inoltre: neppur il far del male volontariamente, noi lo chiamiamo sempre immorale; ad esempio, si uccide una zanzara intenzionalmente e senza esitazione, perché il suo ronzio ci infastidisce, si punisce il delinquente intenzionalmente e gli si fa del male per proteggere noi e la società. Nel primo caso è l’individuo che, per conservarsi o anche per non procurarsi un dolore, fa intenzionalmente del male; nel secondo caso è lo Stato. Ogni morale ammette che si arrechi danno volontariamente in caso di legittima difesa: cioè quando si tratta della propria conservazione. Ma questi due punti di vista bastano a spiegare tutte le cattive azioni che l’uomo commette contro l’uomo: si vuole il nostro piacere o si vuole allontanare il dolore; in certo qual modo si tratta pur sempre della nostra conservazione. Socrate e Platone hanno ragione: qualunque cosa faccia, l’uomo fa sempre il bene, ossia: ciò che gli sembra buono (utile), a seconda del livello del suo intelletto e del grado di volta in volta raggiunto dalla sua razionalità.” (UTU)

Alla luce del determinismo inconscio, Dissidenza, Devianza, Trasgressione, De-linquenza sono termini accomunati dal riferimento a comportamenti in opposizione ad una Norma. E' questa, secondo Nietzsche, con i suoi meccanismi di controllo sociale, a produrre la Devianza.

Nietzsche intuisce che lo Stato, avocando a se stesso l’esercizio della violenza punitiva, ha cercato di sormontare la legge del taglione, della vendetta privata. Egli pensa però che, nella misura in cui esso realizza la vendetta infliggendo al colpevole una pena afflittiva, esercita una ingiusta prepotenza perché la punizione si fonda sull’attribuzione al criminale di un libero arbitrio che egli di fatto non ha.

La concezione che Nietzsche ha del comportamento umano è sostanzialmente deterministica. Egli non intende negare che, nel momento in cui il criminale commette un reato, possa sapere che sta violando la legge. La tendenza a delinquere, però, si riconduce, a suo avviso, all’intera storia interiore del soggetto e fa capo ad una serie indefinita di motivazioni inconsce per cui, nonostante quella consapevolezza, il delinquente non può agire in altro modo. Egli dunque è responsabile oggettivamente dell’azione che compie, ma non soggettivamente. Punirlo, tanto più se il significato della pena è afflittivo, è dunque un’ingiustizia legalizzata.

L'inesistenza del libero arbitrio porta, dunque, Nietzsche a contestare la pertinenza del concetto di imputabilità:

“Quel pensiero oggi così a buon mercato e apparentemente così naturale e inevitabile, cui si è sempre dovuto far ricorso per spiegare come si è originato sulla terra il sentimento della giustizia, il pensiero cioè che «il delinquente merita di essere punito perché avrebbe potuto agire diversamente», è [...] una forma assolutamente tarda, anzi raffinata del giudicare e del dedurre umano.” (GM)

“23.

I seguaci della teoria della volontà libera hanno il diritto di punire? Gli uomini che per professione giudicano e puniscono, cercano in ogni caso di stabilire se un malfattore è in genere responsabile della sua azione, se egli poté adoperare la propria ragione, se egli agi per dei motivi e non inconsciamente o sotto costrizione. Se lo si punisce, si punisce il fatto che egli abbia preferito i motivi cattivi a quelli buoni, che egli dunque deve aver conosciuti. Dove questa conoscenza manca, l'uomo, secondo l'opinione dominante, non è né libero né responsabile: a meno che la sua mancata conoscenza, per esempio la sua ignorantia legis, non sia conseguenza di disinformazione volontaria; allora egli, già quando non ha voluta informarsi sui propri doveri, ha preferito i motivi cattivi ai buoni e deve ora scontare le conseguenze della sua cattiva scelta. Se egli invece non ha visto i motivi buoni, per esempio per ebetismo e idiozia, non si suole punirlo: gli è mancata, come si dice, la scelta, egli ha agito come animale. Il rinnegamento intenzionale della ragione migliore è oggi la presupposizione che si fa per il delitto passibile di pena.

Ma come può uno essere intenzionalmente più irragionevole di quanto non debba essere? Da dove viene la decisione, se i piatti della bilancia sono carichi di motivi buoni e cattivi? Certo non viene dall'errore, dalla cecità, non da una costrizione esterna, e neanche da una costrizione interna. (Si consideri del resto che ogni cosiddetta «costrizione esterna» non è nient'altro che la costrizione intima della paura e del dolore). Da dove? si chiede sempre di nuovo. La ragione dunque non sarebbe la causa, perché essa non potrebbe decidersi contro i motivi migliori?

Qui ora si chiama in aiuto la «volontà libera»: sarebbe il completo arbitrio a decidere, sopravverrebbe un momento, in cui nessun motivo agisce, in cui l'azione accade come un miracolo, sorgendo dal niente. Si punisce questa pretesa arbitrarietà in un caso in cui nessun arbitrio dovrebbe dominare: la ragione, che conosce la legge, il divieto e il comandamento, non avrebbe dovuto lasciare nessuna scelta, si dice, e avrebbe dovuto agire come costrizione e come forza superiore.

Il delinquente viene quindi punito perché fa uso della «volontà libera», vale a dire perché ha agito senza motivo, dove avrebbe dovuto agire in base a motivi. Ma perché ha fatto ciò? Ciò appunto non è lecito neanche più chiederlo: fu un'azione senza «per questo», senza motivo, senza origine, qualcosa senza scopo e senza ragione. - Ma, per la prima condizione di ogni colpevolezza sopra prevista, non si dovrebbe neanche punire un'azione simile! Neppure si può far valere l'altra specie di colpevolezza, come se qui qualcosa non fosse stato fatto, come se qualcosa fosse stato omesso, come se della ragione non si fosse fatto uso: giacché in ogni caso l'omissione avvenne senza intenzione! e solo l'omissione intenzionale di ciò che è comandato è considerata punibile.

Il delinquente ha sì preferito i motivi cattivi ai buoni, ma senza motivo e intenzione: egli non ha, è vero, adoperato la sua ragione, ma non per non adoperarla. Quella presupposizione, che si fa per il delitto passibile di pena, che egli abbia intenzionalmente rinnegato la propria ragione, - proprio essa è, se si ammette la «volontà libera», eliminata. Voi non avete il diritto di punire, voi seguaci della teoria della «volontà libera», in base ai vostri stessi principi! - Ma questi in fondo non sono altro che un'assai stravagante mitologia concettuale; è la gallina che li ha covati, si è seduta sulle sue uova in disparte da ogni realtà.” (GS)

“24.

Per giudicare il delinquente e il suo giudice. Il delinquente, che conosce l'intero flusso delle circostanze, non trova la sua azione così fuori dell'ordine e della comprensibilità come i suoi giudici e biasimatori; ma la sua pena gli viene commisurata proprio in base al grado di stupore, da cui quelli sono còlti alla vista dell'azione come di una cosa incomprensibile. - Se la conoscenza che il difensore di un delinquente ha del caso e dei suoi precedenti arriva abbastanza lontano, le cosiddette circostanze attenuanti, che egli espone nell'ordine, devono finire col cancellare completamente la colpa. O, ancora più chiaramente: il difensore attenuerà progressivamente e da ultimo annullerà totalmente quello stupore che condanna e commisura la pena, costringendo ogni ascoltatore onesto all'intima confessione: «egli ha dovuto agire come ha agito; se noi punissimo, puniremmo l'eterna necessità». - Misurare il grado della pena in base al grado di conoscenza che si ha o che in genere si può acquistare della storia di un delitto, non cozza ciò contro ogni equità?” (GS)

Ma se il delinquente non è libero, e quindi capace di agire diversamente da come agisce, cosa deve fare la Società laddove si confronta con un crimine? Nietzsche fornisce una risposta assolutamente sorprendente e "utopistica":

“Una comunità, acquistata maggior potenza, non prende più tanto sul serio le trasgressioni del singolo, perché esse non possono più essere considerate, come per l'innanzi, così pericolose e eversive per l'esistenza del tutto: il trasgressore non viene più «messo al bando» e escluso, la collera generale non può più scatenarsi contro di lui sfrenatamente come prima anzi al contrario, a partire da quel momento, il malfattore sarà accuratamente protetto e difeso dalla comunità contro questa collera e particolarmente contro quella di coloro che sono stati direttamente danneggiati.

Il compromesso con la collera di coloro che sono stati più di tutti colpiti dalla cattiva azione; uno sforzo per localizzare il caso e prevenire una più estesa o anzi generale partecipazione e stato di ansia; tentativi di trovare degli equivalenti e di sistemare tutta l'azione (la compositio); prima di tutto la volontà, che si fa strada con sempre maggiore decisione, di ritenere ogni trasgressione in qualche modo compensabile col denaro, cioè di isolare, per lo meno in una qualche misura, il delinquente dalla sua azione ecco i tratti che si sono impressi sempre più chiaramente sull'ulteriore sviluppo del diritto penale.

Se la forza e l'autocoscienza di una comunità crescono, anche il diritto penale si addolcisce, ogni indebolimento e ogni più profondo stato di pericolo porta di nuovo alla luce forme più dure di questo. Il «creditore» si è fatto sempre più umano a misura che la sua ricchezza aumentava: alla fine misura stessa della sua ricchezza è diventata la sua capacità di sopportare dei danni senza soffrirne. Non sarebbe inconcepibile una consapevolezza di forza da parte della società, per cui essa potesse concedersi il lusso più aristocratico possibile lasciare impuniti coloro che le arrecano pregiudizio. «Che cosa mi importa dei miei parassiti?» potrebbe dire. «Vivano pure e prosperino: sono ancora abbastanza forte da permettermelo! »... La giustizia, che era cominciata con il «tutto è compensabile col denaro, tutto deve essere compensato col denaro», finisce per chiudere un occhio e lasciar andare gli insolventi; finisce, come ogni cosa buona sulla terra, per annullare se stessa. Questo autoannullamento della giustizia: si sa bene con quale bel nome viene chiamato - grazia; essa resta, come è ovvio, prerogativa del più potente, meglio ancora, il suo al di là del diritto.” (GM)

E’ evidente che se il pensiero di Nietzsche è per tanti aspetti in opposizione al senso comune e allo stato esistente di cose, lo è massimamente in rapporto al problema della criminalità, la cui repressione da secoli rappresenta uno degli assi portanti della civiltà borghese. E’ inutile sottolineare l’incidenza che tale problema ha nel nostro mondo, laddove lo spostamento dell’elettorato europeo verso il centro-destra riconosce tra i suoi motivi principali la sicurezza, vale a dire la lotta alla criminalità.

A sua insaputa, Nietzsche giunge a conclusioni che non sono molto diverse da quelle cui è giunto Marx. Ne Il crepuscolo degli idoli egli scrive:

Il tipo del delinquente è il tipo dell'uomo forte in condizioni avverse, un uomo forte reso malato. Gli mancano i luoghi selvaggi, una certa natura e una forma di esistenza più libera e pericolosa, in cui sia legittimo tutto ciò che nell'istinto dell'uomo forte è arma e difesa. Le sue virtù sono messe al bando dalla società; gli impulsi più vivi che egli ha ancora con sé, presto si deformano a contatto di affetti deprimenti, del sospetto, del timore, del disonore. Ma questa è press'a poco la ricetta della degenerazione fisiologica. Chi deve fare di nascosto, con lunga tensione, cautela, astuzia, le cose che sa far meglio, le cose che farebbe più volentieri, diventa anemico; e poiché dai suoi istinti egli miete solo pericolo, persecuzione, sciagura, anche il suo sentimento verso questi istinti si stravolge  li sente come una fatalità.

E’ la società, la nostra società mansuefatta, mediocre, castrata, il luogo in cui un uomo genuino, che proviene dai monti o dalle avventure sul mare, necessariamente degenera in criminale.” (CI)

Ponendo da parte il riferimento all'uomo forte, Marx avrebbe potuto sottoscrivere una frase del genere.

Certo, i presupposti sono del tutto diversi. Secondo Nietzsche, la devianza dalla norma è la conseguenza dei vincoli eccessivi che la società pone all’espressione della volontà di potenza individuale; secondo Marx, invece, essa fa capo a squilibri socio-economici che impediscono ad un soggetto di rispettare i suoi doveri di appartenenza.

Nietzsche, inoltre, esalta la devianza in tutte le sue forme, assumendola come espressione di un potenziale di individuazione frustrato, che imbocca il canale della trasgressione alla Norma penale, mentre Marx la assume come un indizio di un dramma personale e sociale.

Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di un’impostazione del tutto in contrasto con la coscienza del cittadino medio che, oggi più che mai, rivolge allo Stato una domanda insistente di sicurezza che riguarda essenzialmente i beni patrimoniali, la proprietà (oltre che ovviamente l’integrità fisica). Il cittadino medio, però, non si chiede se la distribuzione squilibrata della ricchezza non sia uno dei fattori che incrementano la criminalità, né se quella distribuzione non si fondi, al di là del merito personale in cui egli crede profondamente, su singolari meccanismi che rendono lecite le speculazioni immobiliari e borsistiche (reati finanziari che sono sostanzialmente “furti” e danneggiano non singole persone ma un numero indefinito di persone), né infine se le motivazioni di protesta in virtù delle quali egli giustifica l’evasione fiscale, come protesta contro l’arbitrio dello Stato che si appropria di ciò che gli appartiene, non siano identiche a quelle del ladro comune.

Quanti cittadini medi, conniventi con un ordine sociale iniquo che essi, con il loro radicale egoismo, alimentano, sono di fatto moralmente responsabili della rabbia sociale che si manifesta sotto forma di attentato alla proprietà? Quanti di essi propongono la pena di morte per i rapinatori occasionali e subiscono, come se fossero una fatalità, le crisi economiche dovute a reati finanziari che rimangono impuniti?

Questo discorso, più marxiano che nietzschiano, può apparire ideologico. In realtà esso è marxiano e nietzschiano perché identifica nella normalità, nell’organizzazione complessiva della società e della cultura, la matrice della devianza.

Sono la morale corrente e il costume, inteso come abitudine e senso comune, a decidere cosa è normale e cosa non lo è, e ad associare alla devianza la colpa e la punizione.

Cosa si può dire oggi a riguardo?

Tra le discipline umane e sociali, la Criminologia è in assoluto quella meno definita, coesa e metodologicamente attrezzata. Le teorie abbondano, da quelle genetiche a quelle sociologiche, ma nessuna ha conseguito uno statuto egemone e, dati i presupposti ideologicamente diversi da cui muovono gli autori, è quasi impossibile prevedere che possano sopravvenire tentativi di integrazione teorica.

Ciò detto, la provocazione di Nietzsche mantiene un valore attuale. Già si è accennato a come il problema del libero arbitrio venga affrontato dalle scienze neurobiologiche contemporanee sulla base di un sospetto sempre più profondo sulla sua pertinenza.

Qui occorre solo aggiungere che le provocazioni di Nietzsche e le riflessioni della neurobiologia urtano contro un ostacolo di grande portata: il riferimento alla responsabilità personale sul comportamento agito che è un presupposto fondamentale dell’ordinamento civile e penale, ed è profondamente radicato nel senso comune.

Ciò che Nietzsche e le scienze contemporanee propongono è un radicale ripensamento a riguardo, ma la cosa sembra di là da venire.

Alcune provocazioni intellettuali, peraltro, hanno tempi molto lunghi di gestazione. Esse, peraltro, spesso, vengono raccolte prima da altri intellettuali e poi, anche se non necessariamente, dall’opinione pubblica.

Tra gli intellettuali che, implicitamente, hanno ripreso il discorso di Nietzsche sulla devianza, occorre ricordare almeno Michel Foucault e il suo straordinario saggio “Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…”. Si tratta dell’analisi di un orribile delitto avvenuto in Francia nel 1835, che parte dalla memoria scritta dall’assassino stesso prima di suicidarsi (“quaranta pagine di straordinaria bellezza”) e, attraverso tutta la documentazione storicamente disponibile, cerca di ricostruirne le motivazioni e il dibattito cui esso dette luogo tra giuristi e psichiatri.

La penna di Foucault prescinde da qualunque tentazione di analisi psicologica. Egli ricostruisce lo sfondo del delitto - la campagna normanna post-rivoluzionaria che, per effetto dell’avanzante liberalesimo, è divenuta un universo silenzioso di infelicità, frustrazione, violenza -, la storia di una famiglia contrassegnata da una moglie-madre terribilmente tirannica e prevaricatrice (in cui noi non stentiamo a riconoscere l’incarnazione dell’isterica maligna, della donna cioè che si riscatta dal suo ruolo tradizionalmente subordinato all’uomo facendogli la guerra fino al punto di volerlo umiliare), il tenero ed empatico rapporto che il figlio intrattiene con il padre, che lo porta a scrivere:

“Mi sembrò che sarebbe per me una gloria, che mi sarei immortalato morendo per mio padre, mi raffiguravo i guerrieri che morivano per la loro patria e per il loro re ... dicevo tra me: quelli là morivano per sostenere il partito di un uomo che non conoscevano e che neppure li conosceva, che non aveva mai pensato a loro; ed io morirò per liberare un uomo che mi ama e mi predilige…”

L’analisi di Foucault, alla fine, assegna il delitto all’ambito dei comportamenti fatali, che si realizzano cioè per la somma di indefinite variabili storiche, sociali, culturali, familiari, soggettive, ecc. che, nel loro complesso, sembrano non dare scampo all’individuo.

Nietzsche avrebbe condiviso in toto il lavoro di Foucault e, come si evince dal complesso del suo pensiero sulla criminalità, ne avrebbe esteso le conclusioni a tutti i delitti. Senza accordare molto credito al libero arbitrio, si può ritenere che anche a questo livello Nietzsche estremizza e generalizza intuizioni che, comunque, sono vere più spesso di quanto comunemente si ritenga.

E’ quasi superfluo aggiungere che, in conseguenza del significato negativo che associa costantemente alla normalità, Nietzsche si può ritenere un antipsichiatra ante-litteram.

Basta leggere le seguenti citazioni:

“4.

Quale significato ha, sotto l'aspetto fisiologico, quella follia da cui sorse sia l'arte tragica che comica, la follia dionisiaca? Come? Forse la follia non è necessariamente il sintomo della degenerazione, del tramonto, della civiltà troppo tarda? Ci sono forse - un problema per psichiatri,-., nevrosi della salute? della giovinezza del popolo e del suo animo giovanile?" (NT)

“12.

Il cattivo riconoscere e l’erroneo identificare sono la causa del cattivo dedurre di cui ci rendiamo colpevoli nel sogno: sicché, se ci richiamiamo alla mente un sogno con chiarezza, ci spaventiamo di noi stessi, tanta è la pazzia che si nasconde in noi. La perfetta chiarezza di tutte le rappresentazioni oniriche, la quale ha come presupposto la fede incondizionata nella loro realtà, ci riporta ad antichi stati dell’umanità, quando l’allucinazione era oltremodo frequente e prendeva intere comunità, interi popoli. Dunque, nel sonno e nel sogno, noi eseguiamo ancora una volta il compito dell’umanità primitiva.” (UTU)

“14. Significato della follia nella storia della moralità. - Se nonostante quella spaventosa oppressione dell'«eticità dei costumi», sotto la quale sono vissute tutte le comunità umane per molti millenni prima del nostro computo del tempo e ancora in essa in tutto e per tutto fino ad oggi (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell'eccezione e, per così dire, nella zona cattiva): - se, dico, nonostante questo, sempre di nuovo hanno fatto irruzione pensieri, valutazioni e impulsi nuovi e devianti, questo avvenne con una compagnia da far venire i brividi: quasi ovunque è la follia che apre la strada al nuovo pensiero, che infrange il magico potere di una venerata consuetudine e superstizione.

Comprendete voi per quale motivo dovette essere la follia? Qualcosa di così terribile e imprevedibile nella voce e nei gesti come i demonici umori del tempo e del mare e perciò degno di un timore e di un'osservazione analoghi? Qualcosa che portava il segno di una completa involontarietà così visibilmente come le convulsioni e la bava dell'epilettico, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una divinità? Qualcosa che conferiva al portatore di un nuovo pensiero persino timore e tremore di sé, senza più rimorsi di coscienza, spingendolo a divenire il profeta e il martire di quello? Mentre oggi ci viene sempre di nuovo fatto capire che al genio, invece di un granello di sale, è dato un granello della radice della follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque vi sia follia, c'è anche un granello di genio e di saggezza, - qualcosa di «divino», come ci si sussurrava.” (AUR)

“20. Dignità della follia. Alcuni millenni ancora sul binario dell'ultimo secolo! In tutte le azioni umane si individua un'intelligenza eccelsa: ma proprio così l'intelligenza avrà perduto tutta la sua dignità. Essere intelligenti è necessario, certo, come lo è essere così consueti e banali che un gusto più schizzinoso possa avvertire questa necessità come una volgarità. E proprio come la tirannia della verità e della scienza sarebbero in grado di far crescere il prezzo delle menzogne, così una tirannia dell'intelligenza potrebbe provocare un nuovo genere di nobiltà. Essere nobili potrebbe allora forse significare avere qualche follia in testa.”

“76.

Se non ci fosse stata, in ogni tempo, una gran maggioranza di uomini i quali identificavano nella disciplina della loro testa - la loro «ragionevolezza» - il loro orgoglio, i loro obblighi, le loro virtù, e che ogni fantasticheria ed esuberanza di pensiero offendeva o svergognava in quanto amici del «sano intelletto umano», l'umanità sarebbe andata in malora già da tempo! Il pericolo più grande che aleggiava e continua ad aleggiare su di loro era lo scoppio della pazzia: cioè lo scoppio della discrezionalità nel percepire, vedere e udire, il piacere della mancanza di disciplina in testa, la gioia per il non-intelletto umano. Non la verità e la certezza sono il contrario del mondo dei folli, ma la generalità e la obbligatorietà nei confronti di tutti imposte da una fede, ovvero la mancanza di discrezionalità nel giudizio” (GS)

Anche se Nietzsche non ha dedicato mai una riflessione specifica alla follia, è del tutto evidente che egli ha anticipato uno dei criteri da cui è sorta l’antipsichiatria: la distinzione tra trasgressione alla norma e devianza residua.

In un libro piuttosto famoso negli anni ’70 del secolo scorso, Thomas J. Scheff illustra in questi termini la distinzione:

“Con la prima si intende un comportamento che sia in chiara violazione delle regole accettate dal gruppo, e che vengono abitualmente definite dai sociologi come norme sociali. Se i sintomi delle malattie mentali devono essere interpretati come violazioni delle norme sociali, è necessario specificare di quale tipo di norme si tratti. Nella maggior parte dei casi al violatore non viene imposto il marchio di malato di mente, ma quello di maleducato, ignorante, immorale, criminale, o forse solo turbato, secondo il tipo di norma in gioco. Ci sono però innumerevoli norme su cui il consenso del gruppo è così assoluto che i suoi membri mostrano di darle per scontate…

I gruppi sociali creano la devianza stabilendo le regole la cui infrazione costituisce appunto devianza e applicandole a particolari individui che vengono classificati come estranei... la devianza non una qualità dell'atto che una persona compie, ma piuttosto una conseguenza dell'applicazione da parte degli altri di regole e sanzioni al "trasgressore." Il deviante è uno cui questo marchio stato applicato con successo; il comportamento deviante è tale in quanto così marchiato dalla gente.

Secondo questa definizione, i devianti non sono un gruppo di persone che hanno commesso la stessa azione, ma che sono state stigmatizzate come tali.

La cultura del gruppo fornisce un vocabolario di termini per classificare molte violazioni: esempi comuni ne sono delitto, perversione, ubriachezza e maleducazione. Ognuno di questi termini deriva dal tipo di norma infranta, e, in ultima analisi, dal tipo di comportamento in gioco. Dopo aver esaurito queste categorie, però, esiste sempre un residuo dei più diversi tipi di violazione, per cui la cultura non fornisce nessun esplicito marchio…

Per interpretare casi di trasgressione alla norma cui non può essere dato un nome, e che vengono richiamati all'attenzione della società, è utile allora che queste violazioni possano essere raggruppate in una categoria residua: stregoneria, invasamento, o, nella nostra società, malattia mentale.”

L’oppressione legata alla Norma, alla Morale, al Costume, alle Tradizioni è uno dei temi portanti del pensiero di Nietzsche.

La critica della morale e del costume

Come si è detto nella precedente conferenza, la scoperta nietzschiana della naturale tendenza della coscienza umana alla mistificazione, vale a dire a ingannare se stessa e a farsi ingannare, aderendo a tradizioni culturali, valori morali e  codici normativi che sono funzionali semplicemente ad omologare l’individuo,a dargli un’illusoria tranquillità, facendolo sentire integrato nel gruppo, e a mantenere la coesione sociale, ha un valore che noi non siamo ancora in grado di apprezzare.

E’ difficile rinunciare soggettivamente alle pretese certezze dell’io, che ci dona il senso dell’unità, della coerenza e della continuità nel tempo al prezzo della rimozione delle infinite contraddizioni che sottendono la coscienza e rappresentano il materiale da costruzione di un’identità più autentica, più plastica, più aperta e tollerante.

E’ difficile per la società rinunciare a storicizzare e relativizzare  i valori culturali su cui essa si fonda, e dal cui rispetto discende la normalità, rappresentino solo uno dei modi possibili in cui gli esseri umani possono regolare la loro convivenza

Alle pretese certezze dell’io corrisponde di fatto, a livello di ogni società, l’etnocentrismo, vale a dire la convinzione che la sua cultura, i suoi ordinamenti siano superiori a quelli di tutte le altre.

Se queste illusioni potessero essere sormontate, non c’è dubbio che l’umanità farebbe un salto di qualità rivoluzionario. Il singolo individuo diventerebbe riflessivo, autocritico, prudente nei suoi giudizi, desideroso di capire sempre più le sue contraddizioni e di evolvere verso una maggiore autenticità. La società diventerebbe tollerante, aperta al confronto con altre culture, orientata a colmare le sue lacune attingendo ad un patrimonio culturale globale.

Nonostante l’asprezza del suo pensiero, il sogno di Nietzsche non è affatto irragionevole. Certo, si tratta di un sogno astratto, intellettuale, che non tiene conto che gli esseri umani utilizzano le opportunità che vengono messe a loro disposizione dalla società, e che quindi la realizzazione di quel sogno dipende da una nuova programmazione sociale piuttosto che dalla selezione di spiriti liberi.

L’individualismo, sia pure nell’ottica di un’individuazione eroica che fa capo alla possibilità realmente esistente che il singolo soggetto possa contrapporsi al mondo nel quale si trova a vivere, contestandone l’organizzazione, la cultura, la sostanziale mediocrità, è il limite del pensiero di Nietzsche, da cui discende l’aspra e impietosa critica nei confronti del conformismo e del senso comune.

Egli interpreta la tendenza della coscienza alla mistificazione come espressione della debolezza e della natura sostanzialmente servile di gran parte della popolazione, che vengono sfruttate dal Potere religioso, politico e culturale per mantenere l’uomo in uno stato di alienazione e di inconsapevolezza riguardo alla sua reale condizione. Il suo impegno, pertanto, è di demistificare il Potere, dimostrando che esso non ha alcun valore intrinseco, ma lo ricava solo dall’istinto gregario dell’uomo.

La subordinazione dell’individuo al gruppo, la sua adesione al costume, alla morale corrente e al senso comune  è una vera ossessione per Nietzsche. Le motivazioni inconsce di questa fobia dell’omologazione culturale sono ormai note. Si tratta di capire in quale misura essa gli consente di cogliere gli aspetti disfunzionali del bisogno di appartenenza/integrazione sociale.

Leggiamo dunque le citazioni più significative a riguardo.

“16.

Principio primo della civiltà. Presso i popoli primitivi esiste un genere di costumi, la cui mira pare essere il costume in generale: minuziose e in fondo superflue prescrizioni.., che però mantengono continuamente nella coscienza la persistente vicinanza del costume, l'ininterrotta costrizione a praticarlo; e questo per rafforzare il grande principio con cui ha inizio la civiltà: qualsiasi costume è migliore di nessun costume.” (AU)

“89.

Il costume e la sua vittima.  L'origine del costume risale a due pensieri: «la comunità val più dell'individuo» e «è preferibile un vantaggio durevole a uno passeggero»; da cui si deduce che il vantaggio durevole della comunità è senz'altro da anteporre a quello del singolo, specialmente al suo benessere momentaneo, ma anche al suo vantaggio durevole e persino alla sua sopravvivenza.

Ora, sia che l'individuo soffra di una istituzione che giova alla comunità, sia che, a causa di essa, intristisca e vada in rovina,  il costume dev'essere mantenuto e la vittima sacrificata…

Così si resta al costume e alla moralità: la quale è appunto solo il sentimento di tutto l'insieme dei costumi tra i quali si vive e si è stati educati  educati, invero, non come individui ma come membri di un tutto, come numeri di una maggioranza.

 Così accade di continuo che il singolo per mezzo della sua moralità si metta in minoranza.” (UTU)

“9.

Eticità non è nient'altro (e quindi niente più!), che obbedienza ai costumi, di qualunque tipo possano essere; i costumi però sono il modo tradizionale di agire e di valutare.

In cose ove non comanda alcuna tradizione, non v'è alcuna eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccola diviene la sfera dell'eticità. L'uomo libero è privo di etica, perché in tutto vuol dipendere da sé e non da una tradizione: in tutti gli stati primordiali dell'umanità il significato di «cattivo» corrisponde a quello di «individuale», «libero», «arbitrario», «insolito», «imprevisto», «incalcolabile»…

Che cos'è la tradizione? Un'autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda.  E in cosa si distingue questo sentimento di fronte alla tradizione, dal sentimento della paura in generale? Esso è la paura di un intelletto superiore che comanda, di una potenza incomprensibile e indeterminata, di qualcosa di più che personale,  v'è superstizione in questa paura.

Originariamente l'intera educazione e cura della salute, il matrimonio, l'arte medica, l'agricoltura, la guerra, il parlare e il tacere, i rapporti tra gli uomini e quelli con gli dèi appartenevano alla sfera dell'eticità: essa pretendeva che si osservassero delle prescrizioni, senza pensare a sé come individui…

Non ci si inganni sul motivo di quella morale che come segno di eticità esige la più difficile osservanza del costume! Il superamento di sé non viene richiesto per le utili conseguenze che esso ha per l'individuo, ma perché il costume, la tradizione appaiono dominanti, nonostante ogni opposta voglia e vantaggio individuali: il singolo si deve sacrificare  questo esige l'eticità del costume…

Ovunque ci sia una comunità e quindi un'eticità del costume, domina anche il pensiero che il castigo per la offesa al costume ricada soprattutto sulla comunità: quel castigo sovrannaturale, la cui manifestazione e i cui limiti sono così difficili da comprendere e vengono sondati con tanta superstiziosa angoscia. La comunità può obbligare il singolo a reintegrare a favore del singolo o della comunità il danno più immediato conseguente alla sua azione; essa può prendersi anche una specie di vendetta sul singolo, per il fatto che a causa sua, come presunta conseguenza della sua azione, nubi e temporali dell'ira divina si sono addensati sulla comunità,  tuttavia essa sentirà la colpa del singolo soprattutto come propria colpa e ne porterà il castigo come il proprio castigo : «i costumi sono divenuti più fiacchi»  così si lamenta l'anima di ciascuno  «se tali azioni sono possibili».

Ogni azione individuale, ogni individuale modo di pensare provoca un brivido; non è possibile calcolare cosa devono aver sofferto nell'intero decorso della storia gli spiriti più rari, più raffinati, più originali per il fatto di esser sentiti come malvagi e pericolosi, anzi per il fatto che essi stessi si sentirono tali.

L'originalità di ogni tipo, sotto il dominio dell'eticità dei costumi, ha acquistato una cattiva coscienza; fino a questo momento il cielo dei migliori ne è stato ancor più oscurato di quanto avrebbe dovuto essere.” (AU)

“19.

Eticità e instupidimento.  Il costume rappresenta le esperienze di uomini passati circa ciò che si presumeva utile e nocivo,  ma il sentimento del costume (eticità) non si riferisce a quelle esperienze come tali, bensì all'età, alla sacralità, alla indiscutibilità del costume. E con ciò questo sentimento agisce contro il fatto che si facciano nuove esperienze e si correggano i costumi: cioè l'eticità agisce contro la nascita di nuovi e migliori costumi: essa instupidisce.” (AU)

“34.

Sentimenti morali e concetti morali.  Evidentemente i sentimenti morali vengono trasmessi in modo che i bambini percepiscano negli adulti forti inclinazioni e avversioni verso determinate azioni e che, come fossero nati scimmie, imitino queste inclinazioni e avversioni; nell'avanzare della vita, quando si ritrovano pieni di questi affetti acquisiti con la pratica e ben esercitati, ritengono sia una questione di decenza un tardivo perché, una sorta di argomentazione, che giustifichi quelle inclinazioni e avversioni. Queste «argomentazioni» però non hanno niente a che fare, in essi, né con l'origine, né con il grado del sentimento: ci si contenta appunto solo della regola secondo cui, in quanto esseri razionali, si dovrebbero avere delle ragioni per il pro e per il contro, e in verità delle ragioni dichiarabili e accettabili.

Pertanto la storia dei sentimenti morali è del tutto diversa dalla storia dei concetti morali. I primi sono potenti prima dell'azione, gli ultimi in particolare dopo l'azione, in considerazione della necessità di esprimersi sopra di essa.” (AU)

“L'istinto del gregge. Laddove incontriamo una morale troviamo sempre una valutazione e un ordinamento gerarchico degli istinti e delle azioni umane. Queste valutazioni e ordinamenti gerarchici sono sempre espressione dei bisogni di una comunità e di un gregge: ciò che giova in primo luogo - ma anche in secondo e in terzo - alla comunità, diventa anche la suprema scala di valori di ogni singolo. Con la morale il singolo è addestrato ad essere funzione del gregge e ad attribuirsi valore soltanto in quanto funzione. Poiché le condizioni della conservazione di una comunità sono assai diverse da quelle di un'altra comunità, ci sono state morali assai diverse e, in riferimento alle sostanziali trasformazioni che ancora ci aspettano di greggi e comunità, Stati e società, si può profetizzare che ci saranno ancora morali molto differenti. La moralità è l'istinto del gregge nel singolo.”  (GS)

“Poiché in ogni tempo, da quando sono esistiti gli uomini, sono esistite anche greggi umane (gruppi familiari, comunità, stirpi, popoli, Stati, Chiese) e sempre molti che obbediscono in rapporto al piccolo numero di chi comanda,  tenuto conto dunque che l'ubbidienza fino ad oggi è stata esercitata e insegnata tra gli uomini più di ogni altra cosa e più a lungo, possiamo giustamente supporre che oggi, in media, il bisogno di ubbidienza è innato in ognuno, come una specie di coscienza formale, che ordina: «tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi lasciare qualche cosa incondizionatamente», in breve «tu devi». Questo bisogno cerca di soddisfarsi e di riempire la propria forma con un contenuto; essa afferra, secondo la sua forza, impazienza e tensione, poco schizzinosa, come un grossolano appetito e accetta ciò che le viene gridato all’orecchio da chiunque comandi genitori, maestri leggi pregiudizi di casta opinione pubblica” (ABM)

“La demenza è rara nei singoli,  ma è la regola nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche” (ABM)

E’ fuori di dubbio che Nietzsche fa riferimento ad una società diversa dalla nostra: la società del suo tempo, che era ancora (almeno in Germania) altamente gerarchizzata e assoggettata a due Autorità (Trono e Altare) alleate tra loro. Si tratta, dunque, di contestualizzare la sua analisi del rapporto tra individuo e gruppo, ma non fino al punto di ritenerla anacronistica. Tale giudizio, infatti, implica una mistificazione.

A noi piace pensare di essere uomini liberi e comunque molto più liberi di quelli del passato. Ma quanto c’è di vero in questo? Probabilmente meno di quanto ci aggrada.

Per quanto concerne la società italiana, i sociologi sostengono che il numero di persone che, leggendo libri, riviste, giornali, e navigando su Internet, possono essere ritenute impegnate nel coltivare una coscienza critica – quali che siano le conclusioni cui pervengono – arriva appena a cinque milioni. E gli altri cinquanta milioni e passa? Vivono condividendo il senso comune alimentato dalla poltiglia televisiva, dallo scambio comunicativo quotidiano, dall’aria che si respira (ove sono depositati i codici normativi dominanti).

Un autentico paradosso, poi, è rappresentato dai giovani, che rivendicano precocemente e talora precocissimamente la libertà dalle gerarchie, dall’autorità, dalle tradizioni. Li si direbbe spiriti liberi se non fosse il fatto che essi precocemente incappano in un modello adultomorfo che impone loro un certo modo di sentire, di pensare e di agire piuttosto volgare, rozzo, “sbracato” che sembra terribilmente omologato e stereotipato.

L’appartenenza sociale, di fatto, è ancora oggi un problema per quanto riguarda l’effetto di inibizione che esercita sul bisogno di individuazione.

Vero è che questo problema oggi si pone in termini più articolati e complessi di quanto Nietzsche potesse pensare attribuendo la mediocrità della maggioranza alla codardia e alla pigrizia.

Mentalità, Super-Io e neuroni specchio

Nietzsche drammatizza al massimo grado quanto si dà di massificante, alienante e spersonalizzante nel controllo sociale sull’individuo, che è costitutivo di ogni aggregato umano e fa leva sulla sua paura di essere emarginato, rifiutato, escluso o punito. Per esercitarsi, la tirannia della società profitta dell’istinto gregario rappresentato nella maggioranza della popolazione, che comporta la tendenza al conformismo, all’omologazione, alla normalizzazione.

E’ questo l’aspetto del pensiero di Nietzsche che ha alimentato svariati tentativi di recuperarlo e valorizzarlo nella cornice del marxismo o della sinistra culturale come teorico dell’alienazione. Il problema è che, preda della sua pulsione verso un’individuazione antitetica, egli vede in qualunque tipo di aggregazione sociale un male. Nietzsche, in breve, ha una visione persecutoria dell’influenza sociale sull’individuo, sicché la salvezza si può realizzare solo in virtù della distanza e dell’isolamento elitario. Il suo intento univoco è di disgregare letteralmente la sovrastruttura culturale della civiltà occidentale, al fine di concedere agli spiriti liberi di respirare aria pulita e di non essere soffocati dal tanfo dei putridi valori normativi.

Se questo è vero, il pensiero di Nietzsche è irrecuperabile nella cornice di una sinistra comunque intesa, che prescinda da un orientamento anarcoide (che ovviamente non ha nulla a che vedere con l’anarchia storica).

Ciò nondimeno, l’impegno con cui Nietzsche critica le tradizioni culturali e i valori morali mantiene oggi una viva attualità dopo la scoperta degli storici francesi che ogni struttura sociale riconosce un sistema di valori che scorrono nelle profondità dell’inconscio sociale, condizionando, modellando e recintando il modo di sentire, di pensare e di agire dei singoli individui. Tale scoperta dà ragione a Nietzsche per quanto concerne il fatto che i valori culturali e morali si producono in determinate circostanze, sulla base di interpretazioni che gli esseri umani forniscono della realtà che vivono, ma si tramandano poi per inerzia nel corso delle generazioni fino a conseguire effetti anche assolutamente alienanti. Questo significa che nessun valore, nessuna norma, nessuna legge, nessuna tradizione va assunta come valida se non se ne comprendono le origini e il significato storico.

In un articolo, che ho citato numerose volte, G. Duby, che  è un marxista, scrive:

“Le ideologie presentano un certo numero di caratteristiche che è opportuno mettere subito in evidenza:

1. Appaiono come come sistemi completi e sono naturalmente globalizzanti, dal momento che pretendono di offrire della società, del suo passato, del suo presente, del suo futuro, una visione del mondo. Fino a un'epoca molto recente, le immagini della società hanno dunque mantenuto strette corrispondenze con le cosmologie e le teologie, e di conseguenza appaiono inseparabili da un sistema di credenze; nell'Europa medievale, a esempio, ogni rappresentazione dei rapporti sociali cercava necessariamente appoggio in qualcuno dei testi fondamentali del cristianesimo.

2. Le ideologie, che hanno come prima funzione quella di rassicurare sono, altrettanto naturalmente, deformanti. L’immagine che esse offrono dell’organizzazione sociale si costruisce su un incastro coerente di inflessioni, di slittamenti, di deformazioni, su di una prospettiva, su un gioco di chiaroscuri che tende a velare certe articolazioni proiettando tutta la luce su altre, per meglio servire interessi particolari. In tal modo lo schema dualistico e nettamente manicheo che, nel pensiero degli ecclesiastici del secolo IX, contrapponeva i «potenti» e i «poveri», poté incoraggiare la chiesa e la monarchia, i cui interessi coincidevano, a resistere alle pressioni dell'aristocrazia laica; ma questa immagine mascherava (e ha continuato a mascherare fin nello spirito dei più recenti storici della società) certe essenziali funzioni sociali ed economiche della signoria rurale.

3. Ne consegue che, in una società data, coesistono molteplici sistemi di rappresentazioni, che, naturalmente, sono concorrenti. Queste opposizioni sono in parte formali e corrispondono all'esistenza di molteplici livelli di cultura. Esse riflettono soprattutto antagonismi che nascono talvolta dalla giustapposizione di etnie separate, ma che sono sempre determinati dalla disposizione dei rapporti di potere. Un certo numero di tratti comuni avvicinano queste ideologie, dal momento che le relazioni vissute di cui esse offrono l'immagine sono le stesse, e si costruiscono in seno allo stesso insieme culturale e si esprimono negli stessi linguaggi. Tuttavia di solito le une si presentano come le immagini rovesciate delle altre, a cui si contrappongono. L'amore cortese, ad esempio, adultero e «pagano», appare, nella cristianità del secolo XII, come un'inversione quasi beffarda delle relazioni affettive vissute in seno ai lignaggi e alle compagnie vassallatiche, e nelle nuove forme della devozione alla Vergine. In effetti, il sistema ideologico di cui questo gioco mondano costituiva uno dei pilastri più saldi, copriva gli atteggiamenti dei cavalieri celibi che non ottemperavano ai costumi familiari, messi ormai in difficoltà dalla progressiva sclerosi dei rapporti feudali e di cui la morale della chiesa pretendeva di arginare le trasgressioni.

4. Totalizzanti, deformanti, concorrenti, le ideologie si dimostrano anche stabilizzatrici. È, ovviamente, il caso dei sistemi di rappresentazioni che mirano a conservare I vantaggi acquisiti dagli strati sociali dominanti; ma questa osservazione è ugualmente. valida per quelli, antagonisti, che riflettono, rovesciandoli, i primi. L'organizzazione ideale di cui fanno sognare le ideologie più rivoluzionarie è ancora effettivamente percepita, al termine delle vittorie che esse incitano a riportare, come qualcosa di stabile e definitivo: nessuna utopia chiama alla rivoluzione permanente.

Questa inclinazione alla stabilità deriva dal fatto che le rappresentazioni ideologiche partecipano alla pesantezza insita in tutti i sistemi, di valori. la cui ossatura è fatta di tradizioni. La rigidezza dei diversi organi di educazione, la permanenza formale degli strumenti linguistici, la potenza dei miti, l'istintiva reticenza nei confronti dell'innovazione che si radica nel più profondo dei meccanismi della vita ostacolano la possibilità che esse si modifichino sensibilmente nel corso del processo che le trasmette a ogni nuova generazione.

La paura del futuro fa si che le ideologie si appoggino naturalmente alle forze di conservazione, di cui ci si accorge che sono in realtà predominanti nella maggior parte degli ambienti culturali che si giustappongono e si compenetrano in seno al corpo sociale. Talvolta è la stessa disposizione delle tecniche di produzione a rendere più forte la resistenza al cambiamento: cosa che avviene ad esempio nelle società che presentano basi nettamente agrarie. La loro sopravvivenza dipende dalla stabilità di un sistema coerente di ricette empiriche, il cui equilibrio, risultato di lunghi sforzi di adattamento alle condizioni naturali, sembra fragile, e lo è effettivamente tanto più quanto più le tecniche sono fruste. Queste società vivono dunque nel timore di novità che rischierebbero di rompere questo equilibrio; si rinchiudono, per proteggersi, in un guscio di costumi, e trovano il loro fondamento nel rispetto di una saggezza di cui gli anziani appaiono come i più sicuri depositari.

Tuttavia, più solidamente e più comunemente, il conservatorismo si appoggia sulla stessa gerarchia sociale. I ceti dominanti, i cui interessi sono serviti da modelli ideologici più agguerriti degli altri, in genere, e nella misura in cui la loro superiorità materiale sembra, loro, più sicura, si concedono il lusso di incoraggiare le innovazioni nel campo dell'estetica e della moda. Tuttavia nel profondo. si mostrano molto attenti a difendersi contro tutti i cambiamenti meno superficiali che potrebbero mettere in discussione i poteri e i vantaggi che detengono.”

Penso che Nietzsche sottoscriverebbe gran parte di queste frasi. Del resto anche Duby sarebbe d’accordo con Nietzsche laddove egli afferma che ricostruire la genealogia dei valori culturali è l’unica possibilità che consente di valutarne appieno il significato autentico. Di sicuro egli non condividerebbe il fatto che  quei valori sono prodotti dalla maggioranza dei cittadini, che, casomai, li assimilano e li subiscono.

La verità profonda che ha scoperto Nietzsche è che, per gli esseri umani sia sul piano individuale che di gruppo, qualsiasi costume (o sistema di valori) è meglio di nessun costume. Proprio perché il mondo è caotico e senza senso gli esseri umani hanno bisogno di una cultura che, ponendo in esso un po’ di ordine, lo renda vivibile. La cultura, peraltro, dovendo ridurre la varietà genetica che si dà tra gli esseri umani, non può che strutturarsi sulla base di valori medi, vale a dire riconoscibili e agibili da parte della maggioranza degli individui che appartengono ad un determinato contesto socio-culturale.

Questa necessità non verrebbe meno neppure se la cultura fosse vissuta in termini relativi e considerata criticamente come uno dei molteplici modi di significare il mondo e il rapporto tra gli esseri umani. Il senso comune è, probabilmente, un orizzonte non trascendibile dell’esperienza umana, anche se si può pensare che esso possa depurarsi di opinioni pregiudiziali e di aberrazioni interpretative.

Costretto, dalla sua condizione carenziale, a produrre cultura per sopravvivere, l’uomo è stato agevolato dalla natura che ha predisposto il cervello a funzionare, nelle fasi evolutive, come un replicatore culturale. L’analisi ha scoperto nel Super-io la funzione, in gran parte inconscia, che agevola la replicazione, anche se questa non va intesa in senso meccanicistico perché i valori trasmessi dalle generazioni precedenti vengono comunque percepiti e interiorizzati sulla base della sensibilità soggettiva. Le neuroscienze, di recente, in virtù della scoperta dei neuroni specchio, che promuovono l’empatia e l’imitazione, ha fornito un fondamento neurobiologico alla teoria del Super-io, che rappresenta la crisalide culturale della personalità umana, che solo in virtù di un processo di istituzionalizzazione può, eventualmente, procedere verso l’individuazione e la differenziazione.

Nietzsche ha ragione nello stigmatizzare il carattere assoluto che tendono ad assumere i valori culturali e morali una volta prodotti, come pure nel rilevare che gran parte degli esseri umani rimangono per sempre nel loro bozzolo originario e che la loro proterva, per quanto inconsapevole, convinzione di essere normali e depositari della verità ha reso sempre la vita difficile agli spiriti critici e liberi, che hanno bisogno di “volare” (metafora che si ritrova spesso nei suoi scritti).

Egli però è preda di una logica antitetica che lo porta ad opporre in maniera radicale la logica dell’individuazione a quella dell’appartenenza.

Cosa si può dire oggi a riguardo?

E’ fuor di dubbio che il sentirsi parte di un gruppo e condividerne i valori e i moduli di comportamento che esso ritiene normativi abbia un effetto sull’individuo sostanzialmente rassicurante e tranquillizzante. In quanto animale sociale, l’uomo di fatto è letteralmente catturato dal mito dell’armonia, che residua a livello inconscio come espressione delle prime fasi evolutive della personalità.

Oggi sappiamo anche che il mito dell’armonia ha un fondamento neurobiologico. Laddove si realizza in forma estrema, benché illusionale, vale a dire nel corso di un innamoramento, esso corrisponde all’attivazione del sistema endorfinico. Laddove, viceversa, si limita a dare un senso di appartenenza ad un gruppo, esso corrisponde  all’attivazione del sistema serotoninergico.

C’è da considerare, però, che se il cervello umano è catturato dal mito dell’armonia, vale a dire dall’esigenza di non sentirsi escluso da tutto e da tutti, esso comporta anche un bisogno di individuazione che si manifesta in forme evidente in molteplici momenti di crisi oppositive che intervengono nel corso dell’evoluzione della personalità e raggiunge l’acme nel corso dell’adolescenza.

Anche il bisogno di individuazione ha una corrispondenza neurobiologica. Esso infatti entra in azione sulla base dell’attivazione del sistema dopaminergico, che determina uno stato d’animo caratterizzato da una minore soggezione sociale, da una tendenza all’opposizione e da un’apertura esplorativa al nuovo.

Come risulta chiaro a livello adolescenziale, il bisogno di individuazione implica la messa in discussione dei principi, dei valori, delle norme trasmesse dagli adulti. Esso anticipa la possibilità, destinata a realizzarsi lentamente, che l’individuo giunga a formulare un sistema di valori avvertito come personale e mantenga, per tutta la vita, un atteggiamento critico nei confronti della pressione normativa operata dall’ambiente, riconoscendo in essa una sollecitazione all’omologazione, vale a dire a pensare o ad agire in maniera conformistica.

Volendo utilizzare una metafora forte, si può dire che a quella che Nietzsche ritiene la peste - il mito dell’armonia fondato sull'appartenenza -, la natura ha provveduto con il vaccino dell’individuazione.

Sarebbe ingenuo, però non riconoscere che, per l’influenza dell’ambiente o per quieto vivere, la programmazione intrinseca al cervello raramente si realizza. La crisi adolescenziale spessissimo abortisce dando luogo ad un modo di essere normalizzato che, se coincide con un certo grado di integrazione sociale, induce l’individuo a non avvertire più alcuna spinta nella direzione dell’individuazione.

Possiamo riconoscere a Nietzsche il merito di aver scoperto in quale misura, nella maggioranza della popolazione, il bisogno di appartenenza inibisce e inattiva quello di individuazione, per cui gli esseri umani vengono meno al dovere di interrogarsi sulla loro condizione e al piacere di percorrere vie nuove. Egli ha anticipato di decenni la diagnosi di Fromm della personalità normale come strutturalmente deficitaria.

Nietzsche, però, a differenza di Fromm, riteneva che siffatta condizione fosse meno di origine storico-culturale, che costituzionale. La cultura, dal suo punto di vista, non avrebbe fatto altro che esaperare questo aspetto, producendo una maggioranza di esseri deboli e malriusciti. A fuorviare l’uomo dalla sua natura, univocamente impregnata dalla volontà di potenza, avrebbe cominciato il Cristianesimo ecclesiale. Vanamente ostacolata dal Rinascimento, la decandenza sarebbe poi continuata con l’avvento della democrazia liberale, con il Capitalismo e con Il Socialismo.

Nietzsche, l’Anticristo

Nietzsche è divenuto famoso soprattutto per aver denunciato la “morte di Dio”. Il termine, come vedremo, non va solo riferito alla religione, bensì a tutti gli idoli culturali che gli uomini hanno costruito e di cui sono divenuti schiavi.

Per quanto riguarda la religione, in particolare quella cristiana, la critica di Nietzsche è una conseguenza della sua ossessione di liberare l’umanità, e se stesso, dai sensi di colpa.

Il Cristianesimo, di fatto, è la religione della colpa per eccellenza. Esso non solo fa incombere sull’umanità il riferimento mostruoso ad una colpa ancestrale che si trasmette di generazione in generazione al punto che ogni essere umano viene alla luce gravato del peccato originale, ma eleva a dogma il fatto che l’espiazione di quella colpa passa attraverso il sacrificio del Figlio di Dio, vale a dire un deicidio di cui l’uomo è responsabile e da cui può riscattarsi solo identificandosi con il Crocifisso e prendendo su di sé la Croce.

Nietzsche ha pagato per tutta la vita la colpa di essersi ribellato a questa nefasta ideologia. In Ecce Homo, scritto pochi mesi prima di precipitare nella follia, egli giunge addirittura ad identificarsi con il Crocifisso, dando a questa identificazione un significato affatto particolare. Egli ha accettato la sofferenza psichica e psicosomatica non per espiare i peccati del mondo, ma per liberare il mondo dal senso di colpa e dal concetto stesso di peccato.

L’identificazione con il Cristo comporta anche una interpretazione originale della sua parabola umana. Cristo, di fatto, è morto come un criminale, in conseguenza del suo aspro conflitto con la Chiesa di Gerusalemme, alleata del potere romano.

Che un criminale sia stato rivalutato al punto di diventare il simbolo della Civiltà occidentale è, per Nietzsche, una conferma del ruolo che i devianti svolgono nella storia.

E’ il Gesù contro la Tradizione, il senso comune, il Poterecostituito che interessa a Nietzsche. Leggiamo alcune citazioni:

“XXVII

Non vedo contro che cosa fosse diretta [la] rivolta, di cui si pensò, o si fraintese, che Gesù fosse il propugnatore, se non contro la Chiesa ebraica, la «Chiesa» presa proprio nel senso in cui l'intendiamo oggi. Fu una rivolta contro i «buoni» e i «giusti», contro i «santi d'Israele», contro la gerarchia sociale, non contro la corruzione di questi ma contro la casta, il privilegio, l'ordine, la formula; fu la sfiducia negli «uomini superiori», un no pronunciato contro tutto ciò che concerneva preti e teologi…

Questo santo anarchico che innalzò gli umili, i reietti e i «peccatori», Ciandala all'interno del giudaismo fino a contrastare l'ordine dominante, in un linguaggio che, se si deve credere ai Vangeli, porterebbe ancora oggi in Siberia, era un criminale politico, per quanto fossero possibili i criminali politici in una società assurdamente apolitica. Questo lo portò alla croce: prova ne è l'iscrizione apposta su di essa. Morì per sua colpa e manca ogni fondamento per affermare che morì per i peccati degli altri…

XXIX

Che cosa significa «buona novella»? Si scopre la vita vera, la vita eterna: questa non è promessa, è qui, è dentro di voi: in quanto vissuta nell'amore, nell'amore senza sottrazione o esclusioni, senza distanza. Tutti sono figli di Dio, Gesù non reclama assolutamente nulla solo per sé e in quanto è figlio di Dio: ciascuno è uguale all'altro…

Fare di Gesù un eroe! E che malinteso peggiore ancora il termine «genio»! Ogni nostra nozione, ogni nostro concetto culturale di «spirito» non aveva alcun significato nel mondo in cui visse Gesù. Detto con il rigore del fisiologo, una parola totalmente diversa sarebbe qui al suo posto più idonea: la parola idiota…

XXXII

La «buona novella» significa esattamente che non ci sono più contrasti; il Regno dei Cieli appartiene ai fanciulli; la fede che qui si rivela non è una fede conquistata con le lotte: c'è, è fin dal principio, è, per così dire, un infantilismo che ritorna a ciò che è spirituale…

Con una certa tolleranza d'espressione si potrebbe definire Gesù uno «spirito libero», non gli importa alcunché di tutto ciò che è fisso: la parola uccide, tutto ciò che è fisso uccide. Il concetto, l'esperienza della «vita» nel solo modo in cui li comprende si oppongono a ogni sorta di parola, di formula, di legge, di fede e di dogma. Parla solo delle cose più intime: «vita» o «verità» o «luce» sono le sue parole per questa dimensione più interiore; tutto il resto, la realtà nel suo complesso, l'intera natura, il linguaggio stesso, possiedono per lui solo valore di segno o di parabola…

XXXIV

Se comprendo qualcosa di questo grande simbolista è il fatto che assunse per realtà, per «verità», esclusivamente le realtà interiori e che intese tutto il resto, tutto ciò che è naturale, temporale, spaziale e storico, soltanto come segni, come spunti di parabole. Il concetto di «figlio dell'uomo» non è una persona concreta appartenente alla storia, qualcosa di individuale, di unico, ma un fatto «eterno», un simbolo psicologico affrancato dalla nozione di tempo. Lo stesso vale, nel senso più elevato, anche per il Dio di questo simbolista tipico, per il «regno di Dio», per il «regno dei Cieli», per i «figli di Dio»…

Il «regno di Dio» non è qualcosa che si attende; non ha né ieri né domani, non viene «tra mille anni», è un'esperienza di cuore; è ovunque e in nessun luogo…

XXXV Questo «messaggero della buona novella» morì come aveva vissuto, e come aveva insegnato, non per «redimere gli uomini», ma per mostrare come si deve vivere. Ciò che lasciò in eredità all'umanità è la pratica: il suo contegno dinanzi ai giudici, alle guardie, agli accusatori e a ogni sorta di calunnia e derisione, il suo contegno sulla croce. Non reagisce, non difende il proprio diritto, non fa un solo passo per respingere da sé il peggio, anzi, lo provoca... Prega, soffre, ama con quelli e in quelli che gli fanno del male. Le parole al ladrone sulla croce contengono l'intero Vangelo: «Costui era davvero un uomo divino, un figlio di Dio!» dice il ladrone. «Se lo credi - risponde il redentore, - tu sei in paradiso, anche tu sei figlio di Dio». Non difendersi, non andare in collera, non attribuire responsabilità... Non resistere neppure al malvagio, ma amarlo…”

“XXXIX

La parola «cristianesimo» è già un equivoco; in realtà c'è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce. Il Vangelo è morto sulla croce. Ciò che si chiamò Vangelo da quel momento in poi era già l'opposto di ciò che egli aveva vissuto: una cattiva novella, un dysangelium. È falso fino all'assurdo il vedere in una «fede», per esempio nella fede della redenzione per mezzo di Cristo, la caratteristica peculiare del cristiano: solo la pratica cristiana, una vita come quella che visse colui che morì sulla croce, questo è cristiana... Ancora oggi è possibile una vita simile, e per certi uomini persino necessaria: il cristianesimo autentico e originario sarà possibile in ogni tempo…”

Nell’interpretazione di Nietzsche, Gesù è un santo anarchico, uno spirito libero, un idiota dostoevskiano, un personaggio al di là del bene e del male. Non un debole, perché non ha avuto alcuna paura di sfidare l’Autorità e di morire per le sue idee. Neppure un eroe, però, perché egli ha fatto semplicemente ciò che il cuore gli dettava di fare. L’interpretazione di è azzardata, ma meno fantasiosa di quanto si possa pensare.

Se si leggono i vangeli prescindendo dalle pallide interpretazioni ecclesiali, ciò che sorprende è il carattere culturalmente eversivo della predicazione di Gesù. Egli non solo non rispetta i codici comportamentali rituali tradizionali (l'astensione da ogni lavoro il sabato, il digiuno, le abluzioni preprandiali, la vendetta come risarcimento, ecc.), ma rifiuta di riconoscere la sacralità dei doveri parentali (“«Chi viene a me e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, le sorelle e perfino la propria vita non può essere mio discepolo») e attacca con estrema asprezza la ricchezza, considerata da sempre espressione della benevolenza divina («Quanto è difficile entrare nel regno di Dio! E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio»).

In rapporto al suo contesto culturale, Gesù è sicuramente, come sostiene Nietzsche, uno spirito libero. Al tempo stesso, come accade ad ogni spirito libero, egli è però anche un uomo del suo tempo, che non riesce ad affrancarsi dal riferimento biblico ad una natura umana gravata dal male:

“L'errore di Cristo. Il fondatore del cristianesimo credeva che niente facesse soffrire gli uomini quanto i loro peccati: fu questo il suo errore, l'errore di colui che si sentiva senza peccato, cui mancava un'esperienza in questo senso! Così la sua anima si sentiva ricolma di quella misericordia prodigiosa e fantastica per una miseria che persino nel suo popolo, il quale del peccato era l'inventore, raramente era considerata una gran miseria! Ma in seguito i cristiani sono riusciti a dare ragione al loro maestro, consacrando il suo errore e innalzandolo al rango di verità.” (LGS)

Ecco il nodo problematico. Spirito libero, Gesù ha commesso un solo errore: dare credito all’esistenza del male contrapposto al bene. Su questo errore si è edificata la Chiesa.

Tra l’insegnamento di Cristo e il Cristianesimo ecclesiale, Nietzsche non vede alcuna continuità, ma solo errore, fraintendimento, mistificazione, ipocrisia:

“Una decisione pericolosa. La decisione cristiana di ritenere il mondo brutto e cattivo ha reso il mondo brutto e cattivo.” (LGS)

“Il cristianesimo ha preso le parti di tutto ciò che è debole, vile, malriuscito; ha fatto un ideale dell'opposizione agli istinti di conservazione della vita forte. Ha persino corrotto la ragione delle nature intellettualmente più vigorose, insegnando agli uomini a considerare i valori supremi della spiritualità come peccaminosi, come ingannevoli, come tentazioni. L'esempio più deplorevole è la corruzione di Pascal, il quale riteneva la propria ragione giunta alla perversione per colpa del peccato originale, mentre era solo stata corrotta dal suo cristianesimo!” (AC)

“Nel cristianesimo gli istinti di chi è sottomesso e oppresso sono in primo piano: le classi inferiori sono quelle che vi cercano la salvezza. Qui la casistica del peccato, l'autocritica, l'inquisizione della coscienza è praticata come occupazione, come rimedio specifico contro la noia; qui è costantemente tenuto in vita un rapporto affettivo con un potente chiamato «Dio» (con la preghiera) ; il più elevato viene considerato irraggiungibile, un dono, una «grazia». Qui manca anche un luogo che sia pubblico: i luoghi nascosti, le stanze buie sono cristiani. Qui si disprezza il corpo, si ripudia l'igiene come forma di sensualità; la Chiesa si oppone alla pulizia (la prima misura presa dai cristiani dopo la cacciata dei mori fu la chiusura dei bagni pubblici, mentre la sola Cordova ne possedeva 270). È cristiano un certo senso di crudeltà verso sé stessi e verso gli altri, è cristiano l'astio per coloro che la pensano differentemente, è cristiana la volontà persecutoria. Idee tetre ed eccitanti sono in primo piano; gli stati spirituali più desiderati e designati con i nomi più eccelsi sono quelli epilettoidi; la dieta viene scelta in modo da favorire fenomeni morbosi e sovreccitare i nervi. È cristiana l'ostilità mortale contro i dominatori della Terra, contro i «nobili», e nello stesso tempo una competizione più nascosta e segreta (si lascia loro il corpo, si vuole solo l'«anima»). È cristiano l'odio per lo spirito, l'orgoglio, il coraggio, la libertà, il libertinaggio spirituale; è cristiano l'odio per i sensi, per la gioia dei sensi, l'odio per la gioia in generale…” (AC)

“II cristianesimo si chiama religione della pietà. La pietà è in antitesi alle affezioni toniche che accrescono l'energia del sentimento vitale: ha un effetto depressivo. Quando si compatisce si perde forza. La perdita di forza che la vita ha già subito per la sofferenza è ulteriormente aumentata e moltiplicata dalla pietà. La stessa sofferenza grazie alla compassione diventa contagiosa; talvolta può condurre a una perdita collettiva di vita e di energia vitale, che è assurda se rapportata al quantum della causa (il caso della morte del Nazareno). Questo è il primo aspetto; ma ve n'è uno ancora più importante.

Se si considera la compassione in base al valore delle reazioni che di solito scatena, il suo carattere letale appare in una luce assai più chiara. La pietà contrasta nel complesso la legge dell'evoluzione, che poi è la legge della selezione. Preserva ciò che è maturo per la distruzione; difende i diseredati e i condannati della vita; a causa del gran numero di soggetti cagionevoli di ogni specie che mantiene in vita conferisce alla vita stessa un aspetto tetro e incerto.” (AC)

“Il cristianesimo è stato fin ad oggi la più fatale specie di arroganza. Uomini non abbastanza grandi né abbastanza duri per poter dare, da artisti, forma all’uomo, uomini non abbastanza forti né lungimiranti da far valere, con un sublime superamento di sé, la legge primaria dei mille e mille fallimenti e naufragi; uomini non abbastanza nobili da vedere la profondità delle diverse gerarchie e dell'abisso tra uomo e uomo  questi uomini, con la loro «uguaglianza di fronte a Dio», hanno dominato fino ad oggi le sorti dell'Europa, finché si è giunti ad allevare una specie rimpicciolita, quasi ridicola, un animale che vive in branco, arrendevole, malaticcio e mediocre, l'europeo di oggi...” (ABM)

“Ciò che un tempo era soltanto malato oggi è diventato indecente, essere cristiani oggi è indecente. Ed è qui che ha inizio il mio disgusto. Mi guardo attorno: non una parola è rimasta di ciò che un tempo si chiamava «verità», non sopportiamo neppure più che un sacerdote pronunci la parola «verità». Sia pure secondo le più modeste esigenze di rettitudine, oggi bisogna sapere che un teologo, un sacerdote o un papa, a ogni frase che pronuncia non è solo in errore, ma mente; che non è più libero di mentire «innocentemente», per «ignoranza». Il sacerdote sa come chiunque altro che non v'è più né «Dio», né «peccatore», né «Redentore»; che il «libero arbitrio» e l'«ordine morale del mondo» sono menzogne; la serietà e la radicale vittoria spirituale su di sé non permettono più ad alcuno di essere ignorante su questo aspetto...

Tutti i concetti della Chiesa sono riconosciuti per quello che sono: le più perfide falsificazioni che esistano, allo scopo di svalutare la natura e i valori naturali: il sacerdote stesso è riconosciuto per quello che è: la specie più pericolosa di parassita, il vero ragno velenoso della vita...

Sappiamo, la nostra coscienza lo sa, quanto valgano oggi e a che servivano queste sinistre invenzioni dei sacerdoti e della Chiesa, con le quali è stato raggiunto quello stato di autoprofanazione dell'umanità, la cui vista può suscitare disgusto: i concetti di «aldilà», «giudizio finale», «immortalità dell'anima», di «anima» stessa, sono strumenti di tortura, sistemi di crudeltà di cui si servirono i sacerdoti per diventare e rimanere padroni...

Lo sanno tutti: eppure tutto rimane immutato. Dove è dunque andato a finire l'ultimo senso di decoro e di rispetto di sé, quando persino i nostri uomini di stato, una razza di uomini assai spregiudicata, di fatto completamente anticristiani, si definiscono ancora oggi cristiani e prendono parte all'eucaristia?…” (AC)

Se si tiene conto che ancora oggi l’insegnamento della Chiesa rimane vincolato ai dogmi del peccato originale (per cui la natura umana è inquinata dal Male), e della realtà del Demonio come Persona, le critiche di Nietzsche appaiono ampiamente giustificate. In nome della salvezza dell’uomo, la Chiesa in realtà è contro l’uomo perché strumentalizza la sua finitezza, inducendolo a viverla con un’angoscia intollerabile, che postula, per essere alleviata, di una prospettiva trascendente, e gli promette la salvezza a patto che egli si assoggetti a valori morali che mortificano la sua natura.

Del tutto giuste sotto il profilo dottrinario al punto di avere contribuito incisivamente ad avviare il processo di secolarizzazione della società occidentale, tuttora in corso, le crotiche di Nietzsche, al solito, hanno un taglio non dialettico. Esse appaiono carenti per due aspetti.

 La sua ricostruzione del Cristianesimo come alleanza dei deboli, dei miserabili e degli incolti contro i forti, sottesa dal culto della compassione, è poco attendibile da un punto di vista storico: è, ahimé, un luogo comune, fondato sul presupposto che gran parte dei primi cristiani fossero schiavi o persone di umile condizione.

In realtà, le cose non stanno così. Il successo del Cristianesimo, soprattutto a Roma, è stato dovuto ad un’adesione massiccia di persone appartenenti al ceto agiato e colto. Aderendo al Cristianesimo, i ricchi, oltre a rinunciare al proprio patrimonio a favore della comunità, si ponevano in opposizione alla società, mettendo in gioco lo status, il prestigio e la stessa incolumità fisica. Il loro esempio eroico ha avuto un effetto trainante sulle masse.

Come ogni rivoluzione allo stato nascente che si pone contro l’ordine costituito, anche quella cristiana ha richiesto ai suoi adepti prove straordinarie di coraggio e di fede. Se si vuole, si può parlare di fanatismo, ma non certo di debolezza.

I primi cristiani, vale a dire i cristiani del primo secolo dopo Cristo, erano paradossalmente spiriti liberi e rivoluzionari nella misura in cui contestavano il Potere costituito e l’ordinamento iniquo della società, fondata sulla schiavitù, in nome dell’universale fratellanza umana, vale a dire dell’uguaglianza. Non per caso essi venivano messi a morte come attentatori del Potere imperiale.

Il secondo aspetto riguarda le due anime del Cristianesimo – quella conservatrice e quella rivoluzionaria, schierata da sempre a difesa dei diritti dell’uomo e in particolare dei più deboli e degli oppressi - che Nietzsche non differenzia. E’ vero che alla sua epoca il Cristianesimo progressista era assolutamente minoritario. Se così non fosse stato, però, la critica di Nietzsche avrebbe avuto forse un’asprezza maggiore, perché il Cristianesimo progressista esalta l’uguaglianza tra gli esseri umani

Il problema, come si è detto fin dalla prima conferenza, è che l’uguaglianza, intesa come valore etico e non come negazione delle differenze individuali, vale a dire come ugualitarismo, è la bestia nera di Nietzsche in quanto comporta il pericolo della dittatura di una maggioranza pigra e mediocre. Non c’è da sorprendersi, dunque, se dopo aver demolito criticamente il Cristianesimo, Nietzsche rivolge i suoi strali contro la democrazia liberale e il Socialismo.

Il pensiero politico di Nietzsche

Il pensiero politico di Nietzsche, aristocratico (sia pure in termini del tutto indipendenti dalla nobiltà di sangue), elitario e anti democratico, è forse l’aspetto più caduco della sua riflessione sull’uomo e sulla condizione umana.

Non ripeterò quanto già detto nella prima conferenza sull’elogio che Nietsche fa della necessità della disuguaglianza tra gli esseri umani affinché i forti, i Migliori possano traghettare l’umanità verso il regno del Superuomo, né della sua ossessione per una selezione culturale, implicitamente razzista, che dovrebbe spazzare via tutti i deboli, gli esseri malriusciti.

Ciò che mi preme rilevare è che, nella cornice di un pensiero sostanzialmente “scellerato”, si danno comunque alcune riflessioni di grande significato. La scelleratezza di Nietzsche, come si è detto, è facile da comprovare. Alle citazioni proposte nella prima Conferenza, ne aggiungo solo due:

“Lo «Stato» più antico apparve come una tirannia terribile, come un meccanismo stritolatore e privo di scrupoli, e proseguì su questa via, fino a quando questa materia grezza di popolo e di semianimalità non venne finalmente bene amalgamata e resa duttile, e altresì dotata di forma.

Ho usato la parola «Stato»: è chiaro a quale mi riferisco:  un branco qualsiasi di biondi animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni, che organizzata militarmente e con la forza di organizzare, abbatte senza riguardo le sue orribili zampe su una popolazione forse enormemente superiore per numero, ma ancora priva di forma, ancora nomade. Così ha inizio in terra lo «Stato»: credo che sia eliminato il sogno illusorio che lo faceva cominciare con un «contratto». Chi può comandare, chi è naturalmente «padrone», chi incede tirannico nelle azioni e nei gesti  non ha certo bisogno di contratti! Con esseri simili è impossibile fare calcoli, essi arrivano come il destino, senza motivo, senza ragione, senza riguardo, senza pretesti, compaiono come il fulmine, troppo orribili, troppo convincenti, troppo «diversi» per essere anche soltanto odiati. La loro opera è una creazione di forme istintiva, un conio di forme, essi sono gli artisti più involontari e inconsapevoli che esistano insomma, dove essi appaiono c'è qualcosa di nuovo, un prodotto di dominio che vive, in cui parti e funzioni sono delimitate e finalizzate, in cui non trova posto niente che non abbia prima ricevuto un «senso» in relazione al tutto.

Essi ignorano che cosa sia la colpa, la responsabilità, il rispetto, questi organizzatori nati; in essi domina quell'egoismo terribile dell'artista, che ha uno sguardo d'acciaio e sa di essere giustificato nell'«opera», come la madre nel figlio, per tutta l'eternità. Non sono costoro quelli in cui è cresciuta la «cattiva coscienza» lo si intende benissimo dal principio  ma tuttavia senza di loro essa non sarebbe cresciuta, questa mala pianta, essa non esisterebbe se sotto il peso dei colpi dei loro martelli, della loro violenza di artisti non si fosse cacciato dal mondo, o per lo meno dalla vista e reso quasi latente un enorme quantum di libertà. Questo istinto della libertà reso latente dalla violenza  lo abbiamo già capito  questo istinto di libertà represso, soffocato, incarcerato nell'intimo, che finisce per non potersi scaricare e sfrenare altro che contro se stesso: questo e solo questo è, al suo inizio, la cattiva coscienza.” (GM)

“259.

Astenersi reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, equiparare la propria volontà a quella degli altri: ciò può divenire in un certo qual rozzo modo una buona abitudine tra individui, ove ve ne siano le condizioni (cioè la loro effettiva omogeneità di forze e di valori e la loro appartenenza reciproca all'interno di un unico corpo). Non appena però si volesse prendere questo principio in senso più ampio e, se possibile, come principio fondamentale della società, esso si dimostrerebbe subito per ciò che è: volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza. Occorre qui pensare in modo esaustivo al fondamento e rifiutarsi ad ogni debolezza sentimentale: la vita stessa è essenzialmente, appropriazione, violazione, sopruso su ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza e imposizione delle proprie forme, annessione e perlomeno  ed è il caso più benevolo , sfruttamento, ma a che scopo bisognerebbe usare sempre proprio queste parole, sulle quali si è impressa sin dai tempi antichi un'intenzione diffamatoria?...

Lo «sfruttamento» non appartiene a una società deteriorata o incompleta e primitiva: esso appartiene all'essenza stessa di ciò che è vivente, come organica funzione fondamentale essa è una conseguenza della caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita.” (ABM)

Su questa base, non c’è da aspettarsi che un orientamento critico nei confronti della democrazia, che promuove demagogicamente l’uguaglianza, il regime parlamentare,  i politici e le masse degli elettori:

“438.

Chiedere la parola.  Il carattere demagogico e l’intenzione di influire sulle masse sono oggi comuni a tutti i partiti politici: essi tutti sono costretti, a causa di questa intenzione, a trasformare in grandi affreschi di stupidità i loro principi e a dipingerli sulle pareti. Non c’è più nulla da fare, anzi è superfluo persino muovere un dito contro questo fenomeno; infatti in questo campo vale quanto dice Voltaire: quand la populace se méle de raisonner, tout est perdu. Dacché ciò è accaduto, ci si deve rassegnare alla nuova situazione, come ci si rassegna quando un terremoto ha sconvolto i vecchi confini, la configurazione del terreno e ha cambiato il valore della proprietà.

Inoltre: se oggi, in ogni politica, si tratta di render la vita tollerabile al maggior numero possibile di uomini, questi uomini dovranno pur determinare anche che cosa intendano per vita tollerabile; se presumono di possedere l’intelligenza necessaria per trovare i mezzi atti allo scopo, a che sentirebbe dubitarne? Ora, essi vogliono essere finalmente gli artefici della propria felicità e infelicità; e se questo sentimento di autodeterminazione, l’orgoglio per quelle quattro o cinque idee che hanno in testa e che vanno esponendo, rende loro effettivamente la vita così piacevole da far loro sopportare volentieri le fatali conseguenze della loro limitatezza: c’è poco da obiettare, premesso che questa limitatezza non vada tanto in là da pretendere che tutto in questo senso diventi politica e che ognuno viva e operi secondo questi criteri.

Innanzitutto, cioè, dev’essere più che mai consentito ad alcuni di astenersi dalla politica e di farsi un po’ da parte: anch’essi son spinti a ciò dal piacere dell’autodeterminazione; e vi può andar congiunto anche un pizzico dell’orgoglio nel tacere, quando a parlare sono in troppi o anche solo in molti. Inoltre bisogna perdonare a questi pochi se non danno tanta importanza alla felicità dei molti, e qui intendiamo popoli o strati di popolazione, e si permettono qua e là un’espressione ironica; infatti la loro serietà sta altrove, la loro felicità è un’altra cosa, il loro fine non può star chiuso in una goffa mano che abbia solo cinque dita.

Giungerà infine - cosa che sarà concessa loro con gran difficoltà, ma che tuttavia dovrà esser concessa  di tempo in tempo un momento in cui essi usciranno dal loro silenzioso isolamento e metteranno nuovamente alla prova la forza dei loro polmoni: allora si chiameranno l’un l’altro come degli smarriti in un bosco, per farsi riconoscere e per incoraggiarsi a vicenda; e certamente verranno dette ad alta voce cose che suoneranno male alle orecchie cui non sono destinate.  Subito dopo il bosco tornerà silenzioso, così silenzioso che si potrà nuovamente percepire con chiarezza il sibilo, il ronzio e il battito d’ali degli innumerevoli insetti che vivono dentro, sopra e sotto di esso.” (UTU)

“Sul dominio dei sapienti. ‑ E’ facile, ridicolmente facile, stabilire il modello per la scelta di un corpo legislativo. Innanzitutto dovrebbero isolarsi, fiutandosi e riconoscendosi a vicenda, gli uomini onesti e fidati di un paese, che allo stesso tempo siano maestri ed esperti in qualche cosa: da essi poi, in una scelta più ristretta, dovrebbero selezionarsi i più grandi specialisti e sapienti in ogni campo specifico, anche qui riconoscendosi e garantendosi a vicenda. Quando il corpo legislativo fosse così composto, infine dovrebbero per ogni singolo caso decidere solo i voti e i giudizi degli esperti più specializzati, e l'onestà di tutti gli altri dovrebbe esser diventata abbastanza grande, da esser una semplice questione di decenza il lasciare solo a quelli la facoltà di votare in merito: sicché, nel senso più stretto, la legge scaturisce dall'intelligenza dei più intelligenti.

‑ Oggi votano i partiti: e in ogni votazione debbono esserci centinaia di coscienze vergognose ‑ quelle dei male informati, degli incapaci di giudizio, di quelli che ripetono l'opinione altrui, che vanno dietro agli altri, che vengono trascinati. Niente avvilisce la dignità di ogni nuova legge più di questo rossore della disonestà ad essa aderente e a cui ogni voto di partito costringe.

Ma, come abbiamo detto, è facile, ridicolmente facile, metter su una cosa del genere: nessuna potenza del mondo oggi è abbastanza forte per realizzare il meglio, ‑ a meno che la fede nella superiore utilità della scienza e di coloro che sanno non finisca per illuminare anche il più malintenzionato e venga preferita alla fede, oggi predominante, nel numero. Nel senso di questo futuro il nostro motto sia: «Più rispetto per chi sa! E abbasso tutti i partiti!».” (UTU)

“In disparte.

Il parlamentarismo, ovvero la pubblica licenza di poter scegliere tra cinque opinioni politiche fondamentali, lusinga quei molti che vorrebbero apparire autonomi e individuali e desiderano lottare per le loro opinioni. In fin dei conti, però, è indifferente se al gregge sia imposta una opinione o se gliene siano concesse cinque. Chi si discosta da una delle cinque opinioni pubbliche e si mette in disparte, si ritrova sempre tutto il gregge contro di sé.” (LGS)

E’ evidente che l’atteggiamento politico di Nietzsche è dipendente dalla sua visione aristocratica del mondo. Ciò nondimeno, se si mette tra parentesi l’ossessione elitarista, le sue critiche non sono prive di fondamento. Sono, tra l’altro, quasi le stesse che A. de Tocqueville, aristocratico di nascita, ha analizzato nel suo capolavoro, La democrazia in America. La differenza tra Tocqueville e Nietzsche è che il primo è spietatamente analitico, ma anche benevolo nei confronti delle conseguenze sociali dell’avvento della democrazia borghese. Per cogliere questa differenza, basta una sola citazione, per altro celeberrima:

“Che cosa chiedete alla società e al suo governo? Bisogna intendersi. Volete conferire allo spirito umano una certa dignità, un modo generoso di affrontare le cose del mondo? Volete ispirare agli uomini una sorta di disprezzo per i beni materiali? Desiderate far nascere o alimentare convinzioni profonde, e gettare le basi per grandi abnegazioni?

Si tratta, per voi, di raffinare i costumi, di elevare le maniere, di far splendere le arti? Volete la poesia, la fama, la gloria?

Avete l'intenzione di organizzare un popolo in modo da agire fortemente sugli altri? Lo destinate a grandi imprese e, qualunque sia il risultato dei suoi sforzi, a lasciare una traccia immensa nella storia?

Se tale, a vostro avviso, è l'obiettivo principale che devono perseguire gli uomini uniti in società, non scegliete il governo della democrazia; sicuramente non vi condurrebbe allo scopo.

Ma se vi sembra utile orientare l'attività intellettuale e morale dell'uomo sulle necessità della vita materiale, ed impiegarla a produrre il benessere; se la ragione vi pare più proficua agli uomini del genio; se il vostro scopo non è di creare virtù eroiche, ma abitudini pacifiche; se preferite vedere vizi piuttosto che delitti, e trovare meno azioni grandi, pur di incontrare un numero minore di grandi crimini; se, invece di agire in seno a una società brillante, vi basta vivere in mezzo a una società prospera; se, infine, l'obiettivo principale di un governo non è, secondo voi, quello di dare all'intero corpo della nazione la maggior forza e la maggior gloria possibili, ma di procurare a ciascuno degli individui che lo compongono il massimo benessere e di evitargli la maggiore miseria possibile, allora rendete uguali le condizioni, e costituite un governo democratico." (p. 294)

L’idea di una società prospera, irretita dal benessere materiale, ragionevole ma non gloriosa, abitudinaria e anche viziosa ma non violenta è orribile per Nietzsche. Ma è proprio questa la società che si va delineando nella seconda metà dell’800 in conseguenza della progressiva egemonia della classe borghese.

Nietzsche disprezza la borghesia in quanto agente storica della democrazia. Egli vede nell‘avidità del denaro e del possesso un segno certo di degenerazione:

"310.

Un pericolo, nella ricchezza.  Solo chi ha spirito dovrebbe avere proprietà: altrimenti la proprietà costituisce un pericolo pubblico. Infatti il proprietario, che non sa fare alcun uso del tempo libero che la proprietà potrebbe garantirgli, continuerà sempre ad aspirare alla proprietà: questa aspirazione sarà per lui una distrazione, lo stratagemma nella sua lotta contro la noia. Nasce così, da una modesta proprietà che a un uomo spirituale basterebbe, la vera e propria ricchezza: ossia come brillante risultato di mancanza d'autonomia e di povertà spirituale. Ora però egli appare assai diverso da come la sua meschina origine farebbe supporre, perché può mascherarsi di cultura e d'arte: egli appunto può comprare la maschera. In tal modo provoca l'invidia dei più poveri e ignoranti  i quali in fondo invidiano sempre la cultura, e nella maschera non vedono la maschera  e prepara via via un rivolgimento sociale: infatti una rozzezza dorata e uno studiato gonfiarsi nel preteso «godimento della cultura» ispirano il pensiero che «dipende solo dal denaro»  mentre, certo, dal denaro qualcosa dipende, ma molto di più dipende dallo spirito." (UTU)

"317.

Il possesso possiede.  Solo fino a un certo punto il possesso rende l'uomo più indipendente, più libero; un grado più in là  e il possesso diventa il padrone, e il possessore il suo schiavo: come tale deve sacrificargli il suo tempo, il suo pensiero, e da quel momento si vede costretto a un rapporto, inchiodato a un luogo, incorporato in uno Stato  e tutto forse contro il suo più intimo ed essenziale bisogno."

"304.

Spiriti della sovversione e spiriti del possesso. L'unico rimedio contro il socialismo che sia ancora in vostro potere è: non provocarlo, il che significa vivere con moderazione e sobrietà, evitare per quanto è possibile l'ostentazione dell'opulenza e venire in aiuto dello Stato, quando esso impone tasse rilevanti su tutto ciò che è superfluo e ha l'apparenza del lusso. Non volete questo rimedio? Allora, ricchi borghesi che vi dite «liberali», ammettetelo, è la vostra stessa disposizione quella che trovate così terribile e minacciosa nei socialisti, ma che ammettete in voi stessi come inevitabile, come se nel loro caso essa fosse qualcosa di diverso. Se, così come siete, non aveste il vostro patrimonio e la preoccupazione di conservarlo, questa vostra disposizione vi renderebbe socialisti: solo il possesso vi distingue da loro. Dovete innanzitutto vincere voi stessi, se volete in qualche modo vincere i nemici della vostra agiatezza.

 E magari quell'agiatezza fosse realmente benessere! Non sarebbe così esteriore e provocatrice d'invidia, sarebbe più partecipe, più benevola, più accomodante, più provvida. Ma la falsità e l'affettazione delle gioie del vostro vivere, che stanno più nel senso del contrasto (che altri non le abbiano e vi invidino) che non nel senso di un appagamento e potenziamento delle forze  le vostre case, i vostri abiti, le vostre vetture, le vostre vetrine, le esigenze del vostro palato e della vostra mensa, il vostro rumoroso entusiasmo per l'opera e la musica, e infine le vostre donne, formate e colte, ma di metallo non nobile, dorate, ma senza il suono dell'oro, scelte da voi come oggetti da esposizione, e che come tali si comportano:  questi sono i velenosi propagatori di quella malattia popolare, il socialismo, che come una rogna del cuore si comunica sempre più rapidamente alla massa, ma che in voi ha la sua prima sede e il suo focolaio. E chi potrebbe oggi fermare questa peste?" (UTU)

Ancora più critico e violento è Nietzsche nei confronti del Socalismo, nel quale legge il pericolo di orientare l’umanità verso un mondo di esseri mediocri:

“La totale degenerazione dell'uomo giù fino a ciò che oggi appare ai babbei socialisti e alle teste vuote come il loro «uomo del futuro»,  come il loro ideale  questa degenerazione e deprezzamento dell'uomo a perfetto animale del gregge (o come essi dicono in uomo della «società libera»), questo abbrutimento dell'uomo in bestiola con uguali diritti ed esigenze è possibile, non vi è alcun dubbio! Chi ha pensato a questa possibilità fino in fondo, almeno una volta, conosce una nausea in più rispetto agli uomini,  e forse anche un nuovo compito!” (ABM)

451.

Giustizia come richiamo di partito.  Nobili rappresentanti (anche se non proprio molto sagaci) della classe dominante possono ben ripromettersi: vogliamo trattare gli uomini da uguali, riconoscere loro uguali diritti. ln questo senso una mentalità socialista, fondata sulla giustizia, è possibile; ma, come s’è detto, solo all’interno della classe dominante, che in questo caso esercita la giustizia a prezzo di sacrifici e di rinunce. Di contro, esigere l’uguaglianza dei diritti, come fanno i socialisti della casta assoggettata, non è affatto qualcosa che scaturisce dalla giustizia, bensì dall’avidità.  Se a una belva si avvicinano pezzi di carne sanguinolenta per poi allontanarglieli di nuovo, sino a che quella alla fine ruggisce, pensate che quel ruggito voglia dire giustizia? (UTU)

452.

Proprietà e giustizia.  Quando i socialisti dimostrano che tra gli uomini d’oggi la distribuzione della proprietà è la conseguenza di infinite ingiustizie e violenze e in summa rifiutano ogni vincolo, verso uno stato di cose dai fondamenti così iniqui, essi vedono solo un lato della questione.  Tutto il passato della cultura antica si basa sulla violenza, sulla schiavitù, sull’inganno, sull’errore; ma non possiamo decretare la scomparsa di noi stessi, eredi di tutte quelle situazioni, anzi concrezioni di tutto quel passato, né dobbiamo desiderare di isolarne una parte. La disposizione all’ingiustizia si annida anche nell’animo dei non possidenti: non sono migliori dei possidenti, né hanno alcun privilegio morale, perché una volta i loro antenati sono stati possidenti. Non occorrono nuove violente suddivisioni, ma graduali trasformazioni del modo di pensare: in tutti deve farsi più grande la giustizia e più debole l’ istinto di sopraffazione. (UTU)

457.

Schiavi e operai.  Che noi attribuiamo maggior valore al soddisfacimento della vanità che a ogni altro bene (sicurezza, impiego, piaceri di ogni sorta) è dimostrato in un grado ridicolo dal fatto che ognuno (a prescindere da ragioni politiche) desidera l’abolizione della schiavitù e aborre oltre ogni limite dal ridurre gli uomini in questa condizione: mentre ognuno deve dirsi che gli schiavi vivono sotto ogni rapporto più sicuri e felici dell’operaio moderno, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del «lavoratore». Si protesta in nome della «dignità umana»: ma è, per dirla schiettamente, quella cara vanità che considera come la sorte più dura il non essere equiparati, l’esser considerati pubblicamente inferiori. (UTU)

473.

Il socialismo e i suoi mezzi.  Il socialismo è il fantastico fratello minore dell’ormai superato dispotismo, di cui vuol diventare erede; le sue aspirazioni son dunque reazionarie nel senso più profondo. Esso desidera infatti una pienezza di potere statale quale solo il dispotismo ha posseduto, anzi supera tutto il passato nella sua aspirazione all’annientamento formale dell’individuo: il quale gli si presenta come un ingiustificato lusso di natura, che dev’essere corretto e trasformato in un adeguato organo della comunità.

A causa della sua parentela, esso compare sempre in prossimità di un eccessivo dispiegamento di potere, come l’antico, tipico socialista Platone alla corte del tiranno siciliano; desidera (e a volte favorisce) il cesareo Stato forte di questo secolo, in quanto, come abbiamo detto, ne vorrebbe diventare l’erede. Ma neppure questa eredità basterebbe ai suoi scopi: esso ha bisogno della più umile e mai vista sottomissione di tutti i cittadini di fronte allo Stato assoluto; e, poiché non può più contare nemmeno sulla vecchia pietà religiosa verso lo Stato, ma deve piuttosto lavorare incessantemente, senza volerlo, all’eliminazione di essa  in quanto cioè lavora all’eliminazione di tutti gli Stati esistenti  può sperare di esistere solo qua e là, per breve tempo, per mezzo del più violento terrorismo. Perciò si prepara in segreto a un dominio del terrore e alle masse seimignoranti ficca in testa come un chiodo la parola «giustizia», per privarle totalmente dell’intelletto (dopo che questo ha già abbastanza sofferto a causa della mezza cultura) e procurar loro la buona coscienza per il gioco cattivo che dovranno giocare.  

II socialismo può servire a insegnare molto brutalmente ed efficacemente il pericolo insito in ogni accumulazione di potere statale, e in questo senso a ispirare sfiducia nei confronti dello Stato stesso. Quando la sua voce roca irromperà nel grido di battaglia: «Quanto più Stato possibile!»; questo grido in un primo momento sarà più rumoroso che mai; ma presto proromperà, con forza tanto maggiore, il grido opposto: «Quanto meno Stato possibile!». (UTU)

446.

Una questione di potenza, non di diritto.  Per gli uomini che in ogni cosa guardano alla superiore utilità, non esiste nel socialismo, nel caso esso sia realmente la rivolta delle vittime di un’oppressione millenaria contro i loro oppressori, alcun problema di diritto (con la ridicola, molle domanda: «Sino a che punto si deve cedere alle sue pretese?»), bensì unicamente un problema di potenza («Sino a che punto si possono utilizzare le sue pretese?»); dunque come per una forza naturale, ad esempio il vapore, il quale o viene costretto dall’uomo, come dio delle macchine, a servirlo oppure, in caso di difetti alla macchina, ossia di errori nel calcolo umano per costruirla, manda in pezzi macchina e uomo.

Per risolvere la questione del potere, bisogna sapere quale sia la forza del socialismo, e sotto quale forma esso possa venire usato come una potente leva entro il gioco attuale delle forze politiche; in determinate circostanze bisognerebbe persino far di tutto per rafforzarlo.  

Di fronte a ogni grande forza  sia pure la più pericolosa - l’umanità deve pensare a farne uno strumento dei suoi scopi.  

II socialismo si conquista un diritto solo quando tra le due potenze, i rappresentanti del vecchio e quelli del nuovo, sembra delinearsi un conflitto, e quando un calcolo avveduto sulla maggior conservazione e compatibilità possibili fa nascere dall’una parte e dall’altra il desiderio di un contratto. Senza contratto non v’è diritto. Sinora, però, nel campo di cui abbiamo parlato non ci sono né guerre né contratti, e dunque nemmeno diritti, nemmeno un «dovere». (UTU)

In conclusione, non c’è nulla da sperare da parte dei partiti e della politica:

480.

Invidia e pigrizia in direzione diversa.  I due partiti avversari, quello socialista e quello nazionale  quale che sia il loro nome nei vari paesi d’Europa  son degni l’uno dell’altro: le forze motrici sono in ambedue l’invidia e la pigrizia. In un campo si vuol lavorare il meno possibile con le mani, e nell’altro il meno possibile con la testa; in quest’ultimo si odia e si invidia l’individuo che si distingue, che si fa da sé, che non vuol farsi allineare allo scopo di un’azione di massa; nel primo invece si odia e si invidia la classe sociale migliore, esteriormente più favorita, il cui vero compito, la produzione dei massimi beni della civiltà, rende interiormente la vita tanto più difficile e dolorosa. Se poi si riesce a fare dello spirito dell’azione di massa lo spirito delle classi sociali più elevate, le schiere socialiste hanno perfettamente ragione di voler livellare anche esteriormente tra sé e quelle, dato che interiormente, nel cervello e nel cuore, sono già livellate tra loro.  Vivete da uomini superiori e continuate ad agire nell’interesse della cultura superiore  e tutto quanto vive in essa riconoscerà il vostro diritto, e l’ordinamento sociale, di cui siete la cima, sarà immune da ogni cattivo sguardo e da ogni attacco! (UTU)

Per quanto l’orientamento antidemocratico e antiuguaglitario di Nietzsche sia contestabile, in nome del fatto che gli esseri umani, pur diversi tra loro, hanno gli stessi diritti, tra i quali si dà anche la libertà di perseguire la propria autorealizzazione entro i limiti imposti dalla dotazione individuale, è fuor di dubbio che le sue critiche hanno un peso e conservano una qualche attualità.

Rilevato già da Tocqueville, il pericolo che la democrazia (e non solo in Italia) degeneri e diventi una forma di populismo incentrato sulla manipolazione mediatica degli elettori, al fine di instaurare la dittatura della maggioranza, come pure che essa divenga mera espressione di lobbyes privilegiate che la utilizzano per fare i propri interessi, è sotto gli occhi di tutti. Il pericolo poi che il Socialismo stesso si adegui alla società capitalistica riducendosi ad essere una cinghia di trasmissione dello stile di vita borghese presso le masse operaie e rinunci a promuovere un progetto alternativo all’esistenze è pure esso evidente.

Con il suo elitarismo aristocratico, Nietzsche politico vale ben poco. Come critico della società borghese e in via di imborghesimento, come critico insomma di una società che programma l’uguaglianza nella mediocrità, la sua voce ha ancora valore.

Egli legge ciò che la realtà sociale alla luce del sogno di un’umanità superiore a quella del suo tempo e a quella che abbiamo ancora sotto i nostri occhi, che, per alcuni aspetti, non è affatto migliorata.

La realizzazione di quel sogno, però, postula secondo Nietzsche l’abbattimento di tutti gli idoli che l’umanità ha costruito nel corso della sua storia per impedirlo. E’ per questa via che egli giunge al Nichilismo positivo e alla concezione del Superuomo.

Il Nichilismo attivo e il Superuomo

Il nichilismo inteso in senso generico, come visione di un universo senza senso all’interno del quale l’uomo rappresenta una minuscola ed effimera fluttuazione casuale, è presente in Nietzsche fin dall’esordio di Verità e menzogna in senso extramorale. Esso compare cinque anni dopo, quasi negli stessi termini, in Umano, troppo Umano:

“14.

L'uomo, il commediante del mondo.  Ci dovrebbero essere creature più di spirito di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo. Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per trovare, nei gesti tragicoorgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa crea4ira, la sua gioia quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito.

 Persino qui, dove la nostra umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione, qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi  ma francamente neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé -  quindi, in nessun caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza.

Forse la formica del bosco è altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco, come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante sepolcro dell'umanità.”

E’ quasi inevitabile cogliere l’assonanza tra il pessimismo cosmico nitzscheano e quello leopardiano. A differenza di Leopardi, la cui opera sembra tramata sul basso continuo del vanitas vanitatum ed omnia vanitas biblico, Nietzsche, come abbiamo visto, si impegna a criticare e a demolire tutti gli stratagemmi che l’umanità ha messo in opera per sfuggire alla verità che la riguarda, vale a dire la tragicità della sua condizione legata alla consapevolezza di esserci e l’insignificanza oggettiva dell’esserci. Egli demolisce: il mito dell’Io cosciente unitario e quello della libera volontà, il primato della Ragione a favore di impulsi sotterranei che determinano gran parte dei comportamenti umani, la consueta distinzione morale tra Bene e Male, il concetto di un Essere supremo e di qualsivoglia trascendenza, il mito della Socialità, dello Stato, della Democrazia e dell’uguaglianza,, l’utopia socialista.

E’ alla luce di questa critica radicale che prende corpo il nichilismo:

“In fondo che cosa è accaduto: Il sentimento della mancanza di valore fu raggiunto quando si capì che non è possibile interpretare il carattere complessivo dell'esserci né con il concetto di «fine», né con il concetto di «unità», né con il concetto di «verità». In tal modo non si ottiene e non si raggiunge nulla; nella molteplicità del divenire manca l'unità onnicomprensiva: il carattere dell'esserci non è «vero», è falso..., non c'è più nessuna ragione di vagheggiare un mondo vero...

In breve: le categorie «fine», «unita», «essere» con le quali avevamo posto un valore nel mondo, sono da noi nuovamente tratte fuori  e ora il mondo sembra senza valore...

Posto che abbiamo capito che non è più possibile interpretare il mondo con queste tre categorie e che dopo questa constatazione il mondo comincia a essere per noi senza valore, allora dobbiamo chiederci da dove derivi la nostra credenza in queste 3 categorie ; cerchiamo se non sia possibile negare loro questa credenza. Una volta che queste 3 categorie siano state svalutate, allora la dimostrazione della loro inapplicabilità al tutto non è più una ragione per svalutare il tutto.

Risultato: la credenza nelle categorie della ragione è la causa del nichilismo,  abbiamo misurato il valore del mondo con categorie che si rapportano a un mondo puramente simulato.

Risultato finale: tutti i valori con cui fino ad ora abbiamo tentato in primo luogo di rendere per noi stimabile il mondo e con cui poi, proprio per questo, l'abbiamo svalutato, essendosi rivelati inapplicabili  tutti questi valori, riguardati dal punto di vista psicologico, sono risultati di determinate prospettive dell'utilità per la conservazione e l'accrescimento di forme umane di dominio: e soltanto falsamente proiettati nell'essenza delle cose. Fa ancor sempre parte della ingenuità iperbolica dell'uomo «porre» se stesso come senso e misura di valore delle cose...” (VP)

E’ in questo senso che va intesa la morte di Dio annunciata da Nietzsche già ne La gaia scienza:

“Il più grande evento recente - il fatto che Dio è morto, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inattendibile - inizia già a gettare le sue prime ombre sull'Europa. Almeno per quei pochi i cui occhi, e la differenza che essi albergano, sono abbastanza forti e raffinati per questo spettacolo, sembra che per l'appunto sia tramontato un qualche sole e che una qualche fiducia profonda e antica si sia trasformata in dubbio: a loro il nostro vecchio mondo giunge ogni giorno più vespertino, più sfiduciato, più estraneo, «più vecchio». Nel complesso però si può dire che quest'evento è di per sé troppo grande, troppo lontano, troppo in disparte dalle capacità di comprensione di molti perché si possa affermare che anche solo la sua notizia sia pervenuta; figuriamoci poi se molti potrebbero sapere che cosa esso comporti - e come debba crollare, una volta che sia stata seppellita questa fede, tutto ciò che su di essa era costruito, appoggiato, cresciuto: ad esempio tutta la nostra morale europea. Questa lunga pienezza e sequenza di demolizioni, distruzioni, tramonti, crolli ormai imminenti: chi già oggi potrebbe indovinare tutto questo, recitando la parte del maestro e profeta di questa mostruosa logica dell'orrore e preannunziando un oscuramento e un'eclissi di sole di cui probabilmente sulla terra non si è mai visto l'uguale?...

Persino noi, nati per sciogliere enigmi, che per così dire attendevamo sulle montagne, collocati fra l'oggi e il domani e partecipi della tensione, della contraddizione fra l'oggi e il domani, noi primogeniti e prematuri del secolo venturo, che dovremmo già scorgere le ombre che presto avvilupperanno l'Europa: da che cosa dipende che persino noi assistiamo a questo offuscamento senza una vera partecipazione e, soprattutto, senza preoccupazione e paura? Siamo forse ancora troppo soggetti alle conseguenze più immediate di questo evento - e queste immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, non sono assolutamente, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, tristi e rabbuianti, ma costituiscono un nuovo genere, difficile da descrivere, di luce, felicità, sollievo, rasserenamento, incoraggiamento, aurora... In effetti, noi filosofi e «spiriti liberi» ci sentiamo, alla notizia che il «vecchio Dio è morto», come sfiorati da una nuova aurora; il nostro cuore trabocca di gratitudine, stupore, presagi, attesa, - finalmente l'orizzonte ci sembra di nuovo libero, posto che non sia chiaro, finalmente le nostre navi possono riprendere il largo, verso ogni pericolo, agli uomini della conoscenza è di nuovo concesso ogni ardimento, il nostro mare, il mare aperto è di nuovo là, e forse non c'è mai stato un mare così «aperto».”

Questo brano è di fondamentale importanza. Per un verso, infatti, esso ribadisce il tramonto irreversibile non già della Religione, ma di tutto ciò di elevato in cui l’uomo ha creduto per scampare all’insignificanza del suo esserci. La morte di Dio è la morte di un senso ultimo dell’esperienza umana, che inaugura l’avvento del nichilismo:

“Descrivo quello che avverrà: l'avvento del nichilismo. Posso descriverlo ora, poiché ora si verifica qualcosa di necessario  i segni di ciò sono dappertutto, per questi segni non mancano ormai che gli occhi. Non lodo, né qui biasimo che ciò accada: io credo che c'è una delle crisi più grandi, il momento della più profonda autoriflessione dell'uomo: che poi l'uomo si riprenda, che riesca a dominare questa crisi, è questione della sua forza: è possibile... L'uomo moderno crede in modo sperimentale ora in questo, ora in quel valore e poi lo lascia decadere: la sfera dei valori superati e decaduti diventa sempre più grande; si sente sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile  benché sia stata tentata in grande stile la decelerazione. Alla fine egli tenta una critica dei valori in generale; ne conosce l'origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido... Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli...” (VP)

Per un altro verso, la scomparsa dall’orizzonte della cultura umana di un senso che trascende la vicenda mondana, produce due diverse conseguenze positive: la prima è il brivido di un’infinita libertà di pensiero che può muoversi in tutte le direzioni senza più steccati o recinti; la seconda è il ricondursi alla vita accettando la sua problematicità e ricavando da questa consapevolezza un senso di salute, di benessere, di pienezza.

Questo apparente paradosso, che giustifica la definizione del nichilismo nietzscheano come nichilismo attivo o positivo, è giustificato dal fatto che l’uomo, il quale riesce a rinunciare alle illusioni tradizionali, sa e sente di essere il precursore di una nuova umanità che non avrà più paura della propria condizione reale. Certo, questa prospettiva sembra estremamente remota:

“E qui soffoco un sospiro e una ultima speranza. Quale è, per me in particolare, la cosa intollerabile per eccellenza? La cosa che non riesco a dominare da solo, che mi mozza il fiato e mi consuma? Aria cattiva! Aria cattiva! La possibile vicinanza di qualcosa di deforme, il dover sentire il lezzo delle interiora di un'anima deforme!... Del resto, che cosa non sopportiamo di miseria, privazioni, intemperie, malattie, fatiche e solitudine? In fondo riusciamo a risolvere tutto il resto, fatti come siamo per un'esistenza sotterranea e di lotta; si ritorna sempre a vedere la luce, si riesce sempre a vivere ancora un'ora splendente di vittoria  e allora eccoci, come siamo nati, indistruttibili, tesi, pronti al nuovo, all'ancora più difficile, più lontano, come un arco teso al massimo dal massimo della tribolazione.  

Ma di tempo in tempo mi sia concesso  posto che esistano divine protettrici, al di là del bene e del male  uno sguardo, mi sia concesso un solo sguardo su qualcosa di perfetto, di compiuto, felice, potente, trionfante, tale ancora da incutere qualche timore! Su un uomo, che giustifichi l'uomo su un felice accidente, complementare e salvifico dell'uomo, in grazia del quale si possa continuare ad aver fede nell'uomo. Poiché è così: l'immiserimento e il livellamento dell'uomo europeo cela in sé il nostro più grande pericolo, perché questo spettacolo rende stanchi...

Oggi non vediamo niente che voglia diventare più grande, si ha il presagio che tutto continui ad affondare sempre più in basso, e si faccia sempre più sottile, più buono, più intelligente, più confortevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano  l'uomo, e questo è indubbio  si fa sempre «migliore»... E questo è appunto il fatale destino d'Europa  col timore per l'uomo abbiamo perso anche l'amore, la venerazione, la speranza e la volontà verso l'uomo stesso. La vista dell'uomo rende ormai stanchi  e che cosa è oggi il nichilismo se non questo?... Siamo stanchi dell'uomo...”  (GM)

Nietzsche, però, non ha alcun dubbio riguardo all’avvento del Superuomo, che preconizza e definisce in termini che sono anche contraddittori, ma non scevri di un commovente utopismo:

“99

Forza, bontà, dolcezza, purezza e una involontaria, innata misura nelle persone e nelle loro azioni; un terreno spianato, piacevole e riposante per il piede; un cielo luminoso che si riflette su volti e avvenimenti; il sapere e l'arte confluiti in una nuova unità; lo spirito che, senza presunzione e gelosia, abita con l'anima sua sorella e dall'opposizione ricava la grazia della serietà, non l'impazienza del dissidio:  tutto ciò costituirebbe l'elemento generale di contorno, lo sfondo dorato sul quale soltanto allora le lievi differenze tra gli ideali incarnati creerebbero il quadro vero e proprio  quello di una sempre crescente altezza umana.” (UTU)

“180.

Una visione.  Ore di insegnamento e contemplazione per adulti, maturi e assai maturi, ogni giorno, senza costrizione, ma frequentate secondo i dettami della morale di ciascuno: le chiese come i luoghi per ciò più degni e ricchi di ricordi; per così dire, quotidiane feste celebrative della dignità della ragione umana raggiunta e raggiungibile; un nuovo e più pieno sbocciare e fiorire dell'ideale del maestro, nel quale dovrebbero fondersi il sacerdote, l'artista e il medico, il sapiente e il saggio, e così pure venire alla luce, nel loro insegnamento, nel loro discorso, nel loro metodo, le loro virtù individuali come una virtù collettiva  è questa la mia visione, che sempre mi si ripresenta e che credo fermamente abbia sollevato un lembo del velo del futuro.

Se la genialità, secondo quanto osserva Schopenhauer, consiste nel ricordo coerente e vivo di ciò che si è vissuto, allora nell'aspirazione a conoscere l'intero divenire storico  che sempre più potentemente distanzia l'epoca moderna da tutte le precedenti e ha fatto crollare per la prima volta la vecchia barriera tra natura e spirito, uomo e animale, morale e fisica  si potrebbe riconoscere un'aspirazione alla genialità dell'umanità nel suo complesso. La storia pensata compiutamente sarebbe autocoscienza cosmica.” (UTU)

“Stati d'animo elevati.

Mi sembra che la maggior parte degli uomini non credano proprio negli stati d'animo elevati, tranne che per pochi istanti, al massimo qualche quarto d'ora, - con l'eccezione di quei pochi che hanno sperimentato personalmente sentimenti elevati di durata più lunga. Ma essere l'uomo di un unico sentimento elevato, l'incarnazione di un unico grande stato d'animo - questo è stato finora soltanto un sogno e una possibilità incantevole, ma la storia non ce ne ha fornito nessun esempio certo.

Eppure, prima o poi, essa potrebbe generare anche uomini siffatti, purché siano state create e stabilite una serie di condizioni preliminari favorevoli che, per ora, neppure il più felice dei casi riuscirebbe a mettere insieme. Forse lo stato abituale di queste anime future sarebbe proprio quello che sinora si è fatto strada nelle nostre anime soltanto con un brivido, eccezionalmente e di rado: un continuo altalenare tra alto e profondo e la sensazione di altezza e profondità, una costante impressione di salire le scale e, al contempo, di riposare sulle nuvole.”  (GS)

“L '«umanità» futura.

Se guardo la nostra epoca con gli occhi di un'epoca lontana, non riesco a trovare nell'uomo di oggi niente di più straordinario di quella sua peculiare virtù e malattia denominata «senso storico». Con esso prende le mosse un qualcosa di totalmente nuovo e sconosciuto alla storia: se a questo seme si concedessero alcuni secoli e più, se ne potrebbe ricavare, alla fine, una pianta meravigliosa, con un profumo altrettanto meraviglioso, grazie alla quale la nostra vecchia terra diverrebbe più piacevole da abitare di quanto non lo sia adesso.

Noi del presente cominciamo per l'appunto a costituire la catena di un sentimento che in futuro sarà molto potente, un anello dopo l'altro, - sappiamo appena quel che stiamo facendo. Ci sembra quasi che non si tratti di un nuovo sentimento, ma della rimozione di tutti i vecchi sentimenti: il senso storico è ancora qualcosa di così povero e freddo, e molti ne sono aggrediti come dal gelo, diventando così ancora più poveri e freddi. Altri lo avvertono invece come il segno di un'età che si avvicina, e il nostro pianeta sembra loro un malato malinconico che, per dimenticare il suo presente, mette per iscritto la storia della sua gioventù.

In effetti questo è un colore di questo nuovo sentimento: chi sa percepire tutta la storia dell'uomo come storia personale avverte anche, in virtù d'una generalizzazione enorme, tutto il cruccio del malato che pensa alla salute, del vecchio che pensa ai suoi sogni di gioventù, dell'amante che è derubato dell'amato, del martire che vede affondare i suoi ideali, dell'eroe la sera della battaglia che non ha deciso niente e tuttavia gli ha inflitto ferite e la perdita dell'amico; ma sopportare, saper sopportare questa enorme somma di crucci d'ogni genere e tuttavia essere ancora l'eroe che, allo spuntare di un secondo giorno di battaglia, saluta l'aurora e la propria felicità, in quanto uomo con davanti a sé e dietro a sé un orizzonte di millenni, in quanto erede di tutta la distinzione di tutto lo spirito passato, erede con i suoi obblighi, in quanto il più nobile di tutti i nobili dell'antichità e al contempo il primo di una nuova nobiltà, i cui pari nessuna epoca ha ancora veduto e sognato; e infine caricarsi tutto ciò in una sola anima e condensarlo in un unico sentimento: questo dovrebbe procurare una felicità che l'uomo non ha ancora conosciuto, la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, colmo di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole a sera, continua a effondere nel, mare doni tratti dalla sua inesauribile ricchezza e che, come lui, si sente ricchissima soltanto quando anche il più povero dei pescatori rema con un remo d'oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora - umanità!” (GS)

“Ma prima o poi, in un'età più forte di questo presente marcio e dubbioso di sé, dovrà pure giungere fino a noi l'uomo del riscatto, l'uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, sempre di nuovo sospinto dall'urgere della sua forza via da ogni isolamento, da ogni trascendenza, l'uomo la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà  mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo affondare nella realtà, per poter estrarre e portare con sé un giorno, tornato nuovamente alla luce, la redenzione di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che l'ideale, quale esso è stato finora, le ha gettato addosso.

Quest'uomo del futuro, che ci redimerà non solo dall'ideale quale è stato sino ad oggi, ma anche da quello che da esso dovette nascere, dalla grande nausea, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco del mezzodì e della grande decisione, che libererà di nuovo l'uomo, che restituirà alla terra la sua meta e all'uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla  dovrà venire un giorno...” (GM)

Se si fa eccezione per l’ossessione secondo la quale il Superuomo potrà realizzarsi solo sulla base del sacrificio di innumerevoli esseri umani (ossessione dovuta al fatto che Nietzsche vede nel sacro egoismo e nel cinismo gli unici antidoti nei confronti dell’istinto del gregge e dell'omologazione), è evidente che l’utopia di Nietzsche concerne un universo  di spiriti liberi, aperti ad ogni novità, coraggiosi nell’affrontare le vicissitudini dell’esistenza, nobili nella misura in cui essi avvertono l’impulso allo sviluppo e all’autorealizzazione come bisogno intrinseco e non dipendente da valori trascendenti (religiosi, morali o sociali): un universo, insomma, di spiriti totalmente devoluti all’individuazione e affrancati dall’istinto del gregge.

C’è, come ormai risulta chiaro, molto di autobiografico in questa utopia, che è la proiezione nel futuro del tragitto di individuazione eroica nel quale Nietzsche ha identificato il suo destino di guida e di precursore della nuova umanità. C’è anche molto di inconscio in questo ideale di uomo liberato da ogni suggestione trascendente e da qualsivoglia influenza sociale che è in antitesi radicale al modo in cui Nietzsche è vissuto sino all’adolescenza.

Ciò nondimeno, se ci si tura il naso in rapporto alla selvaggia selezione naturale che Nietzsche ritiene indispensabile per l’avvento del Superuomo, non si può non rimanere sorpresi dal fatto che l’utopia nietzschiana non è radicalmente diversa da quella marxiana dell’uomo nuovo, universale o totale. In entrambe si esprime un’insofferenza radicale nei confronti del modello borghese di uomo, del suo angusto orizzonte, dei suoi mediocri obbiettivi (la sicurezza, la proprietà, il successo, ecc.) e la necessità impaziente che questo tipo d’uomo vada superato.

Ma in che termini si può oggi porre il problema del superamento dell’uomo? E qual è il contributo che Nietzsche, con il suo genio e i suoi eccessi, può ancora apportare a tale superamento?

Cercherò di rispondere a questi interrogativi nell’ultima conferenza.