Letture nietzschiane

Roma sett. 2010 - genn. 2011

 
Sigle delle Opere
Tutte le citazioni sono tratte da Nietzsche. Opere complete, Newton Compton, Roma 1981.
Le abbreviazioni usate per le singole opere sono le seguenti:
1854-1868 La mia vita (SA)
1872 La nascita della tragedia (NT)
1873 La filosofia nell’età tragica dei Greci (FTG)
1873 Verità e menzogna in senso extramorale (VM)
1873 David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore. Considerazioni inattuali I (DSI1)
1874 Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali II (UDSI2)
1874 Schopenhauer come educatore. Considerazioni inattuali III (SEI3)
1876 Richard Wagner a Bayreuth. Considerazioni inattuali IV (RWI4)
1878 Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (UTU)
1879 Opinioni e sentenze diverse (UTU)
1880 Il viandante e la sua ombra (UTU)
1881 Aurora (AUR)
1882 La gaia scienza (GS)
1883 Così parlò Zarathustra (prima e seconda parte) (ZAR)
1884 Così parlò Zarathustra (terza parte) (ZAR)
1885 Così parlò Zarathustra (quarta parte) (ZAR)
1886 Al di là del bene e del male (ABM)
1887 La genealogia della morale (GM)
1888 Il crepuscolo degli idoli (CI)
1888 L’Anticristo (AC)
1888 Ecce Homo (EH)
1888 Il caso Wagner
1888 Nietzsche contro Wagner (NW)
postuma La volontà di potenza (VP)

 

 

Lettura I

Il genio antitetico. Psicobiografia di Nietzsche
"Poco per volta mi è venuto in chiaro che cosa è stata finora ogni grande filosofia
cioè il confessarsi del suo autore; e una specie di mémoires non volute e improvvise…
Nel filosofo non c'è assolutamente nulla d'impersonale;
e in particolare la sua morale offre una testimonianza decisa e decisiva di chi egli è e cioè
in quale ordine gerarchico si collocano gli uni rispetto agli altri gli impulsi più profondi della sua natura."

 

 
Indice
Introduzione
1. Marx e Nietzsche
2. Diversità genetica e uguaglianza umana
3. Lo sfondo storico-culturale
4. Il sublime e lo “scellerato”
5. Genialità e psicopatologia
6. Il disagio psichico e psicosomatico di Nietzsche
7. Psicobiografia dinamica (1)
8. Psicobiografia dinamica (2)

 

Introduzione

Una lettura contemporanea di un autore complesso e controverso come Nietzsche, la cui opera - come vedremo - oscilla di continuo tra genialità, azzardo filosofico e provocazione ha senso solo se, mettendo tra parentesi la fin troppo abbondante letteratura che lo riguarda, adotta un punto di vista almeno relativamente nuovo e, ovviamente, non arbitrario.

Il punto di vista che adotterò muove dal prendere sul serio, più di quanto sia stato fatto finora, la citazione riportata in exergo, con la quale Nietzsche stesso sollecita a interpretare il suo pensiero come una lunga confessione le cui matrici dinamiche affondano nell’inconscio.

Assumere alla lettera l’intuizione di Nietzsche significa riconoscere immediatamente che la sua lunga e travagliata riflessione sull’uomo - che riguarda il suo posto nel cosmo, la sua appartenenza all’ordine naturale, la dotazione di pulsioni discendenti dalla sua animalità, il ruolo della coscienza e dell’inconscio, il significato dell'io e la sua capacità di arrivare alla verità, l’influenza dell’ambiente sulla personalità, l’origine e il significato dei valori culturali e morali, ecc. - è incentrata, dall’inizio alla fine, su un problema universale che dipende dalla struttura dell’apparato mentale umano: il rapporto tra Io e Altro o meglio tra appartenenza e individuazione, doveri sociali e diritti individuali, volontà altrui e volontà propria, adesione al senso comune e ricerca di un modo di sentire, di pensare e di agire personale, necessità (o fato nel linguaggio nietzscheano), e libertà individuale.

Tale rapporto, per motivi che dipendono dalla storia interiore più che dalla riflessione filosofica, si pone in Nietzsche in termini irriducibilmente conflittuali. L’antitesi tra appartenenza e individuazione è radicale al punto che la prima, con la sua capacità di influenzare e utilizzare l'istinto del gregge presente in gran parte degli esseri umani, si configura come una dimensione univocamente alienante, mistificante e (claustro)fobica, tal che l'unica salvezza rispetto al pericolo di rimanere schiavi delle tradizioni, del senso comune e della cultura corrente è un processo di individuazione eroica che pone l'uomo di fronte alla verità nuda e cruda inerente la sua condizione: l'essere egli un animale casuale e inessenziale nell'economia dell'Universo, malato nella misura in cui cerca in ogni modo di dare un senso “trascendente” alla sua esistenza, sostanzialmente debole e malriuscito, il cui unico riscatto consiste nel contrapporre al nichilismo implicito in quella verità il sì alla vita, vale a dire l'accettazione della volontà di potenza che la sottende.

Se la chiave del pensiero nietzschiano è il conflitto irriducibile tra appartenenza e individuazione, non sembra azzardato tentare di analizzare il pensiero di Nietzsche in un’ottica panantropologica, utilizzando anzitutto il modello psicoanalitico struttural-dialettico, che nasce, per l’appunto dalla constatazione della doppia natura dell’uomo - essere radicalmente sociale dotato di una pulsione verso l’individuazione. Nella misura in cui, poi, la riflessione di Nietzsche sulla condizione umana si pone come una riflessione a tutto campo, le cui conclusioni trascendono la sua esperienza personale e si pongono come verità universali, esse vanno valutate alla luce degli sviluppi più recenti delle scienze umane e sociali (genetica, neurobiologia, psicologia, sociologia, storia sociale, ecc.).

Per avviare questa analisi, che io ritengo più proficua di quella tradizionale che, assumendo Nietzsche come filosofo, urta sempre contro le indefinite contraddizioni che caratterizzano il suo pensiero, occorre giustificare preliminarmente il titolo della Conferenza. Tutti i geni sono necessariamente, in misura più o meno rilevante, in contrasto con il sapere acquisito e il senso comune. Nietzsche, però, è il genio antitetico per eccellenza.

La aggettivazione non va riferita solo al significato corrente del termine, che implica appunto l’essere in contrasto, ma a quello che esso ha assunto nella cornice della teoria della personalità struttural-dialettica, laddove essa fa riferimento ad una substruttura o funzione psichica - l’Io antitetico, appunto - che, in opposizione alle influenze sociali reali e interiorizzate, promuove la rivendicazione della libertà, dell’indipendenza, della sovranità dell’Io e assegna ad esso il diritto di sentire, di pensare, di agire in maniera originale, prescindendo, cioè, da come si deve sentire, pensare ed agire in nome dell’appartenenza sociale.

Si tratta di una funzione psichica che si edifica sulla base del bisogno di opposizione/individuazione, e si attiva caratteristicamente nel corso dell’adolescenza, determinando un contrasto più o meno radicale con il gruppo di appartenenza e le sue tradizioni culturali, destinato, in genere, ad essere sormontato via via che il soggetto si integra nella società. In alcuni soggetti, dotati di un bisogno di opposizione/individuazione particolarmente intenso, l’Io antitetico rimane attivo e talora iperattivo per tutta la vita, tanto più se l’Io cosciente stabilisce con esso un rapporto di totale connivenza.

L’orientamento antitetico è la matrice della creatività, sia in senso lato, come tensione verso uno statuto identitario in qualche misura differenziato e originale, sia in senso stretto, come promotore di una ricerca orientata ad esplorare l’universo dei mondi possibili, ma comporta un prezzo da pagare. La differenziazione da esso promossa, che affranca l’individuo dal senso comune, entra inesorabilmente in conflitto con il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, che promuove invece l’omologazione culturale, determinando conseguenze varie. Tra queste due, che si producono allorché l’antitesi comporta anche un certo grado di ostilità sociale, meritano di essere segnalate preliminarmente. La prima è la necessità di mantenere un certo grado di anestetizzazione empatica per salvaguardare l’io al riparo dall’influenza (nefasta) dell’Altro. La seconda, complementare alla prima, è l'esigenza di alimentare ed esasperare quel conflitto, giungendo ad eccessi di indifferenza, estraneazione, durezza, disprezzo sociale.

Entrambe queste conseguenze si sono realizzate in Nietzsche. Non è certo un caso che un tema ossessivamente ricorrente nella sua opera è la critica della compassione (o pietas), che egli ritiene una virtù (più che un’emozione) ipocrita e alienante. E non è un caso se alcune sue pagine sono impregnate di una “spietatezza” estrema, che suona del tutto in contrasto con la poeticità di Nietzsche, che lascia trasparire un'anima estremamente sensibile, romantica e poetica.

Definire Nietzsche un genio antitetico per eccellenza alla luce di questa concezione della personalità può apparire un modo improprio e arbitrario di “psicoanalizzare” la sua esperienza e il suo pensiero. In realtà, come vedremo, questo approccio sembra l’unico capace di valorizzare la genialità di Nietzsche e, al tempo stesso, di dar conto delle numerose contraddizioni che ne caratterizzano la vita e le opere.

Preliminarmente appare opportuno corroborare la validità di tale approccio con un rapido excursus biografico (per una biografia dettagliata si rinvia al materiale bibliografico), che pone immediatamente in luce la valenza antitetica della carriera umana e intellettuale di Nietzsche.

Nonostante sia stata ormai ricostruita nei minimi particolari, la vita di Nietzsche non è ricca di eventi esteriori: è la storia di una personalità introversa, che evolve linearmente sino alla tarda adolescenza, e poi va incontro ad una crisi oppositiva che sprigiona la sua genialità ma al prezzo di un travaglio interiore e di una progressiva chiusura rispetto al mondo, esitata in una catastrofe esistenziale prima ancora che psichiatrica.

L’iperdotazione nietzschiana si manifesta precocemente. A soli 24 anni, prima ancora di laurearsi, e sulla base di alcune pubblicazioni, egli viene chiamato a Basilea per insegnare filologia. Per sedare lo “scandalo” di questa scelta del tutto inconsueta, la stessa università gli assegna una laurea (ad honorem) per consentirgli di salire in cattedra. Nonostante la giovane età, Nietzsche se la cava brillantemente. In questo periodo conosce il musicista R. Wagner e lo storico J. Burckhardt, già famosi, coi quali stabilisce un rapporto alla pari, nonostante la rilevante differenza di età. Sembra avviato verso una prestigiosa carriera accademica.

Nel 1872, con la pubblicazione del suo primo saggio importante (La nascita della tragedia), lancia una sfida all’establishment culturale, formulando delle ipotesi del tutto controcorrente, vale a dire attribuendo alla cultura greca, ritenuta tradizionalmente “olimpica”, la scoperta della tragicità e dell'assurdità dell’esistenza, e imputando alla Civiltà occidentale di averla rimossa per consentire agli esseri umani di vivere in una condizione di alienata e falsificata tranquillità. In questa ottica, la storia dell’occidente si configura, per Nietzsche, come un lungo e continuo processo di decadenza, al quale egli intende dare termine invertendolo.

La rottura con il mondo accademico è netta. Nietzsche la esaspera scrivendo, dal 1874 al 1876, quattro brevi saggi “Inattuali” nei quali esprime in maniera ancora più radicale il suo aperto dissenso nei confronti della cultura corrente in termini di antimisticismo, antistoricismo, antirazionalismo.

In questo stesso periodo, in continuità con un’emicrania periodica che lo perseguita fin dall’infanzia, comincia ad accusare disturbi psicosomatici e psichici che, con alterne vicende, lo affliggeranno per tutta la vita.

Nel 1878, pubblica Umano, troppo umano, “un libro per spiriti liberi” nel quale adotta lo stile aforistico, adatto a permettergli di esprimere i suoi pensieri in totale libertà rispetto ad un discorso compiuto. Nella prefazione Nietzsche riconosce che i suoi scritti implicano “una costante, nascosta istigazione a sovvertire consueti apprezzamenti e apprezzate consuetudini” e aggiunge: “non credo che qualcuno abbia mai guardato nel mondo con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio.” Sia per la forma che per i contenuti, il libro non trova consenso che presso un numero ristrettissimo di amici.

Nel 1879, Nietzsche decide di dimettersi dall’Università, scegliendo di vivere con una modesta pensione. Comincia il suo vagabondaggio - tra Svizzera, Francia, Italia e Germania - alla ricerca della solitudine, della concentrazione, della quiete e della “salute”.

Egli viaggia con un baule sempre pieno di libri, passa gran parte della giornata passeggiando e riflettendo, e dedica la sera alla stesura di aforismi. Nonostante una gravissima miopia, la sua produzione è imponente. I libri che riesce a pubblicare (Aurora, La gaia scienza, Così parlò Zarathustra, Al di là del bene e del male) non hanno, però, alcun successo. Talvolta, per pagare le spese editoriali, attinge alla sua pensione, che gli consente un’esistenza appena decorosa. Deluso dall’esito delle pubblicazioni, tormentato da incessanti disturbi psichici e psicosomatici, egli si isola progressivamente dagli amici e attraversa periodi di autentica disperazione.

Nonostante gli scarsi consensi, Nietzsche è convinto che la sua opera rivoluzionerà la cultura umana dalle fondamenta. Le ultime opere (Anticristo, Ecce Homo, Il crepuscolo degli idoli) allarmano per il loro estremismo e per lo stato d’animo “squilibrato” che le caratterizza, anche i residui amici.

Si realizza così la profezia anticipata in Umano, troppo umano:

“Si compie un nuovo passo verso l’indipendenza quando si osa manifestare opinioni ritenute infamanti per colui che le nutre; allora anche gli amici e i conoscenti sogliono impaurirsi.”

Nietzsche si propone, infine, di scrivere un saggio - La volontà di potenza - che, nel suo intento, dovrebbe mettere l'umanità con le spalle al muro, costringendola a riconoscere la verità implicita nel suo pensiero e il suo ruolo di profeta di un nuovo mondo, il mondo dell’Oltreuomo.

Non riesce a portarlo a termine, perché, nel 1889, a Torino, precipita in una condizione psicotica che lo paralizzerà intellettualmente fino alla fine dei suoi giorni (1900).

Il successo sopravviene repentino dopo la sua malattia, quando egli non è più in grado di rendersene conto, e crescerà di continuo nel corso del Novecento sino ad assegnargli la palma del filosofo più letto di tutti i tempi. Dopo Marx e il suo Manifesto, naturalmente.

Marx e Nietzsche: il confronto non può essere eluso.

1. Marx e Nietzsche

Accomunati da una fiducia assoluta nelle loro idee, cui entrambi sacrificano il successo e la salute, Marx e Nietzsche si pongono lo stesso obiettivo: “rivelare” agli esseri umani la “verità” sulla loro condizione al fine di cambiare il corso stesso della storia, promuovendo un travaglio di parto destinato ad esitare in un nuovo Mondo.

A differenza di Darwin e Freud, entrambi conservatori, che sono pensatori “involontariamente” rivoluzionari, Marx e Nietzsche lo sono del tutto: essi portano avanti la loro opera con l’intento di sovvertire radicalmente l’ordine di cose esistente.

In entrambi, la passione per la “verità” si associa ad una visione del mondo, in quanto prodotto storico, che pone in luce la condizione sostanzialmente miserevole e alienata dell’uomo.

Entrambi, infine, sono radicalmente atei e materialisti, e profondamente convinti che l’umanità troverà la sua via solo rifiutando ogni trascendenza e accettando il suo destino mondano.

La visione del mondo in questione, però, e il cambiamento rivoluzionario auspicato non potrebbero essere più diversi.

Marx ritiene che la “verità” promossa dalla sua analisi storica e dalla critica del Capitalismo, una volta fatta propria dalla classe operaia e realizzata rivoluzionariamente, possa portare l’umanità fuori dalla sua “preistoria”, caratterizzata dall’oppressione dell’uomo sull’uomo.

Egli vive drammaticamente l’universale alienazione umana (la miseria reale della classe operaia, la miseria psicologica della borghesia), ma ritiene che essa possa essere sormontata in virtù di una lotta che utilizzi la straordinaria ricchezza materiale e spirituale prodotta nel corso della storia per uno sviluppo integrale della personalità umana. Marx attribuisce ad ogni rappresentante della specie potenzialità straordinarie che sono rimaste mortificate nel corso dello sviluppo storico e che l’avvento del Capitalismo sfrutta solo nella misura in cui esse possono essere utilizzate sul piano produttivo.

All’opposto di Marx, Nietzsche legge nella storia umana, nonché un progresso dalla barbarie alla civilizzazione, un processo continuo di décadence esitato nell’affermazione di inesistenti diritti naturali umani, la cui conseguenza è l’ugualitarismo, vale a dire l’egemonia dei mediocri, degli uomini comuni, che rappresentano la maggioranza della società, i quali ostacolano e boicottano il dispiegamento delle potenzialità di una minoranza aristocratica (termine, en passant, che non va inteso in senso sociale ma intellettuale e morale).

Alla luce di questa lettura, Nietzsche ritiene che la sua critica possa valere a sormontare il “morbo” dell’ugualitarismo - cristiano, borghese e socialista -, che assegna ad ogni individuo un valore sommo, e ad indurre l’accettazione di una disuguaglianza di ordine naturale che, spazzando via i riferimenti alla compassione, ai diritti individuali e al comunitarismo, riavvii una selezione culturale atta a dare luogo all’eliminazione degli esseri deboli e malriusciti e all’affermazione dei benriusciti, vale a dire degli esseri superiori.

Laddove Marx ha una fede incrollabile nell’uomo e nelle sue capacità di sviluppo, attestata dalla ricchezza materiale e “spirituale” prodotta nel corso della storia, Nietzsche vede, invece, nell’umanità un coacervo di esseri mediamente mediocri che vivono sotto la pressione dell’istinto del gregge e, intuitivamente consapevoli della loro inferiorità, sono rancorosi, invidiosi e punitivi nei confronti degli esseri superiori che rifiutano e si oppongono alla normalizzazione e all’omologazione socio-culturale.

Egli crede solo negli spiriti liberi, di cui si ritiene rappresentante e precursore, capaci di andare controcorrente, vale a dire di affermare se stessi sfidando il senso comune, le regole convenzionali, i valori morali tradizionali, l’istinto del gregge e l’ugualitarismo: uomini, dunque, capaci di farsi carico di quanto di negativo, irrazionale e contraddittorio si dà nella vita, valorizzandolo e agendolo sino al punto di rinunciare a qualunque patetica mistificazione e, in particolare a qualunque orizzonte oltremondano; accettando, dunque, la vita all’insegna della volontà di potenza, unica motivazione che riconoscono come legittima.

La Rivoluzione preconizzata da Marx fa leva sull’alleanza tra coloro che, vivendo sulla pelle lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sentono l’esigenza di lottare contro l’ordine socio-economico e culturale che lo consente e di realizzare un nuovo ordine che lo elimini per sempre dall’orizzonte della storia. Se egli si impegna in prima persona in questa lotta, alla quale dedica la sua vita, è perché crede nella possibilità di poter fornire agli “oppressi” la consapevolezza del significato storico della loro condizione e l’arma della critica necessaria a sormontarla.

Nella sua ottica, però, la Rivoluzione non può essere realizzata se non in virtù di un vasto movimento sociale che si appropri di quell’arma e la utilizzi politicamente.

La Rivoluzione di Nietzsche, invece, prescinde dal sociale e fa leva su singoli individui geniali - gli spiriti liberi - che già, per vocazione, modo di sentire, pensare ed agire, sono al di là dell’esistente e contestano l’imbrigliamento che esso esercita, attraverso l’egemonia delle tradizioni culturali, del senso comune, delle istituzioni politiche democratiche, dei valori, delle norme e delle regole codificate, sulla loro volontà di potenza, che tende comunque a realizzarsi in virtù di comportamenti originali, anticonformistici e/o trasgressivi. La possibilità che la storia faccia un salto di qualità e liberi la volontà di potenza, che è stata progressivamente imbrigliata dallo sviluppo della Società occidentale, inaugurando una selezione culturale che ponga fine alla dittatura della maggioranza e contrassegni l’avvento del Superuomo, non si fonda su alcun movimento sociale, ma solo sul coraggio, sulla determinazione e sulla capacità degli spiriti liberi di tollerare l’isolamento e la discriminazione, nell’attesa che quell’avvento si realizzi.

Marx sostiene l’uguaglianza e la straordinarietà degli esseri umani, anche se non ignora le diverse potenzialità e attitudini dei singoli individui; Nietzsche, viceversa, ritiene che si dia una disuguaglianza radicale tra una maggioranza costituzionalmente mediocre , per la quale vivere significa conformarsi al mondo così com’è, sottraendosi al rischio di affrontare in prima persona le problematichetragiche proprie dell’esistenza, e una minoranza iperdotata, che accetta la sfida di evolvere nella direzione del superamento dell’uomo e della cultura corrente.

Tra l’umanitarismo universale di Marx e l’elitarismo aristocratico di Nietzsche non sembra esserci alcuna possibile mediazione.

Alla luce della genetica, il contrasto appare invece più sfumato: se Marx, infatti, ha ragione nel considerare l’umanità depositaria di potenzialità straordinarie, Nietzsche non ha del tutto torto nel sottolineare la loro diversa distribuzione nei singoli individui.

2. Diversità genetica e uguaglianza umana

In un libro datato ma ancora suggestivo (Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino 1981) un genetista americano - Th. Dobszansky -, ha affrontato il problema della disuguaglianza naturale tra gli esseri umani in maniera esemplare.

Egli scrive:

"Largamente diffusa nel mondo moderno, benché certo non universalmente accettata e praticata, è la dottrina per cui tutti gli uomini sono o dovrebbero essere uguali." (p. 2)

"Spesso il concetto si impantana nella confusione e in evidenti contraddizioni. Si confonde uguaglianza con identità e diversità con ineguaglianza. Possiamo riscontrare questa confusione anche negli scritti di certi eminenti scienziati da cui ci saremmo aspettati una migliore conoscenza. I propagandisti politici, di estrema destra come di estrema sinistra, diffondono deliberatamente la confusione. Parrebbe che il modo più agevole per screditare l'idea di uguaglianza consista nel dimostrare che gli individui sono per nascita, geneticamente e perciò irrimediabilmente, diversi e dissimili. L'insidia sta naturalmente nel fatto che l'uguaglianza umana ha a che fare con i diritti e con l'inviolabilità dell'esistenza di ogni essere umano, e non con caratteristiche corporee o anche mentali." (p. 3)

"I difensori dell'uguaglianza rimangono impigliati nella medesima trappola quando tentano di minimizzare o negare la diversità genetica umana. Essi si lasciano sfuggire, o non riescono a comprendere che la diversità è un fatto osservabile della natura, mentre l'uguaglianza è un comandamento etico. Almeno in linea di principio, l'uguaglianza può essere rifiutata, o concessa, ai membri di una società o ai cittadini di uno stato indipendentemente dalla loro somiglianza o differenza. Anche l'ineguaglianza non è stabilita in via biologica, ma è, piuttosto, una prescrizione socialmente imposta." (p. 4)

"Il condizionamento genetico di molte caratteristiche umane che incontestabilmente hanno importanza per i loro possessori e per le società in cui si rinvengono, è stabilito con un grado di sicurezza variabile per le diverse caratteristiche. Il termine 'condizionamento', al posto di 'determinazione', viene qui usato di proposito. Intelligenza, personalità, particolari capacità e altri tratti sono suscettibili di modifiche a causa di fattori sia genetici che ambientali." (p. 7)

"Ciò che realmente i geni determinano sono gli spettri di reazioni presentati rispetto all'intera gamma degli ambienti possibili da individui con un numero maggiore o minore di geni simili. Il concetto di spettro di reazioni è importante e per certuni è curiosamente difficile da afferrare. L'eredità non è uno status ma un processo. I caratteri genetici non sono preformati nelle cellule sessuali, ma emergono nel corso dello sviluppo, quando le potenzialità determinate dai geni si estrinsecano nel procedimento di sviluppo in determinati ambienti. Geni simili possono avere effetti diversi in ambienti dissimili, e così pure geni differenti in ambienti analoghi." (p. 8)

La varietà genetica (o se si vuole la “disuguaglianza” nella distribuzione delle potenzialità) è dunque un dato di fatto, ma, per via dello spettro di reazioni, il cui sviluppo dipende dai fattori ambientali, essa non è facilmente ricavabile dall’organizzazione del comportamento degli individui (vale a dire dei fenotipi).

Ciò nondimeno, l’intuizione di Nietzsche, secondo la quale la natura produce un certo numero di corredi genetici caratterizzati da un’iperdotazione intellettiva e/o emozionale, è fondata. La sua distinzione, però, tra esseri superiori e esseri inferiori lo è molto meno.

Al di là del problema degli spettri di reazione, già importantissimo perché coinvolge l’ambiente di sviluppo nella realizzazione del fenotipo - ambiente che per quanto concerne l’uomo è prevalentemente culturale, coincidendo con le opportunità disponibili per i singoli individui -, occorre aggiungere la scoperta del polimorfismo genetico. Ogni gene riconosce numerose varianti, che sopravvengono e si accumulano per effetto di mutazioni. La varietà genetica, come noto, è il fattore primario dell’evoluzione naturale. Ricerche recenti hanno attestato, però, che “nella popolazione umana esiste una variazione maggiore di quella che la scienza avrebbe ragione di aspettarsi” (Matt Ridley, Il gene agile, Adelphi, Milano 2005, p, 148): notevolmente maggiore, per essere più precisi.

Si tratta di un vero enigma biologico, che potrebbe essere interpretato anche in accordo con il pensiero di Nietzsche, facendo, cioè, riferimento al fatto che la cultura umana ha “smorzato la pressione della selezione naturale” (id., p. 149). Il problema è che quella stessa variazione è presente anche negli altri animali, sicché occorre pensare che “esiste una delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni, impedendone così l'estinzione.” (p. 150)

Questo misterioso “conservatorismo” genetico ha un significato che non può essere minimizzato.

La ricchezza potenziale dell’umanità è depositata non nei singoli individui, ma nel pool genetico della specie umana. In ogni corredo genetico individuale si danno indefinite potenzialità che non si sviluppano o per motivi ambientali o perché l’insieme dei geni che le sottendono non raggiungono en effetto soglia. La mescolanza tra corredi genetici che avviene all’atto del concepimento può realizzare conseguenze le più diverse diversi: ad un estremo, potenzialità già utilizzate dai genitori si possono inattivare o depotenziare; all’estremo opposto, potenzialità non utilizzate si possono realizzare. Ciò significa che da due genitori iperdotati può nascere un figlio mediocre e da due genitori apparentemente normodotati o addirittura mediocri può nascere un figlio iperdotato e geniale.

Quest’ultima circostanza sembra essersi realizzata in Nietzsche, la cui genialità è pur sempre il prodotto dell’incrocio tra un anonimo Pastore tedesco e una donna bigotta, di modesta levatura culturale.

Il merito di Nietzsche è di aver coltivato la sua genialità con un’implacabile autodisciplina. Se egli, però, non avesse ereditato dalla famiglia un corredo genetico iperdotato, sarebbe forse diventato un uomo erudito o un professore universitario, ma non certo il genio filosofico che, dopo Marx, ha esercitato la massima influenza sul pensiero del Novecento.

La genialità di Nietzsche, inoltre, non si sarebbe espressa nel modo in cui si è espressa se egli fosse nato in India o nel cuore dell’Africa mille anni prima della venuta di Cristo o nell’antica Grecia o nell’Europa medievale.

E’ noto, ormai, che lo sviluppo del cervello umano dipende in gran parte dalla selezione che l’ambiente induce sulle fasi di ridondanza sinaptica che ne contrassegnano l’evoluzione ontogenetica: è, insomma, in termini tecnici epigenetico. La genialità di Nietzsche fa riferimento ad un corredo iperdotato (e altamente introverso), ma il suo orientamento radicalmente critico e antitetico è imprescindibile, come vedremo, dal contesto socio-storico e da circostanze biografiche particolari.

La ridondanza sinaptica, che è massima nella fase evolutiva della personalità, ma declina solo lentamente nel corso della vita, è l’espressione di una straordinaria plasticità cerebrale, che caratterizza tutti gli esseri umani, e denota un potenziale di sviluppo che può essere utilizzato o mortificato in conseguenza del rapporto tra il soggetto e l’ambiente.

In teoria, dunque, tutti gli esseri umani potrebbero pervenire ad un tasso di autorealizzazione più elevato rispetto a quello che comunemente si realizza in conseguenza del fatto che le opportunità di sviluppo sono distribuite in maniera casuale e sostanzialmente iniqua. In questo senso, Marx ha ragione.

E’ pur vero, però, che in un mondo nel quale si dessero opportunità di sviluppo adeguate alle potenzialità dei singoli individui, i fenotipi porrebbero in luce comunque una diversa dotazione genetica. Si definirebbero, comunque, esperienze di minore e maggiore valore antropologico.

Anche Nietzsche, dunque, ha ragione nel sottolineare la disuguaglianza tra gli esseri umani, ma non nell’esasperarla sino al punto di assumerla come un discrimine tra esseri inferiori e esseri superiori. Già nel nostro mondo i fenotipi si distribuiscono secondo uno spettro che non comporta soluzioni di continuità, anche se molte persone medie e “normali” appaiono caratterizzate, come ha rilevato oltre mezzo secolo fa Fromm, da un deficit di sviluppo. In un mondo fatto a misura d’uomo, tale spettro persisterebbe, ma si ridurrebbe.

Le capacità intuitive di Nietzsche e la sua tendenza a portare le sue intuizioni alle estreme conseguenze, che risultano spesso fuori misura, pone di fronte ad un problema di ordine generale che sarà centrale in queste Conferenze: il rapporto tra filosofia e scienza. Come filosofo, Nietzsche è un autodidatta. Sul piano personale, egli si definisce uno Psicologo. Alla sua epoca, la Psicologia muove appena i primi passi, e non va al di là dello studio delle percezioni sensoriali. L’autoattribuzione del ruolo di Psicologo significa che Nietzsche assegna un ruolo conoscitivo fondamentale all’introspezione e alla riflessione sulle motivazioni che sottendono i comportamenti umani.

Sappiamo che egli si è vivamente interessato allo sviluppo rigoglioso della scienza , leggendo libri di chimica, fisica, biologia, ecc. Ciò nondimeno, egli ha una fiducia illimitata nel potere critico della sua coscienza e nelle sue capacità di riflessione. In conseguenza di questo, egli assegna a quasi tutte le sue intuizioni un carattere di verità inconfutabile. Per questo aspetto, si può ritenere un filosofo in senso proprio, nonostante egli faccia riferimento al suo metodo come scientifico.

In quanto Filosofo, Nietzsche spesso si infatua delle sue intuizioni e delle sue idee, tanto più se esse sono in opposizione radicale rispetto alla tradizione filosofica e culturale e al senso comune. Ciò comporta che ad una serie di intuizioni straordinarie corrispondono non poche ipotesi che si possono ritenere errate.

Naturalmente, vale per Nietzsche quello che vale per tutti i geni: per quanto clamorosi, anche i loro errori non sono privi di significato.

Se le conclusioni di Nietzsche riguardo all’esistenza di esseri superiori e inferiori sono incompatibili con la genetica, la sua intuizione, su cui ci soffermeremo ulteriormente, di un potenziale di individuazione che, in alcuni soggetti, esercita una spinta motivazionale ben maggiore rispetto a quello di appartenenza, che promuove l’adesione all’ordine sociale costituito, è di enorme portata. E’ come se egli avesse colto intuitivamente l’esistenza di quella “delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni” cui si è fatto cenno: tra quelle varianti si danno di fatto molti geni introversi, tra cui Nietzsche stesso, la cui vita travagliata (e sterile sotto il profilo riproduttivo) apporta alla cultura umana un contributo prezioso.

Questa prima riflessione su uno dei nodi centrali del pensiero di Nietzsche può aiutarci a capire quanto, anche nei geni, è labile il confine tra ciò che di nuovo essi scoprono e la tendenza ad elaborare le scoperte alla luce di presupposti soggettivi e culturali spesso inconsci.

Presumibilmente, Nietzsche protesterebbe vigorosamente contro l'identificazione nel suo pensiero, animato da una passione critica totale, di una componente “ideologica”. Dovrebbe arrendersi però al fatto che gli spiriti liberi appartengono comunque alla storia, hanno una loro esperienza interiore, che comporta numerosi aspetti inconsci, e che il loro potere critico è metaforicamente riconducibile ad una vanga che, dissodando la superficie della realtà storica, rimane in qualche misura impolverata dal terriccio che smuove.

3. Nietzsche e il contesto storico

Nietzsche nasce a Röcken, villaggio della Sassonia-Hanalt nei pressi di Lipsia, nel 1844, poco prima della Rivoluzione del 1848, che riattiva anche nel territorio tedesco spinte al cambiamento nella direzione della democrazia liberale. Negli Scritti autobiografici, Nietzsche rievoca le impressioni suscitate dal clima quarattontesco in questi termini:

“Mentre noi vivevamo tranquilli e felici a Rocken, violenti sussulti scuotevano quasi tutte le nazioni europee. L'esca era già pronta ovunque da parecchi anni; mancava solo una scintilla per provocare l'incendio generale.

Dalla lontana Francia risuonò il primo strepito delle armi, il primo canto di guerra. L'immane rivoluzione di febbraio a Parigi si propagò con micidiale rapidità. «Libertà, eguaglianza, fraternità» fu il motto che risuonò in tutti i paesi, e tutti, dai più nobili ai più umili, impugnarono la spada, chi contro, chi a favore dei re. L'esempio di Parigi con la sua lotta rivoluzionaria fu seguito da quasi tutte le città della Prussia. E nonostante la rapida repressione, il popolo continuò ad aspirare ancora a lungo a una repubblica tedesca. Questi moti non arrivavano fino a Röcken; ma ricordo bene i carri carichi di gruppi giubilanti che passavano sullo stradone con le bandiere al vento.”

Quando scrive questi appunti, l’adolescente Nietzsche non ha ancora sviluppato l’avversione profonda nei confronti dei valori rivoluzionari che rappresenterà un tema costante della sua opera.

I fermenti liberali, peraltro, si estinguono rapidamente negli Stati confederali tedeschi (all’epoca la Germania non ha ancora raggiunto l’unità nazionale), laddove il potere è detenuto da un “blocco” storico, che vede alleati la Chiesa luterana, l’Esercito e la nobiltà terriera. Tale blocco prevale negli Stati orientali della confederazione, soprattutto in Prussia, mentre in quelli occidentali le istanze liberali, animate dal dominio napoleonico, sono ancora vive.

L’arretratezza politica della Germania è, peraltro in contrasto, con uno sviluppo economico che, dall’epoca dell’unione doganale (Zollverein) nel 1834, procede alacremente in virtù di una borghesia imprenditoriale particolarmente intraprendente.

Lo scontro tra questa e i grandi proprietari terrieri nobili (Junker), che si profila all’orizzonte, viene scongiurato in Prussia dall’elezione al Cancellierato nel 1861 di Otto von Bismarck, conservatore aristocratico, che riesce ad indurre l’alleanza delle due classi contro la piccola borghesia e l’emergente proletariato. La politica di potenza di Bismarck porta all’unificazione dei territori tedeschi sotto l’egida della Prussia e alla costituzione dell’Impero germanico nel 1871. Bismarck domina la scena politica tedesca ed europea sino al 1890, allorché si dimette perché il parlamento, a maggioranza liberale e moderata, non accetta più la sua linea sostanzialmente autoritaria e repressiva.

Tutta l’esperienza umana di Nietzsche adulto si svolge, dunque all’ombra del sistema di potere bismarckiano: sistema efficiente ma singolare, marcatamente conservatore, antiliberale e antisocialista, e addirittura reazionario, che però, in nome della Realpolitik, comporta qualche concessione nei confronti della classe medio-borghese liberale e di quella proletaria. Espressione estrema della Realpolitik è la nascita in Germania del primo sistema previdenziale europeo, varato da Bismarck tra il 1883 e il 1890, che comporta organizzano Casse d'assicurazione contro le malattie e gli incidenti, e Casse di pensione per i vecchi e gli infermi.

In un certo qual senso, il sistema bismarckiano ha adottato il modello del conservatorismo compassionevole, che è stato ripreso da tutti i successivi regimi di centro-destra fino ad epoca recente.

Tale modello, se non illiberale, è di certo sotterraneamente antiliberale: riconosce in qualche misura i bisogni delle classi meno abbienti, ma non come diritti.

Nietzsche è visceralmente d’accordo con il conservatorismo aristocratico bismarckiano, per quanto non condivida il suo viraggio verso lo Stato sociale. Egli però, nonostante apprezzi profondamente la cultura illuminista francese (Voltaire, naturalmente, cui è dedicato il suo primo grande saggio - Umano, troppo umano - non Rousseau) è aspramente avverso al clima liberale e socialista che spira sul continente europeo.

Il periodo in cui egli vive è caratterizzato, di fatto, in Europa da imponenti cambiamenti che investono la politica, l’economia, la scienza, l’arte, la mentalità, il costume, ecc. Ricondurre tali cambiamenti al trionfo della Borghesia e all’avvio del tentativo di estendere il suo Potere, il suo modello di sviluppo e il suo stile di vita in tutto il mondo è fondamentalmente giusto, ma riduttivo. L’enorme sicurezza in se stessa e nel suo futuro della Borghesia ottocentesca è dovuta non solo alla sua intraprendenza e alla razionalità con cui essa affronta i problemi legati alla produzione e al commercio, ma soprattutto, per un verso, al suo sentirsi espressione della civiltà cristiana e, per un altro, allo sviluppo delle scienze e della tecnologia, di cui essa è letteralmente infatuata.

Abbiamo visto l’interpretazione che Marx dà dell’avvento, del trionfo della borghesia e della nascita dei movimenti socialisti. Egli ritiene oltremodo positivo che la classe borghese, che fa leva sull’intraprendenza dell’individuo, abbia promosso, attraverso l’uso razionale delle risorse naturali, una trasformazione del mondo incommensurabile rispetto al passato, vale a dire la produzione di un'enorme ricchezza sociale. Al tempo stesso, egli ritiene che la rivoluzione borghese non abbia senso se essa rimane vincolata alla logica del Capitale, che mira univocamente alla sua crescita a beneficio di una minoranza privilegiata, e che essa debba necessariamente esitare in una rivoluzione socialista, che consentirà di utilizzare la ricchezza sociale a beneficio dello sviluppo integrale di tutti gli individui.

Marx, in pratica, ritiene che lo svincolamento dell’individuo dai vincoli gerarchici e di appartenenza familiare che, in precedenza, ne soffocavano lo sviluppo, sia un fatto positivo, a patto che l’individuo, anziché rimanere preda dell’egoismo, raggiunga uno statuto che fa della sua affermazione l’espressione di una vocazione sociale tale per cui essa diventa funzionale al bene comune, vale a dire allo sviluppo di tutti gli esseri umani.

La sua critica coglie il nodo dolente della civiltà borghese: lo scarto tra i principi di uguaglianza, libertà e giustizia sociale su cui essa si è edificata e una realtà sociale caratterizzata dalla disuguaglianza e dall’ingiustizia, che trovano la loro massima espressione nella disumana condizione operaia.

Duramente sconfitta dopo la fugace sventagliata rivoluzionaria del ’48, nel corso della quale la spinta delle masse popolari ha indotto, ancora una volta, per paura di un disordine totale, l’alleanza della borghesia con le forze reazionarie, la classe proletaria trova ancora modo di esprimere le sue rivendicazioni nella Comune di Parigi del 1870. L’esperienza, come noto, è stata esaltata da Marx come una delle pagine più fulgide dell’evoluzione del mondo verso il Comunismo.

Il modo di vedere di Nietzsche è antitetico a quello di Marx. Egli si confronta con la sua epoca, alla luce del concetto di decadenza cui si è fatto cenno. Si tratta ovviamente di un presupposto ideologico, che riesuma uno dei codici interpretativi della storia di più lunga durata, quello che fa riferimento ad un’originaria età dell’oro, stravolgendolo.

Da Esiodo in poi, infatti, il mito dell’età dell’oro fa riferimento ad uno stato originario dell’umanità caratterizzato dalla prosperità, dalla pace e dall’uguaglianza. Secondo Nietzsche, invece, lo stato originario dell’umanità è caratterizzato dal fatto che gli esseri umani davano espressione senza limiti alla loro volontà di affermazione personale, all’aggressività, alla crudeltà.

Alla luce di questo mito di riferimento, per cui l’unica autentica motivazione nell’uomo è la volontà di potenza, l‘800, nonostante l’esaltazione dell’individuo costitutiva della civiltà borghese, appare a Nietzsche come un’epoca di terribile decadenza, incarnata dalle figure sociali sulle quali egli appunta gli strali della sua critica: il Prete, il Credente, il Borghese, l’Operaio, il Povero, l’Intellettuale filisteo, l’Artista opportunista, lo Scienziato positivista, il Filosofo idealista, ecc.

Tutte queste figure, e i movimenti sociali e culturali cui esse si riconducono, appaiono ai suoi occhi accomunate dall’enfatizzare la dignità umana, dall’attribuire al singolo individuo diritti naturali e universali e dall’assumere la storia come un divenire progressivo verso uno stato capace di realizzare appieno quella dignità e quei diritti.

Il dato che Nietzsche coglie in comune tra il Cristianesimo, la Democrazia borghese e il Socialismo è l’ugualitarismo, che viene ricondotto dal primo alla comune paternità divina, dalla seconda ai diritti paritari sanciti dallo jus, e dal terzo al legame di solidarietà che vincola gli esseri umani tra loro.

Il mito dell’uguaglianza, secondo Nietzsche, è il male che affligge l’umanità dall’epoca della diffusione del messaggio cristiano e, con la Rivoluzione francese prima e la nascita del movimento socialista poi, ha assunto una particolare virulenza, incrementando il processo di decadenza già in atto per via del Cristianesimo.

In tale mito Nietzsche legge il riscatto dei deboli, dei mediocri, degli imbelli rispetto ai migliori, i forti, i temerari, i dissidenti. Egli contesta dunque radicalmente un sistema di civiltà che privilegia l’uomo medio o peggio ancora mediocre e, in conseguenza di questo, contrasta l’affermazione di coloro le cui potenzialità e la cui vocazione ad essere vanno al di là della media: i “migliori” dunque, o meglio gli “spiriti liberi”.

Nietzsche, in pratica, rilegge tutta la storia della civiltà occidentale come storia di una decadenza, contrassegnata dall’egemonia della Ragione sugli istinti e sulle passioni (sopravvenuta in Grecia con Socrate, Platone e Aristotele) prima, dal Cristianesimo poi e, infine, dall’avvento della Civiltà borghese e del Socialismo, identificando nella sua epoca il punto massimo della decadenza, che rischia letteralmente di soffocare coloro che non si arrendono al senso comune e all’ugualitarismo imperante.

Si tratta di una lettura inquietante nella misura in cui dissacra letteralmente un valore - quello dell'uguaglianza - comparso rivoluzionariamente alla fine del ‘700 come contestazione di un ordine sociale fondato sulla divisioni in classi determinata dalla nascita. Non è un caso che Nietzsche fa riferimento di continuo nella sua opera alla necessità di riconoscere l’esistenza di un’Aristocrazia naturale, che egli riconduce a doti fuori dell’ordinario di cui solo alcuni dispongono.

Nel periodo storico in cui, con l’avvento del liberismo e della democrazia, le classi si fluidificano e divengono mobili al punto che i nobili possono precipitare nella povertà e soggetti venuti dal nulla acquisire uno status sociale rilevantissimo, Nietzsche, insomma, propone una nuova stratificazione sociale fondata sul riconoscimento di un’Aristocrazia che nulla ha a che vedere con il sangue (“Io ho contro tutto ciò che oggi si chiama noblesse, un sovrano sentimento di distinzione: non accorderei al giovane imperatore tedesco l'onore di essere il mio cocchiere” Ecce homo), bensì con il valore dell’individuo, vale a dire con il suo coraggio di accettare senza paura la tragicità intrinseca all’esistenza umana e con la sua capacità di affermarsi contro il senso comune, le tradizioni, le convenzioni, i principi morali del Cristianesimo e gli obiettivi propri della Borghesia (ricchezza, successo, stile di vita agiato, ecc.).

La rivendicazione aristocratica di Nietzsche può essere intesa, in prima battuta, solo tenendo conto del fatto che egli opera intuitivamente una distinzione fondamentale tra normalizzazione e individuazione, la prima essendo riconducibile ad un processo passivo di integrazione sociale nel mondo così com’è e nell’acquisizione di un modo di vedere, di pensare e di agire conforme alle norme e ai valori della società (l’istinto del gregge), la seconda, viceversa, ad una vocazione ad essere che spinge l’individuo ad affermare se stesso anche contro quelle norme e quei valori.

Nietzsche disprezza radicalmente qualunque forma di integrazione sociale, nella quale vede unicamente una rinuncia alla libertà individuale e un venire meno al dovere di prendere posizione in rapporto ai problemi fondamentali dell’esistenza, e esalta qualunque forma di opposizione e di ribellione nei confronti del senso comune, delle tradizioni e delle convenzioni su cui si basa la società. In questo senso si può ritenere, forse, il massimo teorico che sia mai esistito del bisogno di opposizione/individuazione.

Egli, naturalmente, è tanto lucido nell’analizzarlo e nel valorizzarlo quanto incline ad estremizzarlo, assumendolo come un bisogno la cui realizzazione, che porta l’individuo ad essere autenticamente libero e indipendente, postula inesorabilmente un conflitto permanente, radicale e irreversibile con l’ambiente sociale “addomesticato”.

Ferocemente critico nei confronti della cultura tedesca, che egli considera decadente, Nietzsche, come accennato lo è molto meno nei confronti della politica del cancelliere Otto von Bismarck, il cui orientamento radicalmente conservatore, anticlericale, antidemocratico, antiliberale e antisocialista, che si esprime nel privilegio assegnato alla classe dei militari e dei proprietari terrieri nobili, è del tutto consonante con il suo.

L’entusiasmo di Nietzsche per Bismarck viene meno solo quando questi, per arginare la pressione del Socialismo, avvia opportunisticamente il primo sistema previdenziale al mondo, che comporta una tutela minima dei lavoratori. Bismarck, antisocialista fin nel midollo, è un politico realista: cede, sia pure malvolentieri, alla realtà dell'avanzata del partito socialdemocratico. Nietszche legge, in questo cedimento, un ulteriore segnale di decadenza: anziché muovere nella direzione della selezione degli esseri superiori, il sistema si arrende a riconoscere i diritti della maggioranza.

Ne La volontà di potenza, egli scrive:

“60.

La confusione moderna

Io non vedo che cosa si voglia fare con l'operaio europeo. Egli sta troppo bene per non pretendere ora un poco alla volta di più, per non pretendere con sempre maggiore esagerazione: alla fine ha il numero dalla sua. E’ completamente finita la speranza che si costituisca qui una specie d'uomo modesta e facilmente contentabile di sé, una schiavitù nel senso più blando del termine, in breve una classe, qualcosa che abbia immutabilità. Si è reso l'operaio militarmente abile: gli si è dato il diritto di voto, il diritto di associazione: si è fatto di tutto per corrompere quegli istinti sui quali si poteva fondare una cineseria operaia: così che l'operaio già oggi sente e fa sentire la sua esistenza come uno stato di bisogno (in termini morali come un'ingiustizia...)... Ma cosa vogliamo? domandiamo ancora una volta. Se si vuole uno scopo, è necessario volere i mezzi: se vogliamo schiavi, - e occorrono! - non bisogna educarli da signori.”

L'orientamento antidemocratico, antiliberale e antisocialista di Nietzsche è fuor di dubbio. Preso atto di questo, occorre accantonare preliminarmente un problema che ancora grava sul suo pensiero - l'essere un precursore del nazismo -, che è frutto di un equivoco. L’equivoco è dovuto al fatto che, opponendo lo spirito libero, amante dell’avventura, del rischio, del conflitto, e capace di farsi carico senza timore della tragicità e dell’assurdità della vita, al Borghese pacifico, al Cristiano ipocrita e al Socialista invidioso, e pertanto tendente all’imborghesimento, Nietzsche, senza poterlo prevedere, si è esposto al rischio di essere identificato come l’ispiratore della “rivoluzione nazista” che, qualche decennio dopo la sua fine, si è affermata come anticristiana, anticapitalista e antisocialista.

E’ indubbio che alcune affermazioni di Nietzsche sembrano dare credito a questo equivoco:

“Alla base di tutte queste razze aristocratiche non si può non riconoscere l'animale da preda, la trionfante bestia bionda che vaga alla ricerca della preda e della vittoria; questo fondo occulto, di tanto in tanto, ha bisogno di scaricarsi, l'animale deve uscire di nuovo alla luce, tornare alla vita selvaggia…

Sono state le razze nobili ad aver lasciato, in tutti i luoghi percorsi, tracce del concetto di «barbaro»; anche la loro massima cultura tradisce ancora una coscienza di ciò e il relativo orgoglio (per esempio quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, in quella famosa orazione funebre, «la nostra audacia si è aperta una strada per ogni terra e per ogni mare, erigendosi dovunque monumenti imperituri nel bene e nel male»).

Questa «audacia» delle razze nobili, folle, assurda, improvvisa, il modo con cui si manifesta, l'imprevedibilità e l'improbabilità stessa delle sue imprese […], la loro indifferenza e il disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, le comodità, la loro terribile allegria, la profondità del piacere provato in ogni distruzione, in tutte le ebbrezze di vittoria e di crudeltà tutto questo trovò il suo riepilogo, per coloro che ne dovettero soffrire, nell'immagine del «barbaro»…” (GM)

“258.

La cosa essenziale in una buona e sana aristocrazia è però che essa non si senta funzione (sia della regalità, che della comunità), ma suo senso e massima giustificazione, che essa assuma perciò con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che devono essere oppressi e abbassati per amor suo a divenire uomini incompleti, schiavi, strumenti. La sua fede fondamentale deve essere appunto che la società non può esistere per amore della società, ma deve essere solo il sostegno e l'infrastruttura grazie ai quali una specie eletta di esseri è in grado di elevarsi al suo compito superiore e soprattutto a una superiore esistenza...” (ABM)

Il concetto per cui la schiavitù rientra nell’essenza di ogni civiltà ed è funzionale alla produzione degli spiriti liberi, la definizione del proletariato come “peste di ogni civiltà superiore, ecc. giustificano l’indignazione di D. Losurdo che, in Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri, Torino 2004), sostiene che il Superuomo di Nietzsche è un aristocratico radicale "il quale non esita a far proprio un programma eugenetico che si spinge sino alle soglie della teorizzazione del genocidio" (pag.1023), e quella di C. Preve che, su una rivista comunista (l’Ernesto)sostiene che le affermazioni di Nietzsche "farebbero vergognare... Evola".

Giungendo a conclusioni così radicali, Losurdo e Preve, a mio avviso, nell’intento di contrastare i tentativi operati da altri studiosi di sfumare l’orientamento “reazionario” di Nietzsche e addirittura di recuperalo nella cornice del pensiero di sinistra, si sono fatti prendere la mano dal loro essere intellettuali marxisti militanti.

Non si può ignorare, infatti, il ruolo svolto dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth, nella gestione degli scritti di Nietzsche, che essa assume nel 1893 e mantiene fino al 1935, e soprattutto nella composizione tendenziosa de La volontà di potenza, che, non a caso, rappresenterà il punto di riferimento di alcuni ideologi nazisti, a partire da Alfred Baeumler (Nietzsche filosofo e politico, 1931). La famosa visita di Hitler all’Archivio di Nietzsche nel 1933 e il contributo economico di Mussolini al bilancio dello stesso sembrano comprovare la filiazione nietzschiana dell’ideologia nazi-fascista.

In realtà, Nietzsche è antinazionalista, antipopulista (disprezza il Volk), antirazzista (““No, non amiamo l’umanità: e d’altro canto siamo ben lontani dall’esser “tedeschi” abbastanza, nel senso in cui oggi ricorre la parola “tedesco” nell’uso comune, per metterci dalla parte del nazionalismo e dell’odio di razza…”) e filosemita (rompe con la sorella quando sposa un antisemita)

Non si può leggere e capire Nietzsche prescindendo dal fatto che il suo estremismo antitetico è sempre e comunque funzionale alla realizzazione del sogno di un’umanità “nobile”, critica, differenziata, capace di accettare quanto si dà di tragico nell’esistenza e di adempiere, nondimeno, il suo destino, vale a dire di portare avanti coraggiosamente il conflitto tra libertà e fato. L’utopia nietzschiana di sicuro è antiliberale, ma non fa riferimento ad una razza e ad una nazione, ma a singoli individui, che compaiono in ogni tempo e sotto ogni cielo, che sono portatori di un’istanza evolutiva che prefigura un nuovo mondo. La rivoluzione nietzschiana, per quanto possa apparire utopistica più di quella marxiana, fa capo ad un’evoluzione culturale e non alla soppressione fisica degli esseri malriusciti e tanto meno ad un genocidio. Questo solo dato impedisce di assumere Nietzsche come precursore del nazismo.

Che quella evoluzione, poi, postuli, secondo Nietzsche, l’esistenza di schiavi la cui oppressione è funzionale a permettere agli spiriti liberi di coltivare la loro vocazione disinteressandosi dei doveri inerenti la vita quotidiana, è un dato incontrovertibile. Ma questa affermazione ha un significato sociale più che politico: essa fa riferimento al fatto che Nietzsche ritiene incompatibile il lavoro con una libera attività intellettuale. Se l’intellettuale precursore di un Mondo nuovo e di una nuova Cultura, ha bisogno di tempo per dedicarsi al suo compito, la cui realizzazione è a beneficio di tutta l’umanità, è evidente che, per consentirgli di sopravvivere, qualcun altro deve lavorare per lui.

Nietzsche, insomma, rivendica il privilegio dei Signori che, prima della Rivoluzione francese, si astenevano dal lavoro. Egli peraltro, a differenza di essi, vive quel privilegio con una dedizione totale al suo compito. Una rivendicazione del genere, sotto il nazismo, che considerava il lavoro come un dovere etico di ogni cittadino nei confronti della Patria e della nazione, lo avrebbe fatto identificare come un dissidente ed un traditore.

4. Il sublime e lo scellerato

Se l’accusa rivolta a Nietzsche di proto-nazista è infondata, è fuor di dubbio che la sua genialità antitetica è sempre in bilico tra il sublime e lo “scellerato”. Non ci si sorprenda per quest’ultimo termine. Per motivi sui quali mi soffermerò ulteriormente, esso non sarebbe risultato né sgradevole né offensivo per l’autore, che in non poche circostanze rivendica apertamente il suo diritto ad essere duro e perfino crudele con gli uomini del suo tempo.

Ne La gaia scienza, per esempio, scrive:

La mia durezza

Debbo passare su cento gradini

debbo salire e vi sento gridare:

«Sei proprio duro, siamo forse di pietra?».

Debbo passare su cento gradini

e nessuno vuol essere gradino.”

Leggendo Nietzsche, è difficile non rimanere affascinati da una serie di intuizioni, di riflessioni e di analisi straordinarie, che ancora oggi consentono di assumerlo come precursore della psicoanalisi freudiane, dell’esistenzialismo novecentesco, del nichilismo ateo ma non pessimistico, della filosofia post-moderna, ecc.; come precursore, cioè, di un mondo disincantato e radicalmente laico, ma non avvilito né disperato, anzi aperto alla vita. Ciò nondimeno, il pensiero di Nietzsche è un diamante che, se spesso sfavilla, è anche capace di scalfire impietosamente l’uomo.

La “crudeltà” di Nietzsche si riconduce ad una visione del mondo del tutto disincantata:

“[Occorre proteggersi] da una vanità...: la pretesa che l'uomo sia il grande obiettivo segreto dell'evoluzione animale. L'uomo non è assolutamente il coronamento della creazione: ogni altro essere è, accanto a lui, allo stesso grado di perfezione... E affermando ciò già siamo eccessivi: l'uomo è, relativamente parlando, tra gli animali il meno riuscito, il più malato e quello più pericolosamente deviato dai propri istinti.” (AC XIV)

“L'uomo, un animale complesso, menzognero, artificioso e impenetrabile, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia e l'accortezza, ha inventato la buona coscienza, per godere, per una volta, la semplicità della propria anima.” (ABM)

E’ alla luce di questa visione del mondo che Nietzsche misura gli esseri umani a seconda che essi appaiono in grado di accettarla e di confrontarsi con essa o, viceversa, tendano a rifuggirla e a rimuoverla, bendandosi gli occhi con le più patetiche illusioni. Per questa via egli giunge a distinguere due tipi di esseri umani:

“Il problema che qui sollevo non è che cosa debba sostituire l'umanità nella successione delle specie (l'essere umano rappresenta un termine): piuttosto che tipo di essere umano si debba educare e auspicare, perché più valido, più degno di vivere e più sicuro del futuro.

Questo tipo di maggior valore è già esistito piuttosto spesso: ma come caso fortuito, un'eccezione, mai perché voluto. È stato invece il più temuto: finora ha costituito ciò che mette paura. E per paura è stato voluto, educato e ottenuto il tipo opposto: l'animale domestico, la bestia del gregge, l'insano animale umano, il cristiano... “ (AC III)

L’uomo comune, di fatto, ripone la sua salvezza nella pigra adesione alle opinioni pubbliche:

“1.

Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde.

Ma cosa costringe il singolo a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggioranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata...

Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita.” (I3)

L’uomo superiore, invece, non ha bisogno di alcuna fede:

“Non lasciamoci ingannare: i grandi spiriti sono scettici... La forza, la libertà, dovute al vigore e a un eccesso di forza dello spirito, si dimostrano con scetticismo. Gli uomini di convinzione non arrivano affatto a considerare il principio di valore e di disvalore. Le convinzioni sono prigioni. Costoro non vedono sufficientemente lontano, non guardano sotto di sé: invece, perché si possa parlare di valore e di disvalore, bisogna vedere cinquecento convinzioni sotto di sé, dietro di sé... Uno spirito che vuole fare grandi cose, che vuole anche i mezzi per realizzarle, è necessariamente uno scettico. La libertà da ogni sorta di convinzioni è parte integrante della forza, come il saper guardare liberamente... La grande passione dello scettico, fondamento e potenza del proprio essere, ancora più illuminata, più dispotica di quanto sia egli stesso, prende al proprio servizio tutto il suo intelletto; lo rende intrepido; gli dà persino il coraggio di usare mezzi empi e, all'occorrenza, gli concede delle convinzioni. La convinzione come mezzo: si può raggiungere molto soltanto per mezzo di una convinzione. La grande passione necessita e si serve delle convinzioni, ma non si sottomette a esse, si riconosce sovrana.” (AC LIV)

La passione della conoscenza, di una conoscenza critica che non arretra di fronte a qualsivoglia verità e non ha bisogno di patetiche menzogne o di mistificazioni; - questo è il discrimine tra l’uomo comune e l’uomo superiore:

“Molto tempo fa sottolineai che le convinzioni sono per la verità nemiche più pericolose di quanto lo siano le bugie (Umano, troppo umano, I, af. 483). Questa volta vorrei porre la domanda decisiva: esiste, in generale un'opposizione tra la menzogna e la convinzione? Il mondo intero ritiene che vi sia, ma che cosa non crede il mondo intero? Ogni convinzione ha la sua storia, le sue forme originarie, i suoi tentativi, i suoi errori: diviene convinzione dopo che non è stata tale per lungo tempo e dopo che per un periodo ancora più lungo è stata tale a stento. Come? La menzogna non potrebbe trovarsi sotto tale forma embrionale di convinzione? Talvolta è necessario solo un cambiamento di persone: per il figlio diventa convinzione ciò che per il padre era ancora menzogna. Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante. La forma più comune di menzogna è quella che si fa a sé stessi: mentire agli altri è relativamente eccezionale.” (AC LV)

Nietzsche non comprende e di conseguenza non tollera la “debolezza” per cui gli esseri umani, in maggioranza, hanno bisogno, con i mezzi più vari, di celare a se stessi alcune verità inerenti la loro condizione esistenziale. Egli si impegna a restituire loro la consapevolezza di essere casuali, mediamente malfatti, presuntuosi e codardi al tempo stesso, inclini ad aggregarsi e ad imitare gli altri, a condividere e a coltivare tradizioni la cui genesi e il cui reale significato storico è loro del tutto ignoto, ad enfatizzare a tal punto la normalità, vale a dire la loro mediocrità, da perseguitare coloro che cercano, a qualunque prezzo, vie nuove di sviluppo dell’umano.

Egli odia letteralmente il senso comune, vale a dire l’insieme di convinzioni prodotte dalla culture e condivise dalla maggioranza della popolazione, che consentono ai più di vivere relativamente tranquilli, senza porsi inquietanti domande sulla loro condizione e sul loro destino. Odia il tradizionalismo, il conformismo, l’omologazione. Ama viceversa lo scetticismo radicale, il mettere in discussione tutte le verità acquisite, il ricostruire la loro genesi storica al fine di illuminarne la genealogia, che spesso pone di fronte a verità di tutt’altro segno da quelle sancite dalla tradizione.

Nietzsche, in breve, iscrive quasi tutta la cultura umana (il quasi, come vedremo, è da riferire al mondo della Grecia pre-classica) nell’ambito del pregiudizio, e non tollera che gli esseri umani preferiscano le tenebre alla luce.

Il suo disprezzo nei confronti dell’umanità comune, che è l’aspetto “scellerato” del suo pensiero, non può essere valutato adeguatamente prescindendo da una concezione eroica della vita:

“4.

Non può esservi per gli individui modo di vivere più bello che maturare per la morte e immolarsi nella battaglia per la giustizia e per l'amore.

Non si può essere felici, sinché tutti attorno a noi soffrono e si procurano sofferenza; non si può essere morali, sinché a regolare il corso delle cose umane stanno la violenza, l'inganno e l'ingiustizia; non si può neanche essere saggi, finché tutta l'umanità non si sia cimentata in una gara per la saggezza e non introduca nel modo più saggio l'individuo nella vita e nel sapere.

Come potremmo reggere a questo triplice senso di insufficienza, se già nella nostra lotta, nelle nostre aspirazioni e nel nostro soccombere non fossimo in grado di riconoscere qualcosa di sublime e di importante, e non imparassimo dalla tragedia a trovar piacere nel ritmo della grande passione e nel sacrificio per essa?” (I4)

Questa concezione sottende l’esperienza umana e intellettuale di Nietzsche, e dà ad essa un significato affatto particolare.

Nella misura in cui, infatti, egli ritiene che l’individuo da solo, con la forza della passione della conoscenza e dello scetticismo critico, possa giungere a vedere più in profondità di tutte le generazioni che lo hanno preceduto e di quella cui appartiene, può essere assunto come il pensatore che più di tutti gli altri ha contribuito a valorizzare il bisogno di opposizione/individuazione in quanto intrinseco alla natura umana.

Come accennato, mi attribuisco il merito di avere teorizzato tale bisogno e di avere definito la funzione psichica - l’Io antitetico come substruttura dell’Io - che consente ad esso di partecipare alla dinamica evolutiva della personalità, rimanendo attivo vita natural durante. Se è indubbio che tale teoria deve qualcosa al principio di individuazione di Jung, essa deve molto anche a Nietzsche.

Cercherò di documentare ulteriormente questo debito.

In questa introduzione al pensiero di Nietzsche, è però importante considerare che quel bisogno, fondamentale per affrancare l’individuo dalla crisalide culturale (il Super-io) che rappresenta l’“armatura” entro quale si edifica la personalità normalizzata, in quanto appartenente ad una tradizione e ad un determinato contesto storico-culturale, ha una modalità di espressione, evidente nel corso dell’adolescenza, che postula un estremismo antitetico.

Per affrancarsi dalla suggestione profonda esercitata sulla sua mente dagli adulti nei primi anni di vita, l’adolescente è spinto a criticarli, a squalificarli (fino al limite di ritenere che essi non capiscano nulla della vita), e a contestare gran parte dei valori che essi gli hanno trasmessi e che sono state interiorizzati. Naturalmente l’entità della crisi adolescenziale è correlata alla qualità dei valori in questione e/o alla loro corrispondenza alla vocazione ad essere personale, ma è direttamente proporzionale alla valenza oppositiva intrinseca al singolo individuo. Più tale valenza è intensa, più l’estremismo critico e demolitivo dell’adolescente è marcato.

La crisi adolescenziale dovrebbe durare, sulla carta, alcuni anni, alla fine dei quali, preso atto della raggiunta non influenzabilità da parte dell’ambiente e della sua indefinita libertà di pensare, di sentire e di agire, il soggetto dovrebbe dedicarsi alla fase construens della sua vita, dovrebbe cioè imboccare la via dell’individuazione, che postula di operare scelte positive dal punto di vista vocazionale, di definire obbiettivi significativi e di perseguirli con estrema determinazione.

L’individuazione, in pratica, si avvia nel momento in cui si affievolisce o si estingue l’opposizionismo antitetico, e il soggetto, affrancato dalla soggezione sociale cui è vissuto in precedenza, comincia a rendere ragione del suo essere e dei suoi comportamenti anzitutto a se stesso prima ancora che agli altri. Ciò gli consente, se necessario, di entrare in conflitto con il gruppo di appartenenza; se non necessario, egli, però, va liberamente per la sua strada.

E’ superfluo specificare che, in ogni società, in conseguenza del fatto che la maggioranza della popolazione viene al mondo con un corredo medio di potenzialità, predisposto naturalmente all’adattamento al mondo così com’è, parecchie crisi adolescenziali tendono ad abortire. Possono essere anche intense e prolungate, ma, quasi inesorabilmente, per la difficoltà individuale di mettere a fuoco un sistema di valori e un progetto di vita personale significativo, refluiscono poi in forme diverse di adesione conservatrice aii valori parentali o di omologazione ai valori dominanti a livello sociale.

Solo in alcuni casi, esse promuovono un’individuazione in senso proprio, vale a dire il mantenersi, per tutta la vita, di una tensione critica e pratica orientata verso un modo di essere in tutti i suoi aspetti partecipato soggettivamente e vissuto come realizzazione della propria vocazione ad essere.

L’esperienza di Nietzsche, dotato di un’indubbia genialità, si può fare rientrare senz’altro in questo ambito. Essa, però, è manifestamente caratterizzata dal mantenersi di un orientamento marcatamente antitetico che per un verso potenzia lo spirito critico, spingendolo a mettere in discussione tutte le tradizioni e le convenzioni, e, per un altro, lo distorce e lo aliena portandolo spesso sul registro della provocazione “scellerata”.

L’esplorazione del pensiero di Nietzsche non può prescindere da questi due aspetti - la genialità e il carattere costantemente antitetico della sua critica - che si intrecciano, si sommano e interagiscono tra loro con un nesso di continuità che rende oltremodo difficile definire un confine. La genialità assegna Nietzsche al novero dei Grandi Demistificatori: egli è il genio antitetico per eccellenza. La necessità di mantenere un contenzioso conflittuale perennemente aperto con il mondo, vale a dire il sospetto che tutta la cultura si sia edificata solo per allontanare l’uomo dalla verità della sua condizione e opprimerlo sotto il peso di falsi valori, non è però solo espressione di un vivace spirito critico: essa, come vedremo, attesta anche paradossalmente un fallimento dell’individuazione, nella misura attesta la pressione di un Io antitetico rimasto attestato su di un registro opposizionistico.

Si può forse valutare meglio questo aspetto comparando l’esperienza di Marx e quella di Nietzsche. La critica di Marx nei confronti dei capitalisti e dei loro corifei raggiunge spesso livelli di indignazione “biblica”, di sarcasmo e di disprezzo. Qua e là, però, affiora anche la pietas per il condizionamento che gli uomini subiscono in conseguenza della loro appartenenza storica, come quando, per esempio, egli sottolinea che la sua critica del capitalista riguarda il ruolo che egli svolge e non la persone, aggiungendo, inoltre, che egli stesso è una pedina dell’ingranaggio.

Il disprezzo di Nietzsche, viceversa, quando parla dei “normali”, degli uomini del suo tempo è costante, e in alcuni momenti assume un timbro volutamente crudele.

L’intento di queste letture è differenziare il più nitidamente possibile i due aspetti cui si è fatto cenno, vale a dire sceverare la genialità di Nietzsche da una gramigna di matrice emozionale che, per alcuni aspetti, la soffoca e la distorce, anche se essa, come si è detto, si riconduce ad una concezione nobile dell’esperienza umana, di come l’uomo dovrebbe essere.

L’intento è ambizioso. In primo luogo, esso contrasta con gran parte dell’abbondantissima letteratura su Nietzsche, che quegli aspetti o non li riconosce o li valorizza unilateralmente (con l’effetto di “mitizzare” il suo pensiero o di ricondurlo brutalmente all’espressione di una mente malata).

In secondo luogo, esso è reso estremamente difficoltoso dai testi nietzschiani che sono in gran parte composti di aforismi (selezionati peraltro a partire da un materiale a tal punto abbondante che i frammenti postumi, mai pubblicati da Nietzsche, sono quantitativamente più abbondanti di quelli pubblicati). Se si fa eccezione per i filosofi presocratici, i cui testi sono giunti a noi sotto forma di frammenti ma solo perché il contesto di discorso cui appartenevano è andato perduto, e per alcuni rari pensatori moderni (Montaigne, Pascal), Nietzsche è l’unico filosofo che ha adottato quasi sistematicamente lo stile aforismatico. Ciò significa che, in una stessa pagina, si può trovare l’espressione dei due aspetti cui ho fatto cenno.

E’ agevole fornire un esempio a riguardo. In una pagina di Ecce homo, Nietzsche assegna se stesso al novero degli esseri benriusciti e ne fornisce un’efficace descrizione:

“Da cosa, in fondo, si riconosce l'essere benriuscito? Dal fatto che un uomo benriuscito fa bene ai nostri sensi: dal fatto ch'è tagliato in un legno duro, tenero e profumato al tempo stesso. Gli piace solo ciò che gli si conviene; il suo piacere, il suo desiderio cessano non appena la misura di ciò che conviene viene superata. Egli indovina i rimedi contro le ferite, utilizza a suo vantaggio le disavventure; ciò che non lo uccide lo rende più forte. Raccoglie istintivamente, di tutto ciò che vede, ode, vive, la sua somma: è un principio selettivo, elimina molte cose. E’ sempre nella sua società, sia che tratti con libri, uomini o paesaggi: onora in quanto sceglie, in quanto concede, in quanto dà fiducia. Reagisce lentamente ad ogni tipo di stimoli; con quella lentezza alimentata in lui da una lunga prudenza e da una deliberata fierezza esamina la sollecitazione che giunge, è ben lontano dall’andarle incontro. Non crede alla «disgrazia», né alla «colpa»: sa chiudere con sé, con gli altri, sa dimenticare, è forte abbastanza perché tutto debba venire a suo vantaggio. Ebbene, io sono l'opposto di un décadent: poiché ho descritto appunto me stesso.”

Poco dopo, aggiunge:

“Io sono un nobiluomo polacco pur sang, in cui non c'è neppure una goccia di sangue cattivo e tantomeno di sangue tedesco. Se cerco la più profonda antitesi di me stesso, l'incalcolabile volgarità degli istinti, trovo sempre mia madre e mia sorella, credermi imparentato con una tale canaille sarebbe una bestemmia contro la mia divinità. Il trattamento che ricevo, fino a questo momento, da parte di mia madre e di mia sorella m'ispira un indicibile orrore: qui è all'opera una perfetta macchina infernale, con infallibile sicurezza sul momento in cui si può ferire a sangue nei miei momenti più alti... perché allora manca ogni forza per difendersi contro questo velenoso vermicaio... La contiguità fisiologica rende possibile una tale disharmonia praestabilita... Ma io confesso che l'obiezione più profonda contro l'«eterno ritorno», il mio pensiero propriamente abissale, sono sempre la madre e la sorella.”

E’ senz’altro vero che la madre e la sorella di Nietzsche erano bigotte, assolutamente incapaci di capire la sua grandezza e critiche nei confronti dei suoi “eccessi” teorici. E’ senz’altro vero che la sorella di Nietzsche ha utilizzato il lascito degli scritti postumi, tentando di epurarlo di quegli eccessi fino al punto di ricostruire un pensiero non troppo antitetico (soprattutto sul piano religioso).

Non è meno vero, però, che, in alcuni momenti di particolare difficoltà, è ad esse che Nietzsche si rivolgeva, e che esse lo hanno assistito nei lunghi dieci anni di malattia mentale che hanno totalmente interrotto la sua creatività, inducendo un’estrema regressione psicotica. Posta l’incompatibilità della sua visione del mondo con quella della madre e della sorella, parlare di entrambel come “canaille” e “velenoso vermicaio” dà la misura di un essere tutt’altro che incline a smaltire le ferite, a dimenticare e a rivolgere a suo vantaggio le circostanze negative della vita.

L’epigrafe di questa lettura va presa seriamente. Come forse in pochi altri pensatori, la vita interiore di Nietzsche e il suo pensiero risultano strettamente intrecciati e interagenti tra loro. Prima di procedere nell’analisi del pensiero di Nietzsche, è necessario preliminarmente approfondire questo intreccio, partendo dal problema del rapporto e del confine tra genialità e follia.

5. Genialità e psicopatologia

A riguardo, come si è detto, si sono definiti nel corso del tempo due diversi orientamenti. Alcuni autori hanno identificato nel pensiero di Nietzsche l’espressione di una mente malata e sono giunti a sostenere che solo menti altrettanto malate possono apprezzarlo e coltivarlo.

Non ci vuole molto a capire che tale orientamento è facilmente contestabile. Esso, infatti, reifica una rigida distinzione tra normalità e anormalità che, oggi, si può ritenere priva di senso, e che, adottata alla lettera, invaliderebbe l’opera di un numero esorbitante di geni (per esempio van Gogh, Kafka, ecc.).

All’estremo opposto, altri autori negano che sussista una qualsivoglia relazione tra la personalità di Nietzsche e il suo pensiero. Tra questi autori c’è Mazzino Montinari, cui si deve, con Giorgio Colli, l’impresa di avere fornito l’edizione delle opere di Nietzsche accreditata universalmente di un’estrema fedeltà filologica. E’ vero che, di recente, Domenico Losurdo -, in un saggio già ciatato, ha messo in dubbio il rigore di questa impresa, stigmatizzando il tentativo secondo lui operato dai due studiosi italiani di ammortizzare con artifici linguistici le asprezze terminologiche e concettuali del pensiero nietzscheano. Per ora, possiamo trascurare questo dibattito sostanzialmente specialistico (anche se non privo di significato) e rivolgerci al libro (Che cosa ha detto Nietzsche, prima edizione Ubaldini 1975, ultima Adelphi, 2003) al quale Montinari ha consegnato le sue riflessioni su Nietzsche. Egli scrive:

"Ai fini di una storia della vita di Nietzsche, il chiarimento dei dettagli biografici, il reperimento di testi sconosciuti, la correzione di certe falsificazioni debbono essere sorretti da una premessa di metodo (che del resto non vale solo per la biografia di Nietzsche). Qualsiasi pretesa di stabilire una sorta di nesso causale tra le vicende della vita di Nietzsche e il suo pensiero è destinata al fallimento: si ha quasi l'impressione che l'immagine di Nietzsche si renda sempre più inafferrabile ogni volta che nuovi dati vengono alla luce, ma questa inafferrabilità può essere spiegata non appena si sia data una risposta alla domanda: che cosa è veramente la vita di Nietzsche?

La vita di Nietzsche rispondiamo - sono i suoi pensieri, i suoi libri. Nietzsche è un esempio raro di concentrazione mentale, di esercizio crudele e continuo dell'intelletto, di interiorizzazione e sublimazione di esperienze personali, dalle più vistose alle più insignificanti, di riduzione di ciò che comunemente si chiama «vita» a «spirito»: quest'ultima parola intesa nel senso che ha il tedesco Geist, ossia mente-ragione-intelletto, anche in quanto interiorità o spiritualità (ma non misticismo o Seele, anima). Che cosa è dunque lo spirito, che cosa è Geist per Nietzsche? «Spirito è la vita che taglia nella propria carne; nel suo patire essa accresce il suo sapere ... Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per l'incudine che è lo spirito e nemmeno per la crudeltà del maglio! » (Così parlò Zarathustra, II, « Dei saggi illustri »).

A patto di non dimenticare mai questa caratteristica essenziale di Nietzsche, la ricerca dei particolari biografici può evitare il pericolo della micrologia (che sopravvaluta risultati faticosamente raggiunti) e diventare significativa, anzi deve essere radicale e «impietosa». Allora si vedrà anche come per Nietzsche ogni pensiero fosse un evento, ogni libro pubblicato un «superamento». Nietzsche scriveva per se stesso, scrivere voleva dire per lui vivere. Ciò si può cogliere nei suoi taccuini intimi, che sono con poche eccezioni (queste si riducono ad alcune decine di pagine in confronto a migliaia) dedicati alla registrazione continua ed «espressiva», talora perfino già compiuta nella formulazione che egli poi pubblicherà, di meditazioni filosofiche, intuizioni psicologiche, osservazioni moralistiche, il cui spunto esteriore è difficilmente ricostruibile - e d'altra parte il loro oggetto non è Nietzsche stesso, almeno nel senso in cui poteva essere oggetto della propria introspezione uno Stendhal nei suoi diari.

Questi taccuini sono la registrazione già mediata, già filtrata attraverso il mezzo dell'espressione, della scrittura, di eventi interiorizzati: l'incudine da cui scaturiscono le scintille degli aforismi nietzscheani è nascosta, e della crudeltà del maglio si può avere una qualche immagine attraverso la «crudeltà» lucida e perfetta della formulazione.

Per realizzarsi nella fisionomia che abbiamo descritto, Nietzsche recise uno a uno tutti i vincoli con la vita comune, o almeno volle ridurli al minimo, finendo per essere, lui, l'esaltatore della «vita», sempre meno «vita», sempre più «spirito»."(p. 17-18)

E’ sorprendente che uno studioso della levatura di Montinari che, tra l’altro, nel suo tragitto giovanile è stato anche un marxista militante, cada, in virtù di una passione dichiarata per Nietzsche, nella trappola di un’interpretazione idealistica e romantica al tempo stesso della sua opera. La vita di Nietzsche sono i suoi pensieri, i suoi libri, prodotti in virtù di una concentrazione mentale e di una dedizione totale alla conoscenza? E’ senz’altro vero. Rimane il fatto però che la mente di un genio vive nel suo tempo e, tanto più se essa è creativa, la matrice della sua attività va ricondotta a livello inconscio laddove il soggettivo e il simbolico si intrecciano indissolubilmente.

A quest’ultimo riguardo, oggi si può sostenere che il confine tra la psicopatologia e la creatività è labile. Se un poeta si rivolge alla luna chiamandola muta compagna della sua solitudine egli oggettiva, attraverso i simboli linguistici, un pensiero antropomorfico. Se viceversa un soggetto psicotico tende le braccia verso la luna come a volerla toccare, il contenuto di pensiero è identico, ma la modalità con cui esso si esprime è delirante.

Il nodo della questione verte ovviamente sul significato che si dà alla psicopatologia. Se, infatti, come spesso è accaduto e accade, la dimensione psicopatologica viene ricondotta ad un disturbo cerebrale, ad una malattia che interferisce con il normale funzionamento della mente e porta il soggetto sul terreno dell’irrazionalità, dell’assurdità, del non senso, riesce evidente che tale diagnosi invalida per molti aspetti l’opera e il pensiero di un autore, tanto più se si tratta di un filosofo.

In ambito letterario, infatti, si ammette che la "pazzia" possa convivere, come per esempio nel caso degli ultimi scritti di Rousseau, con una creatività che viene interferita ma non azzerata. In ambito filosofico, invece, come peraltro in quello scientifico, laddove, sia pure con strumenti diversi, è in gioco la ricerca della "Verità", il riferimento alla "follia" dell’autore incide negativamente nella valutazione della sua opera, toglie ad essa senso.

L’avversione di Montanari nei confronti dei ricorrenti tentativi di identificare nel pensiero di Nietzsche l’espressione di una mente malata è, per questo aspetto, del tutto comprensibile e condivisibile.

La psicopatologia, però, può essere intesa in tutt’altro modo, vale a dire come l’espressione di un mondo interiore complesso strutturato in maniera tale che, per un verso, produce simbolizzazioni private, espressive di conflitti interiori non risolti, e, per un altro, promuove simbolizzazioni creative di valore universale. Il confine tra determinismo psicopatologico e libertà creativa è ovviamente labile, sfumato, ma di esso occorre tenere conto quando si analizzano le opere di un genio sofferente e, per alcuni aspetti, infelice.

Cos’è che rende poco valida la distinzione di Montinari tra biografia spirituale o intellettuale e psicopatologia? Paradossalmente, gli stessi dati che egli espone nel saggio che segue passo per passo la vita di Nietzsche e la sua produzione filosofica, fino alla catastrofe finale, l’affondamento nel buio della follia.

6. Il disagio psichico e psicosomatico di Nietzsche

I dati in questione, ai quali occorrerebbe aggiungerne numerosi altri, dato che l’esperienza umana di Nietzsche è stata sottesa, fin da epoca precoce, da una sintomatologia psicosomatica pressoché continua, possono essere raccolti sotto alcune voci.

Sulla famiglia e l’educazione religiosa:

"Dal padre Nietzsche ereditò la passione per la musica, il senso religioso del dovere, l'alacrità e la diligenza nel lavoro, la forza di volontà, ma anche un sistema nervoso molto eccitabile, esposto a stati di depressione e di esaltazione. Probabilmente anche le forti emicranie di cui Nietzsche soffrì fin dall'adolescenza sono un retaggio paterno."(p. 20)

"Nietzsche medesimo soffrì durante tutta la sua vita cosciente (in particolare a partire dal 1873) di attacchi di mal di testa e di vomito, che duravano fino a tre giorni di seguito, ma, se può darsi che egli abbia ereditato dal padre l'emicrania che lo torturava, non si può certo affermare che vi sia un nesso tra le manifestazioni dell'emicrania e quelle, pur analoghe, della malattia al cervello del padre, così come non è possibile stabilire un nesso tra la malattia finali di Nietzsche e quella che portò il padre alla tomba. Egli tuttavia, quando gli attacchi di emicrania giunsero al culmine (nel 1879), pensò di poter morire alla stessa maniera del padre.” (p. 22)

"L'educazione che la giovane vedova - Franziska Nietzsche nata Oehler impartì ai due figli, aiutata dalle altre donne di casa e dai numerosi parenti, quasi tutti pastori protestanti, fu rigorosamente e insieme ingenuamente religiosa. Franziska aveva, come il figlio, un temperamento violento e impetuoso, la sua natura profondamente sana era all'opposto della «morbidità» del defunto marito, la sua fede era solo positiva, la sua fiducia in Dio incrollabile. Ella cercò sempre di impedire al figlio di essere «diverso dagli altri» e di dedicarsi esclusivamente alle letture, alla poesia e alla musica; a lei Nietzsche deve l'incitamento a una vita sana, agli esercizi fisici.

Sull'orma profonda impressa nel carattere di Nietzsche dall'educazione religiosa di questi anni non è possibile aver dubbi. «Da bambino visto Iddio nella sua gloria» scrive ancora, in una nota intima, l'autore di Umano, troppo umano nel 1878 (FP, 28[7}). E vero che egli, subito dopo, aggiunge: «Come parente di pastori protestanti, compresi ben presto la loro limitatezza intellettuale e psichica», ma anche: «la loro energia operosa, il loro orgoglio, il loro senso del decoro » (ibid.). Non vi è dubbio che la reazione del giovane Nietzsche dovette cominciare abbastanza presto; essa nacque però sul terreno stesso della pietà familiare. Anche Nietzsche sembra alludere a un nesso sottile tra il suo ambiente, che è quello della religiosità luterana, e la libertà di pensiero, in un famoso aforisma (il 324) delle Opinioni e sentenze diverse (1879): «La regione più pericolosa della Germania è la Sassonia-Turingia [dove Nietzsche era nato e cresciuto]: in nessun luogo vi è più attività intellettuale e più conoscenza degli uomini, insieme a libertà dello spirito, e tutto è così modestamente nascosto dal brutto dialetto e dalla ossequiosità zelante di questa popolazione, che quasi non ci si accorge di aver qui a che fare coi sergenti intellettuali della Germania e coi suoi maestri nel bene e nel male». Infatti, che cosa troviamo in quel brevissimo cenno autobiografico che ci parla della visione della gloria di Dio? Appunto la registrazione della prima Freigeisterei di Nietzsche: «Primo scritto filosofico sulla nascita del diavolo (Dio pensa se stesso, ma può farlo solo rappresentandosi il suo contrario) » (FP, 28[7], 1878). Nella Prefazione (par. 3) della Genealogia della morale (1887), Nietzsche ritorna ancora sul suo primo «scritto filosofico » che a quanto pare è andato perduto - dicendo di averlo composto a tredici anni.

La formazione del giovane Nietzsche fu dunque dominata da una religiosità che ha il suo nucleo nel rapporto diretto dell'individuo con la divinità e che, proprio per questo, lo avvia verso avventure spirituali nella meditazione continua su Dio, la natura, gli uomini."(p. 28-29)

Sulla malinconia adolescenziale

"Negli appunti intimi dell'epoca di Pforta, alla descrizione minuziosa della vita collettiva degli allievi, ai racconti delle gite e dei gai divertimenti comuni fa riscontro una profonda malinconia d'adolescente, che Nietzsche ricorda ancora molti anni dopo. 1875 (FP, 11 [11]): «A Pforta, quando i campi erano deserti e giungeva l'autunno»; 1878 (FP, 28[7}): «Malinconico pomeriggio - funzione religiosa nella cappella di Pforta, lontani suoni d'organo». «Nella mia anima si desta il sentimento amaro dell'autunno,» scrive Nietzsche quindicenne nel suo diario di Pforta « mi ricordo un giorno dell'anno scorso, che ero ancora a Naumburg. Ero andato a passeggiare da solo alla Porta Santa Maria; il vento sfiorava le stoppie sui campi deserti, le foglie cadevano a terra e ciò mi trafiggeva dolorosamente: la primavera fiorente, l'ardente estate - sono finite!

Per sempre finite! Presto la neve bianca seppellirà la natura che muore!» (Opere, I, i, 84). E, pochi giorni dopo: «Dio, perché mi hai dato un cuore siffatto, che io debba rallegrarmi e giubilare insieme alla natura? Non riesco a sopportarlo. Già il sole non invia più i suoi raggi caldi; i campi sono desolatamente deserti e gli uccelli affamati fanno provvista per l'inverno. Per l'inverno! Così vicini tra loro sono i confini della gioia e della sofferenza, ma è il passaggio dall'una all'altra che mi stritola il cuore ... Natura, tu hai cinto di amaro dolore il mio cuore. Ultima rosa! Piangendo, ti vedo fiorire e perire, con te io vivo e perisco, con te un giorno risorgerò! Il sogno soave di questa vita non può sprofondare per sempre; un giorno mi ristorerò di nuovo al respiro della primavera, alla sua sorgente spumeggiante!»"(p. 39-40)

Sulla solitudine

"«... io sono la solitudine fatta uomo...» (FP, 25[7], 1888-1889) - questa è la definizione che Nietzsche ha dato di se stesso pochi giorni prima che la demenza lo sottraesse a ogni contatto cosciente con il mondo. «In età assurdamente precoce, a sette anni, sapevo già che mai voce d'uomo mi avrebbe raggiunto...» dice ancora Nietzsche in Ecce homo («Perché sono così accorto», 10), correggendo poi questa malinconica constatazione con la sinistra euforia della catastrofe imminente. Nessuno, fino ad oggi, ha saputo dire quale portata avessero le parole con cui Nietzsche fissava alla «assurda età» di sette anni la coscienza di essere solo. Noi sappiamo che egli si riferiva a un episodio reale dell'infanzia, già fermato in due appunti autobiografici, che si chiariscono a vicenda e che risalgono al 1875 e al 1878, dunque rispettivamente a tredici e a dieci anni prima di Ecce homo e della demenza; 1875 (FP, 11 [11]): «... a Pobles, quando piansi sull'infanzia perduta»; 1878 (FP, 28[8]): «A sette anni-sentita la perdita dell'infanzia». A Pobles, un altro villaggio della Sassonia dove allora viveva il nonno materno David Ernst Oehler, anche lui pastore protestante, Nietzsche fanciullo era solito trascorrere lietamente le sue vacanze, come egli racconta ripetutamente nelle sue prime autobiografie, nelle quali però si cercherebbe invano una sola parola sulla «perdita dell'infanzia» sentita all'età di sette anni, sebbene vi siano ricordati minuziosamente molti altri episodi. Tale riserbo, perfino con se stesso, aumenta ancor più il valore delle testimonianze del 1875, 1878, 1888. Nel 1875, ma specialmente nel 1878, queste note non si trovano isolate, anzi si accompagnano ad altre reminiscenze dell'infanzia e finiscono poi per trovare una eco attenuata, e come sempre spersonalizzata, nell'aforisma 168 del Viandante e la sua ombra: «... la beatitudine dell'infanzia e la perdita dell'infanzia, il senso di ciò che è irrecuperabile come il possesso più prezioso.… »."(p. 26-27)

"Sull'ultimo incontro con Nietzsche, Rohde scrisse a Overbeck: «... un'atmosfera indescrivibile di estraneità, qualcosa per me di assolutamente sinistro, lo circondava. Vi era in lui qualcosa che non gli conoscevo e - ancora - non c'era più molto di ciò che lo aveva contraddistinto in passato. Come se venisse da una contrada dove nessun altro abita» (24 gennaio 1889, in Franz Overbeck-Erwin Rohde. Briefwechsel, 1990, p. 135)."(p. 131)

La vita come ricerca

"In una lettera alla sorella del giugno 1865, Nietzsche espone con pacatezza i suoi argomenti, che culminano in queste parole: «Forse che la nostra ricerca ha come fine la tranquillità, la pace, la felicità? No, noi cerchiamo solo la verità, anche la più terribile e repellente ... Qui si dividono le vie degli uomini: se vuoi la pace dell'anima e la felicità, credi, se vuoi essere un seguace della verità, cerca» (Lettera a E. Nietzsche, 11 giugno 1865)."(p. 50)

"Il giovane deve dapprima precipitare in quello stato di stupore che è stato definito il "pathos filosofico per eccellenza". Dopo che la vita gli si è dissolta davanti in una serie di enigmi, egli deve consapevolmente, ma con rigorosa rassegnazione, attenersi a ciò che è possibile sapere; e fare una scelta in questo vasto campo, conformemente alle capacità» (ibid., 297; p. 162)."(p. 58)

Vissuti singolari e sogni

"Proprio a questo periodo infatti primi del 1869 - risale la registrazione di qualcosa che è stato interpretato come «allucinazione». Nietzsche scrive in un suo quaderno: «Ciò che temo non è la figura spaventosa dietro la mia sedia, bensì la sua voce; e anche, non le parole, ma il tono orridamente inarticolato e disumano di quella figura. Almeno parlasse come parlano gli uomini» (BAW, V, 205; La mia vita, p. 181). Il quaderno in cui si trovano queste righe è pieno di normali annotazioni filologiche, e non è vero - come sembrano credere coloro che per primi lo hanno pubblicato (nel 1940) - che la scrittura denunci una particolare eccitazione. La grafia è identica a quella degli altri appunti; perfino la punteggiatura - altre volte imperfetta e sommaria - è qui ineccepibile. Nietzsche, dunque, ha descritto con estremo sangue freddo qualcosa che gli stava accadendo? Ma, perfino in questo caso, ricorrere alla psicopatologia serve a poco, e il termine «allucinazione» nulla aggiunge al significato, certo non pienamente afferrabile, di queste righe sinistre e misteriose. Forse può aiutarci il ricordare che alcuni anni dopo, e in un contesto di significato afferrabile, Nietzsche ha parlato della «voce della storia» e ha scritto (citando il monologo notturno di Faust): «Visione spaventevole! Ahi, non ti sopporto!» (cfr. FP, 5[194], primavera 1875 e Umano, troppo umano, I, af. 233)."(p. 74)

"Dei suoi appunti riguardanti l'infanzia abbiamo già avuto occasione di parlare. Nietzsche ricorda la religiosità e i giuochi della fanciullezza, i momenti felici della giovinezza. Ma pensa di avere avuto un'educazione sbagliata, di essere stato sovraccaricato di elementi estranei al suo carattere che ora «si disvela». «Io sto scoprendo me stesso» egli scrive (FP, 28[16], 1878). I suoi dolori devono essere utili agli altri, come «l'esecuzione di un delinquente» (28 [21]); egli vuole «aggiogare all'aratro la malattia» (28[30]). La cura contro il pessimismo consiste nella decisione di «ingoiare il rospo», che è la negatività dell'esistenza. Ciò spiega il continuo ritornare di questo enigmatico appunto: «sogno del rospo» (28[42]), un sogno risalente ai primi anni di Basilea, che - come per caso - ci è stato tramandato nel racconto di una delle sue conoscenti: «... ho sognato che la mia mano, che avevo appoggiato sul tavolo, aveva improvvisamente assunto un'epidermide vitrea, trasparente; potevo vederne chiaramente l'ossatura, i tessuti e il giuoco dei muscoli. D'un tratto scorsi un grosso rospo accovacciato sulla mia mano e provai contemporaneamente una suggestione irresistibile a inghiottire la bestia. Superai la mia atroce ripugnanza e lo ingollai a forza» (C.A. Bernoulli, 1908, vol. I, p. 72)."(p. 99)

Sofferenze psichiche

"Nelle lettere a Overbeck troviamo altresì la traccia delle gravi sofferenze che Nietzsche ebbe a sopportare in questo periodo: gli attacchi del suo male (che duravano fino a tre giorni con atroci dolori di testa e vomito) si alternavano a periodi di euforia, di creatività intellettuale."(p. 113)

"Dalle lettere dell'agosto 1881 si percepisce euforia e, complemento inevitabile, prostrazione. Durante quell'estate Nietzsche ha sofferto molto. «Sum in puncto desperationis. Dolor vincit vitam voluntatemque. O quos menses, qualem aestatem habui!» scrive egli, il 18 settembre 1881, a Overbeck."(p. 118)

"L'oggetto della prima predicazione di Zarathustra non è l'eterno ritorno, bensì il superuomo. Anche nella Gaia scienza non si fa parola del superuomo, né se ne trova traccia nei manoscritti immediatamente precedenti la stesura del primo Zarathustra. Questa nuova idea va dunque localizzata nell'inverno 1882-1883: l'inverno nel quale Nietzsche è preda di gravi sofferenze psichiche, in rotta con la famiglia, tormentato dal risentimento verso Lou e Rée e più ancora verso se stesso, un inverno «alle soglie del suicidio». In questo inverno è nato il superuomo.

Nel dicembre del 1882 Nietzsche, nel momento culminante della crisi, scrive per sé: «Io non voglio la vita di nuovo. Come ho potuto sopportarla? Producendo. Che cosa fa che io ne sopporti la vista? La visione del superuomo, il quale dice di sì alla vita. Anche io ho tentato - ahimè!» (p. 124)

"Uno stato di esaltazione si impadronisce di Nietzsche. D'ora in poi egli non conosce più misura, tanto che aggiunge all'Anticristo anche una «Legge contro il cristianesimo » così introdotta: «Data nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell'anno uno (- il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)». Se si leggono le dichiarazioni di Nietzsche sulla sua opera, non si afferra il significato storico-critico dell'Anticristo, che pure - come vide bene più tardi Franz Overbeck - conteneva alcuni pezzi di bravura, come la psicologia del redentore e quella dell'apostolo Paolo, la ricostruzione storica delle origini del movimento cristiano, l'analisi della fraus religiosa. Ecce homo nasce in questo stato di euforia (distaccandosi da un capitolo che Nietzsche aveva aggiunto al Crepuscolo degli idoli), a partire dalla metà di ottobre 1888. Nei quaderni di Nietzsche si trovano ancora alcune annotazioni per un altro libro della Trasvalutazione: «L'immoralista». Ma questo lavoro è interrotto appunto da Ecce homo, finché Nietzsche, in una lettera a Brandes del 20 novembre, non dichiara di avere già scritto tutta la Trasvalutazione, identificando con essa L'anticristo. Anche a Paul Deussen Nietzsche scrive: «La mia vita giunge ora al suo culmine: ancora un paio d'anni, e la terra trema, colpita da una folgore immane. Io ti giuro che ho la forza di cambiare il modo di contare gli anni. - Nulla di quanto oggi sussiste rimane in piedi, io sono più dinamite che uomo. La mia "Trasvalutazione di tutti i valori", sotto il titolo principale L'anticristo, è pronta» (26 novembre 1888)."(p. 162)

"A partire dalla primavera del 1888 - cioè dai primi giorni del soggiorno torinese - si avverte in tutto quanto Nietzsche scrive, anche nelle sue lettere, una tensione psichica indicibile, che si manifesta anche come euforia. La malattia ha cominciato la sua opera di devastazione, e solo per queste ultime manifestazioni di Nietzsche si potrà supporre un'influenza della malattia sul suo pensiero, benché mostrare in concreto dove e quando cominci la demenza, finché Nietzsche è padrone dell'espressione sia impresa quasi sempre disperata."(p. 171)

Isolare la follia finale di Nietzsche dall’insieme della sua vita, e ipotizzare che essa abbia inciso solo sulle opere immediatamente precedenti la catastrofe mentale, non si accorda molto con i dati biografici, che attestano un disagio psico-somatico precoce, ricorrente e progressivamente più intenso. C’è un’alternativa, però: ricostruire una biografia interiore di Nietzsche che consenta di comprendere il suo dramma nel quale la creatività e le dinamiche psicopatologiche risultano strettamente intrecciate.

7. La psicobiografia dinamica di Nietzsche (1)

L’introversione di Nietzsche, su cui tornerò ulteriormente, è un dato di fatto inconfutabile. A 14 anni egli scrive: "Alla mia giovane età avevo già sperimentato molto dolore e tanti affanni, e non ero vivace e sfrenato come sono di solito i ragazzi. I miei compagni solevano canzonarmi per questa mia gravità. Ma ciò non accadde soltanto alla scuola elementare, no, anche in seguito, all'istituto e perfino al liceo. Fin da bambino io ricercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso." (SA)

Il “molto dolore” è riferito a due lutti precoci: la morte prematura del padre, nel 1849, e quella repentina del fratellino Joseph, nel 1850. Il venire meno del capofamiglia comporta anche il distacco dall’ambiente originario campestre, congeniale alla natura di sognatore del piccolo Nietzsche:

“Se nell'anima conservo ogni immagine, quella che meno d'ogni altra potrò dimenticare è la familiare canonica: la reco impressa nello spirito a tratti indelebili. La casa era stata costruita da poco, nel 1820, e si trovava perciò in ottimo stato. Alcuni gradini portavano al pianterreno. Ricordo ancora lo studio, al piano superiore. Le file di libri, molti dei quali illustrati, le pergamene, rendevano quel luogo uno dei miei soggiorni prediletti. Dietro la casa si stendeva il frutteto e il prato. Di solito in primavera questo terreno era in parte inondato, e allora soleva riempirsi d'acqua anche la cantina. Davanti all'abitazione si trovava la corte, con i granai e le stalle, e questa dava sul giardino. Sotto i pergolati e sulle panchine trascorrevo quasi tutto il mio tempo. Al di là della siepe verdeggiante si trovavano i quattro stagni, circondati da salici a cespuglio. Passeggiare tra quei laghetti, contemplare i pesciolini guizzanti e i raggi dei sole che giocavano sugli specchi d'acqua era il mio piacere più grande.” (SA)

Rievocando la sua fanciullezza, Nietzsche scrive:

“La pace e la quiete che spirano nella dimora di un sacerdote impressero le loro tracce profonde e indelebili sul mio animo, così come per esperienza vediamo che le prime impressioni del cuore sono le più durature.” (SA)

Naumburg, nella quale egli si trasferisce con la madre e la sorella, è una piccola città, che pone però problemi di adattamento:

“Per noi che eravamo vissuti tanto tempo in campagna la vita in città era insostenibile. Per questo evitavamo le strade opprimenti e cercavamo l'aria aperta, come un uccello fugge dalla gabbia.” (SA)

Per il piccolo Nietzsche, che vive circondato da sole donne (la madre, la sorella e due zie) i rimedi ai dolori della vita sono l’abbandono alla natura, l’instaurarsi del rapporto con due “amici del cuore” (“Sì, possedere dei veri amici è cosa nobile e sublime” SA), la scoperta della poesia e della musica, e la religione.

Come accade a molti soggetti introversi in fase evolutiva, l’orientamento originario di Nietzsche è sostanzialmente mistico. Educato alla fede protestante, egli la vive con una partecipazione intensa e commovente. A tredici anni, scrive:

“Il giorno dell'Ascensione ero entrato nel Duomo e avevo ascoltato il sublime coro del Messiah: l'Alleluia! Mi sentivo spinto a unirmi al canto, che mi sembrava il coro di giubilo degli angeli accompagnanti con la loro voce l'ascesa di Gesù Cristo in cielo…

In quel tempo ascoltai anche parecchi oratorii. Il primo di essi fu il toccante Requiem; come mi penetrarono le più intime fibre le parole Dies irae, Dies illa! Ma il celestiale Benedictus!” (SA)

La rievocazione della festa di Natale pone in luce la commistione tra il misticismo e l’abbandono infantile alla fede:

“”Com'è magnifico l'abete che ci sta davanti con la cima ornata da un angelo, allusione all'albero genealogico di Cristo, la cui corona era il Signore in persona. Come risplendono i numerosi lumi, che rappresentano simbolicamente il chiarore nato tra gli uomini grazie alla nascita di Cristo. Come ci sorridono invitanti le mele rubizze, che ricordano la cacciata dal Paradiso! E guarda! Alle radici, Gesù bambino nella mangiatoia, circondato da Giuseppe e Maria e dai pastori adoranti! Che sguardi pieni di fede ardente gettano sul bambino! Voglia il Cielo che anche noi ci abbandoniamo con tale dedizione al Signore!”. (SA)

Ancora a 14 anni, l’affidamento al Padre celeste governa l’esperienza di Nietzsche:

“Ho vissuto ormai tante esperienze, liete e tristi, che mi hanno rasserenato e afflitto, ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato sicuro, come un padre il suo debole fanciullino. Parecchi dolori Egli mi ha già inflitto, ma ovunque riconosco con venerazione la Sua maestà, che sovranamente manda ogni cosa a effetto. Ho preso nel mio intimo la salda decisione di dedicarmi per sempre al Suo servizio. Il buon Dio mi conceda la forza necessaria al mio proposito e mi protegga lungo il cammino. Io mi affido come un bimbo alla Sua grazia: Egli ci guarderà tutti quanti, perché nessuna sciagura venga a turbarci. Ma sia fatta la Sua santa volontà! Tutto ciò che mi assegnerà lo accetterò con gioia, fortuna e sventura, ricchezza e povertà, e guarderò arditamente in faccia alla morte, che un giorno ci raccoglierà tutti nella gioia e beatitudine sempiterna. Sì, mio buon Signore, fa che il Tuo volto risplenda sopra di noi in eterno! Amen!” (SA)

E’ dell’anno successivo un fugace riferimento all’appiattimento del senso religioso che assume un grande significato in rapporto a ciò che si sta definendo nell’anima dell’adolescente:

“7 agosto

Oggi è la prima domenica che trascorro nuovamente a Pforta. Ma, strano a dirsi, non sento il vero spirito della solennità domenicale.” (SA)

Si tratta, però, appena di una fluttuazione, per quanto precorritrice. Il 16 agosto dello stesso anno, Nietzsche scrive:

“Io contemplo sempre in spirito l'infinito Tutto; quant'è mirabile e sublime la terra, quant'è grande, tanto che nessun uomo può conoscerla per intero; ma che cosa provo quando vedo le innumerevoli stelle e il sole, e chi mi garantisce che questa immensa volta celeste con tutte le sue costellazioni non sia che una piccola parte dell'universo, e dove ha fine quest'universo? E noi, uomini miserevoli, vogliamo comprenderne il creatore, noi che non riusciamo nemmeno a concepire le sue opere!” (SA)

Si sta evidentemente muovendo nell’anima di Nietzsche un’irrequietezza adolescenziale, che egli, evidentemente spaventato, compensa con il riferimento all’incapacità dell’uomo di capire il mistero dell’Universo.

La crisi, però, ormai si è avviata, e si manifesta sotto forma di un bisogno esplorativo che imbocca due diverse direzioni. Il 20 agosto Nietzsche scrive:

“Ieri sera mi è venuta d'improvviso una straordinaria voglia di viaggiare, ma non in maniera convenzionale, bensì senza denaro. Mi è venuto in mente che vivere soddisfacendo tutti i nostri bisogni è di gran lunga meno interessante del campare alla giornata affidandosi alla fortuna, senza pensare al domani. Che si abbia beninteso qualcosa da parte per i casi imprevisti, è naturale. Avrei davvero molta voglia di approfittare delle vacanze di S. Michele per una gita del genere. Secondo me ci sarebbe da divertirsi parecchio. Vagare così alla giornata, alloggiare dove capita, avere un paio di avventure, è una cosa stupenda.” (SA)

Della stessa estate è questo appunto:

“Ho celebrato il mio compleanno e mi son fatto più vecchio. Il tempo svanisce come la rosa di primavera, e il piacere come la spuma del torrente.

Mi ha preso una straordinaria sete di conoscenze, di cultura universale.” (SA)

Il progetto che deriva da questa sete è già enciclopedico, riguardando le lingue, le scienze naturali, il latino e il greco, la letteratura, ecc., ma "sopra ogni altra cosa la Religione, baluardo di ogni sapere" (SA).

Ancora nel maggio del 1861, Nietzsche ribadisce la sua fede:

“In tutto il creato esistono delle scale, che debbono estendersi anche a esseri invisibili, a meno che il mondo stesso non sia l'anima universale. Così notiamo una progressione dell'esistenza, partendo dalla pietra e da quanto in genere appare solido e rigido, fino alle piante, agli animali, all'uomo, per finire con la terra, l'aria, i corpi celesti, il mondo o lo spazio, la materia e il tempo. Il termine, la fine, vanno posti qui? I concetti astratti son da considerare i creatori di ogni essere? No, al di là della materia, dello spazio, del tempo, si ergono le fonti originarie della vita, che debbono essere più alte e spirituali, la capacità vitale dev'essere infinita, la forza creatrice illimitata.

Un'altra scala è costituita dalla progressiva suddivisione delle forze spirituali, e qui tra tutti gli oggetti visibili l'uomo è al vertice, giacché il nostro spirito possiede la massima estensibilità. Ma l'imperfezione e limitatezza dello spirito umano, che dovrebbe penetrare con chiarezza il mondo intero se fosse lo spirito primigenio, guida il nostro sguardo verso una più alta e sublime forza spirituale, dalla quale come da una sorgente emanano tutte le altre. Così, è dato trovare parecchie scale analoghe, ad esempio il continuo progredire nell'àmbito della materia, dello spazio, del tempo, della morale, ecc. Tutte però e questo è l'importante ci definiscono in primo luogo l'esistenza dell'Essere eterno, e poi anche le sue qualità.

Solo a un Essere buono, e precisamente a un principio di bontà, può ricondursi la ripartizione dei destini, e noi non dobbiamo tentare temerariamente di sollevare il velo che avvolge il potere che guida le nostre sorti. E come potrebbe l'uomo, con le sue limitate facoltà spirituali, penetrare i sublimi disegni che lo Spirito primigenio ha concepito e posto in esecuzione!

Il caso non esiste; tutto quanto accade ha un significato, e quanto più la scienza indaga e ricerca, tanto più evidente appare il concetto che tutto ciò che esiste o accade è un anello di una invisibile catena. Getta uno sguardo alla storia: credi che le date si succedano senza significato? Guarda il cielo; credi che i corpi celesti seguano le loro traiettorie senza un ordine e una legge? No, no! Ciò che accade non accade a caso, un Essere superiore governa secondo ragione e criterio tutto quanto il creato.”

Ma la fede di fatto vacilla, avanza il dubbio. In Fato e Storia, che è del 1862, Nietzsche scrive:

“Se potessimo guardare con occhio libero e spregiudicato alla dottrina cristiana e alla storia della chiesa, non potremmo non enunciare certe opinioni contrarie alle idee generali. Ma così, costretti come siamo fin dai primi giorni della nostra vita nel giogo dell'abitudine e dei pregiudizi, impediti nello sviluppo naturale del nostro spirito e determinati nella formazione del nostro temperamento dalle impressioni dell'infanzia, crediamo di dover considerare quasi come un delitto la scelta di un più libero punto di vista, che potrebbe permetterci dì pronunciare un giudizio imparziale e adeguato ai tempi sulla religione e sul cristianesimo.

Un tentativo del genere non è l'opera di qualche settimana bensì di una vita.

Infatti come si potrebbe distruggere l'autorità di due millenni, garantita dagli uomini più geniali di tutti i tempi, con i risultati di giovanili meditazioni, come si potrebbero tenere in non cale, grazie a fantasticherie e idee immature, tutte quelle sofferenze e benedizioni che lo sviluppo della religione ha profondamente impresso nella storia del mondo?

Oltretutto è presunzione voler risolvere problemi filosofici sui quali da alcuni millenni è in corso un conflitto di opinioni: rivoluzionare concezioni che, secondo la convinzione degli uomini più geniali, sono le sole in grado di elevare l'uomo alla vera umanità: unire la scienza alla filosofia, senza neppure conoscere i risultati principali di ambedue: erigere, finalmente, un sistema della realtà ricorrendo alla scienza e alla storia, mentre ancora l'unità della storia universale e i fondamenti primi della teoria non si sono rivelati allo spirito?

Osare di inoltrarsi nel mare del dubbio senza bussola né guida è stoltezza e rovina per cervelli immaturi; i più naufragano nelle tempeste e solo pochissimi scoprono terre sconosciute.

E allora, dal mezzo dell'immenso oceano delle idee, quante volte si è còlti dalla nostalgia della terraferma: quante volte nel corso dì sterili speculazioni mi ha sorpreso il desiderio di tornare alla storia e alla scienza!

Storia e scienza, mirabile retaggio di tutto quanto il nostro passato e preannuncio del nostro avvenire, esse sole sono le fondamenta sicure su cui possiamo edificare la torre della nostra speculazione.

Quante volte tutta la nostra filosofia passata mi è sembrata una torre di Babele; attingere al cielo è la meta di tutte le grandi aspirazioni; il regno dei cieli in terra significa quasi la stessa cosa.

Una sconfinata confusione intellettuale nel popolo è il desolante risultato; grandi sconvolgimenti sono imminenti, una volta che la massa abbia capito che l'intero cristianesimo si fonda su ipotesi; l'esistenza di Dio, l'immortalità, l'autorità della Bibbia, l'ispirazione e altre cose ancora rimarranno sempre problematiche. Io ho cercato di negare tutto: ahimè, abbattere è facile, ma costruire! E persino l'abbattere sembra più facile di quanto non sia; noi siamo talmente determinati nel nostro intimo dalle impressioni dell'infanzia, dagli influssi dei genitori, dall'educazione, che quei pregiudizi così profondamente radicati non si lasciano facilmente estirpare con argomenti razionali o con la mera volontà. La forza dell'abitudine, il bisogno di qualcosa di superiore, la rottura con tutto l'esistente, la dissoluzione di tutte le forme della società, il dubbio che l'umanità per duemila anni si sia lasciata indurre in errore da una chimera, il senso della propria presunzione e temerarietà: tutto ciò determina un conflitto senza esito, finché da ultimo esperienze dolorose e tristi eventi riconducono il cuor nostro all'antica fede dell'infanzia.

Tuttavia per ognuno deve essere un contributo alla storia della propria cultura l'osservare l'impressione che questi dubbi suscitano nell'anima. Non si può fare a meno di pensare che del resto rimanga un qualche risultato di quell'attività speculativa, qualcosa che non sempre sarà un sapere bensì anche una fede, anzi addirittura susciti talora o reprima un sentimento morale. Allo stesso modo che i costumi sussistono come risultato di un'epoca, di un popolo, di una corrente di pensiero, così la morale è il risultato dello sviluppo generale dell'umanità. Essa è la somma di tutte le verità per il nostro mondo; è possibile che nel mondo infinito essa non significhi niente di più che il risultato dì una corrente di pensiero nel nostro: è possibile che dalle verità risultanti dai singoli mondi si sviluppi a sua volta una verità dell'universo!

Infatti non sappiamo affatto se l'umanità stessa non sia altro che un gradino, un periodo nell'universale, nel divenire, se essa non sia una manifestazione volontaria di Dio. E forse l'uomo non è altro che lo sviluppo della pietra fino all'animale, attraverso il termine medio della pianta? Forse già qui è stato raggiunto il suo compimento e anche qui è storia? Non ha fine questo divenire eterno? Quali sono le molle di questa immensa orologeria? Esse sono celate, ma sono le stesse che nel grande orologio che noi chiamiamo storia. Il quadrante sono gli eventi. Di ora in ora procede la lancetta, per ricominciare da capo, dopo le dodici, il suo corso; un nuovo periodo del mondo ha inizio.

E non si potrebbe assumere l'essenza umana stessa come l'insieme di quelle molle? (In tal caso le due concezioni sarebbero mediate). Oppure il tutto è guidato da mire e da piani superiori? E l'uomo solo un mezzo oppure è scopo?

Lo scopo, il mutamento esistono solo per noi, solo per noi ci sono le epoche e i periodi. E come potremmo del resto scorgere piani superiori. Noi vediamo soltanto come dalla stessa sorgente, dall'essenza umana, si formano idee sotto impressioni esterne; come queste assumano vita e forma; diventino patrimonio di tutti, coscienza, senso del dovere; come l'eterno istinto produttivo le elabori in quanto materiale per nuove idee, come esse plasmino la vita, reggano la storia; come esse nei conflitto reciproco si arricchiscano a vicenda e come da questa nuova miscela scaturiscano nuove conformazioni. Uno scontrarsi e un ondeggiare tra correnti diverse, con alta e bassa marea, tutte affluenti verso l'oceano eterno.

Tutto si muove in circoli immensi che si allargano sempre più l'uno attorno all'altro; l'uomo è uno dei circoli che si trovano più all'interno. Se vuole cogliere e misurare le vibrazioni dei circoli esterni, deve astrarre da se stesso e dai circoli più ampi ma prossimi fino a giungere a quelli più esterni e più vasti. I circoli più ampi ma prossimi sono la storia dei popoli, della società e dell'umanità. Cercare il centro comune di tutte le vibrazioni, il circolo infinitamente piccolo è compito della scienza; a questo punto, in cui l'uomo cerca quel centro dentro di sé e per sé, riconosciamo l'importanza unica che per noi debbono avere la storia e la scienza.

Ma, essendo l'uomo coinvolto e trascinato nei circoli della storia universale, nasce quel conflitto della volontà individuale con la volontà complessiva; qui troviamo accennato quel problema infinitamente importante, la questione cioè della giustificazione dell'individuo rispetto al popolo, del popolo rispetto all'umanità, dell'umanità rispetto al mondo; anche qui il rapporto fondamentale tra fato e storia.”

In questo brano è più che evidente il drammatico conflitto tra il dubbio radicale e una fede, da esso minacciata, che si ripropone come ammaliante nostalgia di sicurezza.

E’ questo conflitto che consente a Nietzsche di intuire le ragioni dell’attecchimento in profondità delle convinzioni religiose:

“Noi siamo stati influenzati, senza recare dentro di noi la forza di una reazione opposta, persino senza sapere che siamo influenzati. E' un sentimento doloroso quello di avere rinunciato alla propria indipendenza con l'ipotesi inconscia di impressioni esterne, di avere schiacciato facoltà dell'anima con la forza dell'abitudine e di avere involontariamente gettato nell'anima i germi di errori e deviazioni.”

Nello stesso scritto, Nietzsche rivendica, contro quella nostalgia, il valore supremo della libertà di pensiero che rifiuta qualunque limite:

“La volontà libera appare come ciò che non conosce catene, che è arbitrario; è l'infinitamente libero, avventuroso, lo spirito.”

In uno scritto successivo, intitolato Libertà della volontà e Fato, il dado è tratto:

“Noi troviamo che popoli i quali credono a un fato si distinguono per energia e forza di volontà, mentre invece uomini e donne che lasciano andare le cose come vanno in base a principi cristiani falsamente intesi, dato che «quel che Dio ha fatto è fatto bene», si lasciano guidare dalle circostanze in modo degradante. In generale la «rassegnazione nella volontà divina» e l’umiltà spesso non sono altro che pretesti per mascherare il vile timore di far fronte con risolutezza alla sorte.”

“Nella libertà della volontà si trova per l'individuo il principio della separazione, del distacco dalla totalità, della assoluta illimitatezza; ma il fato rimette l'uomo in collegamento organico con lo sviluppo complessivo, e lo costringe, in quanto cerca di dominarlo, ad un libero sviluppo di energia che si oppone al fato; la libertà assoluta della volontà senza il fato farebbe dell'uomo Dio, il principio fatalistico lo ridurrebbe a un automa.”

In un estremo tentativo si conservare una continuità con il suo passato, Nietzsche, ancora nel 1862, cerca di dare un significato terreno al Cristianesimo:

“Soltanto una visione cristiana può essere all'origine di un simile pessimismo: esso infatti è estraneo a una visione fatalistica. Esso non è altro che una sfiducia nelle proprie forze, un tentativo di mascherare la propria incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino. Soltanto se riconosciamo che noi siamo responsabili unicamente verso noi stessi, e che il rimprovero di aver sbagliato l'indirizzo dato alla propria vita vale solo per noi e non per qualche altra potenza superiore: solo allora i concetti fondamentali del cristianesimo si spogliano della loro veste esteriore per trasformarsi in sostanza e vita. II cristianesimo è essenzialmente un fatto di cuore: soltanto quando si è incarnato in noi, quando è diventato in noi anima, solo allora l'uomo è il vero cristiano. I principi della dottrina cristiana esprimono soltanto le verità fondamentali del cuore umano: essi sono simboli, così come la cosa più eccelsa non può essere altro che un simbolo di ciò che è ancora più alto. Giungere alla beatitudine attraverso la fede non significa altro che una vecchia verità: che solo il cuore, e non il sapere, può rendere felici. Il fatto che Dio è diventato uomo non fa che ricordarci che l'uomo non deve ricercare la sua beatitudine nell'infinito, bensì deve fondare sulla terra il suo paradiso; l'illusione di un mondo ultraterreno aveva indotto l'intelletto umano a un atteggiamento errato nei riguardi del mondo terreno: essa era il prodotto di una età infantile dei popoli. L'ardente animo giovanile dell'umanità accetta queste idee con entusiasmo, ed enuncia, presago, quel mistero, radicato nel passato e proiettantesi nel futuro, che Dio è diventato uomo. L'umanità acquista la sua virilità attraverso gravi perplessità e ardue battaglie: essa riconosce in sé «l'inizio, il centro e la fine della religione».”

La divinizzazione dell’uomo è, dunque, l’esito naturale del mito del Dio incarnato. Ma tale divinizzazione, secondo Nietzsche, non vale per tutti gli esseri umani, ma solo per coloro che sono capaci di prendere su di sè il peso dell’esistenza per quello che essa è e portarlo senza rimanerne schiacciati.

8. La psicobiografia dinamica di Nietzsche (2)

L’abbandono della fede impartita dagli adulti è una circostanza abbastanza frequente in conseguenza del sopravvenire della crisi adolescenziale. Sicuramente, all’epoca di Nietzsche tale circostanza era più rara rispetto ad oggi, ma, in molti casi, quando non dava luogo al rigetto della fede, questa residuava come religiosità di facciata, meramente opportunistica in rapporto ad una società dominata da un patto tra il Trono e l’Altare per cui il dichiararsi materialisti ed atei esponeva quasi inesorabilmente all’esclusione (per esempio dalle cariche pubbliche).

L’abbandono della fede, peraltro, determina conseguenze diverse a seconda dell’intensità con cui essa è stata partecipata nel corso dell’infanzia. La partecipazione di Nietzsche, come abbiamo visto, è stata intensa, ha avuto un carattere spiccato di misticismo e si è protratta a lungo.

Il risveglio della coscienza critica è avvenuto dunque traumaticamente. In Umano, troppo umano, che è del 1878, la ricostruzione del trauma è fornita in termini inequivocabili:

“Volume I

3.

Si può presumere che uno spirito nel quale il tipo del «libero spirito» sia destinato a giungere a piena e dolcissima maturazione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione, e che esso prima apparisse uno spirito tanto più legato e costretto per sempre al suo cantuccio e alla sua colonna. Che cosa lega più saldamente? Quali vincoli è quasi impossibile infrangere? Per uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: il rispetto, che è proprio della gioventù, il timore e la sensibilità per tutto ciò che è da sempre venerato e ritenuto degno, la gratitudine per il terreno da cui sono cresciuti, per la mano che li ha guidati, per il santuario dove hanno imparato a pregare - i loro stessi momenti più alti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più duraturo.

Per simili incatenati la grande liberazione giunge improvvisa, come una scossa di terremoto: a un tratto la giovane anima viene scossa, strappata via, divelta - né capisce essa stessa che cosa stia accadendo. Un impulso e un impeto la dominano e divengono per lei come l’ordine di un padrone; si destano una volontà, un desiderio di andar via, non importa dove, ad ogni costo; una prepotente, pericolosa avidità di conoscere un mondo mai scoperto arde e divampa in tutti i suoi sensi. «Piuttosto morire che vivere qui», dice una voce imperiosa e seducente: e questo «qui», questo «a casa» è tutto quello che sinora la giovane anima aveva amato! Una paura e una diffidenza improvvisa verso ciò che essa amava, un lampo di disprezzo verso quel che per essa significava «dovere», un desiderio ribelle, arbitrario, vulcanicamente irruente di partire, allontanarsi, straniarsi, raffreddarsi, rinsavire, gelarsi, un odio per l’amore, forse un gesto e uno sguardo sacrileghi indietro, verso ciò che essa sinora aveva venerato e amato, forse un rossore di vergogna per queI che ha appena fatto, e insieme un’esultanza per averlo fatto, un ebbro, esultante brivido interiore nel quale si rivela una vittoria - una vittoria? su che cosa? su chi? una vittoria enigmatica, ricca di domande, problematica, ma pur sempre la prima vittoria: simili cose brutte e dolorose appartengono alla storia della grande liberazione.”

Nel 1862, in uno scritto autobiografico, Nietzsche ricostruisce così gli effetti immediati della perdita della fede:

“Io in quel tempo, proprio a causa di certe dolorose esperienze e delusioni, mi trovavo sospeso, solo e privo d'aiuto, senza basi teoriche, senza speranze né ricordi graditi. La mia preoccupazione incessante era quella di costruirmi una vita su misura…”

Ancora più significativa è la testimonianza affidata a La gaia scienza:

“Questo tratto di deserto, esaurimento, incredulità, glaciazione nel bel mezzo della giovinezza, questa vecchiaia instauratasi al posto sbagliato, questa tirannia del dolore superata soltanto dalla tirannia dell’orgoglio, che rifiutava le conclusioni del dolore ― e le conclusioni sono un conforto ―, questa solitudine radicale come difesa da un disprezzo dell’uomo divenuto morbosamente chiaroveggente, questa fondamentale riduzione della conoscenza ai suoi elementi amari, acri, dolorosi, come prescriveva la nausea gradualmente insorta da un’incauta dieta e depravazione spirituale ― lo chiamano romanticismo ― oh, se qualcuno potesse provare tutto questo!”

Per quanto riguarda le conseguenze a lungo termine occorre segnalarne due.

Come accade a tutte le anime estremamente sensibili e dunque, a livello infantile, estremamente influenzabili, la fede di Nietzsche è stata stata vissuta come una verità assoluta e inconfutabile. L’entrata in azione del bisogno di opposizione e dello spirito critico ne ha determinato la dissoluzione, ma al prezzo dell’inquietante consapevolezza che l’Io cosciente può vivere, per un periodo più o meno lungo, in una sorta di “ipnosi” dovuta all’influenza dell’ambiente. Questa scoperta ha avuto un effetto traumatico sulla psicologia e sulla personalità nietzschiana. Nietzsche, infatti, è vissuto nell’incubo che qualcosa del genere potesse nuovamente accadere.

Sul piano di realtà, ciò solitamente significa solo il mantenersi di un potere critico sulle idee e sui valori con cui un soggetto si confronta nel corso della vita. In Nietzsche invece ha significato tentare di demolire tutti i sistemi di valore tradizionali, smascherandone sistematicamente la genealogia, solitamente tutt’altro che coincidente con la loro positività, le lacune, le contraddizioni, le irrazionalità, ecc.

La grandezza di Nietzsche sta per l’appunto nell’esercizio di questo implacabile potere critico, che storicizza e relativizza tutti i valori culturali. Il problema è che, alimentato da un’indubbia genialità, anche l’esercizio del potere critico appare, a più riprese, impregnato da motivazioni inconsce di ordine soggettivo: il riscatto “vendicativo” nei confronti dei “normali”, orientato a togliere loro tutti i puntelli su cui si fonda la loro tranquilla coscienza, e la sovversione dei valori religiosi spirituali, che giunge ad opporre ad essi l’esaltazione della sfera istintuale.

La seconda conseguenza richiede, per essere valutato, un’ottica psicoanalitica. L’interiorizzazione dei valori trasmessi dall’ambiente, come oggi sappiamo, rientra nell’ambito di una predisposizione del cervello umano alla replicazione culturale. La replicazione avviene sia a livello conscio che a livello inconscio. I valori che incidono maggiormente nell’organizzazione della personalità, naturalmente, sono quelli che attecchiscono a livello inconscio. Tale attecchimento è un processo automatico, ma non passivo: esso dipende dalla risonanza emozionale che i valori evocano in rapporto alla sensibilità di un determinato soggetto.

E’ noto da tempo che, tra tutti i sistemi di valore culturali, per la potenza emozionale dei simboli che utilizza, la Religione sembra avere una capacità di attecchimento del tutto particolare nei soggetti sensibili, non da ultimo perché essa, oltre a dare un senso all’esperienza personale, soddisfa il bisogno di infinito che in essi è presente..

Con il sopravvenire dell’adolescenza e l’acquisizione di un potere critico, l’io cosciente può giungere facilmente a confutare i dogmi religiosi e promuovere il loro abbandono. Il cambiamento cognitivo, però, non coincide con l’estirpazione delle radici inconsce, emozionali della fede, soprattutto per quanto riguarda il bisogno di infinito che, soddisfatto sia pure illusoriamente in precedenza, continua a premere cercando un’altra fonte di appagamento. La divorante passione per la conoscenza è, in Nietzsche, questa nuova fonte.

I due aspetti discussi possono essere ritenuti particolarmente importanti per quanto concerne Nietzsche perché essi sembrano sottendere tutta la sua opera. Per un verso, infatti, essa sembra deputata a distruggere tutte le illusioni che possono “ipnotizzare” l’uomo, portandolo lontano dalla possibilità di fare i conti con la sua condizione esistenziale finita (oltre che casuale e contraddittoria). Per un altro, essi permettono di comprendere l’ossessione anticristiana che accompagnerà Nietzsche tutta la vita, nella quale è difficile non leggere uno strenuo tentativo di estirpare i valori religiosi rimasti attivi a livello inconscio, che lo costringe infine ad identificarsi con un dio pagano - Dioniso - il quale oppone al Crocifisso la stravolgente esperienza dell’ebbrezza infinita di fondersi con la Natura e con gli altri.

Si danno due diverse prove della fondatezza di questa ipotesi. La prima è la sorprendente rimozione dell’esperienza originaria che Nietzsche esplicita in Ecce Homo e ne La volontà di potenza:

“«Dio», «immortalità dell'anima», «redenzione», «al di là», tutti concetti ai quali, anche da bambino, non ho dedicato nessuna attenzione, e neppure il mio tempo forse non sono mai stato abbastanza infantile per questo? Non conosco affatto l'ateismo come risultato, ancor meno come avvenimento: esso mi è congeniale per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo irriverente, per accontentarmi di una risposta così piattamente grossolana. Dio è una risposta piattamente grossolana, un'indelicatezza verso noi pensatori , in fondo, persino un grossolano divieto nei nostri confronti: non dovete pensare!…”

“251.

Io non sono stato cristiano nemmeno una sola ora della mia vita: io ritengo tutto quello che ho visto come cristianesimo una spregevole ambiguità di parole, una vera vigliaccheria di fronte a ogni potere comunque dominante…”

Come interpretare questa negazione, così contrastante con gli Scritti Autobiografici, se non riconducendola ad una persistente vergogna e all’intuizione che la memoria di quell’esperienza non è stata affatto del tutto superata?

La seconda prova è il malessere psicologico e psicosomatico che ha accompagnato Nietzsche per tutta la vita assumendo, in alcuni periodi, il carattere di una vera disperazione.

In una lettera drammatica all’amica Malwida von Meysemburg del 14 gennaio 1880, Nietzsche descrive il “terribile martirio” della sua vita:

“Quantunque lo scrivere sia divenuto per me un frutto proibito, tuttavia non posso fare a meno che Voi, che io amo e onoro come una sorella maggiore, riceviate ancora una mia lettera ma sarà certamente l'ultima! Infatti il terribile e quasi continuo martirio della mia vita mi costringe a desiderarne la fine e, a giudicare da alcuni sintomi, l'apoplessia che mi libererà è così imminente che io posso veramente sperare nella morte. Non c'è vita d'asceta che, quanto a tormenti e rinunce, possa paragonarsi alla mia di questi ultimi anni. E tuttavia mi sono conquistato una profonda purificazione e una grande serenità: non ho più bisogno né della religione né dell'arte. Ne sono, lo vedete, orgoglioso: l'abbandono da parte di tutti ha fatto si ch'io scoprissi in me le più profonde fonti dalle quali trarre aiuto. Ho assolto, penso, il mio più importante compito, ma come colui senza dubbio al quale non è stato lasciato il tempo necessario. So però di aver versato una goccia almeno di olio salutare, di aver indicato a molti la via dell'elevazione, della pace interiore, della giustizia. Sto scrivendo una dichiarazione che avrebbe dovuto essere postuma, dichiarata soltanto quando fosse finita la mia «umanità». Nessun dolore ha potuto e potrà spingermi a dare alla vita una falsa testimonianza sulla vita: la vita così come io la vedo.”

L’esperienza di Nietzsche è oscillata perpetuamente tra periodi di profondo abbattimento, avvilimento, apatia, inibizione dell’attività intellettuale, depressione e periodi di esaltazione, iperattività intellettuale, senso di onnipotenza.

Sarebbe facile iscrivere il disagio nietzschiano nell’ambito del cosiddetto disturbo bipolare. Le etichette psichiatriche, però, non dicono nulla sulle dinamiche che lo hanno sotteso.

Adottando un codice psicodinamico, si possono ricondurre tali dinamiche ad un conflitto perpetuo tra un Super-io rimasto impregnato di valenze religiose e un Io antitetico proteso verso un’affermazione di libertà assoluta e “trasgressiva”, la cui realizzazione postula un certo grado di anestetizzazione emozionale.

L’esistenza di tale conflitto è comprovata dal fatto che, non appena si allenta l’inibizione depressiva, Nietzsche è spinto non solo a riprendere quasi compulsivamente la sua attività intellettuale, ma ad alzare costantemente il tiro delle sue provocazioni critiche, secondo un meccanismo ben noto fondato sulla necessità di negare i sensi di colpa reiterando la “colpa”.

Nietzsche non ha mai fatto cenno ad alcun senso di colpa. La lettera citata però attesta che la disperazione conseguente alle inibizioni depressive era sottesa dall’aspettativa di una catastrofe, di una morte precoce. Dal punto di vista analitico, l’aspettativa del male è un indizio inequivocabile di sensi di colpa: quell’aspettativa, infatti, funziona come una punizione inconscia.

Quando, in conseguenza della crisi adolescenziale, si struttura un conflitto tra Super-io e Io antitetico, ciò che determina la sua evoluzione sono due fattori: l’alleanza, consapevole o inconsapevole, che l’io cosciente stabilisce con una delle sue substrutture, e le potenzialità mentali del soggetto che ne determinano le potenzialità espressive.

L’alleanza dell’io cosciente di Nietzsche con l’Io antitetico è indubbia e stabile. Essa tra l’altro è sottesa da una vera e propria fobia riferita alla possibilità di farsi influenzare nuovamente dall'ambiente sociale, com’è accaduto nel corso della sua infanzia e adolescenza. Questa fobia ha giocato un grande ruolo nel costringere Nietzsche ad un progressivo isolamento sociale e nell’indurre in lui un vivo disgusto per l’istinto del gregge.

La difesa nei confronti del mondo esterno non ha però modificato la struttura del mondo interno, all'interno del quale la pressione di un Super-io terribilmente colpevolizzante, materializzatosi quasi in forma allucinatoria, come si è visto, a livello giovanile, è rimasta costante, inducendo un drammatico circolo vizioso dinamico autoalimentato.

Se si volesse trovare una metafora culturale dell'esperienza di Nietzsche occorrerebbe ricondursi a quella dell'Angelo ribelle che, quando prende consapevolezza del suo statuto di libertà e di autodeterminazione, non cede più alla lusinga del Creatore che gli richiede un atto di sottomissione e rivendica il diritto di pensare con la sua testa. In questo senso, Nietzsche è luciferino: è colui che porta la luce agli esseri umani immersi nelle tenebre della sottomissione ad un'Autorità superiore (Dio, Tradizione, Società, ecc.).

La luce è spesso sfavillante, ma subisce non di rado l'effetto di distorsione dipendente dal conflitto strutturale, vale a dire dalla necessità di Nietzsche di pensare in termini univocamente antitetici.

L’orientamento antitetico ha potenziato il suo spirito critico, orientandolo verso la demolizione di tutti i valori che la storia ha prodotto per sedare l’ansia esistenziale umana e per offrire ad essa il conforto della trascendenza. In questo tragitto destruens, Nietzsche è, però, andato progressivamente fuori misura fino al punto di assumere il ruolo di colui che sarebbe riuscito, da solo, ad estirpare le radici cristiane dell’Europa.

E’ difficile dire quanto, nel precipitare Nietzsche nella follia, abbia inciso una presunta infezione luetica, contratta in età giovanile, che avrebbe infine aggredito il cervello. I "biglietti della follia" (come peraltro Ecce Homo) attestano un inequivocabile delirio di onnipotenza associato ad uno stato di coscienza confuso. Entrambi questi aspetti, come noto, sono spesso la conseguenza di un isolamento estremo, che viene compensato dal delirio in virtù del quale il soggetto nega il suo bisogno dell'Altro. Quando quello declina, l’inconscio riattiva il bisogno di appartenenza in virtù di una regressione che di fatto consegna il soggetto nelle mani altrui.

Non c’è nulla di più patetico nella storia di Nietzsche del fatto che quelle mani siano state della madre prima e della sorella poi, e che egli abbia dovuto sperimentare, senza rendersene conto, il significato della compassione nei confronti degli esseri deboli, in quanto malati, che ha sempre odiato.


Lettura II

L'individuazione eroica 
[Io sono] un uomo che nulla tanto desidera quanto di perdere ogni giorno una qualche  fede tradizionale e sicura e che in questo affrancarsi sempre più grande dello spirito cerca e trova la sua felicità. Forse io voglio essere uno spirito libero, perfino ancor più libero di quel che io posso!"
                                                                                                                    Epistolario

 

 
Indice
La dimensione tragica dell’esistenza
Nietzsche e Schopenhauer
Le radici introverse della visione del mondo nietzscheana
Nietzsche, teorico dell’individuazione
Il bisogno di individuazione in Nietzsche
Individuazione: psicologia, neurobiologia
Dialettica Appartenenza/Individuazione
La dimensione tragica dell’esistenza

 

L'exergo è esemplare della straordinaria capacità intuitiva di Nietzsche sotto il profilo psicologico. Affrancato dal giogo
La dimensione tragica dell’esistenza

L'exergo è esemplare della straordinaria capacità intuitiva di Nietzsche sotto il profilo psicologico. Affrancato dal giogo religioso, egli scopre immediatamente la sua natura libertaria, ma capisce anche che essa ha qualcosa di eccessivo. Di fatto è una libertà claustrofobica, contrassegnata dalla precedente esperienza di oppressione interiore.

Nietzsche, come vedremo, la coltiverà eroicamente, costringendosi letteralmente a volare e a rifiutare di poggiare i piedi sulla terra.

La libertà claustrofobica è però una libertà vertiginosa, che, paradossalmente, si mantiene sulla base dell'oppressione che l'ha generata e della nostalgia di essa, nella misura in cui fino al momento di averla percepita come tale, dava sicurezza e equilibrio interiore.

Tra le sue diverse funzioni, infatti, la religione assolve quella di dare una risposta globale ai problemi dell’esistenza trasformando il negativo in positivo: il dolore è una prova accettando la quale il credente manifesta la sua sottomissione alla volontà divina; la morte è un passaggio al di là del quale si dà la vera vita; la giustizia, impossibile sulla terra, si realizza nell’aldilà. La fede soddisfa l’esigenza di armonia e di senso intrinseca alla consapevolezza che l’uomo ha del suo essere vulnerabile, precario, finito e oggettivamente insignificante.

Quando essa crolla, è inevitabile che tale consapevolezza si attivi e, con essa, se l’individuo è dotato di capacità introspettive, l’intuizione della conflittualità e della contraddittorietà del mondo interiore.

Nel 1864, Nietzsche scrive:

“Gli stati d'animo derivano […] dai conflitti interni ovvero da una pressione esterna sul mondo interiore. Qui una guerra civile di due campi opposti...

"Quante volte, quando tendo l'orecchio ai miei pensieri e sentimenti e tacitamente mi sorveglio, mi è sembrato di udire il ronzio e lo strepito delle turbolente fazioni, come se qualcosa stormisse per l'aria, come quando un’aquila o un pensiero si levano incontro al sole. La guerra è l'alimento costante dell'anima.” (SA)

Nietzsche non specifica, e non lo farà mai, quali siano le “turbolente fazioni” in questione, ma noi oggi non abbiamo difficoltà a capire che esse sono il frutto di una scissione tra il richiamo nostalgico all’armonia perduta e la volontà di andare avanti per la sua strada con l’intento di trovare un’altra soluzione alle problematiche esistenziali.

Tale intento implica già il coraggio di affrontare queste problematiche senza cedere al carico di ansia che esse comportano. Al di là del coraggio, una risposta laica ad esse postula qualche punto di riferimento.

Nel 1868, Nietzsche fornisce un indizio importante sul modo in cui è riuscito a ricomporre un ordine interiore:

“Da una certa qual vaga dispersione nelle numerose direzioni delle mie capacità mi protesse una determinata serietà filosofica, mai paga se non in presenza della nuda verità, e l'animo impavido, anzi addirittura propenso alle conclusioni più dure e spiacevoli. La convinzione di non poter arrivare a toccare il fondo delle cose nell'universale mi spinse tra le braccia del rigore scientifico.”

L’animo impavido sarà una costante del suo pensiero. Per quanto riguarda il rigore scientifico, il discorso è diverso.

Fin dall’inizio del suo tragitto intellettuale, Nietzsche non rinuncia a cercare una chiave che spieghi in termini universali la condizione umana.

Venuta meno la credenza cristiana, pertanto, non c’è da sorprendersi se egli, attraverso lo studio della cultura classica, cerca una risposta nella religiosità greca, vale a dire in una religiosità che, attribuendo agli dei tratti antropomorfici, scopre in essi qualcosa che ha a che vedere con l’uomo.

Intesa in senso stretto, la filologia, alla quale Nietzsche si dedica, implica solo lo studio dei testi letterari al fine di pervenire ad un’interpretazione corretta. Si tratta dunque di una disciplina sostanzialmente erudita. Nietzsche, però, la assume nel suo significato esteso di insieme di saperi che si propongono la conoscenza e la ricostruzione di una o di più civiltà antiche: come disciplina, dunque, storica, il cui fine è filosofico, e consiste nel capire come gli uomini del passato si sono confrontati con i problemi dell’esistenza. Sono questi, in ultima analisi, che gli interessano e che gli interesseranno sempre. La filologia, in lui, è ancella della psicologia.

Nietzsche si rivolge al mondo e alla cultura greca esplorandoli con una metodologia genealogica che anticipa una delle sue scoperte più importanti: quella per cui la cultura è un’ideologia, un mito che “si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose” sicché “le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione".

La citazione è di R. Barthes, e attesta l’influenza esercitata da Nietzsche sullo strutturalismo francese, di cui parleremo ulteriormente.

Applicando il metodo genealogico alla cultura greca, Nietzsche scopre qualcosa di fondamentale ai fini dello sviluppo del suo pensiero.

Nel 1872, espone questa scoperta nel suo primo saggio importante - La nascita della tragedia -, che lascia intuire la densità del genio, ma avvia una reazione negativa da parte del mondo accademico.

L’ipotesi che egli sostiene è semplice, ma radicalmente in contrasto con le opinioni prevalenti tra gli studiosi.

Nell’Antica Grecia il genere tragico svolgeva la funzione di cooptare gli spettatori nella rappresentazione di fatti che imponevano loro di interrogarsi sulla vita, sul dolore, sulla giustizia, sulla libertà, sulla colpa, sulla responsabilità personale, sul fato, ecc. La partecipazione popolare, che era una sorta di rito collettivo, attesta, secondo Nietzsche, che i Greci non ebbero alcuna paura di affrontare problematiche esistenziali inquietanti e drammatiche. C'è un'atmosfera di pessimismo intrinseca alla tragedia, che lascerebbe pensare ad una cultura incline alla depressione.

Ciò nondimeno, tra le popolazioni antiche, i Greci erano caratterizzati da una sanità, da un'esuberanza e da un'apertura alla vita sorprendenti, che hanno consentito loro di dominare culturalmente il mondo antico. Come spiegare questo paradosso?

Nietzsche scrive:

“E’ il pessimismo necessariamente un segno di regresso, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e infiacchiti? - come lo fu per gli indiani, come lo è, secondo ogni apparenza, per noi, uomini "moderni" ed europei? C'è un pessimismo della forza? Una propensione intellettuale per il duro, l'orrendo, il malvagio, il problematico dell'esistenza, come conseguenza di un benessere, di una salute traboccante, di una pienezza dell'esistenza? C'è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza? Uno sperimentante coraggio dello sguardo più acuto, che anela al terribile come al nemico, al degno nemico sul quale può provare la propria forza? dal quale vuoi imparare cosa sia "la paura"?”

“Un problema fondamentale è il rapporto dei Greco con il dolore, il suo grado di sensibilità, - rapporto che rimase uguale a se stesso? oppure si rovesciò? - il problema, se effettivamente il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di nuovi culti non sia sorto dalla mancanza, dalla rinuncia, dalla melanconia e dal dolore. Posto che proprio ciò fosse vero […]: da cosa deriverebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò in un tempo anteriore, il desiderio del brutto, la buona e austera volontà di pessimismo degli antichi Elleni, di mito tragico, dell'immagine di tutto il terribile, il malvagio, l'enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all'esistenza - da cosa deriverebbe allora la tragedia? Forse dal piacere, dalla forza, da una traboccante salute, da un'esuberante pienezza? E poi quale significato ha, sotto l'aspetto fisiologico, quella follia da cui sorse sia l'arte tragica che comica, la follia dionisiaca? Come? Forse la follia non è necessariamente il sintomo della degenerazione, del tramonto, della civiltà troppo tarda? Ci sono forse - un problema per psichiatri,-, nevrosi della salute? della giovinezza del popolo e del suo animo giovanile?”

Un problema per psichiatri: la consapevolezza della sostanziale tragicità della condizione umana associata all'amore per la vita. Ipotizzando che una traboccante salute e un’esuberante pienezza abbiano consentito ai Greci di confrontarsi senza angoscia con quanto si dà nell'esistenza di terribile, malvagio, enigmatico, distruttivo e fatale, Nietzsche non intende solo assumersi il ruolo di erede di quegli spiriti liberi e ardimentosi. Di fatto, egli esprime un’intuizione che solo oggi siamo in grado di valutare.

Una lunga tradizione induce a pensare che l’uomo rifugga naturalmente il dolore e aspiri al piacere. C’è del vero in questo luogo comune, ma non è tutta la verità.

L’uomo non è solo un animale adattivo, ma iperadattivo, poiché il suo cervello è ricco di potenzialità ridondanti. L’iperadattamento comporta la possibilità che egli ricavi piacere anche confrontandosi e affrontando i problemi esistenziali ansiogeni che sottendono la sua esperienza. Per giungere a tanto, però, è necessario che egli abbia raggiunto un sentimento della vita tale per cui quel confronto, anziché gettarlo nella disperazione, produce un più profondo attaccamento alla vita stessa, l’accettazione di ciò che in essa si dà di bene e di male.

Secondo Nietzsche, i Greci hanno raggiunto precocemente questo tipo di equilibrio, perché, attraverso l’arte, sono riusciti ad integrare le due pulsioni fondamentali dell’esistenza - il dionisiaco e l’apollineo – che essi hanno identificato con due divinità.

In realtà, per Nietzsche queste pulsioni hanno un significato universale. Il dionisiaco, che muove dalla percezione di quanto si dà di tragico nell'esistenza individuale, è la pulsione che si esprime attraverso la musica e spinge l'individuo alla fusione con la natura e con gli altri. Abbandonandosi a tale fusione, l'uomo sperimenta l'estasi, l'ebbrezza, si affranca dalla depressione e sperimenta, sia pure illusoriamente, la gioia di vivere. Nietzsche scrive:

“16.

Nell'arte dionisiaca e nel suo simbolismo tragico ci parla la stessa natura, con la sua vera e schietta voce: «Siate come sono io! Nel continuo mutare delle apparenze, la madre primigenia, eternamente creatrice, che eternamente costringe all'esistenza, che eternamente si appaga di questo mutare dell'apparenza!».”

“17.

Anche l'arte dionisiaca vuole persuaderci dell'eterno piacere dell'esistenza: solo che dobbiamo cercare questo piacere non nelle apparenze, bensì dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto ad un trapasso colmo di dolore, siamo costretti a guardare in faccia gli orrori dell'esistenza individuale — eppure non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal meccanismo delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo realmente l'essere primigenio stesso e ne sentiamo l'indomita brama e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l'annientamento delle apparenze ci appaiono ora necessari per la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si accavallano nella vita, per l'eccedente fecondità della volontà del mondo; noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso momento in cui siamo per così dire divenuti una sola cosa con l'incommensurabile piacere originario dell'esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l'indistruttibilità e l'eternità di questo piacere. Nonostante la paura e la compassione noi viviamo felicemente, non come individui, ma come quell'unico vivente, col cui piacere generativo siamo fusi.”

Rispetto al dionisiaco, che restituisce all’uomo la consapevolezza tragica dell’esistenza ma, al tempo stesso, la possibilità di abbandonarsi alla fusione con la natura e con gli altri, ricavandone piacere, l’apollineo corrisponde all'affermarsi di un principium individuationis tale che l'uomo non può sfuggire a quella consapevolezza e ai limiti che essa implica. Può però sovrapporre ad essa, senza rimuoverla, un ordine, una misura, un equilibrio che la trasforma in qualcosa di bello. Questa soluzione trova, secondo Nietzsche, la sua massima espressione nell'arte plastica e architettonica greca. Essa, sovrapponendo alla realtà un sogno, consente all'uomo di poter “tranquillamente sedere nella sua oscillante barca in mezzo al mare.”

Articolato sulla base di termini mitologici, il discorso nietzschiano può sembrare molto lontano dalla nostra esperienza, ma non è così.

Faccio un esempio per illustrare la sua densità.

Il rapporto con la Natura è quello che più facilmente evocano un’emozione fusionale. Guardiamo un paesaggio e ci sentiamo inondati da un’emozione che sfiora, talvolta, l’estasi. Si può ritenere questa emozione illusionale perché essa sovrappone il bisogno di armonia della mente umana, che dà una forma estetica agli infiniti stimoli che provengono dalla Natura, ignorando la realtà per cui la “bellezza” della Natura è di ordine casuale ed essa cela l’indefinita e crudele lotta per la sopravvivenza nella quale sono impegnati istante per istante le forme viventi (piante e animali).

Si può prendere atto di questa realtà e al tempo stesso godere dell’emozione estatica?

Questo non solo è possibile per Nietzsche, ma è l’unico modo per navigare tra i flutti della vita mantenendo un atteggiamento olimpico.

La metafora del nocchiero mi sembra efficace per quanto concerne la visione del mondo nietzscheana all’epoca, che pone da parte d’emblée l’opposizione tra razionale e irrazionale. Di fatto, secondo Nietzsche, l’esistenza umana è sempre e comunque irrazionale e assurda. Essa concede solo la “scelta” di realizzare uno stato di fusione mistica e orgiastica con la natura e con gli altri, o di procedere verso un’individuazione che, sovrapponendo alla tragicità dell’esistenza una misura e un equilibrio, comporta la sua accettazione e al tempo stesso un’apertura serena e gioiosa all’esistenza.

Tra l’ebrezza dionisiaca, intesa come negazione/affermazione della tragicità dell’esperienza umana, e la misura apollinea non si dà alcuna antitesi. Solo sperimentando la prima l’uomo può procedere verso la seconda.

E’ per l’appunto la dimensione apollinea che Nietzsche cercherà di realizzare per tutta la vita proponendola agli esseri umani, o per meglio dire agli unici che possano incarnarla - gli spiriti liberi - come modello supremo di esistenza consapevole e non schiacciata dal peso di tale consapevolezza. Se egli si identificherà fino alla fine con Dioniso, è perché tiene molto al fatto che la sua misura non sia scambiata con la mortificazione cristiana o la pigra ragionevolezza borghese. L’apollineo non implica la repressione, ma la sublimazione del dionisiaco.

I Greci avevano dunque già raggiunto l’unica soluzione valida per l’esistenza, abbandonandosi all’ebbrezza dionisiaca e, al tempo stesso, coltivando l’equilibrio apollineo.

Com’è possibile che tale soluzione sia andata progressivamente smarrita nel corso dello sviluppo della società occidentale?

La risposta di Nietzsche fa capo al fatto che la scoperta della tragicità dell’esistenza è stata rimossa in seguito all’avvento di una Razionalità che, con Socrate anzitutto, ma anche con Platone e Aristotele, ha indotto a rimuovere il carattere tragico dell’esistenza e a sovrapporre ad esso valori positivi (il vero, il bene, il giusto) che sollecitano gli esseri umani a lottare contro gli istinti naturali, a civilizzarsi e ad addomesticarsi.

Quei valori sono stati poi portati all’esasperazione dal Cristianesimo, che li ha addirittura assunti come attributi ontologici di un Essere perfetto e Supremo. Ad essi, infine, con l’avvento della Civiltà borghese, si sono aggiunti i diritti individuali che hanno enfatizzato al massimo grado il valore e la dignità suprema dei singoli soggetti.

Nell’ottica di Nietzsche, dunque, la civilizzazione occidentale è stata un processo continuo di decadenza, che ha allontanato l’umanità dalla consapevolezza della sua condizione e ha creato addirittura il monstrum del cristiano che si sente destinato all'immortalità e dell'individuo borghese il cui io ipertrofico lo porta a ritenere di essere l'uomo civilizzato per eccellenza.

Qui non è il caso di soffermarsi sulla pertinenza delle interpretazioni di Nietzsche della cultura greca. E' importante rilevare invece che, nel suo sforzo di trovare una spiegazione della condizione umana che sopperisca al vuoto prodotto dalla perdita della fede, egli ha un'intuizione straordinaria. Le due pulsioni di base – il dionisiaco e l'apollineo – che egli identifica nella cultura greca esistono realmente.

L’uomo, di fatto, è un essere bipolare: egli è sempre intuitivamente consapevole della sua mancanza ad essere - vale a dire della sua vulnerabilità, precarietà, finitezza e mortalità, che sono attributi propri dell'individualità -, e questa consapevolezza mantiene, sullo sfondo, una quota “fisiologica” di ansia e di depressione. La dimensione “tragica” è costitutiva del suo sentirsi casualmente “gettato” nel mondo e destinato ad una breve parabola.

Al tempo stesso, egli non può rinunciare ad un bisogno di felicità che preme nel profondo come espressione dell’avere egli ereditato la “saggezza” istintiva degli animali. Il problema è che quel bisogno non può essere soddisfatto con la stessa naturalezza con cui si realizza negli animali.

Esso deve necessariamente imboccare strade più complesse, che portano a realizzare, sia pure transitoriamente, uno stato d’animo estatico. L’estasi si può realizzare secondo due modalità del tutto diverse. La prima comporta un sentimento di fusione con l’altro, il cui modello elementare è l’innamoramento, ma che riconosce anche la possibilità di un’identificazione totale con un gruppo, come avviene nel corso delle feste, dei riti collettivi, ecc. L’altra modalità, invece, si realizza attraverso il distacco dal gruppo, il raccoglimento, la riflessione introspettiva, la conoscenza, l’arte, ecc.

Il modello di uomo di Nietzsche è caratterizzato dal fatto di mantenere sempre viva la consapevolezza tragica dell’esistenza e, al tempo stesso, di aprirsi alla vita nella misura in cui essa può permettere di realizzare un’esperienza estatica.

La consapevolezza tragica dell’esistenza, come dimensione assurda e priva di senso, è un’ovvia conseguenza della perdita della fede religiosa. Riconducendosi alla soluzione greca di questo problema, Nietzsche trova una prima formula terapeutica per la ferita prodotta da quella perdita. Essa implica che l’uomo non deve rifuggire il dolore: è dal confronto con esso infatti che può ricavare il piacere, vale a dire un modo più profondo e intenso di vivere e di gioire.

Nietzsche rimarrà per sempre fedele a questa formula. Nell’epilogo di uno degli ultimi suoi lavori (Nietzsche contro Wagner, 1889), egli scrive:

“Mi sono chiesto spesso se agli anni più difficili della mia vita io non debba più che a qualsiasi altro periodo. Così come mi insegna la mia più intima natura, tutto ciò che è necessario, visto dall'alto e nel senso di una grande economia, è anche l'utile in sé non soltanto lo si deve sopportare, lo si deve amare...

Amor fati: è questa la mia più intima natura.

E per quanto concerne la mia lunga malattia, non le debbo forse indicibilmente più che alla mia salute? Le debbo una salute superiore, una salute che è resa più forte da tutto quel che non la uccide! Le debbo anche la mia filosofia...

Soltanto il grande dolore è l'ultimo liberatore dello spirito, in quanto maestro del grande sospetto che di ogni U fa un X, una vera e propria X, vale a dire la penultima lettera prima dell'ultima... Soltanto il grande dolore, quel lungo lento dolore nel quale per così dire veniamo come arsi con legna verde, che si prende tempo , costringe noi filosofi a scendere nell'estremo profondo di noi stessi e a spogliarci di ogni fiducia, di ogni benevolenza, di ogni velo, di ogni dolcezza, di ogni mediocrità, nei quali forse avevamo riposto prima la nostra umanità. Dubito che un tale dolore «renda migliori»: io so che ci rende profondi...

Sia che impariamo a contrapporgli il nostro orgoglio, il nostro scherno, la nostra forza di volontà e ci comportiamo come quell'Indiano che, per quanto crudelmente torturato, con la malvagità della lingua si prende una rivalsa sul suo torturatore; sia che dinnanzi al dolore ci ritraiamo in quel nulla, nel muto, rigido, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi: da siffatti lunghi e rischiosi esercizi del dominio su se stessi si torna come uomini diversi, con alcuni interrogativi in più, soprattutto con la volontà di porre, da allora in poi, più domande, domande più profonde, più severe, più dure, più cattive, più silenziose di quante finora siano mai state poste sulla terra...

La fiducia nella vita è scomparsa; la vita stessa è diventata un problema. Ma non si creda che perciò si sia diventati dei tetri, dei barbagianni! Persino l'amore per la vita è ancora possibile solo che si ama diversamente... E l'amore per una donna della quale dubitiamo...

La cosa più strana è questa: si ha, in seguito a ciò, un altro gusto un secondo gusto. Da siffatti abissi, anche dall'abisso del grande sospetto si torna rinati, mutati di pelle, più sensibili, più cattivi, con un più sottile gusto per la gioia, con una lingua più delicata per tutte le buone cose, con sensi più gai, con una seconda pericolosa innocenza della gioia, più infantili allo stesso tempo e cento volte più raffinati di quanto si fosse mai stati prima.”

Nietzsche è perfettamente consapevole che una formula del genere non è agibile per tutti. Egli sa che gli uomini in media tendono a rimuovere la consapevolezza tragica dell'esistenza e ad adottare, con la complicità della cultura, gli stratagemmi più vari per distrarsi, immergendosi nel quotidiano, nel lavoro, nella coltivazione degli affetti familiari, nella religione.

E’ proprio per questo che egli li disprezza. Il suo disprezzo, inoltre, è accentuato dal fatto che l’orientamento dominante normativo ostacola coloro che sono alla ricerca di nuove vie, gli esploratori che cercano di andare al di là del senso comune: gli spiriti liberi che hanno la passione della conoscenza e della verità.

Per rimediare alla sua solitudine, egli ha bisogno di compagni. Nel 1865, del tutto casualmente, ne trova uno - Schopenhauer - morto da poco (nel 1860), che, per alcuni anni, assume come suo Maestro.

Nietzsche e Schopenhauer

Il tratto singolare del pensiero di Nietzsche è che proprio nel periodo in cui la civiltà borghese esalta l’individuo che, liberato dai lacci e dai lacciuoli del sistema gerarchico medievale, perdurato sino all'avvento della Rivoluzione francese, può proporsi come obiettivo l’affermazione competitiva delle sue potenzialità, il cui limite viene concepito nei termini della sua dotazione costituzionale, egli fa presente che tale individuo, orientato unicamente a conseguire uno status integrato e privilegiato nella società, in realtà è del tutto deficitario perché, appagato del suo effimero successo, rifiuta di riflettere sulla sua condizione e sulla condizione umana in generale, vive all’ombra di valori tradizionali (Patria, Religione, Famiglia) che hanno un precario fondamento e si riconosce in un sistema sociale solo apparentemente permissivo, ma che di fatto reprime in maniera insidiosa ogni forma di dissidenza.

Nietzsche individua con grande acutezza, e anticipo sui tempi, il fatto che la Civiltà borghese pretende di porsi come ultimo e definitivo stadio dello sviluppo storico, economico e sociale. Egli rifiuta tale presunzione perché ritiene che, se ciò fosse vero, la fine della storia sarebbe una fine miserabile: sarebbe, né più né meno, l’esaltazione della civiltà dell’imprenditore e del commerciante, che aspirano solo alla ricchezza, e dell’operaio rancoroso e invidioso.

Nella seconda metà dell‘800, di fatto, la borghesia è una classe trionfante: ha raggiunto l’egemonia ed è convinta di poter guidare il mondo sulla via di un progresso continuo e illimitato. Tale convinzione si fonda sullo sviluppo economico che essa promuove, sull’applicazione alla produzione e al commercio criteri razionali e sull’esaltazione delle scienze naturali e della tecnologia.

La borghesia ottocentesca non è dichiaratamente materialista, ma di fatto vive nel culto della trasformazione materiale dell’ambiente, della produzione e del consumo dei beni.

Proprio nell’epoca del suo avvento, nei primi decenni dell‘800, il Capitalismo ha riconosciuto un contrappeso nell’idealismo filosofico, che ha avuto la sua massima fioritura in Germania. L’idealismo, soprattutto con Hegel, riconosce che la storia comporta un’evoluzione e un progresso, ma lo attribuisce non già agli esseri umani, bensì allo Spirito (Idea o Ragione) che si serve di essi per raggiungere la consapevolezza della sua Unità, originariamente compromessa dalla proliferazione degli individui.

La storia dunque ha un senso razionale che trascende i singoli esseri umani e richiede che essi si riconoscano partecipi di un processo il cui obiettivo è l’autocoscienza universale, che può essere promossa solo dalla filosofia.

Al trionfo della Razionalità capitalistica, fondata sulla capacità di trasformare il mondo naturale, ponendolo a servizio degli esseri umani, l’Idealismo contrappone la Razionalità filosofica, che porta l’uomo a di là delle apparenze e definisce come senso della vita la ricongiunzione con lo Spirito, con l’Unità infinita che pervade l’Universo.

L’idealismo è una corrente filosofica accademica, del tutto avulsa dalla realtà sociale che, con l’avvento della civiltà borghese, diventa quanto mai prima convulsa, contraddittoria, caotica.

Abbiamo visto che Marx analizza questo aspetto giungendo alla conclusione univoca che il Capitalismo, nonostante la sua matrice razionale, non porta ordine nel mondo, ma disordine, non umanizza la struttura sociale, ma la disumanizza, non assume l’uomo come fine, ma come mezzo. Nell’analisi di Marx, il Capitalismo è la contraddizione vivente, che può essere risolta solo in virtù di un salto rivoluzionario di civiltà che porti l'umanità sulla via dell’uguaglianza e della giustizia. Se c’è un senso nella storia, questo è riconducibile al sogno che l’umanità alberga di un mondo fatto a misura d’uomo.

Nietzsche è del tutto indifferente nei confronti del messaggio socialista e della realtà socio-economica cui esso fa riferimento. Se Marx, pur votando la sua opera al riscatto della condizione operaia, non ha mai messo piede in una fabbrica, Nietzsche quella condizione la legge con l’occhio dell’intellettuale raffinato ed elitario, Nel suo disprezzo per l’individuo borghese e per la “canaglia” socialista, egli ha un predecessore in Schopenhauer, acerrimo nemico e critico di Hegel.

La vita di Schopenauer, ritirata dal mondo e ripiegata su se stessa fino al limite della misantropia, attesta, come poche altre, un orientamento introverso divenuto, in una certa fase della sua vita, quasi patologico. In virtù di cosa? Probabilmente del contatto con un mondo borghese, quello dei primi decenni del diciannovesimo secolo, di cui il padre mercante e imprenditore era un rappresentante, caratterizzato dallo sprigionarsi degli "spiriti animali" che avrebbero trasformato il mondo al prezzo dell'alienazione. Gli "spiriti animali" borghesi muovono dal presupposto che l'uomo è un essere bisognoso e infinitamente desiderante e, attraverso la produzione delle merci, gli offrono un mondo di oggetti ritenuti capaci di appagarlo. Il prezzo da pagare per la realizzazione di questo sogno è però la trasformazione dell'individuo in homo oeconomicus, che persegue ciecamente i suoi fini utilitaristici, e, in conseguenza di questo, la mercificazione dei rapporti umani.

Dopo un timido tentativo di calarsi in questo mondo attraverso un praticantato commerciale, Schopenhauer, in seguito alla morte del padre, che lo lascia erede di un patrimonio che gli consentirà di campare di rendita, se ne ritira, si raccoglie in se stesso e si dedica alla filosofia. Il suo mondo interiore è però già "contaminato" da due diverse emozioni: per un verso, da un'avversione assoluta nei confronti della borghesia mercantile, di una classe, cioè, affannata perpetuamente dall'ossessione dell'agire strumentale e della rispettabilità formale; per un altro, da un disprezzo radicale nei confronti della "plebaglia" che si agita scompostamente contro le condizioni di vita oggettive cui è costretta dall'industrializzazione e, nei suoi modi rozzi e volgari, rivela, secondo il filosofo, la natura profonda dell'uomo.

Queste due emozioni conducono naturalmente Schopenhauer sulla via dell'elitarismo accademico. Ma qui egli s'imbatte in orientamenti idealistici che mascherano la realtà storica e la trasformano in un mito: il mito del progresso verso l'affermazione dello Spirito Assoluto, vale a dire della Ragione (identificata tra l'altro sia da Fichte che da Hegel con la Nazione). Avverso a questo mito in nome di una visione della vita priva di senso razionale, Schopenhauer si trova estraniato dalla realtà sociale e dalla cultura del suo tempo, e emarginato a livello accademico. La reazione è un ulteriore ritiro dal mondo, sotteso dal disprezzo e dal rancore.

L'incontro, quasi casuale, con la filosofia orientale e lo studio approfondito di essa fonda la possibilità di riversare la sua personale visione del mondo in una forma filosofica. Il mondo come volontà e rappresentazione è l'opera che eleva la vicenda privata al livello di un'interpretazione della realtà e della storia che non è meno totalizzante rispetto a quella dell'idealismo, seppure di segno opposto.

La realtà in tutti i suoi aspetti non è che l'espressione di un istinto cieco e irrazionale, che, negli esseri viventi e soprattutto nell'uomo, appare sotto forma di volontà di potenza. Il tendere verso un obiettivo inesistente, la pienezza dell'essere, è la fonte di ogni dolore, violenza, sopraffazione. L'unica salvezza dal dolore è il ritiro e il distacco dal mondo, che può avvenire progressivamente attraverso l'arte, la compassione e l'ascesi.

La scoperta di Schopenhauer da parte di Nietzsche, avvenuta casualmente, è una folgorazione. Egli scopre un’anima affine che odia e disprezza le indefinite mistificazioni con cui gli esseri umani velano a se stessi la verità della propria condizione di esseri casuali, irrazionali, infinitamente contraddittori e senza senso, animati da una cieca volontà di vivere che rende patetica e ridicola la loro esperienza.

Scopre un’anima che che accetta la tragicità dell’esistenza, ma non si arrende ad essa.

Nel saggio che dedica al suo maestro (I3), Nietzsche scrive:

“Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde.”

“Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita.

Con quanta ripugnanza si occuperanno le generazioni future dell'eredità di un'epoca in cui a governare non erano uomini viventi ma parvenze di uomini con un'opinione pubblica; per questo forse la nostra epoca apparirà a una qualche lontana posterità il periodo della storia più oscuro e più ignoto perché più inumano.”

“Noi siamo responsabili davanti a noi stessi della nostra esistenza; quindi vogliamo essere i veri timonieri di questa esistenza e non permettere che assomigli a pura accidentalità senza pensiero. Con essa bisogna saper trattare con audacia, esponendosi al rischio: tanto più che, sia nel migliore che nel peggiore dei casi, la perderemo. Perché allora essere attaccati a questa zolla, a questo mestiere, perché drizzare le orecchie per sentire ciò che dice il prossimo?”

“Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l'uomo conoscersi? E’ una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli l'uomo può toglierne sette volte settanta e neppure allora potrà dire: «questo ora sei realmente tu, non è più scorza». Inoltre, scavare se stessi in questo modo e sprofondare così per la via più diretta nel pozzo della propria esistenza, è un inizio tormentoso e azzardato. Con che facilità ci si possono produrre così delle ferite che nessun medico può sanare.”

L’uomo è, dunque, un essere malato, che affida la sua cura agli altri, all’opinione pubblica, al costume. Ciò facendo, trova un qualche equilibrio, ma realizza un io schiacciato e mortificato dalle convenzioni, dalle mistificazioni, dalle illusioni. Per guarire veramente, ha bisogno di educatori che perseguano l’intento di restituirlo a se stesso e alla verità sulla sua condizione.

Quando legge Schopenhauer, Nietzsche identifica in lui un educatore del genere:

L’affinità riguarda anzitutto lo stile di vita:

“Egli fu in tutto e per tutto un eremita; non ebbe un solo amico che lo consolasse e veramente sentisse come lui e tra uno e nessuno, c'è veramente un infinito, come tra qualcosa e nulla. Chi ha veri amici non sa cosa sia la vera solitudine, anche se tutto il mondo intorno a lui gli fosse ostile.”

Ma è soprattutto il pensiero di Schopenhauer che colpisce profondamente Nietzsche:

“Schopenhauer - la guida cioè, che dalle caverne del malumore scettico e della rinuncia critica conduce in alto, verso la sommità della contemplazione tragica, il cielo notturno con le sue stelle infinitamente sopra di noi e che, per primo, ha condotto su questa strada se stesso.”

“Egli ci insegna a distinguere tra le fonti reali e quelle illusorie della felicità umana: come né l'arricchirsi, né l'essere onorati, né l'essere dotti possa sollevare il singolo dalla amarezza per la mancanza di valore della propria esistenza, e come, invece, l'aspirazione a questi beni abbia senso solo se inserita in uno scopo globale superiore e trasfigurante: conquistare potere per aiutare con esso la physis, correggendone un po' le follie e goffaggini. Dapprima certo ancora per se stessi soltanto; ma attraverso se stessi, infine, per tutti.”

Qual è dunque lo scopo globale e superiore cui deve tendere l’umanità? Nietzsche non ha dubbi a riguardo:

“E’ più difficile ammettere un fatto che comprenderlo; ed è appunto quanto può accadere a molti che riflettono sulla frase: «l'umanità deve adoperarsi di continuo per generare singoli grandi uomini questo e nessun altro è il suo compito». Quanto volentieri si vorrebbe applicare alla società e ai suoi scopi un insegnamento, che si può ricavare dall'osservazione di una qualsiasi specie del regno animale o vegetale, che, cioè, in questa specie ciò che importa è soltanto il singolo esemplare superiore, più straordinario, potente, complicato e fecondo quanto sarebbe bello tutto ciò, se illusorie idee, inculcate con l'educazione, sulle finalità della società, non vi si opponessero con tenacia!

In verità è facile comprendere che là, dove una specie giunge ai suoi confini e al suo trapassare in una specie superiore, c'è lo scopo del suo sviluppo, non però nella massa degli esemplari e del loro benessere, o addirittura negli esemplari che, in ordine di tempo, sono gli ultimi, bensì, proprio in quelle esistenze apparentemente disperse e casuali che, talvolta, in condizioni favorevoli si realizzano qua e là: e altrettanto di facile comprensione dovrebbe essere anche l'esigenza che l'umanità, per giungere a essere consapevole del proprio fine, deve ricercare e produrre quelle condizioni propizie, in cui possono nascere quei grandi uomini redentori.”

L’umanità è immersa nel flusso dell’esistenza che non ha alcun altro significato che selezionare i rappresentanti migliori capaci di redimerla dalla sua pochezza, dalla stupidità, dalla paura, dall’istinto del gregge per cui l’individuo sacrifica le sue potenzialità per adattarsi allo stato di cose esistente o, se si ribella eroicamente ad esso, viene isolato e perseguitato.

“L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità, e questo soffrire gli serve a uccidere la sua propria volontà e preparare così quel completo capovolgimento e rovesciamento del suo essere, il cui raggiungimento è il senso vero e proprio della vita. Questo affermare francamente la verità appare agli altri uomini come un effetto della malvagità, poiché essi considerano un dovere dell'umanità conservare le loro sciocchezze e le loro bubbole e pensano che si debba essere malvagi per distruggere così i loro giocattoli. A un tale uomo essi sono tentati di gridare ciò che Faust dice a Mefistofele: «Ecco tu opponi il freddo pugno del diavolo alla potenza sempre viva e salutarmente creatrice»; e chi invece volesse vivere schopenhauerianamente, somiglierebbe forse di più a un Mefistofele che a un Faust proprio per i più deboli occhi moderni, che nella negazione vedono sempre il marchio del maligno.

Ma c'è una modo di negare e di distruggere che è invece proprio l'emanazione di quel potente anelito alla santificazione e alla salvezza di cui Schopenhauer fu il primo filosofico maestro, tra noi uomini dissacrati e secolarizzati. Ogni esistenza che può essere negata, merita anche di esserlo; e essere veritiero significa credere ad un'esistenza che non potrebbe essere assolutamente negata e che è essa stessa vera e senza menzogna. Perciò colui che è veritiero avverte nella sua attività un significato metafisico, spiegabile secondo le leggi di una vita diversa e superiore, e, nel senso più profondo, affermativo: anche se tutto ciò che fa appare come un distruggere e un infrangere le leggi di questa vita…

Certo egli distrugge la sua felicità terrena con il suo eroismo, deve essere ostile anche verso gli uomini che ama, verso le istituzioni dal cui grembo è uscito; non può risparmiare né uomini né cose, anche se, nel ferirle, soffre con loro; sarà misconosciuto e considerato a lungo alleato di quelle forze che egli più disprezza, dovrà, secondo una misura umana della sua visione, essere ingiusto, con tutta la sua aspirazione alla giustizia: tuttavia potrà prendere coraggio e consolazione dalle parole che Schopenhauer, suo grande educatore, una volta ha usato: «Una vita felice è impossibile, il massimo che l'uomo può raggiungere è una vita eroica…”

L’entusiasmo di Nietzsche per Schopenhauer, però, non dura molto. Egli non accetta la soluzione che egli propone al problema esistenziale: la “nolontà”, vale a dire il rifiuto ascetico della vita.

Come Schopenhauer, Nietzsche è un pessimista. Egli accetta e condivide con lui l’idea che il non senso dell’esistenza è la verità cui l’umanità tenta in ogni modo di sfuggire attraverso la costruzione di miti culturali e la sovrapposizione ad essa di falsi valori. Al tempo stesso, non si arrende a pensare che la saggezza implichi il rifiuto e la fuga dal mondo.

Egli di fatto è un fuggitivo, un vagabondo, un isolato, ma, a differenza di Schopenhauer, è più coerente e più tormentato. Schopenhauer ha identificato nell’ascetismo la liberazione dal mondo delle apparenze, ma, di fatto, per sua stessa ammissione, non è mai vissuto come un asceta, ha goduto l’agiatezza di una ricca eredità (poi andata in gran parte perduta per via di cattivi investimenti) e ha nutrito un’invidia viscerale nei confronti di Hegel. Per seguire la sua vocazione, Nietzsche, invece, ha rinunciato al successo ed è vissuto in una condizione di estrema parsimonia, quasi monacale.

Egli, inoltre, ha dovuto fronteggiare ricorrenti depressioni che lo hanno portato più volte alla disperazione. Il pessimismo di Schopenhauer comporta il rifiuto filosofico del suicidio, ma non sembra che il problema si sia mai posto per lui a livello esistenziale. Nietzsche non fa mai riferimento al suicidio, ma non poche lettere inducono a capire che egli, in più momenti, deve avere avvertito l’angoscia di non farcela più.

Cosa lo ha salvato? Presumibilmente il carattere eroico con cui ha vissuto il suo processo di individuazione, orientato a trovare una soluzione ai problemi esistenziali. La soluzione, del tutto diversa da quella schopenhaueriana, è il sì alla vita, vale a dire l’accettazione dell’esistenza come dimensione tragica che va vissuta così com’è, prescindendo da ogni tentazione utopistica e trascendente.

L’eroismo di Schopenhauer comporta la dissoluzione dell’individuo nell’ascesi; quello di Nietzsche il superamento dell’uomo attraverso il Superuomo, vale a dire un processo di individuazione.

In entrambi i casi l’individuazione è vissuta e concepita alla luce di un orientamento introverso che, in Schopenauer, ha aspetti francamente misantropi, mentre in Nietzsche si pone come rivendicazione di libertà.

Le radici introverse della visione del mondo nietzschiana

Se si prende atto che, per Nietzsche, la condizione ideale per l’uomo è di riprodurre l’equilibrio della cultura greca, vale a dire di associare ad una lucida consapevolezza della tragicità dell’esistenza un’apertura dionisiaca alla vita che permette di accettarla e di goderne, valorizzando la passione della conoscenza, l’arte, la fusione con la natura, pochi dubbi si possono avere sulle radici introverse della visione del mondo nietzschiana.

Se ne trovano tracce evidente fin nelle prime pagine degli Scritti autobiografici. Egli scrive, quando è ancora immerso nell’ipnosi religiosa:

“Alla mia giovane età avevo già sperimentato molto dolore e tanti affanni, e non ero vivace e sfrenato come sono di solito i ragazzi. I miei compagni solevano canzonarmi per questa mia gravità.

Ma ciò non accadde soltanto alla scuola elementare, no, anche in seguito, all'istituto e perfino al liceo. Fin da bambino io ricercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso. E ciò avveniva di solito nell'aperto tempio della natura, dove gustavo le gioie più vere. Così, un temporale mi dava sempre la più piacevole delle sensazioni; il tuono lontano, il vivo guizzare dei lampi non facevano che aumentare la mia venerazione per il Signore.”

Il contatto con la natura rimarrà sempre, per Nietzsche, più agevole rispetto a quello con gli esseri umani.

Ad esso si aggiunge poi, precocemente, la passione travolgente per la cultura. Negli Scritti autobiografici, ricostruisce così questa scoperta:

“Mi ha preso una straordinaria sete di conoscenze, di cultura universale…

Fin dalla prima infanzia ho avuto i miei passatempi preferiti. Anzitutto i fiori e le piante, la scorza della terra... - Poi venne l'amore per l'architettura (fondato naturalmente soprattutto sulle scatole di costruzioni), che ho sviluppato in tutte le forme…

Nello stesso tempo nacque in me l'inclinazione alla poesia, già a nove anni, e i miei modesti tentativi si ripeterono ogni anno. A undici anni mi nacque la passione per la musica sacra e infine per la composizione […]. Anche il mio amore per la pittura risale a questo periodo, suscitato dalle esposizioni annuali.

Queste passioni non si succedono immediatamente, bensì si intrecciano, così che è impossibile determinarne il principio e la fine. In seguito si aggiunge l'inclinazione per la letteratura, la geologia, l'astronomia, la mitologia, la lingua tedesca (antico alto tedesco), ecc.”

La lista che segue comprende anche la botanica, la storia naturale, la chimica, la matematica, la musica, la poesia, il teatro, l’ebraico, il latino, il greco, il francese, l’inglese, ecc. “Grande è il regno della scienza, e interminabile la ricerca della verità” è la conclusione che suggella questa lista sorprendente.

La passione per la natura e per la conoscenza ad ampio raggio accompagneranno Nietzsche per tutta la vita. I suoi rapporti sociali saranno, viceversa, caratterizzati da un disagio persistente nei confronti dei comuni mortali e dalla ricerca selettiva di spiriti liberi e affini. In questa ricerca, però, Nietzsche riporrà sempre aspettative troppo elevate, destinate ad andare incontro a molteplici delusioni e ad alimentare un isolamento crescente.

L’introversione di Nietzsche è agevolmente ricavabile da quasi tutte le sue opere. Riporto alcune citazioni:

“3.

Oh, ben m'accorgo che voi non sapete che cosa sia l'isolamento. Dove si sono avute potenti società, governi, religioni, opinioni pubbliche, in breve, ovunque ci fu una tirannia, essa ha odiato il filosofo solitario; infatti la filosofia offre all'uomo un asilo a cui nessuna tirannide può accedere, la caverna dell'intimo, il labirinto del petto: e questo irrita i tiranni. Là i solitari si nascondono: ma là si apposta anche il maggior pericolo per loro. Questi uomini, che hanno messo in salvo nell'intimo la propria libertà, devono vivere anche esternamente, diventar visibili, farsi vedere; essi hanno infiniti legami per nascita, residenza, educazione, patria, caso, indiscrezione degli altri; e così anche infinite opinioni sono presupposte in loro, solo perché sono quelle dominanti; ogni espressione che non sia un diniego vale come approvazione; ogni movimento della mano, che non distrugge, viene interpretato come accondiscendimento.

Essi sanno, questi solitari e liberi nello spirito, di apparire continuamente e ovunque in modo diverso da come pensano e pur non volendo altro che verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi silenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcanici e minacciosi.

Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi, della riservatezza imposta. Escono dalle loro caverne con espressioni tremende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile che causino la loro stessa rovina…

Proprio questi solitari hanno bisogno di amore, di compagni con cui poter essere aperti e semplici come con se stessi, alla cui presenza lo spasimo del silenzio e della finzione abbia tregua.” (I3)

“348.

Dal paese degli antropofagi. Nella solitudine l'individuo si divora da solo, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli.” (UTU)

“Il solo

Odioso mi è il seguire e anche il condurre.

Obbedire? No! Ma neppure... governare!

Chi non fa paura a se stesso, non fa paura a nessuno:

e solo chi fa paura può guidare gli altri.

A me è odioso già il guidare me stesso!

Io amo, come gli animali del bosco e del mare,

smarrirmi per un bel po’,

accovacciarmi almanaccando in un soave garbuglio

e infine, da lontano, adescarmi a casa mia,

essere il seduttore di me stesso.” (GS)

“Io faccio ripetutamente la stessa esperienza e, ogni volta, ad essa mi oppongo con tutte le mie forze, non ci credo se non tocco con mano: alla maggioranza degli uomini manca la coscienza intellettuale; anzi mi è spesso parso che chi ne senta l'esigenza si trovi, anche nelle città più popolose, solo come nel deserto. Ti guardano tutti con occhi estranei e continuano a usare la loro bilancia, definendo questo buono e quello cattivo; nessuno arrossisce minimamente quando fai loro notare che questi pesi non sono assoluti, né se la prendono con te: forse ridono dei tuoi dubbi.” (GS)

“In solitudine.

Se si vive soli, non si parla troppo forte né si scrive troppo forte, perché si teme la vuota eco - la critica della ninfa Eco. E tutte le voci hanno un suono diverso, in solitudine!” (GS)

“La mia antipatia.

Non amo le persone che, per sortire un effetto, debbono scoppiare come bombe, e vicino alle quali si corre sempre il pericolo di perdere l'udito - o qualcosa di più.” (GS)

““Meglio sordo che assordato.

Una volta si aspirava a far parlare di sé: oggi questa non basta più, perché il mercato si è allargato troppo, - e si aspira a far urlare. Ne consegue che anche le buone gole gridano troppo e le merci migliori sono offerte da voci roche: senza schiamazzi da mercato e raucedine non si dà più genio alcuno. Questa è davvero un'epoca malvagia per il pensatore: egli deve imparare a trovare ancora il suo silenzio tra due chiassi e a fingersi sordo finché non lo diventa. Finché non lo ha imparato, però, corre sicuramente il pericolo di morire di impazienza e di mal di testa.” (GS)

“Parla l'eremita.

L'arte di trattare con gli uomini consiste soprattutto nell'abilità (che presuppone un lungo esercizio) di accettare e assumere un pasto preparato da una cucina in cui non si ha fiducia alcuna. Posto che si giunga a tavola con una fame da lupi, tutto va per il meglio («la pessima compagnia si fa sentire», come dice Mefistofele); ma non c'è mai, questa fame da lupi, quando se ne avrebbe bisogno! Oh, quant'è difficile digerire il prossimo!” (GS)

“Ogni persona eletta tende istintivamente al suo rifugio e alla sua intimità, dove poter essere libera dalla massa, dai molti, dai troppi, dove poter dimenticare la regola «uomo», in quanto sua eccezione: escluso l'unico caso, che egli venga spinto da un istinto ancora più forte direttamente su questa regola, come uomo della conoscenza in senso sublime ed eccezionale.

Chi nel rapporto con gli uomini non ha assunto, secondo le circostanze, tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, pietà, tetraggine, abbandono, non è certo un uomo di gusto superiore; ma se egli non si assume volontariamente tutti questi pesi e questo fastidio, se li elude sempre e rimane, come si è detto, silenzioso e superbo, rinchiuso nella sua torre, allora una cosa è certa: egli non è fatto, non è predestinato alla conoscenza. Perché, se lo fosse, dovrebbe dirsi un giorno «al diavolo il mio buon gusto! la regola è più interessante dell'eccezione, di me, che sono l'eccezione!» e scenderebbe in basso, soprattutto «dentro».” (GS)

“625.

Uomini solitari. - Alcuni uomini sono tanto abituati a viver soli con se stessi, che non si paragonano affatto con gli altri, ma con animo ilare e tranquillo, tra buoni colloqui con se stessi, e persino con riso, continuano a intessere il monologo della loro vita. Ma se li si porta a confrontarsi con gli altri, essi tendono a sottovalutare ossessivamente se stessi, tanto che debbono esser costretti a imparare nuovamente solo dagli altri una buona e giusta opinione di sé: e anche da questa opinione appresa vorranno sempre detrarre e togliere qualcosa. - Pertanto a certi uomini bisogna concedere la loro solitudine e non essere così sciocchi, come tanto spesso accade, da compiangerli per questo.” (UTU1)

“Vivere con un'immensa e orgogliosa serenità; sempre al di là avere o non avere, secondo il proprio arbitrio, le proprie passioni, il proprio pro e contro, abbandonarsi ad esse, per ore; sedersi su di esse come su cavalli o su asini bisogna infatti saper trarre un utile dalla loro stupidità come dal loro fuoco. Mantenere i propri trecento sipari e anche gli occhiali neri: poiché ci sono casi nei quali nessuno deve guardarci negli occhi, e ancor meno nelle nostre «profondità». E scegliere per compagno quel vizio birbone e allegro che è la cortesia. E restar padrone delle proprie virtù, del coraggio, della sagacia, della simpatia, della solitudine. Poiché la solitudine in noi è una virtù; in quanto sublime tendenza e impulso alla pulizia, la quale indovina come dal contatto tra uomo e uomo «dalla società» debba inevitabilmente conseguire la sporcizia. Ogni comunità rende, in qualche modo, in qualche luogo, in qualche momento «comuni».” (ABM)

“A questo punto non posso fare a meno di esalare un sospiro. Vi sono giorni in cui sono ossessionato da un sentimento più tetro della più nera malinconia: il disprezzo per gli uomini. E per non lasciare alcun dubbio su ciò che disprezzo e su chi disprezzo, dirò che si tratta dell'uomo di oggi, del quale sono fatalmente contemporaneo. L'uomo di oggi: soffoco a causa del suo alito impuro...” (AC)

Ad una lettera, infine, è affidato l’aforisma più pregnante, che ho utilizzato come exergo di Timido, docile, ardente:

“Odio coloro che mi tolgono la solitudine, senza farmi compagnia.”

Come ogni introverso geniale, Nietzsche è risucchiato dal suo bisogno di solitudine introspettiva, riflessiva e creativa, il cui appagamento in alcuni momenti determina uno stato d’animo esultante. Tale bisogno si può ritenere costitutivo dell’introversione. Esso, però, non ha nulla a che vedere con l’introvertimento progressivo cui Nietzsche va incontro nel corso della vita, che egli giustifica nel seguente modo:

“619.

Nel fuoco del disprezzo. - Si compie un nuovo passo verso l’indipendenza quando si osa manifestare opinioni ritenute infamanti per colui che le nutre; allora anche gli amici e i conoscenti sogliono impaurirsi. Anche attraverso questo fuoco deve passare una natura dorata; dopo, essa apparterrà ancora di più a se stessa.”

Al processo di introvertimento hanno di certo contribuito alcune frustranti esperienze evolutive (cui si è fatto cenno), la delusione per il relativo insuccesso delle sue opere, la difficoltà di adattarsi ad una società che egli ritiene quasi univocamente mediocre. Sarebbe ingenuo, però, non considerare un altro aspetto, soggettivo.

Sul piano sociale, Nietzsche nutre non solo l’aspettativa di incontrare persone al suo livello di tensione intellettuale, bensì l’aspettativa di un mondo ideale fatto già a misura del suo modello utopistico (l’Oltreuomo). Assumendo questo metro di misura, egli, nell’interagire con le persone in carne ed ossa, rimane deluso, si esaspera, diventa terribilmente ipercritico.

Solo in alcuni momenti, quell’aspettativa dà luogo ad un moto di pietas. Ma sono momenti isolati e nel complesso oltremodo rari.

Non c’è da sorprendersi pertanto che egli si sia progressivamente isolato e, come un novello Messia, si sia assunto il ruolo di guidare l’umanità verso la terra promessa dell’oltreumano. Questa assunzione di responsabilità, resa paradossale dal fatto che egli non ama l’uomo attuale, ma quello futuro, ha determinato un processo di individuazione eroico per lo sforzo che lo ha sotteso e il prezzo pagato, in termini di solitudine di disagio psichico, per portarlo a compimento.

Nietzsche, teorico dell’individuazione

Il bisogno di individuazione è affiorato in Nietzsche con estrema violenza nel corso dell’adolescenza producendo il crollo della visione del mondo religiosa preesistente e lo sprigionarsi di una prodigiosa capacità introspettiva, riflessiva e critica, sottesa inconsciamente dall’esigenza di opporsi antiteticamente a tutte le tradizioni culturali succedutesi nel corso della storia occidentale.

Anche sotto questo profilo si può definire un confronto con Marx.

Questi, come sappiamo, è letteralmente catturato dal problema dell’infrastruttura, vale a dire dalla storia reale dei rapporti sociali dettati dal modo di produzione specifico di una determinata società, che vengono mascherati dalle ideologie le quali, prodotti dalla classe dominanti, hanno la funzione di indurre l’accettazione di quei rapporti anche se essi sono iniqui. La critica marxiana alle ideologie, anche se non è mai stata approfondita adeguatamente, ha contribuito in maniera determinante a produrre un approccio sociologico alla religione, al diritto, alla politica, all’economia, ecc.

Per questo aspetto, il pensiero critico nietzschiano ha una continuità inconsapevole con quello di Marx. Nietzsche, però, non nutre alcun interesse per l’infrastruttura economica, che egli, come vedremo ulteriormente, coglie solo nei suoi aspetti di superficie (l’etica alienante del lavoro, l’avidità di denaro dei borghesi, l’affannosa rivendicazione della “canaglia” proletaria d un tenore di vita migliore, ecc.). Se c’è una disciplina nel campo delle scienze umane e sociali, già fiorente alla sua epoca, che Nietzsche ignora del tutto, è l’economia.

Egli, di fatto, ha un interesse elettivo per la sovrastruttura, vale a dire per i sistemi di valore culturali - religiosi, morali e politici - che governano la società del suo tempo e condizionano la psicologia degli individui che ad essa partecipano.

Egli coglie univocamente in tali sistemi l’intento “decadente” di allontanare gli esseri umani dalla consapevolezza della loro condizione esistenziale, attribuendo loro una valore e una dignità che non hanno, in quanto animali come gli altri, e privilegiando al massimo grado l’istinto del gregge, funzionale ad instaurare la dittatura della maggioranza, vale a dire dei mediocri e dei codardi.

Nella misura in cui si impegna nel suo ruolo di demistificatore sovrastrutturale, Nietzsche coglie nella produzione dei valori culturali due diversi aspetti: l’uno, che fa capo alla cultura con la c minuscola, è l’insieme di opinioni, tradizioni, idee, valori, moduli di comportamento, pratiche di vita che fanno parte del senso comune, e sottendono l’esperienza della maggior parte dei soggetti che partecipano di un determinato sistema socio-storico; l’altro, che fa capo alla Cultura con la c maiuscola, è l’insieme di idee, teorie, riflessioni, attività che in gran parte determinano il senso comune e la psicologia collettiva e in minima parte li trascendono aprendo orizzonti di cambiamento più o meno radicale.

Nelle Cultura si possono fare rientrare le religioni, la filosofia, l’arte, la musica, la letteratura, la scienza, ecc. Scoperto il significato mistificante delle religioni, e in particolare del Cristianesimo, Nietzsche ritiene, in un primo momento, che sia l’arte la dimensione culturale che porta l’uomo alla libertà. Ne La nascita della tragedia (1872) scrive:

“Solo come fenomeni estetici l'esistenza e il mondo sono eternamente giustificati.”

Ben presto, però, egli si ricrede. In Richard Wagner a Bayreuth (1876) si legge:

“L'arte non è certo maestra ed educatrice per l'agire immediato; l'artista non è mai un educatore e un consigliere in tal senso...

Le lotte che essa presenta sono semplificazioni delle reali lotte della vita; i suoi problemi sono abbreviazioni del conto infinitamente complicato dell'agire e del volere umano. Ma proprio in questo sta la grandezza e l'indispensabilità dell'arte, nel suscitare l'apparenza di un mondo più semplice, di una più rapida soluzione dell'enigma della vita.

Nessuno che soffra della vita può fare a meno di questa apparenza, come nessuno può fare a meno del sonno. Quanto più ardua diventa la conoscenza delle leggi della vita, tanto più ardentemente desideriamo l'apparenza di quella semplificazione, fosse solo per pochi istanti, e tanto più grande diventa la tensione tra la conoscenza generale delle cose e la facoltà spirituale e morale dell'individuo. Perché l'arco non si spezzi: per questo esiste l'arte.”

Se anche l’arte, dunque, può alimentare le illusioni sulla vita, quale disciplina può portare allo scioglimento dell’enigma che la concerne?

Per Nietzsche tale disciplina non esiste: qualunque produzione culturale può ingannare, al pari della Religione. Nella storia della Cultura, si danno però singoli individui il cui genio si realizza in un rapporto di opposizione più o meno radicale con il senso comune, con le tradizioni, con ciò che si ritiene comunemente vero senza che ciò sia stato mai dimostrato o adeguatamente argomentato. La Cultura demistificante muove da singoli individui, dotati di un tasso più o meno elevato di genialità, i quali, per la loro vocazione personale, la passione della conoscenza e l’onestà intellettuale (o morale), non possono adattarsi al senso comune e sono spinti ad andare al di là di esso, rivelandone le carenze, le lacune, le contraddizioni, le mistificazioni, fino al punto di contrapporre alle sue presunte certezze altre verità che, in misura più o meno rilevante, lo stravolgono.

Non è necessario che i creatori di Cultura abbiano una piena consapevolezza del carattere eversivo di ciò che producono. Di fatto, il loro pensiero, in quanto originale, è eversivo, stravolge l’ordine di cose esistente.

Un esempio che, a questo punto, si impone riguarda ovviamente Darwin. Metto per ora tra parentesi il modo in cui Nietzsche ha interpretato la teoria evoluzionistica. Darwin, come sappiamo, era un conservatore liberale del tutto integrato con la società in cui viveva. Egli non solo ha rimandato per venti anni la pubblicazione de L’origine delle specie per paura che essa potesse esporlo ad un severo giudizio sociale. Ha addirittura cercato di accordare la sua teoria con il gradualismo intrinseco al liberalesimo.

Ciò nondimeno, l’evoluzionismo darwiniano ha dato un colpo mortale al creazionismo e alla conseguenza che da esso discende della straordinarietà della specie umana rispetto alle altre forme viventi. Esso ha costretto l’uomo a riconoscere la sua discendenza dagli animali e ad intuire che, per spiegare il suo esserci, non c’è bisogno di ammettere l’esistenza di un Essere superiore.

Senza essere rivoluzionario sul piano del carattere e del suo modo di vedere, Darwin aveva una mente critica rivoluzionaria. Per amore della verità e della scienza, egli ha, di fatto, letteralmente violentato il senso comune.

Possiamo chiederci se è lecito definire colpevole il comportamento di chi, avanzando una teoria che stravolge il senso comune, offende, turba, precipita nello smarrimento e nell’angoscia coloro che ad esso aderiscono. In senso proprio no, perché il soggetto eversivo può non avere alcuna intenzione di indurre in essi dolore. In termini oggettivi, però, se si ricava la colpa dall’effetto che quel comportamento determina a livello di senso comune e di ordine sociale, esso di fatto è colpevole o addirittura “delinquenziale”.

Delinquere in latino è un termine composto di de-, “de”, e linquere, “lasciare”. Etimologicamente esso fa riferimento alla retta via delle leggi e della morale, e segnala l’allontanarsi da essa, la devianza, comprovata dal commettere una colpa morale o un crimine.

Ma chi decide se la retta via è conforme ai bisogni e alla vocazione ad essere dei singoli individui se non il senso comune, le tradizioni, le Chiese e gli Stati? E se ciò che esse ritengono colpevole e deviante fosse invece il comportamento naturali di individui le cui potenzialità sono deputate a esplorare l’universo dei mondi possibili e dei modi possibili per l’Uomo? E se questi mondi e modi di essere possibili fossero, al limite, più significativi e più umani di quelli che si sono realizzati?

Questi interrogativi sottendono tutta l’opera di Nietzsche. Ma, per quanto lo concerne, si tratta di interrogativi retorici. La sua risposta è univocamente positiva. Il senso comune, le tradizioni, la religione, la morale servono solo a soddisfare le esigenze di una maggioranza degli esseri umani che hanno paura di avventurarsi al di fuori della retta via, che preferiscono, insomma, la pigra tranquillità all’avventura della verità. Nei casi in cui tali esigenza sono sovrastate dalla passione di realizzare se stessi in una forma originale, dal gusto della sfida e dell’azzardo, dall’amore della verità a qualunque costo, si realizza inesorabilmente una devianza, che può essere considerata colpevole o addirittura criminosa, ma, in sé e per sé, attesta una vocazione incoercibile verso la libertà.

E’ evidente che, nel contrapporre alla gente comune, gli individui dotati di una motivazione orientata ad esplorare i mondi e i modi possibili di essere, Nietzsche trascende il concetto borghese di individuo e intuisce la differenza che si dà tra di esso e il processo di individuazione.

L’individuo borghese, all’epoca di Nietzsche, è sostanzialmente caratterizzato dall’aspirazione univoca, tanto più intensa se egli viene dal basso della scala sociale, a raggiungere uno statuto di rispettabilità, vale a dire ad essere confermato nella sua appartenenza ad una classe laboriosa e virtuosa. I suoi sforzi sono tutti orientati ad integrarsi nella società, a raggiungere un tenore di vita più che decoroso e a tentare di colmare il gap culturale rispetto ai nobili, che da secoli sono alfabetizzati.

Diventare individuo borghese significa, dunque, sacrificare all’acquisizione di uno status di classe qualunque orientamento contrastante con le regole di appartenenza. Tra queste, non c’è solo il senso del dovere, la laboriosità, la tendenza al risparmio, il culto della famiglia e della religione, ma soprattutto la necessità di mantenere un controllo sulle emozioni e sulle pulsioni, che vengono percepite come squilibranti e antisociali. In questa ottica, l’ipocrisia, vale a dire il reprimere ciò che si muove nell’intimo dell’anima umana, ed è in radicale contrasto con le esigenze del vivere comune è un valore assoluto.

E’ proprio su questo valore che verte la critica di Nietzsche, il quale attribuisce all’uomo una volontà di potenza orientata a promuovere il massimo sviluppo dell’individualità. La volontà di potenza è rappresentata in tutti gli esseri umani, ma nei più essa si esaurisce nel promuovere un egoismo funzionale ai fini dell’integrazione sociale. In alcuni, invece, essa è particolarmente intensa e promuove uno sviluppo vocazionale che prescinde dall’integrazione sociale ed è finalizzata solo al produrre l’appagamento conseguente all’autorealizzazione. Che l’autorealizzazione proceda nel rispetto o nella violazione del senso comune e delle norme sociali e morali riconosciute non è, da questo punto di vista, minimamente significativo.

Nietzsche ha colto un aspetto del bisogno di individuazione particolarmente importante: il suo configurarsi come una spinta motivazionale autonoma rispetto alle richieste e alle aspettative sociali, quindi come una motivazione fine a se stessa.

Ma che senso ha una motivazione del genere inserita nell’apparato mentale di alcuni rappresentati di una specie altamente sociale?

La risposta di Nietzsche, senz’altro azzardata ma affascinante, è che la spinta verso l’individuazione, pur rappresentata in una minoranza di individui - gli “spiriti liberi” - attesta che l’evoluzione della specie umana è in fieri. Essi sarebbero dunque l’avanguardia di un ulteriore salto di qualità evolutivo destinato a portare la specie umana verso il suo destino: l’avvento del Superuomo.

Ma perché mai si dovrebbe realizzare un salto del genere? La risposta di Nietzsche è che la vita non è quello che gli esseri umani, indeboliti e fuorviati dal “progresso”, pensano: con il suo carico di non senso e di contraddizioni, essa è una sfida che solo alcuni possono raccogliere e portare avanti consapevolmente.

L'elitarismo di Nietzsche è imprescindibile dalla consapevolezza che egli ha della sua diversità.

Il bisogno di individuazione in Nietzsche

Da Aurora a La volontà di potenza, il ricondursi di Nietzsche al ruolo eroico di Precursore dell’umanità futura, che dà voce alla testimonianza di tutti gli spiriti liberi che lo hanno preceduto, si esprime in maniera insistente, sofferta e inquietante. Una citazione esemplare a riguardo è la seguente:

“14.

Significato della follia nella storia della moralità. Se nonostante quella spaventosa oppressione dell'«eticità dei costumi», sotto la quale sono vissute tutte le comunità umane per molti millenni prima del nostro computo del tempo e ancora in essa in tutto e per tutto fino ad oggi (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell'eccezione e, per così dire, nella zona cattiva): se, dico, nonostante questo, sempre di nuovo hanno fatto irruzione pensieri, valutazioni e impulsi nuovi e devianti, questo avvenne con una compagnia da far venire i brividi: quasi ovunque è la follia che apre la strada al nuovo pensiero, che infrange il magico potere di una venerata consuetudine e superstizione.

Comprendete voi per quale motivo dovette essere la follia? Qualcosa di così terribile e imprevedibile nella voce e nei gesti come i demonici umori del tempo e del mare e perciò degno di un timore e di un'osservazione analoghi? Qualcosa che portava il segno di una completa involontarietà così visibilmente come le convulsioni e la bava dell'epilettico, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una divinità? Qualcosa che conferiva al portatore di un nuovo pensiero persino timore e tremore di sé, senza più rimorsi di coscienza, spingendolo a divenire il profeta e il martire di quello?

Mentre oggi ci viene sempre di nuovo fatto capire che al genio, invece di un granello di sale, è dato un granello della radice della follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque vi sia follia, c'è anche un granello di genio e di saggezza, qualcosa di «divino», come ci si sussurrava. O piuttosto: come con abbastanza forza si andava esprimendo. «Grazie alla follia i beni più grandi sono venuti alla Grecia», diceva Platone insieme a tutta l'antica umanità.

Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori, che erano irresistibilmente attratti a spezzare il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi, non restò nient'altro, se essi non erano effettivamente folli, che diventarlo o mostrarsi tali e ciò invero vale per gli innovatori in tutti i campi, non soltanto per quelli delle istituzioni sacerdotali o politiche: perfino l'innovatore del metro poetico doveva accreditarsi attraverso la follia…

Chi osa gettare uno sguardo nel deserto delle più amare e superflue tribolazioni interiori nelle quali hanno languito forse gli uomini più fecondi di tutti i tempi! Chi osa udire quel sospiro del solitario e dello sconvolto: «Ah, datemi dunque la follia, o celesti! Follia, tal che io possa finalmente credere a me stesso! Datemi deliri e spasimi, illuminazioni e ottenebramenti improvvisi, sbigottimenti con gelo e calura, quali nessun mortale ha mai provato, con fragori e spiriti vaganti, lasciatemi mugolare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho ucciso la legge e la legge mi angoscia come un cadavere angoscia un vivente: se io non sono più che la legge, allora sono il più reietto tra gli uomini. Il nuovo spirito che è in me donde viene, se non viene da voi? Dimostratemi dunque che io sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra». (AU)

Nella sua espressione più propria, dunque, l’individuazione, vale a dire la rivendicazione della libertà intellettuale e morale rispetto al dover essere, sentire, pensare ed agire in nome dell’appartenenza sociale, e della apertura al mondo del possibile, del nuovo, dell’inaudito, è una sana “follia”. L’uso di questo termine, oggi, dopo l’accezione che ad esso ha dato il pensiero antipsichiatrico, non sconcerta. All’epoca di Nietzsche, caratterizzata dall’insistente riferimento alla ragionevolezza borghese, che ha posto termine alla stagione romantica, e alla diffusione dell’ideologia psichiatrica che, attraverso l’istituzione manicomiale, mira a reificare la normalità borghese come valore assoluto, quell’uso è provocatorio.

Non è superfluo rilevare che, qualche secolo prima, un altro grande scettico lo ha usato dando ad esso un’accezione paradossale. Nell’Elogio alla Follia, Erasmo da Rotterdam cerca di dimostrare che gli esseri umani hanno un incoercibile bisogno di una rete di illusioni, infingimenti, mistificazioni per tollerare l’esistenza, per coprire la verità riguardo alla loro miserabile condizione e per abbandonarsi a fatui piaceri. La Follia di Erasmo è tout court l’insieme di quei dispositivi necessari per la sopravvivenza, la riproduzione della specie e il mantenersi dell’ordine sociale.

In Nietzsche, la follia di Erasmo è la normalità, alla quale egli contrappone la Follia dello spirito libero che non ha paura di procedere sulla via di un’individuazione che comporta lo smantellamento di qualsivoglia mistificazione di ordine soggettivo, culturale o storico.

L’eroismo folle del soggetto che segue il suo daìmon può essere confermato da molteplici citazioni:

“La volontà libera appare come ciò che non conosce catene, che è arbitrario; è l'infinitamente libero, avventuroso, lo spirito.” (SA)

“1.

Il grande pensatore che disprezza gli uomini, ne disprezza la pigrizia: poiché a causa di questa essi appaiono simili a prodotti di fabbrica, indifferenti, indegni di contatti e di ammaestramenti. L'uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: «sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora».

Noi siamo responsabili davanti a noi stessi della nostra esistenza; quindi vogliamo essere i veri timonieri di questa esistenza e non permettere che assomigli a pura accidentalità senza pensiero. Con essa bisogna saper trattare con audacia, esponendosi al rischio: tanto più che, sia nel migliore che nel peggiore dei casi, la perderemo. Perché allora essere attaccati a questa zolla, a questo mestiere, perché drizzare le orecchie per sentire ciò che dice il prossimo?” (I3)

“3.

Ognuno ha in sé una unicità produttiva, che costituisce il nucleo del suo essere; quando, però, diventa consapevole di questa unicità, intorno a lui appare uno splendore insolito, tipico di ciò che è straordinario. Per i più ciò è qualcosa di insopportabile: perché, come ho detto, sono pigri e perché a quella unicità è legata una catena di affanni e di pesi. Non c'è dubbio che, per chi è straordinario e sgrava di questa catena, la vita deve perdere quasi tutto ciò che ci si aspetta da lei nella gioventù: serenità, sicurezza, leggerezza, onore; la sorte dell'isolamento è il regalo che gli fanno gli altri uomini; deserto e caverna gli si offrono ovunque voglia vivere. Allora stia ben attento a non farsi soggiogare, a non deprimersi o immalinconirsi.” (I3)

“6.

Già oggi il singolo che ha inteso quella nuova idea fondamentale della cultura, è posto di fronte ad un bivio: percorrendo una strada è ben accetto alla sua epoca, non gli mancheranno corone e ricompense, potenti partiti lo sosterranno e alle sue spalle, come davanti a sé, vi saranno tanti che la pensano allo stesso modo, e quando il capofila pronuncia la parola d'ordine, essa riecheggia in tutte le file. Il primo dovere qui è: «combattere allineati», il secondo, trattare come nemici coloro che non vogliono allinearsi. L'altra strada gli offre più rari compagni di viaggio, è più ardua, contorta, ripida: coloro che percorrono la prima lo deridono perché là avanza con più fatica e spesso si trova in pericolo, e tentano di attirano sul loro cammino. Se le due strade si incrociano, egli viene maltrattato, gettato da parte, oppure isolato con un timoroso trarsi da parte.” (I3)

“211.

Spiriti nomadi. Chi di noi oserebbe definirsi uno spirito libero, se non volesse a suo modo rendere omaggio agli uomini ai quali questo nome viene affibbiato come un insulto, prendendo sulle proprie spalle parte del peso del pubblico sfavore e oltraggio? ben potremmo però in tutta serietà (e senza quella sfida superba e generosa) definirci «spiriti nomadi», giacché sentiamo lo slancio verso la libertà come l'impulso più forte del nostro spirito e, contrariamente agli intelletti vincolati e saldamente radicati, vediamo il nostro ideale quasi in un nomadismo spirituale per far uso di un'espressione modesta e quasi dispregiativa.” (UTU)

“237.

Il viandante sui monti a se stesso. Ci sono segni sicuri del fatto che sei andato più avanti e più in alto: intorno a te c'è più spazio e la prospettiva è più ampia di prima, ti investe un'aria più fresca, ma anche più mite infatti hai disimparato la stoltezza di scambiare mitezza e calore il tuo passo si è fatto più vivace e fermo, coraggio e avvedutezza sono cresciuti insieme: per tutti questi motivi la tua strada potrà ora essere più solitaria, e in ogni caso più pericolosa di prima, benché, certo, non nella misura in cui credono coloro che ti vedono salire viandante dalla valle nebbiosa verso il monte.” (UTU)

“Saper contraddire.

Ciascuno sa, oggigiorno, che saper tollerare le contraddizioni è un alto segno di cultura. Alcuni sanno persino che le persone più elevate si augurano e si provocano contraddizioni, per avere un cenno sulla propria ingiustizia, che fino a quel momento era loro ignota. Ma saper contraddire, l'aver acquisito una buona coscienza dell'ostilità contro quanto è consueto, tramandato, sacro, - questo è qualcosa di più, rispetto alle due posizioni precedenti, è quel che c'è di veramente grande, nuovo, stupefacente nella nostra cultura, il passo di tutti i passi dello spirito liberato: chi lo sa?” (GS)

“E, seppure taccio qualcosa, non voglio qui tacere la mia morale, che mi dice: Vivi nascosto, per poter vivere! Vivi ignorando quanto alla tua epoca pare essenziale! Poni fra te e l'oggi una corazza di almeno tre secoli! E il grido dell'oggi, il frastuono di guerre e rivoluzioni, ti giunga come un mormorio!” (GS)

“E’ di pochi, essere indipendenti: è privilegio dei forti. E chi tenta, anche avendone il miglior diritto, ma senza esservi costretto, dimostra con ciò di essere verosimilmente non solo forte, ma audace sino all'eccesso. Entra in un labirinto, moltiplica i pericoli che la vita già di per se stessa comporta; dei quali non è il minore il fatto che nessuno veda con i proprio occhi dove e come si stia smarrendo, si isoli e venga fatto a pezzi da un qualche speleo-minotauro della coscienza. Posto che un tale individuo vada verso la rovina, ciò avviene in modo così estraneo alla comprensione degli uomini, che essi non lo compatiscono e non lo sentono: ed egli non può più tornare indietro! Non può più tornare neppure alla compassione degli uomini!” (ABM)

“Occorre provare a se stessi di essere destinati all'indipendenza e al comando; e al momento giusto. Non ci si deve sottrarre alle proprie prove, nonostante esse siano forse il gioco più pericoloso che si possa giocare e in definitiva prove che vengono portate solo dinnanzi a noi stessi come testimoni e a nessun altro giudice. Non bisogna restare attaccati a una persona; sia pure la più amata, ogni persona è una prigione, e un rifugio. Non bisogna restare attaccati ad una patria: sia pure la più sofferente e la più bisognosa di aiuto, e già meno difficile liberare il proprio cuore da una patria vittoriosa. Non bisogna restare attaccati alla compassione: sia pure per uomini superiori, il cui singolare martirio e abbandono un caso ci ha permesso di conoscere. Non bisogna rimanere attaccati ad una scienza: anche se ci alletta con le più preziose scoperte, tenute in serbo, in apparenza, proprio per noi. Non bisogna restare attaccati alla propria liberazione, a quella lontananza ed estraneità piena di gioia dell'uccello che vola sempre più in alto, per allargare sempre di più lo sguardo sotto di sé: il pericolo di chi vola. Non bisogna restare attaccati alle nostre proprie virtù e diventare noi stessi, nella nostra totalità, la vittima sacrificale di una qualche singola parte, per esempio del nostro «spirito d'ospitalità»: che è il pericolo dei pericoli nelle anime nobili e ricche che trattano se stesse con prodigalità, quasi con indifferenza e portano la virtù della liberalità quasi fino al vizio. Bisogna sapersi difendere: massima prova di indipendenza.” (ABM)

“Non lasciamoci ingannare: i grandi spiriti sono scettici. Zarathustra è uno scettico. La forza, la libertà, dovute al vigore e a un eccesso di forza dello spirito, si dimostrano con scetticismo. Gli uomini di convinzione non arrivano affatto a considerare il principio di valore e di disvalore. Le convinzioni sono prigioni. Costoro non vedono sufficientemente lontano, non guardano sotto di sé: invece, perché si possa parlare di valore e di disvalore, bisogna vedere cinquecento convinzioni sotto di sé, dietro di sé... Uno spirito che vuole fare grandi cose, che vuole anche i mezzi per realizzarle, è necessariamente uno scettico. La libertà da ogni sorta di convinzioni è parte integrante della forza, come il saper guardare liberamente…” (AC)

“Non si deve volere da se stessi quello che non si è capaci di fare. Ci si interroghi: vuoi andare avanti? Oppure, vuoi andare avanti per conto tuo?

Nel primo caso, si diventa, al più, pastore, necessario bisogno del gregge. Nell'altro caso si deve poter fare qualcosa d'altro, poter andare per conto proprio, poter andare in altro modo e in altro luogo. In entrambi i casi si deve poter fare qualche cosa e se si può fare l'una cosa, non si può volere l'altra.”

“Tutti sono infelici perché temono di affermare la loro libertà. L'uomo è stato finora così infelice e così misero, perché non ha osato mostrarsi libero nel senso più alto della parola, perché si è accontentato di un'insubordinazione da scolaretto... Sono tremendamente infelice, perché ho tremendamente paura. La paura è la maledizione dell'uomo.” (VP)

In queste citazioni è assolutamente evidente che, in Nietzsche, l'individuazione è un processo che postula la distanza la più ampia possibile rispetto al mondo sociale, l’esercizio di una libertà di cui il soggetto rende conto solo a se stesso, quindi l’indifferenza nei confronti dei giudizi sociali e, soprattutto, l’opposizione radicale ai terribili ricatti della normalizzazione e del senso comune.

E’ fuor di dubbio che Nietzsche il processo di individuazione lo ha vissuto in questi termini, esaltanti e drammatici al tempo stesso, e lo ha portato avanti con una determinazione estrema.

Cosa si può dire oggi sull’individuazione? La sua realizzazione postula necessariamente l’introvertimento e l’isolamento sociale? Essa deve avere per forza un significato “eroico”?

Individuazione: psicologia, neurobiologia

Come si è detto, il bisogno di opposizione/individuazione appartiene alla natura umana, ma è stato lungamente intrappolato e sovrastato dal bisogno di appartenenza sociale. Ponendo tra parentesi esperienze mitologiche (Prometeo che sfida gli dei, Lucifero che rifiuta di sottomettere la sua volontà a Dio) e storiche (Socrate che rivendica la fedeltà al suo daìmon contro le leggi e le tradizioni patrie, Spartaco che si ribella al sistema schiavistico romano, Thomas Müntzer che avvia la rivolta dei contadini contro il potere nobiliare, ecc.) che ne attestano l’intuizione, è fuor di dubbio che le condizioni per una sua fenotipizzazione si sono realizzate solo a partire dal Rinascimento e, sul piano giuridico, con la Rivoluzione francese che avvia con la civiltà borghese sulla base del riconoscimento dei diritti dell’individuo, che non possono essere prevaricati dalla gerarchia sociale e dalla logica dell’appartenenza.

La fenotipizzazione storica del bisogno di individuazione non si sarebbe potuta realizzare, peraltro, se esso non avesse fatto parte, da sempre, della natura umana.

Mettendo tra parentesi gli esempi mitologici e storici, quali prove si possono addurre a riguardo?

In un libro recente (Adolescenti - Una storia naturale, Einaudi, Torino 2010) lo zoologo David Bainbridge assume l’adolescenza come chiave di volta dell’esperienza umana, intendendo con ciò sottolineare che essa, espressione della neotenia umana, si è posta come periodo di sviluppo turbolento tra l’infanzia e l’acquisizione del ruolo del giovane adulto, ritardando quest’ultima nonostante la maturazione della capacità riproduttiva che, negli altri animale, contrassegna il passaggio all’età adulta.

A che serve l’adolescenza umana?

La risposta a questo quesito si fonda sul rilievo che tutta l’evoluzione della personalità, che parte da una totale subordinazione ipnotica dell’infante nei confronti degli adulti, è contrassegnata da fasi nel corso delle quali quell’ipnosi viene sospesa in conseguenza dell’affiorare di atteggiamenti più o meno intensamente oppositivi del bambino nei confronti degli educatori. Tali fasi, che sono con ogni probabilità scandite da una programmazione neurobiologica, pongono in luce la tendenza intrinseca alla personalità umana a rivendicare inconsapevolmente la libertà dell’io, dotato di volontà propria, rispetto alle influenze sociali, vale a dire alla volontà altrui: esse alludono alla pressione di un bisogno di individuazione, che raggiunge il suo acme nel corso dell’adolescenza. allorché esso affiora repentinamente sotto forma di opposizione frontale, più o meno turbolenta, e di contestazione, più o meno razionale, nei confronti dei genitori e del mondo adulto.

La funzione propria del bisogno di individuazione a livello adolescenziale è quello di sciogliere i legami di dipendenza e di soggezione dell’individuo rispetto alla classe di età precedente, orientandolo vero l’autonomia, vale a dire una condizione caratterizzata da una piena assunzione di responsabilità sulla propria libertà che viene esercitata sulla base della volontà propria. Ciò implica anche una scelta di valori culturali e comportamentali, che possono essere più o meno differenziati rispetto a quelli trasmessi dalle generazioni precedenti.

Il drammatico passaggio dalla dipendenza all’indipendenza è restituito dal fatto che esso può avvenire solo sulla base di uno stato di coscienza caratterizzato da una certa anestetizzazione empatica. E’ questo particolare stato di coscienza che spiega il fatto che l’adolescente non esita ad assumere, nei confronti degli adulti, atteggiamenti arroganti, provocatori e talora francamente aggressivi.

Dell’anestetizzazione adolescenziale si può fornire oggi una spiegazione neurobiologica. L’entrata in azione del bisogno di opposizione/individuazione sembra strettamente dipendente dall’attivazione del sistema dopaminergico, che è il sistema del piacere e della ricerca. Evidentemente il tendere verso l’autonomia e la conquista della libertà personale sembra configurare una motivazione profondamente appagante, che fa passare in secondo ordine il bisogno di armonia relazionale.

E’ evidente che questo passaggio è stato programmato dalla natura con una durata limitata - da due a quattro anni -, dopo di che la hybris adolescenziale declina, e dà luogo al ricomporsi di un rapporto meno conflittuale con il mondo. Molto spesso, l’esito della crisi adolescenziale è semplicemente il rientrare nei ranghi sociali e il ritenere di aver raggiunto uno stato differenziato della personalità, che invece rimane caratterizzato da una forte influenza esercitata dal senso comune e dal giudizio sociale. In casi del genere, la personalità si è normalizzata più che individuata. Ciò non significa che le persone siano degli automi: l’unicità e l’irripetibilità del cervello coincide infatti sempre con esperienze soggettive qualitative che hanno un carattere personale.

La normalizzazione riguarda soprattutto il rapporto dell’individuo con il mondo sociale e con l’universo immaginario del possibile: il primo rimane di solito attestato sul registro dell’adattamento e del consenso, più o meno consapevole, all’ordine di cose esistente; il secondo si traduce nella tendenza a rifiutare l’abbandono alla riflessione o all’immaginazione laddove esse non hanno un immediato significato pratico.

Si danno due circostanze che impediscono alla crisi adolescenziale di pervenire al suo esito naturale. La prima, di ordine patologico, si realizza allorché la motivazione oppositiva non riesce minimamente a sciogliere i vincoli preesistenti di dipendenza. In questo caso, l’individuo, senza rendersene conto, va incontro ad una scissione della personalità tal che, pur manifestando tutti i segni della dipendenza, il soggetto continua a lottare contro ldi essa e, per mascherarla a se stesso, perpetua di continuo atteggiamenti di sfida nei confronti del mondo degli adulti.

La seconda si realizza, viceversa, allorché lo scioglimento dell’ipnosi infantile e dei vincoli di dipendenza, determina l’affiorare di uno spirito critico che, prendendo traumaticamente coscienza della mistificazione in cui è vissuto in precedenza, si orienta verso la coltivazione della vita all’insegna della demistificazione e della ricerca di originalità rispetto alle tradizioni, al senso comune, ecc.

E’ evidente che quest’ultima circostanza comporta di solito una dotazione personale piuttosto elevata, creativa e talora addirittura geniale. Non si va lontano dal vero affermando che la creatività, in tutti i suoi aspetti, compresa la genialità, è l’espressione di una tendenza a pensare, a sentire e ad agire in maniera originale. Essa, in ultima analisi, rappresenta il protrarsi nel rapporto con la vita di un atteggiamento psicologicamente adolescenziale. In questo senso, l’intuizione di Bainbridge assume ancora maggior valore.

In molti casi, la raggiunta libertà e l’autonomia del pensare e del sentire rispetto al contesto sociale produce un effetto sostanzialmente tranquillizzante. Il soggetto va per la sua strada e, pur non essendo intimamente d’accordo con il modo di vivere della maggioranza, non ha difficoltà ad accettare la rilevante diversità che si dà tra gli esseri umani.

In altri casi, la coltivazione dello spirito critico si realizza sulla base di una passione per la conoscenza che rende l’individuo insofferente e intollerante nei confronti di qualsivoglia mistificazione, sia soggettiva che oggettiva. In conseguenza di questo, il rapporto con il mondo rimane attestato su di un registro ipercritico destinato ad incrementarsi via via che l’individuo scopre l’inerzia delle coscienze mistificate e dei valori culturali che promuovono la mistificazione.

L’esperienza di Nietzsche fa capo a quest’ultima tipologia, che comporta sempre e comunque un malessere più o meno profondo. L’origine di questo malessere, che è tipico di molte esperienze geniali, oggi, non rappresenta un mistero. Per un verso, la genialità porta su terreni simbolici poco o punto esplorati, tal che l’individuo non può non sentirsi solo. Per un altro verso, se il soggetto sente che la sua ricerca determina, consapevolmente o inconsapevolmente, una guerra con il mondo, questo produce inesorabilmente un disagio psicologico perché contrasta con il bisogno di appartenenza, la cui logica postula il mantenersi di un legame tra il soggetto e il contesto sociale.

Il problema è che Nietzsche, in nome della sua esperienza originaria, è portato a pensare che l’individuazione non possa avvenire che sulla base di un’antitesi radicale rispetto alle influenze sociali, vale a dire che un’autentica individuazione non possa non avere un carattere eroico di sfida perpetua nei confronti dell'omologazione e della normalizzazione imposta dalla società.

L’acutezza con cui Nietzsche coglie il significato del bisogno di opposizione/individuazione nella psicologia umana è pagata, dunque, al prezzo di negare che possa darsi un qualunque equilibrio dialettico tra esso e e il bisogno di appartenenza.

Dialettica Appartenenza/Individuazione

Oggi, dopo la scoperta della condizione neotenica umana, dell’empatia e dei neuroni specchio, nessuno dubita più che la natura dell’uomo sia quella di un essere radicalmente sociale, il cui sviluppo richiede l’immersione prolungata in un campo affettivo e culturale intersoggettivo e la cui vita si svolge sul registro di un’interazione costante con l’Altro (reale, istituzionalizzato e interiorizzato).

L’insieme delle ricerche che hanno consentito di definire la socialità come matrice primaria dell’esperienza umana ( e forse addirittura della comparsa della specie) - matrice a partire dalla quale prende avvio il processo di individuazione - hanno un’importanza culturale del tutto particolare in quanto pongono fine al dibattito sul modello antropologico borghese, che presume l’esistenza di un individuo autonomo e egoista come fattore primario dell’aggregazione sociale. In realtà, come Marx aveva anticipato, l’individuo borghese esiste solo come espressione di un processo storico-sociale recente.

Se il tramonto scientifico dell’antropologia borghese si può ritenere un progresso di grande portata sulla via di una conoscenza più profonda della natura umana, l’esultanza con cui alcuni pensatori di sinistra lo hanno accolto non sembra del tutto giustificata perché la natura sociale dell’uomo non sembra affatto una salvaguardia rispetto a processi molteplici di alienazione.

La lunga dipendenza dell’essere umano dall’ambiente familiare e dal mondo degli adulti, sottesa dall’empatia, infatti, consente senz’altro alla cultura di replicarsi di generazione in generazione, ma senza incontrare resistenze che sopravvengono, se sopravvengono, solo a partire dall’adolescenza. Ciò significa che la cultura si replica con il suo carico di valori tradizionali, che implicano anche opinioni e convenzioni poco o punto fondate, errori interpretativi, pregiudizi, ecc.

I neuroni specchio, poi, che sono una delle matrici più importanti dell’empatia, comportano anche meccanismi imitativi automatici che possono alimentare la tendenza alla normalizzazione, la replicazione di comportamenti standardizzati, il conformismo, ecc.

Come si può ritenere il teorico più sottile del bisogno di individuazione, così Nietzsche può essere identificato come il critico più lucido e spietato del bisogno di appartenenza, che egli assume univocamente come espressione di un istinto gregario che porta l’uomo a rinunciare al dovere di riflettere, di prendere posizione, di agire liberamente, di correre rischi.

La critica dell’istinto gregario percorre tutta l’opera di Nietzsche. Bastano per ora (dacché l’argomento sarà ripreso nella quarta lettura) due citazioni particolarmente significative:

“L'istinto del gregge.

Laddove incontriamo una morale troviamo sempre una valutazione e un ordinamento gerarchico degli istinti e delle azioni umane. Queste valutazioni e ordinamenti gerarchici sono sempre espressione dei bisogni di una comunità e di un gregge: ciò che giova in primo luogo - ma anche in secondo e in terzo - alla comunità, diventa anche la suprema scala di valori di ogni singolo. Con la morale il singolo è addestrato ad essere funzione del gregge e ad attribuirsi valore soltanto in quanto funzione. Poiché le condizioni della conservazione di una comunità sono assai diverse da quelle di un'altra comunità, ci sono state morali assai diverse e, in riferimento alle sostanziali trasformazioni che ancora ci aspettano di greggi e comunità, Stati e società, si può profetizzare che ci saranno ancora morali molto differenti. La moralità è l'istinto del gregge nel singolo.” (GS)

“Poiché in ogni tempo, da quando sono esistiti gli uomini, sono esistite anche greggi umane (gruppi familiari, comunità, stirpi, popoli, Stati, Chiese) e sempre molti che obbediscono in rapporto al piccolo numero di chi comanda, tenuto conto dunque che l'ubbidienza fino ad oggi è stata esercitata e insegnata tra gli uomini più di ogni altra cosa e più a lungo, possiamo giustamente supporre che oggi, in media, il bisogno di ubbidienza è innato in ognuno, come una specie di coscienza formale, che ordina: «tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi lasciare qualche cosa incondizionatamente», in breve «tu devi». Questo bisogno cerca di soddisfarsi e di riempire la propria forma con un contenuto; essa afferra, secondo la sua forza, impazienza e tensione, poco schizzinosa, come un grossolano appetito e accetta ciò che le viene gridato all’orecchio da chiunque comandi: genitori, maestri, leggi, pregiudizi di casta, opinione pubblica”” (ABM)

Per Nietzsche, dunque, la moralità è l’istinto del gregge che viene interiorizzato dall’individuo sotto forma di un tu devi che lo governa e lo determina anche se egli non ne ha consapevolezza. La moralità è null’altro che l’espressione deteriore del bisogno di appartenenza che porta l’uomo a privilegiare il come si deve essere, pensare, sentire ed agire rispetto a come egli dovrebbe essere, pensare, sentire ed agire per rimanere fedele a se stesso e alla sua vocazione personale.

Non c’è da sorprendersi del fatto che Freud abbia riconosciuto in Nietzsche un precursore. Il “tu devi” nietzschiano - l’istinto del gregge interiorizzato - è sovrapponibile al concetto freudiano di Super-io. Se, senza lasciarsi affascinare dal riferimento al fondo pulsionale della natura umana, Freud avesse preso in seria considerazione l'esperienza umana e intellettuale di Nietzsche, egli sarebbe giunto probabilmente ad identificare in essa l'espressione di un Io antitetico che, pure rivolto aspramente contro i doveri sociali, non tende all'anarchia, ma ad un ordine e ad una realizzazione di livello superiore rispetto a quella prescritta dalle esigenze normative. Il problema è che egli non poteva ammettere che la natura umana alberga una pulsione verso l'individuazione che non tende verso il disordine pulsionale, ma verso l'autorealizzazione.

Freud ritiene la paura dell’esclusione e della rappresaglia sociale, su cui si edifica il Super-io, necessaria ed essenziale ai fini dell’istituzione e del mantenimento stesso della società, che, altrimenti, andrebbe incontro al bellum omnium contra omnes hobbesiano. Nietzsche, viceversa, pensa che quella paura è indegna dell’uomo “vero” e va sfidata a qualunque costo per affermare la dignità e la libertà di un essere che può vivere, respirare e realizzarsi solo ex-grege:

“Tutti sono infelici perché temono di affermare la loro libertà. L'uomo è stato finora così infelice e così misero, perché non ha osato mostrarsi libero nel senso più alto della parola, perché si è accontentato di un'insubordinazione da scolaretto... Sono tremendamente infelice, perché ho tremendamente paura. La paura è la maledizione dell'uomo.”

La drammatizzazione del conflitto tra appartenenza e individuazione è la chiave dell'esperienza umana e intellettuale di Nietzsche.


Lettura III

Rovesciare gli idoli. Il tragitto di demistificazione 

 Non erigerò nuovi idoli; i vecchi possono cominciare ad imparare cosa comporta avere i piedi d'argilla.        Rovesciare gli idoli (il mio termine per «ideali»)  è questo, piuttosto, che attiene al mio        mestiere.                                                                                                                                                                                                                                                              Ecce Homo

 

 
Indice

La decadenza della Civiltà e il vomere della cattiveria
La coazione a ripetere di Nietzsche
Il peso del passato. Nietzsche e la storia
La critica della conoscenza
La critica della coscienza
Coscienza e inconscio nell'ottica della neurobiologia
La critica del libero arbitrio
La coscienza che mistifica
Nietzsche e Freud
 

 

La decadenza della civiltà e il vomere della cattiveria

Con La nascita della tragedia Nietzsche definisce d’emblée il carattere della sua avventura intellettuale, che associa allo spirito critico e indubbiamente geniale la necessità soggettiva dell’antitesi radicale, dell’essere contro.

Egli, di fatto, scaglia un virulento attacco critico al primo idolo nel quale si è imbattuto: la cultura accademica, che coltiva il mito della classicità “olimpica” e il senso comune, che, sulla scia di esso, si è adagiata nel riferimento ad un’evoluzione progressiva civilizzatrice. Partendo dal coraggio e dalla “sanità” con cui I greci arcaici, prima dell’avvento del socratismo e della razionalità, hanno affrontato i problemi dell’esistenza, egli interpreta la storia dell’Occidente in termini di un processo continuo di decadenza, di una lunga malattia, di una persistente “nevrosi” caratterizzata dalla dittatura della maggioranza e dalla produzione di valori – religiosi morali e civili - il cui unico significato è di addomesticare l'uomo, celandogli la verità sulla sua condizione, assegnandogli, nel Cosmo e sulla terra, un valore e un’importanza che non ha, e illudendolo di avere un destino trascendente.

Nietzsche intende restaurare la “verità” in questi termini:

“413.

L'umanità non mostra un'evoluzione verso il meglio; o verso ciò che è più forte, o ciò che è superiore, nel senso in cui ciò oggi si crede: l'europeo del XIX secolo è, nel suo valore, di gran lunga al di sotto dell'europeo del Rinascimento; evoluzione non è per nulla necessariamente elevazione, potenziamento, rafforzamento...

In un altro senso c'è una continua riuscita di singoli casi nei più diversi luoghi della terra e a partire dalle più diverse civiltà, nei quali effettivamente si presenta un tipo superiore: qualcosa che in rapporto alla totalità dell'umanità è una specie di «oltreuomo». Tali casi fortunati di grande riuscita furono sempre possibili e forse saranno sempre possibili.”

“414.

Questo tipo di valore superiore è già esistito abbastanza spesso: ma come un caso fortuito, come un'eccezione, mai come voluto. Piuttosto, proprio esso è stato temuto più di tutti, è stato finora quasi ciò che è da temere: e a partire dalla paura si è voluto, allevato, raggiunto il tipo contrario: l'animale domestico, l'animale da gregge, l'animale dei diritti uguali, il debole animale uomo, il «cristiano»…”

Occorre, secondo Nietzsche, invertire questa tendenza “degenerativa”, che rischia di cristallizzare l’umanità nell’eterna ripetizione della mediocrità. Gli spiriti liberi e superiori, che odiano la mediocrità, devono necessariamente “de-linquere”, essere spietati e cattivi.

“4.

Ciò che serve alla conservazione della specie.

Sino ad oggi sono stati gli spiriti più forti e più cattivi a portare più avanti l'umanità: hanno ripetutamente acceso le passioni addormentate (in tutte le società ordinate la passione dorme), hanno ripetutamente risvegliato il senso del paragone, della contraddizione, del piacere per quanto è nuovo, osato, inesplorato, hanno costretto gli uomini a contrapporre opinioni a opinioni, modelli a modelli. Per lo più con le armi, abbattendo i confini e ferendo le pietà: ma anche con nuove religioni e morali!

In ogni maestro e predicatore del nuovo c'è la stessa cattiveria che rende malfamato ogni conquistatore, per quanto possa sembrare più raffinata, non metta subito in moto i muscoli e così, proprio per questo, non li rende altrettanto malfamati! Il nuovo è comunque in ogni caso cattivo, in quanto intende conquistare qualcosa, rovesciare i vecchi confini e le vecchie pietà; soltanto il vecchio è buono!

I buoni di ogni tempo sono coloro che seppelliscono in profondità i vecchi pensieri e li fanno fruttare, i coltivatori dello spirito. Ma ogni terreno alla fin fine si esaurisce, e deve tornare il vomere della cattiveria.”

Il vomere della cattiveria come arma che dissoda il terreno della cultura che tende ad inaridirsi e ad isterilirsi.

E’ evidente che Nietzsche legge la storia alla luce della sua esperienza e del suo concetto di individuazione eroica. L’umanità, pigra e codarda, ama la malattia, la menzogna, il mito. Solo alcuni suoi rappresentanti amano l’onestà e la verità a tutti i costi:

“227.

L'onestà, posto che sia questa la nostra virtù, quella dalla quale noi spiriti liberi non possiamo liberarci ora vogliamo occuparci di lei con ogni malizia e con ogni amore e non stancarci di «perfezionarci» nella nostra virtù che è l'unica che ci rimanga: e resti pure sospeso il suo splendore come una dorata, azzurra, derisoria luce serotina su questa cultura in declino e la sua pesante e tetra serietà! E se poi, un giorno, la nostra onestà si staccasse e sospirasse e stirasse le braccia e ci trovasse troppo duri e desiderasse qualcosa di meglio, di più facile, di più tenero, come un piacevole vizio: restiamo duri, noi ultimi stoici! e mandiamo in suo soccorso ciò che c'è in noi di diabolico il nostro disgusto per la goffaggine e l'approssimazione, il nostro «nitimur in vetimur» [Pretendiamo sempre ciò che è vietato e desideriamo ciò che ci è vietato. (Ovidio)], la nostra audacia da avventurieri, la nostra curiosità scaltra e raffinata, la nostra più sottile, più simulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento del mondo, che si libra e aleggia avidamente intorno a tutti i regni del futuro, veniamo in soccorso del nostro «Dio» con tutti i nostri «diavoli!»”

Per quanto questo schematismo riveli l’incapacità di Nietzsche di sormontare la logica antitetica che sottende il suo pensiero e di giungere ad adottare una logica dialettica, che consente agevolmente di distinguere tra il de-linquere creativo e quello semplicemente brutale, esso non è privo di fondamento.

Avanzando sulla base di tentativi e di errori, l’umanità di fatto ha bisogno di Geni che ne correggano l’evoluzione rivelando quanto c’è di errato in ciò che essa ritiene vero e giusto.

Nietzsche ha dunque ragione quando afferma che spiriti liberi e critici sono sempre esistiti, sia pure come eccezioni. Meno ragione ha nel vivere come un’ingiustizia che grida vendetta il fatto che essi abbiano incontrato e incontrino resistenze di ogni genere da parte dei conservatori, dei tradizionalisti e della gente comune. La cultura umana evolve inesorabilmente sulla base della dialettica tra tradizione e innovazione, che può avere aspetti più o meno conflittuali.

In un libricino smilzo ma denso (L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni 2008), Luigi Luca Cavalli Sforza scrive:

“L'evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o, più esattamente, dall'accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate. Vi è quindi un cambiamento continuo che è sempre di natura statistica, dato che è molto improbabile che tutti accettino le stesse scelte. Alcune innovazioni sono più fortunate di altre. La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché. La motivazione che conduce a creare o accettare un'innovazione è più o meno sempre la stessa: si osserva un bisogno e si cerca di andargli incontro. L'inventore è spesso un personaggio particolare, dotato di creatività e di indipendenza intellettuale, ma ciascuno di noi è potenzialmente un inventore capace di creare qualche novità. Questo inventore occasionale può restare l'unico a utilizzare la sua creazione; più di rado la novità ha fortuna e si diffonde e magari diventa veramente importante nel determinare nuovi sviluppi sociali.

Nel tentativo di ricostruire la storia della cultura è importante anche considerare le motivazioni che spingono di volta in volta ad accettare o a rifiutare un'invenzione. Gli studiosi delle invenzioni hanno trovato che esiste una grande variazione individuale nella tendenza generica ad accettare le novità: da un lato ci sono gli smaniosi di novità, i "pionieri", mentre all'estremo opposto ci sono i più pigri, gli ultimi ad accettare. La tendenza e la velocità di accettazione variano da un individuo all'altro entro questi due estremi, secondo le leggi comuni della variabilità individuale. Ma, naturalmente, l'intensità della motivazione varia anche in base all'oggetto della novità, a quanto se ne ha bisogno e a quanto piace, e risulta pertanto profondamente influenzata anche dai gusti e dalle preferenze personali. Parecchie invenzioni sono di natura tecnologica, ma molte, forse in numero maggiore, sono di natura socioeconomica. Tutte le novità, di qualunque tipo, devono offrire qualche beneficio, almeno all'apparenza, per avere una probabilità non nulla di essere accettate (talvolta l'unico beneficio è quello di essere, appunto, novità). Tuttavia, ogni innovazione non ha solo un beneficio, ma ha sempre anche un costo, che può essere, all'inizio, di difficile valutazione. Ciò crea in alcuni un sentimento di generale sfiducia verso le novità, che tende a rallentarne o impedirne l'accettazione. Esiste tuttavia anche una tendenza opposta che si manifesta con un'attrazione per le novità in quanto nuove. Tra coloro che possiedono una simile tendenza troviamo anche i pionieri.

La storia della cultura ha quindi lo scopo di identificare le innovazioni più importanti in ogni epoca, luogo e situazione in cui sono avvenute, le motivazioni che hanno spinto a proporle e ad accettarle o imporle e la soddisfazione che hanno recato.” (pp. 11-12)

Gli spiriti liberi, vale a dire i Geni, rappresentano l’antidoto contro la possibilità che la cultura ristagni o finisca in un vicolo cieco. La cultura, peraltro, tranne che non si dia un’organizzazione sociale diversa da quella che si è data finora, non può volare troppo in alto, perché serve ad assicurare alla società una certa coesione, e quindi deve tradursi in senso comune. Questo, infine, rappresenta il punto su cui fanno leva gli spiriti liberi per sviluppare nuove idee e nuovi valori.

Nessun periodo, forse, come la seconda metà dell’Ottocento ha posto in luce la dialettica tra grande Cultura e cultura del senso comune. Lo sviluppo industriale ha posto le basi, sia pure a prezzo di sofferenze immani, per l’imborghesimento della società. Ma non è certo un caso che i quattro Grandi Demistificatori di cui ci stiamo interessando sono vissuti e hanno operato tutti nell‘800 (con l’eccezione di Freud che muore nel 1939, ma la cui opera più famosa, L’interpretazione dei sogni, vede la luce nel 1900). La loro comparsa contemporanea non può non sorprendere. Nonostante la diversità dei loro terreni di ricerca e dei loro obiettivi, le loro opere sembrano ricondursi nondimeno ad un principio metodologico comune: confutare le apparenze e andare al di là di esse.

Marx ha enunciato questo principio scrivendo che “se le apparenze coincidessero con le essenze, non si darebbe scienza.” Di fatto tutti i Grandi Demistificatori o, come Darwin, sono scienziati in senso stretto, o - è il caso di Marx, Nietzsche e Freud - indulgono ad attribuire alla loro ricerca un significato scientifico.

Possiamo, per ora, mettere tra parentesi il mistero di questa fioritura di geni demistificanti nel seno di una Civiltà in forte espansione e oltremodo sicura di sé.

Qui interessa rilevare che, tra i quattro, Nietzsche è quello che prende più di tutti gli altri sul serio il suo ruolo di Demistificatore. Egli ritiene, infatti, che tutte le apparenze nelle quali credono gli uomini del suo tempo, vale a dire tutte le soluzioni maturate nel corso della Civiltà occidentale per dare una risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza sono radicalmente sbagliate.

La prima soluzione si è avviata nella Grecia antica, dopo il tramonto dello spirito dionisiaco, con la scoperta che l’individuo, essendo dotato di Ragione, può penetrare il velo delle apparenze e pervenire alle essenze: il vero, il bene, il giusto, il bello.

Anche se la preoccupazione della filosofia greca era più di ordine etico che non scientifico, è fuor di dubbio che la fiducia nella Ragione che essa ha prodotto ha influenzato profondamente la civiltà occidentale. E’ con il Rinascimento che tale fiducia viene recuperata e valorizzata come attributo dell’individuo. La nascita della scienza nel ‘600 è una conseguenza di questo recupero. Essa avvia uno sviluppo tecnologico destinato, attraverso la mediazione dell’Illuminismo, a porre le basi per l’avvento della civiltà delle macchine e, con esso, della società borghese, letteralmente infatuata dalle magnifiche sorti e progressive dell’umanità che ne discendono.

La seconda soluzione è maturata in Medio Oriente, ma è attecchita e si è sviluppata in Occidente. Si tratta del Cristianesimo che, in virtù di quell’attecchimento, ha dominato la storia occidentale per più di un millennio. Il Cristianesimo muove dal presupposto che l’esperienza umana è segnata dall’egoismo, dalla sopraffazione, dalla violenza e riconduce gran parte di questi aspetti al male intrinseco alla natura umana, conseguente al peccato originale. Esso riconosce anche che c’è una quota di dolore che incombe sull’esperienze umane indipendente dall’azione degli uomini, la cui massima espressione è la paura di morire.

A questi problemi, il Cristianesimo offre due soluzioni: da una parte la prospettiva di una vita eterna, nella quale trionferà la giustizia, i buoni verranno remunerati e i cattivi puniti; dall’altra parte, il richiamo ad una solidarietà comunitaristica che, valorizzando la pari dignità degli esseri umani come figli di Dio, è devoluta a farsi carico dei poveri, dei deboli, degli svantaggiati in maniera tale da ridurre la loro sofferenza.

Quest’ultimo aspetto, depurato da ogni valenza teologica e patetica, confluisce nel Socialismo ottocentesco e, mutatis mutandis, viene accolto anche da Marx, il cui pensiero sembra rivolto a dimostrare, in un’ottica mondana, la validità del motto evangelico per cui gli ultimi saranno i primi.

Nietzsche ritiene che tutte queste soluzioni, accomunate dal riferimento alla dignità dell’uomo e all’uguaglianza, sono sostanzialmente false e illudano l’uomo, allontanandolo dalla verità sulla sua condizione. Per ciò, egli si impegna in una critica destruens di esse, che pone le basi di una nuova visione del mondo, totalmente disincantata e però non radicalmente pessimistica.

In Ecce Homo si legge:

“L'ultima cosa che io prometterei, sarebbe «correggere» l'umanità. Non erigerò nuovi idoli; i vecchi possono cominciare ad imparare cosa comporta avere i piedi d'argilla. Rovesciare gli idoli (il mio termine per «ideali») è questo, piuttosto, che attiene al mio mestiere.”

L’intento di questa conferenza e della prossima è di ricostruire questo tragitto destruens fino alle estreme conseguenze, che coincidono filosoficamente con il nichilismo positivo e psicologicamente con il crollo finale di Nietzsche.

La coazione a ripetere in Nietzsche

Non è affatto una forzatura correlare la ricerca filosofica di Nietzsche e la sua vicenda personale, interiore e sociale. Tranne che non si accetti l’ipotesi, veramente singolare, di Montinari, il quale sostiene che Nietzsche, ad un certo punto della sua vita, tace perché, avendo esaurito il suo compito, non ha più nulla da dire, è evidente che i due piani sono correlati.

La correlazione, peraltro, è implicita e, per alcuni aspetti, esplicita nell’opera stessa di Nietzsche. Non sottolineerò ulteriormente il trauma originario della perdita della fede, dello smarrimento profondo da esso prodotto e dell’ebbrezza della libertà di pensiero che è divenuta in Nietzsche la “medicina” atta a ripararlo. E’ più importante piuttosto rilevare che la memoria di questo passaggio segna tutta la vicenda personale e intellettuale di Nietzsche, dando ad essa il carattere di una perpetua coazione a ripetere.

La coazione a ripetere è una dinamica scoperta dalla psicoanalisi che permette di comprendere perché alcuni soggetti ripetono indefinitamente comportamenti che mirano a risolvere un conflitto che non si può risolvere proprio in conseguenza di essi. La coazione a ripetere si interpreta ipotizzando che un soggetto tenta di superare un conflitto che affonda le radici nel remoto passato, rimettendosi nelle identiche circostanze che provocarono quell’antica difficoltà, e quindi ripetendo le stesse azioni.

La coazione a ripetere, nonché singoli individui, può riguardare anche un’intera società. Nietzsche coglie lucidamente questo aspetto nel suo tempo, e oggi gli si può dare del tutto ragione. E’ fuori di dubbio che la nostra società, oggi ancora più che nell’Ottocento, è preda di una coazione a ripetere che porta a privilegiare lo sviluppo economico, che pure ha assicurato un indubbio salto di qualità del tenore di vita, come matrice univoca del benessere, nonostante il rapporto inversamente proporzionale tra esso e la “felicità”, riconosciuto da tempo, smentisca questo assunto.

Nietzsche appare, però, del tutto incapace di cogliere e di affrancarsi dalla coazione a ripetere che sottende la sua esperienza. Si tratta di approfondire questo aspetto per capire il valore e il limite del tragitto di demistificazione seguito da Nietzsche.

In ogni esperienza umana c’è una cesura tra l’infanzia e l’età adulta, promossa dall’avvento dell’adolescenza con il suo carico di consapevolezze esistenziali. In alcuni casi, tale cesura fa riferimento alla nostalgia di un’età dell’oro, quella infantile, definitivamente perduta. In altri casi, la risoluzione dell’ipnosi infantile dà luogo invece all’ebbrezza di una libertà di pensiero che prima non c’era. In entrambi i casi, la ricostruzione dell’esperienza del passato non corrisponde alla verità. Nel secondo caso, però, l’ebbrezza sperimentata facilmente si traduce in una sorta di avversione per ciò che l’individuo ha sperimentato in precedenza. In conseguenza di questa avversione, la libertà si esprime sotto forma di una volontà esasperata di sancire la scissione tra il prima e il dopo, vale a dire nella rimozione e nella negazione del passato.

L’esperienza di Nietzsche, riconducibile alla pressione continua esercitata da un Io antitetico fortemente strutturato, ha dato luogo ad una coazione a ripetere che, nel corso degli anni, si è sempre più intensificata.

Rovesciato il primo idolo, il Dio cristiano, egli, infatti, è stato spinto poi a criticare e a demolire tutti gli idoli su cui si fonda la Civiltà occidentale - il valore supremo dell’individuo, la fiducia nella coscienza, la sacralità delle tradizioni e del senso comune, l’etica del lavoro, la democrazia, il ruolo dello Stato, il concetto di progresso, ecc.

Nietzsche, in pratica, è stato costretto a reiterare il trauma originario, promuovendo periodiche immersioni nel malessere profondo prodotto dalla demolizione degli “idoli” e riemergendo da esse con uno stato d’animo quasi euforico per un equilibrio conseguito di livello più elevato rispetto al precedente.

Oltre che un’esigenza dettata dalla sua genialità, la critica destruens di Nietzsche è una sorta di tragitto terapeutico verso la salute: un tragitto che richiede di porre tra parentesi i prezzi che egli paga, che, in Umano, troppo umano vengono definiti in termini di “malattia, solitudine, estraneità, accidia, inattività”, per portare a termine il suo compito: curare e ristabilire se stesso, ma nel contempo, curare l’umanità tutta dalla sua “malattia” (la mistificazione) e portarla quasi di forza nel regno degli spiriti liberi, e dunque umanamente risanati.

Giustamente, nell’introduzione generale alle Opere pubblicate da Newton Compton, F. Desideri sottolinea che nel pensiero di Nietzsche si possono individuare almeno tre aspetti o costanti: “il carattere patetico-sintomatico; 2. quello critico-diagnostico; 3. quello convalescenziale-terapeutico.” (p. 9)

Il primo aspetto consiste nel rilevare, senza remora alcuna, nella cultura e nei comportamenti umani, tutti i segni attestanti che l’umanità è “malata”: essa preferisce l’errore, la mistificazione, l’alienazione rispetto alla verità.

Il secondo aspetto si riconduce allo sforzo di capire perché essa abbia imboccato il vicolo cieco della mistificazione e perché insista a percorrerlo. La risposta, univoca, è che essa ha paura ed è stata potentemente aiutata dalla cultura e dall’organizzazione sociale ad averne sempre più in rapporto alla tragicità della sua condizione esistenziale.

Il terzo aspetto coincide con il togliere via il velo di Maya che mantiene l’umanità in uno stato di patetica ipnosi e indurla a vivere quella condizione con dignità e con la gioia di una liberazione che aggetta su di un futuro che privilegerà coloro che sono in grado di farsene carico.

Il tragitto intellettuale di Nietzsche, come abbiamo visto, nasce dal pathos derivante dalla scoperta della terribile influenzabilità infantile e dalla conseguente perdita della fede, generalizza tale scoperta applicandola all’umanità che, in nome dell’istinto gregario, rimane preda delle influenze sociali, e promuove una liberazione da questo stato alienato e servile pur consapevole del fatto che essa non potrà essere raggiunta dai più.

Proponendo all’umanità questo tragitto, Nietzsche lo realizza anzitutto sulla sua pelle. Ma lo realizza alla luce della scissione del suo essere, che, come abbiamo visto, intuisce ma non riesce a mettere a fuoco e a padroneggiare.

Il peso del passato. Nietzsche e la storia

Basta leggere una delle Considerazioni inattuali (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), che preparano la stagione delle grandi opere, per convincersene.

In essa Nietzsche attacca lo storicismo, vale a dire l’orientamento maturato in reazione all’Illuminismo, secondo il quale il presente va spiegato alla luce del passato e la storia consente di individuare nell’indefinita serie di eventi che caratterizzano la vicenda umana un’evoluzione progressiva della Civiltà, quindi un fine verso cui essa tende.

Sono già noti i motivi per cui questo modo di vedere è inaccettabile per Nietzsche. Un anno prima, egli ha scritto questo sconvolgente esordio di un’opera ritenuta a torto minore (Verità e menzogna in senso extramorale):

“In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, gli animali intelligenti dovettero morire.

Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo.

Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pathos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pathos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo.”

Su questa base, il riferimento alla storia come magistra vitae è ovviamente inaccettabile per Nietzsche. La storia è una successione indefinita di eventi singoli, caotici, contraddittori, nei quali non è dato di identificare alcun senso e tanto meno di riconoscere in essi un qualunque fine.

A posteriori, la critica di Nietzsche non appare priva di fondamento se essa è stata convalidata in pieno Novecento da Karl R. Popper.

In Miseria dello storicismo (Laterza, Roma - Bari, 1969, pp. 13-14) egli scrive:

Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana.

2. Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica. […]

3. Perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana.

4. Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè, di una scienza sociale storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.

5. Lo scopo fondamentale dello storicismo è quindi infondato. E lo storicismo crolla. […]

Ma può esserci una legge dell’evoluzione? […]

Io credo che la risposta a questa domanda debba essere "no"…”

Se leggiamo attentamente Sull’utilità e il danno della storia, scopriamo però facilmente che la critica di Nietzsche allo storicismo ha anche un significato soggettivo, inconscio. Leggiamo questa citazione:

“Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell'attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l'uomo poiché egli si vanta, di fronte all'animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello — giacché egli vuole soltanto vivere come l'animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l'animale. L'uomo chiese una volta all'animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L'animale voleva rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire — ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l'uomo se ne meravigliò.

Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l'attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e improvvisamente rivòla indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l'animale vive in modo non storico: é esso nel presente è come un numero, senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi essere altro che sincero. L'uomo, invece, si oppone al peso sempre più grande del passato: questo l'opprime o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia…

La più piccola felicità, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa sedersi sulla soglia dell'attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos'è la felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri.Immaginatevi l'esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire: un tale uomo non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più a se stesso, vedrebbe scorrere ogni cosa l'una dall'altra in un movimento di punti e si perderebbe in questa fiumana del divenire: infine, come vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare un dito. Ad ogni azione occorre l'oblìo: come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anche l'oscurità. Un uomo che volesse sentire in tutto e per tutto in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse costretto ad astenersi dal sonno, o all'animale che dovesse vivere soltanto del suo ruminare e di un sempre ripetuto ruminare. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordare, anzi vivere felicemente, come mostra l'animale; ma è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare. Ovvero, per spiegarmi ancor più semplicemente sul mio tema: vi è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente viene danneggiato e alla fine va in rovina, sia esso un uomo, un popolo o una civiltà.”

La necessità di dimenticare, di obliare e rimuovere il passato, di immergersi nel presente, di partecipare alla vita sul registro dell’hic et nunc: come non leggere in questo proposito la difesa inconscia che Nietzsche ha opposto al suo passato, una difesa, tra l’altro, che ha promosso la coazione a ripetere destruens di tutti gli idoli?

Il problema Nietzsche è chiaro e si può formulare in questi termini: si può dare credito ad un “Salvatore” che è convissuto con una sofferenza psichica e psicosomatica pressoché perpetua e che, nonostante alcuni brevi periodi di euforia, è finito “pazzo”? Si può credere ad un Diagnosta-Terapeuta fallito nell’applicare a se stesso la formula aurea “medice, cura te ipsum”?

Io ritengo che gli si possa e gli si debba dare credito. Anche se, in conseguenza di una logica costantemente antitetica, il tragitto di demistificazione di Nietzsche va spesso fuori misura, esso rimane una delle più belle imprese intellettuali che si siano mai realizzate: un’impresa che rimane valida anche se si prende atto che l’autore non è scampato egli stesso ad un certo grado di mistificazione. Tale circostanza, che, sia pure in diversa misura, vale per tutti i Grandi Demistificatori, lo umanizza.

La critica della scienza

La coazione a ripetere di Nietzsche si esercita, dall’inizio alla fine, nell’attaccare un ideale, un mito, un sistema di valori convenzionalmente riconosciuto e nel tentare di demolirlo o adottando il metodo genealogico, e dimostrando che le sue origini sono molto meno nobili di quanto si pensi, o confutandolo scetticamente fino a rivelarne l’infondatezza.

Con La nascita della tragedia Nietzsche mette in discussione e, in una certa misura, sovverte il mito della classicità, rivelando che esso ha rimosso del tutto la percezione tragica dell’esistenza che occorre ammettere come una delle matrici del genere tragico.

Subito dopo aver pubblicato La nascita della tragedia, egli scrive un libricino che non vedrà mai la luce - Verità e menzogna in senso extramorale - con il quale tenta di abbattere uno dei capisaldi della civiltà occidentale: la convinzione che l’uomo, in virtù del Linguaggio, della Ragione e della Scienza, possa arrivare alla verità.

L’esordio di Verità e menzogna lascia già capire in quale direzione si orienta il pensiero di Nietzsche in seguito alla perdita della fede:

“In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, gli animali intelligenti dovettero morire.

Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo.

Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pathos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pathos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo.

Non c’è niente in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell’universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare. E’ degno di nota che a tanto giunga l’intelletto, qualcosa cioè che è concesso proprio solo come strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell’esistenza; giacché esse altrimenti, senza quel supporto, avrebbero tutte le ragioni a volatilizzarsi...

Quella tracotanza legata alla conoscenza e alla sensibilità, nebbia accecante che sta davanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in se stessa la valutazione più piena di lusinghe circa la conoscenza. Il suo effetto più generale è l’inganno – ma anche gli effetti più particolari portano con sé qualcosa dello stesso carattere...

Nell’uomo quest’arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri, e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità…

Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensibilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l’uomo durante la notte, per tutta la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale glielo impedisca...

Che cosa sa propriamente l’uomo di sé? Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di sé una percezione completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e imprigionarlo in una orgogliosa e illusoria coscienza, lontano dal viluppo delle interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre? Essa ha gettato via la chiave.”

Scritto a 29 anni, questo folgorante esordio rappresenta il leit-motiv di tutta l’opera di Nietzsche: il nichilismo è già implicito nella visione di un Cosmo vuoto di senso che, casualmente, fa brillare su un remoto  pianeta un barlume di intelligenza e nel riferimento al fatto che gli infelici animali umani ai quali quel barlume è stato dato in dono lo utilizzano per produrre una gabbia di illusioni che consenta loro, almeno apparentemente, di mascherare a se stessi la loro insignificanza.

Nietzsche ha colto prima e meglio di tutti gli altri filosofi o studiosi dell’uomo la tendenza intrinseca alla coscienza umana alla mistificazione, che viene continuamente  corroborata dal circolo vizioso che si dà tra l’esigenza del singolo individuo e quella della società nel suo complesso a produrre valori culturali normativi e normalizzanti, che consentono all’individuo di sentirsi in qualche misura importante, in quanto partecipe di un gruppo dotato di una sua identità culturale, e alla società di rimanere coesa e di riprodursi.

Qual è l’oscuro bisogno che spinge l’uomo a ingannare se stesso e a condividere con gli altri convinzioni infondate, e per alcuni aspetti ridicole, che sono corroborate solo dal consenso collettivo?

A riguardo Nietzsche non ha dubbi. L’uomo ha bisogno di mentire per arginare l’angoscia di essere immerso in una realtà complessa e caotica e, soprattutto, per celare a se stesso la sua reale condizione di essere casuale, complesso, contraddittorio, sostanzialmente irrazionale e, da ultimo, privo di senso nell’economia dell’Universo.

Nel tentativo di dare ordine al caos, l’uomo ha creato il linguaggio, e si è letteralmente perduto in esso, giungendo a pensare che, attraverso di esso, sia possibile giungere alla verità. ma le cose, secondo Nietzsche, non stanno così. Egli scrive:

“Che cos’è una parola? Il riflesso sonoro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l’esistenza d’una causa fuori di noi, è già il risultato d’una falsa e indebita applicazione del principio di causalità…

(L’inventore di un linguaggio) connota soltanto le relazioni delle cose con gli uomini, per l’espressione delle quali egli si serve delle più ardite metafore. Uno stimolo nervoso tradotto anzitutto in immagine! Prima metafora.

L’immagine nuovamente riplasmata in un suono! Seconda metafora.”

“Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie.”

“Ciascun concetto sorge dall’eguagliare il non eguale. Certamente mai una foglia è del tutto eguale a un’altra, e certamente il concetto di foglia è formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali ossia attraverso la dimenticanza di ciò che distingue, sicché spunta l’idea che nella natura al di là delle foglie ci sia qualcosa come “la foglia”, una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasmate, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte, ma da mani inesperte, tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso fedele della forma originaria…

La dimenticanza di ciò che è reale e individuale ci dà il concetto così come anche la forma, là dove invece la natura non conosce né forme né concetti, e neppure generi, bensì soltanto una X per noi inattingibile.”

“Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.

Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l’impulso alla verità: giacché noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti.”

En passant, non è fuori luogo rilevare che la critica al linguaggio di Nietzsche è stata recepita, mutatis mutandis, dalla disciplina che studia la funzione dei segni linguistici. Nel suo Trattato di semiotica generale (Bompiani, Milano 1975), U. Eco scrive: “La semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunto come segno. E’ segno ogni cosa che possa essere assunto come un sostituto significante di qualcosa d’altro. Questo qualcosa d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto nel momento in cui il segno sta in luogo di esso. In tal senso, la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire.  Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere utilizzato per dire nulla.” (p. 17)

C’è un’eco nietzschiana in questa definizione paradossale, che accetta il fatto che il segno è menzognero perché sta al posto di qualcos’altro: è l’immagine acustica non già di una cosa, ma della sua rappresentazione psichica. Il mondo - e Nietzsche lo intuisce prima ancora di conoscere Schopenhauer - non si dà all’uomo che sotto forma di rappresentazione, vale a dire di interpretazione di una realtà che, in sé e per sé, rimane sconosciuta. L’uso di segni linguistici è ingannevole perché esso porta a pensare che il linguaggio definisca un rapporto tra il significante (la forma fisica dei segni) e le cose.

Su questo inganno si fonda l’ingenuo realismo della coscienza degli uomini comuni. La scienza muove dall'esigenza di andare al di là delle apparenze percettive. Essa costruisce una rete di concetti attraverso i quali tende a catturare la verità. Ma si tratta di una rete che soddisfa l’esigenza umana di fingere di sapere senza capire, inficiata dal fatto che essa crea rapporti di casualità laddove si dà solo una correlazione.

All’astrazione legata alla razionalità e al linguaggio Nietzsche contrappone la capacità intuitiva di manipolare creativamente i simboli (l’arte, dunque), che implica la consapevolezza di “giocare” con la realtà sovrapponendo ad essa una trama illusionale che non è scambiata però per verità oggettiva.

Esemplifichiamo il discorso sulla scorta del pensiero di Nietzsche.

Di fronte ad un paesaggio, un soggetto sperimenta uno stato d’animo estatico riferito alla bellezza e all’armonia della natura. In realtà questo stato d’animo è la proiezione di un’esigenza soggettiva su di una realtà dinamica, perpetuamente cangiante e caotica. Basta guardare le cose più da vicino per demistificare tale proiezione: le piante si aggrovigliano e lottano perpetuamente tra loro, le loro foglie sono smangiucchiate dagli insetti, questi svolazzano all’impazzata cercando cibo e prede, ecc.

Un botanico osserva le cose con un occhio attento per sconfiggere la tendenza dell’occhio ad unificare e armonizzare i dettagli. L’attenzione al particolare gli consente di identificare una nuova pianta, alla quale egli dà un nome. In virtù di questa la pianta esce dall’anonimato e viene classificata. Ma cosa dice il suo nome scientifico se non che essa è stata riconosciuta dall’uomo come distinta da tutte le altre, cosa dice del suo essere in sé e per sé?

Un pittore rappresenta lo stesso paesaggio su di una tela di modiche dimensioni. A seconda del suo stile, quel paesaggio può risultare armonioso come all’occhio dell’uomo comune, vibrante e caotico, disarmonico, inquietante o, addirittura, trasformato astrattamente in qualcos’altro che ne impedisce l’identificazione.

Quale di queste tre modalità di rapportarsi alla realtà si può ritenere più fedele alla sua indefinita complessità? Nietzsche non ha alcun dubbio che sia l’arte, la quale procede sulla base dell’intuizione, che è una modalità conoscitiva più profonda rispetto all’intelletto: una modalità, peraltro, che non pretende di costringere la realtà dentro schemi fissi, ma ne accetta la caoticità, la varietà fenomenica, la contraddittorietà e cerca di esprimerla con i mezzi concessi all’uomo più che di catturarla e di assoggettarla a leggi.

La Ragione, dunque, non è affatto la via regia della verità: essa anzi utilizza il linguaggio e costruisce concetti per tenere l’uomo al riparo da essa. L’affermazione storica della razionalità, che caratterizza la storia del mondo occidentale, non è dunque un progresso, ma una regressione, una decadenza.

Se si riconduce il pensiero di Nietzsche alla sua epoca, fortemente contrassegnata dall’ascesa del Positivismo, se ne intende meglio la funzione storica.

Il Positivismo recupera la fiducia illuministica nella Ragione, ma l’aggancia allo sviluppo rigoglioso delle Scienze, alle quali esso affida il compito di definire leggi causali dei fenomeni sia naturali che sociali, e ritiene che, sulla base dello sviluppo scientifico e tecnologico, si apriranno davanti all’umanità le porte di un futuro radioso, di un progresso illimitato.

L’ottimismo positivista è in gran parte espressione della fiducia che la borghesia industriale ha nella sua capacità di guidare il mondo verso la terra promessa del benessere e della felicità.

E’ assolutamente evidente il motivo per cui Nietzsche, con la sua concezione tragica dell’esistenza, identifica in quell’ottimismo dogmatico un ulteriore segno di decadenza della civiltà. La sua polemica antipositivistica però è ben più radicale, in quanto egli non contesta solo il trionfalismo delle Scienze, ma anche il loro valore conoscitivo. Egli scrive:

“Cos’è per noi in generale una legge di natura? In sé non ci è nota, bensì soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltanto come relazioni. Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ciò che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti.

Tutto ciò che di prodigioso noi ammiriamo nelle leggi di natura ed esige da noi spiegazione e potrebbe portarci a diffidare dell’idealismo, sta proprio tutto e soltanto nel rigore matematico e nell'insuperabilità delle rappresentazioni spaziali e temporali.

Queste siamo noi a produrle in noi stessi e da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costretti a concepire tutte le cose soltanto sotto queste forme, allora non c’è da meravigliarsi, che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme: tutte infatti devono portare in sé le leggi del numero e il numero è proprio la cosa più prodigiosa delle cose.”

Scritte nel 1873, queste affermazioni, all’epoca del tutto controcorrente, hanno anticipato la crisi delle scienze che è sopravvenuta, con la fisica quantistica, nel Novecento. Oggi nessuno studioso crede più che le Scienze diano accesso a verità oggettive. Esse sono interpretazioni dei fenomeni naturali fornite adottando le logiche proprie della mente umana, che possono avere corrispondenze parziali con ciò che accade fuori dell’uomo. Esse peraltro riguardano solo i sistemi lineari, quelli nei quali valgono le relazioni di causa-effetto. Ma tali sistemi, deterministici, rappresentano solo un’infima porzione della realtà che in gran parte è rappresentata da sistemi complessi, indeterministici e probabilistici.

Nietzsche, dunque, ha le sue ragioni nell’attaccare il Positivismo e la sua fiducia che la realtà fosse composta solo di sistemi lineari le cui leggi sarebbero state scoperte. Egli ha intuito che, nella sua indefinita complessità, la realtà in toto è irriducibile a qualsivoglia tentativo di ingabbiarla in una griglia di spiegazioni scientifiche.

Anche se il tramonto del Positivismo e dello scientismo non si può attribuire a Nietzsche, bensì ad un’evoluzione interna alla scienza stessa, che riconosce come momenti fondamentali la teoria della relatività einsteiniana, la teoria quantistica e la teoria dei sistemi complessi, non si può non riconoscere che, con le sue critiche, egli ha precorso tale evoluzione.

La critica della coscienza

Nel 1878, con la pubblicazione del primo e del secondo libro di Umano, troppo umano, si avvia un decennio di prodigiosa creatività. Nel 1879 viene alla luce il terzo libro di Umano, troppo umano (Opinioni e sentenze diverse), nel 1880 il quarto (Il viandante e la sua ombra). Seguono Aurora (1881) e La gaia scienza (1882). Tra il 1883 e il 1885, Nietzsche pubblica la prima, la seconda, la terza e la quarta parte di Così parlò Zarathustra, che egli giudica il libro “più profondo che sia mai stato scritto”. Al 1886 risalgono Al di là del bene e del male e le dense prefazioni alle ristampe de La nascita della tragedia, Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza. Nel 1887 vengono alla luce il quinto libro de La gaia scienza e La genealogia della morale. Il 1888 è l’anno cruciale. Nietzsche pubblica Il crepuscolo degli idoli, L’Anticristo, Ecce homo, e prende febbrilmente appunti per La volontà di potenza che, nei suoi intenti, dovrebbe promuovere una rivoluzione culturale incentrata sulla trasmutazione di tutti i valori, vale a dire sull’avvento dell’universo degli spiriti liberi. Il libro non vedrà mai la luce. Il 3 gennaio, a Torino, Nietzsche manifesta i sintomi di una psicosi dissociativa che lo immergerà in una condizione di totale regressione e destrutturazione psichica, destinata a durare sino alla fine (25 agosto 1900).

In un decennio, dunque, Nietzsche assume il ruolo del maestro del sospetto e del dubbio sistematico che demolisce i fondamenti della civiltà occidentale: l’eccezionalità dell’uomo nell’ordine naturale, l’unità e la consapevolezza dell’io cosciente, l’uguaglianza tra gli esseri umani, la fondatezza del senso comune, l’importanza del costume e della tradizione, il valore civilizzante dello Stato, la distinzione morale tra bene e male, l’esistenza di Dio e di un ordine trascendente fondato sulla sua volontà.

Prima di seguire Nietzsche nella sua discesa agli inferi del nichilismo, occorre tenere conto che quasi tutte le opere citate rinnovano anche stilisticamente la tradizione filosofica. Esse, infatti, sono scritte sotto forma di aforismi talora lunghi, talaltra molto brevi. A riguardo Nietzsche scrive in Umano, troppo umano:

"127.

Contro chi biasima la brevità.  Una cosa detta succintamente può essere il frutto e il raccolto di un lungo pensare: ma il lettore, che in questo campo è un novellino e non vi ha ancora riflettuto, in ogni cosa detta con brevità vede un certo che di embrionale, non senza un cenno di biasimo per l'autore il quale, insieme con il resto, gli ha servito una vivanda simile, non finita di crescere, non matura."

"128.

Contro i miopi.  Pensate forse che debba essere opera frammentaria, perché ve la si dà (e la si deve dare) a pezzi?"

Perché il pensiero di Nietzsche si deve dare a pezzi? Perché la sua mente lavora intensamente e contemporaneamente su tutte le tematiche cui si è fatto cenno, e accumula intuizioni frammentarie che si ribellano ad una sistemazione organica. E’ come se Nietzsche rifiutasse di polarizzare il pensiero su di una sola tematica alla volta. La sua opera è, pertanto, polifonica e, presumibilmente, molto più fedele alla logica della creatività  inconscia rispetto alla tradizione filosofica. Ciò significa che Nietzsche pensa e scrive anzitutto per sé.

Un’analisi del suo pensiero deve ovviamente seguire il tragitto inverso, vale a dire ricomporre i frammenti in un quadro unitario. La cosa non è semplice perché, eccezion fatta per Umano, troppo umano, i cui due primi libri sono divisi in sezioni tematiche, tutti gli altri saggi  apparentemente affastellano pensieri diversi la cui successione solo talvolta sembra fare riferimento ad una stessa tematica.

Per sopperire a questo apparente disordine ho realizzato, con la collaborazione della dott.ssa Lisa Cecchi, un’antologia tematica che ritengo preziosa e che consiglio di leggere a chi non intende sobbarcarsi alla fatica della lettura di tutti i testi nietzschiani.

L’antologia semplifica il compito di seguire il tragitto critico di Nietzsche.

La demistificazione prende avvio dal confutare la cornice naturale dell’Universo che l’uomo ha mitologizzato per dare importanza a se stesso:

“L'ordinamento astrale in cui noi viviamo è un'eccezione; questo ordinamento e la durata approssimativa che esso determina ha a sua volta permesso l'eccezione delle eccezioni: la costituzione dell'organico.

La caratteristica globale del mondo è invece, per l'eternità, il caos, non nel senso che manchi la necessità, ma nel senso che mancano ordine, struttura, forma, bellezza, saggezza, ovvero le nostre umanità estetiche. A giudicare dalla nostra ragione, i tiri mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono lo scopo segreto e tutto il meccanismo ripete in eterno il suo motivo, che non può essere definito melodia e infine la stessa definizione di «tiri mancati» è già un'umanizzazione biasimevole.

Ma come possiamo biasimare o lodare l'universo! Guardiamoci dall'attribuirgli mancanza di cuore o irragionevolezza o i loro contrari: non è né perfetto né bello né nobile; non vuole diventare niente di tutto ciò; non mira assolutamente a imitare l'umano! Nessuno dei nostri giudizi estetici o morali può coglierlo! Non possiede neppure l'istinto di conservazione, né altri istinti; non conosce legge alcuna.” (GS)

Se l’Universo è caotico, la presenza in esso, contingente e caduca, del vivente, uomo compreso, non aggiunge alcun significato ad esso:

“Critica degli animali.

Temo che gli animali vedano nell'uomo un loro pari che abbia perduto in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale, - è infatti un animale folle, un animale che ride, un animale che piange, un animale infelice.”(GS)

“49.

Il nuovo sentimento fondamentale: la nostra definitiva caducità.  Una volta si cercava di giungere al sentimento della magnificenza e signoria dell'uomo, additando alla sua origine divina: questa adesso è divenuta una via proibita, poiché alla sua porta, insieme ad altre orribili bestie, sta la scimmia e piena di comprensione digrigna i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui si dirige l'umanità deve servire a dimostrare la sua magnificenza e signoria e la sua affinità con Dio. Ah!, anche così non serve a niente. Alla fine di questa strada sta l'urna funeraria dell'ultimo uomo e dell'ultimo becchino (con l'iscrizione: «nihil humani a me alienum puto»). Per quanto in alto possa svilupparsi l'umanità  e forse alla fine si ritroverà più in basso di quanto non fosse all'inizio  non si darà per lei alcun trapasso in un ordine superiore, allo stesso modo come la formica e la forfecchia al termine della loro «vita terrena» non si innalzano all'affinità con Dio e all'eternità.

Il divenire trascina dietro di sé ciò che è stato: perché mai in questa eterna commedia dovrebbe esistere un'eccezione per un qualsiasi piccolo astro e ancora per una piccola specie vivente in esso! Smettiamola con questi sentimentalismi!” (AU)

Nietzsche evidentemente conosce Darwin, ma non direttamente, bensì attraverso H. Spencer, che gli viene segnalato dall’amico Paul Rée. Come si è detto nel corso delle letture darwiniane, Spencer si può ritenere il precursore dell’Intelligent Design, nella misura in cui applica il principio dell’evoluzionismo a tutti i livelli della realtà, dalla cosmologia alla sociologia e alla psicologia, identificando nell’organizzazione della realtà a livelli sempre più elevati un progresso. Il pensiero spenceriano, marcatamente ottimistico e “mistico”,  è incompatibile con la teoria del caos cosmico di Nietzsche e ancor più con la sua interpretazione dell’evoluzione storica come decadenza.

Non meraviglia pertanto che egli scriva:

"Ciò che mi sorprende nel contemplare i grandi destini dell'uomo è di vedere davanti ai miei occhi sempre il contrario di ciò che oggi vede o vuol vedere Darwin con la sua scuola."

Il contrario, ovviamente, fa riferimento alla progressiva affermazione dei deboli sui forti:

“14.

AntiDarwin.  Per quanto riguarda la famosa «lotta per la vita», per ora essa mi sembra più asserita che dimostrata. Avviene, ma come eccezione; l'aspetto complessivo della vita non è lo stato di bisogno, lo stato di fame, bensì la ricchezza, l'opulenza, persino l'assurda dissipazione  dove si lotta, si lotta per la potenza... Non si deve scambiare Malthus con la natura.  Ma posto che questa lotta esista  e in effetti, essa avviene , essa ha purtroppo un esito contrario a quel che si augura la scuola di Darwin, a quel che forse sarebbe lecito augurarsi con essa: ossia a sfavore dei forti, dei privilegiati, delle felici eccezioni. Le specie non crescono nella perfezione: i deboli hanno continuamente la meglio sui forti  ciò avviene perché essi sono in gran numero, sono anche più accorti…” (CI)

Anche quando Lou Salomé cerca di coinvolgerlo nel nascente darwinismo sociale, Nietzsche rimane fermo nel suo giudizio: la selezione auspicata dal darwinismo sociale, infatti, nulla ha a che vedere con la selezione degli spiriti liberi.

Valutando Darwin attraverso Spencer, Nietzsche ne fraintende il pensiero, al quale è del tutto estraneo il concetto di progresso.

E’ probabile, però, che se anche Nietzsche avesse letto le opere di Darwin, il suo giudizio sarebbe stato ugualmente negativo per due motivi. Il primo è che Darwin attribuisce all’uomo uno spiccato istinto sociale fondato sulla simpatia, che promuove l’organizzazione sociale sulla base della solidarietà (sia pure riferita al gruppo di appartenenza). Il secondo è che egli, anche se cerca di mantenere un nesso di continuità tra le funzioni psichiche animali e quelle umane, attribuisce un valore fondamentale alla razionalità e all’autoconsapevolezza umana, vale a dire all’io cosciente, libero e responsabile.

Nell’ottica di Nietzsche l’importanza che l’uomo assegna alla coscienza è del tutto infondata:

“La coscienza è l'ultimo e più tardo gradino di sviluppo dell'organico e quindi anche il meno finito e vigoroso. Dalla coscienza derivano innumerevoli errori che fanno sì che un animale, un uomo vadano in malora prima di quanto non sarebbe necessario…

Se non fosse tanto più potente, il vincolo conservatore degli istinti non potrebbe fungere da regolatore: i loro giudizi rovesciati, il loro fantasticare ad occhi aperti, la loro superficialità e creduloneria, in breve proprio la loro coscienza manderebbe l'umanità in malora: o meglio, senza tutto ciò essa non esisterebbe più da tempo!

Prima di formarsi e giungere a maturazione, una funzione costituisce un pericolo per l'organismo: è un bene che sia tiranneggiata così a lungo e abilmente! Così la coscienza subisce un'abile tirannia ― e nemmeno un po' per orgoglio!

Si pensa che sia questo il nucleo dell'uomo, quanto in lui c'è di duraturo, eterno, ultimo, originario? Si ritiene la coscienza una grandezza assolutamente data! Le negate ogni possibilità di crescita, di intermittenza! La considerate una «unità dell'organismo»! ― Questa ridicola sopravvalutazione e disconoscimento della coscienza si rivela però estremamente utile, perché ha impedito una formazione troppo veloce della stessa. Poiché credevano di avere già una coscienza, gli uomini si sono dati poca pena di acquisirla: e anche adesso le cose non stanno diversamente! Per gli occhi umani, incorporare la sapienza e renderla istintiva continua ad essere un compito sempre nuovo e appena affiorante, un compito visto soltanto da coloro che hanno compreso che finora abbiamo incorporato soltanto i nostri errori e che tutta la nostra coscienza si riferisce a errori!” (GS)

Ma, se le cose stanno così, com’è possibile che la coscienza sia comparsa? La risposta di Nietzsche è oltremodo interessante:

“Il problema della coscienza (più esattamente del prendere coscienza di sé) ci si presenta soltanto quando cominciamo a comprendere quanto possiamo farne a meno: a questo inizio di comprensione ci conducono oggi la fisiologia e la storia degli animali (che hanno avuto bisogno di due secoli per riafferrare il sospetto che già era balenato a Leibnitz). Potremmo infatti pensare, sentire, volere, ricordare, potremmo persino «agire», in ogni senso della parola: eppure non c'è bisogno che tutto ciò «affiori alla coscienza», come si dice figurativamente. Tutta la vita sarebbe possibile anche se non ci si guardasse, per così dire, allo specchio: e certamente anche la nostra vita pensante, senziente, volente, per quanto ciò possa suonare offensivo per un filosofo di epoche precedenti.

A che serve, orbene, la coscienza, se per la cosa principale si rivela superflua? A me sembra, se si vuol prestare ascolto alla mia risposta a questa domanda e alla sua supposizione forse bizzarra, che la finezza e la forza della coscienza siano sempre in rapporto con l'abilità comunicativa di un uomo (o animale) e che l'abilità comunicativa a sua volta sia in rapporto col bisogno di comunicare: senza intendere quest'ultima cosa come se l'uomo, che è un maestro nel comunicare e nel rendere comprensibili i suoi bisogni, dovesse anche per i suoi bisogni fare perlopiù assegnamento sugli altri. Eppure mi pare che le cose stiano proprio così, per intere razze e catene di generazioni: laddove il bisogno e la necessità abbiano lungamente costretto gli uomini ad aprirsi, a esercitare una rapida e raffinata comprensione reciproca, l'energia e l'arte di comunicare si sono poi rivelate sovrabbondanti, come un patrimonio che sia stato accumulato gradualmente e non aspetti altro se non un erede che lo dissipi (questi eredi sono i cosiddetti artisti, e con loro gli oratori, i predicatori, gli scrittori, tutti uomini che giungono sempre alla fine di una lunga catena, ogni volta «nati in ritardo», nel senso migliore della parola, e, come abbiamo detto, dissipatori di natura).

Posto che quest'osservazione sia giusta, posso procedere alla supposizione che la coscienza si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione, - che inizialmente la sua utilità fosse limitata ai rapporti tra uomo e uomo (in particolare tra chi comandava e chi ubbidiva) e che si sia sviluppata anche in rapporto al grado di questa utilità. La coscienza è in realtà soltanto una rete di comunicazione tra uomo e uomo, e si è dovuta sviluppare soltanto in quanto tale: se fosse stato un eremita o un animale da preda, l'uomo non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, pensieri, sentimenti, movimenti - o quanto meno parte di essi - pervengano alla nostra coscienza, è la conseguenza di una terribile «necessità» che ha lungamente governato l'uomo: egli aveva bisogno, essendo l'animale più esposto ai pericoli, di aiuto e protezione; aveva bisogno dei suoi pari; doveva esprimere la sua necessità e farsi capire: per tutto questo aveva in primo luogo bisogno della «coscienza», cioè di «sapere» egli stesso che cosa gli manca, qual è il suo stato d'animo, di «sapere» che cosa pensa.

Lo ripetiamo ancora una volta: l'uomo, come ogni creatura vivente, pensa di continuo, ma non lo sa: il pensiero che diviene cosciente è soltanto una minima parte, la più superficiale, la peggiore: perché soltanto questo pensiero cosciente si realizza in parole, cioè in segni comunicativi che rivelano l'origine della stessa comunicazione. In breve, l'evoluzione della lingua e l'evoluzione della coscienza (non la ragione, ma soltanto il suo prendere coscienza di sé) vanno di pari passo.

Si aggiunga che a fungere da ponte fra uomo e uomo non c'è soltanto la lingua, ma anche lo sguardo, la pressione, i gesti: il prendere coscienza delle nostre impressioni sensoriali, la forza di poterle fissare e di collocarle, per così dire, fuori di noi, sono aumentate proporzionalmente alla necessità di trasmetterle ad altri per mezzo di segni.

Il mio pensiero è quindi evidentemente questo: che la coscienza non appartiene tanto all'esistenza individuale dell'uomo quanto agli elementi di comunità e di gregge presenti nella sua natura; che, come ne consegue, essa si è sviluppata soltanto in riferimento all'utilità della comunità e del gregge e che quindi ciascuno di noi, pur con la migliore buona volontà di capirsi il più individualmente possibile, di «conoscere se stesso», porterà sempre alla propria coscienza soltanto i suoi elementi non individuali, quello che in lui c'è di «medio»; che il nostro stesso pensiero è costantemente adeguato alla maggioranza dal carattere stesso della coscienza - da quel genio della specie che in essa opera - e ritradotto nella prospettiva del gregge.

Le nostre azioni sono in fondo tutte incomparabilmente personali, uniche, illimitatamente individuali, non c'è dubbio; ma non appena le traduciamo nella coscienza, non lo sembrano più... Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io: la natura della coscienza animale comporta che il mondo di cui dobbiamo prendere coscienza sia soltanto un mondo superficiale, di segni, un mondo generalizzato e volgarizzato; - che tutto ciò di cui prendiamo coscienza divenga proprio per questo altrettanto piatto, privo di spessore, relativamente stupido, generale, segno, segno distintivo del gregge; che a ogni coscienza sia legata una grande, fondamentale corruzione, falsificazione, superficializzazione e generalizzazione.

II progredire della coscienza è inoltre un pericolo…

Noi «sappiamo» (o crediamo o immaginiamo) esattamente quel tanto che può essere utile nell'interesse del gregge degli uomini, della specie; e persino quel che andiamo definendo «utilità» è in ultima analisi soltanto un atto di fede, di immaginazione e forse proprio quella funestissima stoltezza che un giorno ci manderà in malora.” (GS)

Per valutare il carattere rivoluzionario ed eversivo di affermazioni del genere, occorre ricondursi agli sviluppi che esse hanno avuto sulla riflessione filosofica e scientifica ulteriore sulla coscienza.

Nel 1976,  uno psicologo canadese - Julian Jaynes - pubblica Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza nel quale sostiene che l’acquisizione da parte degli esseri umani dell’autoconsapevolezza è intervenuta tardivamente nella storia della specie, e che in precedenza gli esseri umani vivevano sotto l’influenza di voci (degli dei, dei capi, dell’opinione pubblica) che regolavano il loro comportamento automaticamente. Al di là di questa ipotesi, suggestiva ma azzardata, Jaynes, in un denso articolo del 1986 (La coscienza e le voci della mente), analizza ciò che la coscienza non è - “non è l'intera attività mentale, non è necessaria per le sensazioni e le percezioni, non è una copia dell'esperienza, non è necessaria per l'apprendimento né per il pensiero e il ragionamento; la sua ubicazione, infine, è del tutto arbitraria e funzionale” - sicché. è lecito “concepire l'esistenza di esseri umani che, in un passato remoto, abbiano fatto più o meno tutto quello che facciamo noi – parlare, comprendere, percepire, risolvere problemi – essendo però privi di coscienza.”

Senza saperlo, Jaynes ripercorre le tracce di Nietzsche, il quale peraltro va ancora più a fondo nella sua analisi ipotizzando un mondo di istinti e di motivazioni sottostanti la coscienza:

“Dopo aver letto abbastanza a lungo i filosofi tra le righe e averli tenuti d'occhio mi dico che dobbiamo considerare ancora come attività dell'istinto la gran parte del pensiero cosciente, persino nel caso del pensiero filosofico; dobbiamo trasformare qui il nostro modo di vedere, come si è fatto a proposito dell'ereditarietà e dell'«innatismo». Come l'atto della nascita ha poca importanza nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, altrettanto poco l'«essere cosciente» può essere contrapposto, in un qualche modo decisivo, all'elemento istintivo,  la parte maggiore del pensiero cosciente di un filosofo è guidata segretamente dai suoi istinti e costretta in binari fissi. Anche dietro ogni logica e l'apparente dispotismo dei suoi movimenti stanno giudizi di valore, detto con maggiore chiarezza, esigenze fisiologiche per il mantenimento di un determinato tipo di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza abbia meno valore della «verità»: tali valutazioni, pur con tutta l'importanza normativa che hanno per noi, potrebbero essere tuttavia soltanto valutazioni pregiudiziali, un determinato tipo di niaiserie, quale può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri come noi. Ammesso, cioè che non proprio l'uomo sia la «misura delle cose»...” (ABM)

“Nell'immane molteplicità di ciò che accade all'interno di un organismo, la parte di cui diventiamo coscienti è un semplice cantuccio; e quel poco di «virtù», di «disinteresse» e di finzioni affini viene smentito in modo del tutto radicale dal restante accadere totale. Faremo bene a studiare il nostro organismo nella sua completa immoralità…”

“Le funzioni animali in linea di principio sono milioni di volte più essenziali di tutti gli stati belli e le altitudini della coscienza: questi ultimi sono un eccesso, non dovendo essere strumenti per quelle funzioni animali.” (VP)

“Sostengo la fenomenicità anche per il mondo interiore: tutto ciò che ci diventa cosciente è completamente costruito a bella posta, semplificato, schematizzato, spiegato  il processo effettuale della «percezione» interna, l'unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti  e probabilmente pura immaginazione.” (VP)

“E’ essenziale che non ci si sbagli sul ruolo della «coscienza»: è la nostra relazione con il «mondo esteriore» che l'ha sviluppata. Al contrario la direzione, cioè la cura e la previdenza per l'armonia delle funzioni corporee non fa parte della nostra coscienza; altrettanto poco l'immagazzinamento spirituale: che si dia per questo un'istanza suprema, non si può dubitare: una sorta di comitato direttivo, nel quale i vari desideri principali fanno valere la propria voce e la propria potenza. «Piacere», «dispiacere» sono cenni provenienti da questa sfera... così la volizione. Così le idee.” (VP)

Coscienza e inconscio nell’ottica neurobiologica

Oggi si può sostenere che Nietzsche abbia avuto un’intuizione prodigiosa, che ha precorso la psicoanalisi e le neuroscienze contemporanee. Egli ha scoperto che gran parte dell’agire umano non riconosce la sua matrice nella coscienza, ma nell’inconscio. Il suo pensiero si può ritenere anche più profondo di quello di Freud, che considerava l’inconscio come la sede del rimosso, vale a dire il contenitore dei contenuti psichici allontanati dalla coscienza perché spiacevoli, imbarazzanti, ecc. Secondo Nietzsche l’uomo agisce sulla base di spinte istintive, che si manifestano attraverso la coscienza e il comportamento, e che quella si limita, tutt’al più, a giustificare.

Se si tiene conto che gli istinti cui fa riferimento Nietzsche equivalgono a spinte motivazionali sottratte al controllo della coscienza, si può comprendere meglio il valore delle sue intuizioni.

Oggi giorno quasi tutti i neuroscienziati sono d’accordo con il fatto che la coscienza controlla non più del 5% dell’attività mentale, che si svolge al di fuori e al di sotto di essa.

Ne Il Sé sinaptico, J. Le Doux scrive:

"Nella teoria contemporanea della personalità, come in filosofia, la nozione di Sé si riferisce tipicamente al Sé conscio, nel senso che esso possiede autoconoscenza, autorappresentazione e autostima; è consapevole di Sé, autocritico; avverte l'importanza della persona; s'impegna nella realizzazione delle proprie potenzialità… Nonostante questa lunga tradizione di enfasi sul Sé in quanto entità conscia, il Sé di cui siamo consapevoli, o di cui possiamo essere consapevoli, non rappresenta la totalità di ciò cui si riferisce il termine Sé… Le cose che consciamente sappiamo su chi o cosa siamo costituiscono gli aspetti espliciti del Sé. Questi costituiscono il tipo di realtà cui ci riferiamo con il termine autoconsapevole e quanto definiamo autorappresentazione; sono quelli di cui si interessano gli psicologi del Sé. Gli aspetti impliciti del Sé, di contro, sono tutti gli altri aspetti di ciò che siamo e che non sono immediatamente disponibili alla coscienza, o perché sono per loro natura inaccessibili, oppure perché sono accessibili ma non disponibili in un particolare momento" (pp. 38-39).

"Il fatto che tutti gli aspetti del Sé non siano generalmente evidenti simultaneamente, e che aspetti differenti possano anche rivelarsi contraddittori, può dare l'impressione di costituire un problema disperatamente complesso. Tuttavia, ciò significa semplicemente che componenti diverse del Sé riflettono il funzionamento di differenti sistemi cerebrali, che possono essere sincronici oppure no. Mentre la memoria esplicita è mediata da un unico sistema, esiste una varietà di differenti sistemi cerebrali che memorizzano l'informazione in modo implicito, consentendo la coesistenza di diversi aspetti del Sé" (pp. 44-45).

"Molto di ciò che noi umani facciamo è influenzato da processi che esulano dalla consapevolezza. La coscienza è importante, ma lo sono altrettanto i processi sottostanti di tipo cognitivo, emozionale e motivazionale che sono all'opera inconsciamente" (p. 360).

Nonostante controlli solo il 5% dell’attività mentale, i neuroscienziati ritengono comunque che la coscienza sia importante, perché, se è assolutamente vero che essa galleggia letteralmente su di un universo di memorie, emozioni, pensieri, motivazioni, si può ammettere comunque che essa eserciti un’azione di coordinazione e di guida delle spinte motivazionali, che essa dunque disponga di ciò che si definisce libero arbitrio.

A riguardo ho scritto:

“E’ un assioma della psicoanalisi che dietro ogni comportamento si dà una motivazione o, per dire meglio, un insieme di motivazioni. Questo concetto è di importanza fondamentale. Se infatti si prende atto che il cervello è depositario di indefinite motivazioni, solo alcune delle quali sono coscienti, non si stenta a capire che, per essere minimamente coerente, un qualunque comportamento richiede che tali motivazioni, spesso diverse, si organizzino gerarchicamente perché una di esse possa infine, sia pure relativamente, prevalere.

Il problema della libertà umana è posto in maniera corretta nel momento in cui ci si chiede come avviene questa organizzazione gerarchica. Il determinismo neurogenetico postula che sia il cervello a provvedere a gerarchizzare le motivazioni; l’indeterminismo che sia l’io.

Tenendo conto che le motivazioni in questione sono in parte consce e in parte inconsce, riesce immediatamente evidente che le due ipotesi non si contraddicono, rappresentando gli estremi di uno spettro indefinito, che va da un determinismo motivazionale inconscio, che si realizza saltando il potere di controllo dell’io, a un indeterminismo cosciente che implica una scelta tra alternative consapevolmente vissute e valutate.

Eccezion fatta per alcuni residui istintuali, che nell’uomo hanno scarso rilievo, il determinismo motivazionale inconscio è agito dalle strutture neuronali, ma solo nella misura in cui la carica emozionale delle motivazioni le attiva.

L’indeterminismo cosciente non va però sopravvalutato, poiché nulla prova che le motivazioni cui l’io fa riferimento esauriscono l’insieme delle motivazioni inerenti la scelta, né che esse siano le più importanti.

La critica del libero arbitrio

All’interno dello spettro cui ho fatto riferimento, la libertà intesa in senso proprio, come scelta volontaria tra alternative consapevolmente valutate, esiste ma si riduce a ben poco. Al di là di essa, però, non si dà un determinismo neurogenetico, bensì un determinismo motivazionale che fa capo ad un patrimonio di ricordi, emozioni e spinte comportamentali che agiscono al di fuori della sfera dell’io. Tale patrimonio è in gran parte appreso, anche se l’apprendimento non implica solo un’influenza ambientale, ma anche un modo di significare (emotivamente e cognitivamente) le informazioni che può avere matrici genetiche.”

E’ difficile minimizzare l’importanza del problema del libero arbitrio. Nietzsche nega radicalmente che esso esista e presume che ogni comportamento umano corrisponde a criteri di necessità, vale a dire a ciò che un soggetto, in una determinata circostanza, non può non fare. Egli riprende da Schopenhauer il problema del “posso volere ciò che voglio” e risponde negativamente. Gran parte dei neuroscienziati, oggi, non riescono a condividere il radicalismo nietzscheano, che però ancora si pone come problema.

Un esperimento psicologico tra i più famosi, realizzato agli inizi del ‘900 da Benjamin Libet, dà la misura di questa incombenza. In Ma io chi sono? (Garzanti 2009), il filosofo Richard David Precht lo riassume così:

“Benjamin Libet nacque nel 1916 a Chicago e studiò fisiologia. In realtà non aveva la formazione di un esperto di  neurofisiologia cerebrale, ma era normale che fosse così poiché negli anni Trenta non era facile studiare nello specifico questa materia. Già da giovane, Libet si era interessa alla questione se fosse possibile misurare scientificamente i processi che si creano nella coscienza. Alla fine degli anni Cinquanta, osò fare dei test su alcuni pazienti sotto anestesia locale ricoverati nel reparto neurochirurgico del Mount Zion Hospital di San Francisco. Le cavie erano sdraiate nella sala operatoria, alcune con il cervello scoperto. Libet attaccò dei cavi ai loro cervelli, sollecitandoli con leggeri impulsi elettrici. Poté così osservare precisamente come e quando i pazienti reagivano. Il risultato fu spettacolare: da una sollecitazione della corteccia fino a un sussulto dei pazienti passava più di mezzo secondo. Nel 1964, quando suoi esperimenti suscitarono scalpore in Vaticano, Libet non conosceva ancora i risultati degli esperimenti di due suoi colleghi. Anch'essi avevano rilevato un ritardo. Dall'intenzione di muovere la mano fino al movimento reale passa quasi un secondo. Queste misurazioni accesero la curiosità di Libet: un secondo di scarto tra l'intenzione e l'azione, questo dato faceva a pugni con il buon senso. Chi vuole prendere in mano una tazza di tè, lo fa subito. A cosa è dovuta allora la differenza di un secondo misurata negli esperimenti?

L'uomo stesso, concluse Libet, non si accorgeva di qui secondo. Nel 1979 iniziò un nuovo studio, divenuto celebre come «esperimento di Libet», che rese il suo ideatore famoso in tutto il mondo. Libet fece accomodare una paziente su una poltroncina e le disse di guardare un grande orologio.  Non si trattava di un orologio normale, ma di un punto verde che ruotava rapidamente intorno a un disco rotondo.

Poi Libet prese due cavi. Uno lo attaccò a un polso della paziente, collegandolo a un misuratore elettrico. L'altro lo fissò ad un elmetto dotato di un altro misuratore elettrico posto sulla testa della paziente. Invitò poi quest'ultima a guardare il punto verde e le disse: «Quando vuole, scelga lei, decida di muovere il polso. Ma si ricordi dove si trova il punto verde quando prende questa decisione». La paziente fece come Libet aveva detto. Decise di muovere il polso tenendo a mente la posizione del punto verde. Libet le chiese dove si trovava in quel momento e annotò la risposta. Tutto esaltato, guardò poi i suoi due misuratori. Il cambio di tensione registrato dall'elettrodo fissato al polso gli indicò l'istante preciso del movimento della mano. Gli elettrodi attaccati alla testa gli mostrarono, a livello del cervello, la disponibilità ad agire. Qual era stata dunque la sequenza temporale? Prima si era fatto sentire l'elettrodo sulla testa, mezzo secondo più tardi c'era stato il momento indicato dalla paziente, con riferimento all'orologio, come attimo della sua decisione, e più o meno 0,2 secondi più tardi la mano si era mossa. Libet era eccitatissimo. La paziente si era decisa mezzo secondo prima di essere a conoscenza della propria decisione. Il riflesso  preconscio di volere o di fare qualcosa è più rapido dell'azione consapevole. Si può dunque dire che il cervello fa scattare dei processi volitivi prima ancora che l'uomo si renda conto di questa volontà? E se è così, questo dato non sancisce al tempo stesso la fine dell'idea filosofica del «libero arbitrio»?”(148-149)

La negazione del “libero arbitrio” ha, nel pensiero di Nietzsche, un significato che si potrebbe definire strategico. E’ sul libero arbitrio infatti che si fondano infatti le leggi, che fanno capo alla responsabilità personale, e i sistemi morali, che implicano la capacità di distinguere tra bene e male. Prima ancora di porre in discussione questi ultimi, Nietzsche, negando il libero arbitrio, ne invalida la loro pertinenza. Se anche si desse la possibilità di definire ciò che è bene e ciò che è male, il determinismo comportamentale, che discende dal fatto che l’uomo è spinto ad agire da impulsi profondi che sfuggono del tutto al suo controllo, renderebbe impossibile definire un uomo buono e un altro cattivo.

Ma, secondo Nietzsche, neppure quella possibilità sussiste.

La coscienza che mistifica

Come si è visto, Nietzsche avanza la “supposizione che la coscienza si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione, - che inizialmente la sua utilità fosse limitata ai rapporti tra uomo e uomo (in particolare tra chi comandava e chi ubbidiva) e che si sia sviluppata anche in rapporto al grado di questa utilità.”

Anche questa ipotesi si può ritenere straordinaria, tanto più se si considera il fatto che ancora oggi le neuroscienze, che pure hanno assunto il problema della coscienza come centrale, non sono riuscite ancora a recepirla. In un articolo dedicata all’ottica miope delle neuroscienze contemporanee, ho scritto a riguardo:

“C'è un difetto di fondo nelle neuroscienze quando esse affrontano il problema delle funzioni psichiche superiori: quello di considerarle espressive dell'attività di un cervello isolato. Si tratta di un difetto sorprendente se si tiene conto del fatto che molti neuroscienziati sono convinti che il salto dall'attività mentale degli animali superiori a quella umana sia dovuta al linguaggio. Certo, ogni uomo è dotato della capacità di apprendere una lingua e di usarla per esprimere i suoi contenuti psichici, casomai anche creativamente. Ma questa potenzialità in tanto si realizza e consente di parlare in quanto il soggetto è immerso in un ambiente sociale. Abbandonato a se stesso, un infante non sviluppa alcuna funzione psichica superiore rispetto agli animali.

Si dirà: il linguaggio è trasmesso attraverso la catena delle generazioni, ma all'inizio qualcuno deve averlo "inventato". E' ovvio, ma l'invenzione non è riconducibile ad un uomo ma ad un gruppo di uomini. Il linguaggio è una convenzione sociale, postula l'accordo di più persone nell'assegnare ad un determinato significante un determinato significato. Il linguaggio è dunque una funzione che emerge non solo dalla complessità strutturale di un organo ma anche in conseguenza di un'esperienza sociale.

Sembra una banalità, e invece è un nodo di fondo epistemologico. Un cervello isolato, quello a cui fanno riferimento i neuroscienziati per risolvere il problema delle funzioni psichiche superiori, è un'astrazione: non esiste, e se esistesse sarebbe un cervello dotato di potenzialità inespresse e, forse, atrofizzate. Un cervello strutturalmente umano, ma funzionalmente infraumano.

Il misteri della coscienza, del linguaggio, del pensiero, delle emozioni, della memoria non potranno mai essere risolti prescindendo dall'esperienza sociale e da quella culturale.”

Le origini sociali della coscienza rappresentano, però, per Nietzsche la causa del fatto che, già tendente per conto suo alla mistificazione (sulla base della presunta unità e padronanza dell’io), si cala costantemente in una rete di inganni promossi dall’interazione sociale.

La tendenza della coscienza umana ad ingannarsi ha secondo Nietzsche tre matrici. La prima è da ricondurre al fatto che essa si rapporta ai contenuti del mondo interiore così come fa con quelli del mondo esterno: prendendoli immediatamente per buoni:

“113.

Sostengo la fenomenicità anche per il mondo interiore: tutto ciò che ci diventa cosciente è completamente costruito a bella posta, semplificato, schematizzato, spiegato  il processo effettuale della «percezione» interna, l'unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti  e probabilmente pura immaginazione. Questo «apparente mondo interiore» è trattato proprio con le medesime forme e procedure del mondo «esterno». Non ci scontriamo mai con «fatti»: piacere e dispiacere sono fenomeni intellettuali tardi e derivati...

La «causalità» ci sfugge; supporre un immediato collegamento causale fra pensieri, come fa la logica  è frutto della più grossolana e semplicistica osservazione. Fra due pensieri giocano il loro gioco anche tutte le possibili affezioni: ma i movimenti sono troppo repentini, non li riconosciamo, li neghiamo...

Non si verifica mai un «pensare» come lo presuppongono i teorici della conoscenza: questo è una finzione affatto arbitraria, conseguita con l'isolamento dal processo di un unico elemento e con la sottrazione di tutti i rimanenti, una costruzione artificiosa volta a permettere la comprensione…” (ABM)

La seconda matrice è la tendenza alla semplificazione:

“O sancta simplicitas! In quale strana semplificazione e falsificazione vive l'uomo! Non si finisce mai di meravigliarsi quando si è assistito ad un tale prodigio! Come abbiamo reso chiaro e libero e facile e semplice tutto quanto ci circonda! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un lasciapassare per tutto ciò che è superficiale e al nostro pensiero una divina avidità di salti spavaldi e di paralogismi!  come abbiamo imparato fin dall'inizio a conservarci la nostra ignoranza, per godere di una libertà, una sicurezza, una imprudenza, una risolutezza, una serenità di vita appena concepibili, per godere della vita! E solo su questo fondo di ignoranza ormai saldo e granitico ha potuto erigersi finora la scienza; la volontà di sapere sulla base di una volontà molto più potente, della volontà di non sapere, di incertezza, di non-verità! Non come suo contrario, ma  come suo perfezionamento!” (ABM)

“La forza dello spirito nell'appropriarsi di ciò che gli è estraneo si manifesta in una vigorosa tendenza a rendere il nuovo uguale al vecchio, a semplificare il molteplice, a ignorare o spingere da parte ciò che è completamente contraddittorio: esattamente come essa sottolinea arbitrariamente e con maggior forza determinati tratti e linee in ciò che le è estraneo, in ogni frammento di «mondo esterno» e li mette in evidenza e li falsifica a proprio vantaggio. Facendo ciò essa tende a incorporare nuove «esperienze», a inserire nuove cose in vecchi ordini  dunque alla crescita; o più precisamente, alla sensazione della crescita, alla sensazione della forza aumentata.”(ABM)

“L'uomo, un animale complesso, menzognero, artificioso e impenetrabile, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia e l'accortezza, ha inventato la buona coscienza, per godere, per una volta, la semplicità della propria anima.” (ABM)

In terzo luogo, Nietzsche intuisce prima di Freud l’esistenza della repressione e della rimozione:

“Esiste un'umiltà disdicevole e niente affatto rara per cui chi la possiede non sarà mai capace di diventare un seguace della conoscenza. Ovvero: nel preciso istante in cui una persona di questo tipo percepisce qualcosa di sorprendente, volta le spalle e si dice: «Ti sei ingannato! Dov'erano mai i tuoi sensi! Questa non può essere la verità!» e quindi, invece di guardare e ascoltare più attentamente, corre via da quella cosa sorprendente più alla svelta che può, cercando di cacciarsela di testa. Il suo canone interiore recita, infatti: «Non voglio vedere niente che contraddica l'opinione comune sulle cose! Sono forse fatto per scoprire nuove verità? Quelle vecchie sono anche troppe».”  (GS)

“Chi ha guardato profondamente nel mondo indovina bene quale saggezza vi sia, nella superficialità degli uomini. L'istinto di conservazione insegna loro ad essere mutevoli, leggeri e falsi” (ABM)

“La forma più comune di menzogna è quella che si fa a sé stessi: mentire agli altri è relativamente eccezionale. Ora questo non voler vedere ciò che si vede, questo non voler vedere qualcosa così come si vede, costituisce la condizione primaria di tutti coloro che appartengono in qualche modo a questo o quel partito: l'uomo di partito è necessariamente un bugiardo.” (AC)

“Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante.”

I motivi per cui la coscienza umana tende ad ingannarsi sono stati già accennati. In Schopenhauer come educatore, Nietzsche li esprime in forma sintetica e oserei dire perfetta:

“5.

Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che le più vaste imprese della nostra vita vengono realizzate solo per sfuggire al nostro vero compito, e che volentieri nasconderemmo da qualche parte la nostra testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse coglierci; che, frettolosamente, doniamo il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla socievolezza o alla scienza soltanto per non possederlo più, e che ci abbandoniamo al pesante lavoro quotidiano con più impeto e sconsideratezza di quanto non sia necessario per vivere: perché ci sembra più necessario non giungere alla riflessione. Generale è la fretta perché ciascuno è in fuga da se stesso, generale è anche il pavido nascondere questa fretta, perché si vorrebbe apparire contenti e ingannare gli osservatori più acuti circa la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole, adornata delle quali la vita dovrebbe ricevere un po' di clamore e solennità. Ognuno di noi conosce quella particolare condizione in cui, improvvisamente, ricordi spiacevoli si affollano e noi ci sforziamo, con gesti e suoni violenti, di scacciarli dalla mente: ma i gesti e i suoni della vita comune lasciano indovinare che noi tutti ci troviamo sempre in una condizione del genere, nel timore del ricordo e dell'interiorizzazione.

Ma cos'è che ci aggredisce così spesso, quale zanzara non ci lascia dormire? Intorno a noi c'è un'atmosfera spettrale, ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma noi non vogliamo ascoltare queste voci di fantasmi. Temiamo, quando siamo soli e in silenzio, che qualcosa ci venga bisbigliato all'orecchio e così odiamo il silenzio e ci stordiamo con la vita in società. Di tanto in tanto, come ho detto, capiamo tutto questo e ci meravigliamo molto di tutta la vertiginosa paura e furia, di tutta la condizione di sogno della nostra vita, che sembra aver orrore del risveglio e che sogna con tanta più vivacità e inquietudine quanto più si avvicina a questo risveglio. Ma allo stesso tempo sentiamo di essere troppo deboli per sopportare a lungo quei momenti del più profondo raccoglimento e di non essere mai quegli uomini, verso cui tutta la natura tende per la sua redenzione; già è molto se, in qualche modo, riusciamo a emergere un po' con la testa e ci accorgiamo in quale corrente siamo profondamente immersi.”

La tendenza della coscienza a lasciarsi ingannare, a farsi influenzare dall’ambiente sociale - aspetto su cui torneremo ulteriormente - si riconduce alla trasmissione di convinzioni, opinioni, valori, ecc. di padre in figlio:

“Ogni convinzione ha la sua storia, le sue forme originarie, i suoi tentativi, i suoi errori: diviene convinzione dopo che non è stata tale per lungo tempo e dopo che per un periodo ancora più lungo è stata tale a stento. Come? La menzogna non potrebbe trovarsi sotto tale forma embrionale di convinzione? Talvolta è necessario solo un cambiamento di persone: per il figlio diventa convinzione ciò che per il padre era ancora menzogna. Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante.” (AC)

Nietzsche e Freud

Tenendo conto di affermazioni del genere, non è sorprendente che Nietzsche sia stato considerato un precursore di Freud e della psicoanalisi.

Di fatto, il problema di chi ha “scoperto” l’inconscio nell’ambito della storia dell’Occidente è ancora aperto. Si fa riferimento, di volta in volta, a Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, Freud.

L’influenza di Nietzsche su Freud è al di là di ogni possibile dubbio. Freud legge Nietzsche sin dalla giovinezza, e mantiene un costante interesse per la sua opera. La tendenza della coscienza umana alla rimozione (a non voler vedere ciò che si ha sotto gli occhi) come pure alla sublimazione (a trasformare in qualcosa di elevato ciò che ha origini istintuali) sono di sicuro derivati nietzscheani.

Anche la teoria delle pulsioni di Freud si può ritenere intimamente affine alla volontà di potenza di Nietzsche. Si dà però a riguardo una rilevante differenza. Le pulsioni di Freud infatti sono un’eredità animalesca incompatibile con la vita civile, per cui esse vanno contenute e represse dalla civiltà. Nietzsche, viceversa, ritiene che la volontà di potenza sia la parte più sana, più vitale, più dionisiaca della natura umana.

Se la scoperta dell’inconscio da parte di Freud, dunque, non si può ritenere originale, rimane pur sempre vero che, al di là di essa, egli ha assunto l’inconscio come un oggetto scientifico e ha illustrato i meccanismi difensivi che consentono alla coscienza di mantenere uno statuto mistificato con una profondità e una precisione molto maggiore rispetto a Nietzsche.

Occorre, peraltro, fare un’osservazione importante. La scoperta dell’inconscio è una cosa, la definizione della sua natura e della sua struttura un’altra. Sia Nietzsche che Freud non hanno dubbi sul fatto che esso, nella sua essenza, rappresenti l’espressione di un’eredità animale, e che quindi sia sostanzialmente il depositario di una bagaglio istintuale (pure diversamente qualificato), che nell’uomo ha acquisito un’intensità del tutto particolare.

Alla luce di ciò che oggi si sa della natura umana e del cervello, si può ritenere questo assunto fondamentalmente errato. L’uomo nasce, infatti, sulla base della neotenia, che prolunga in maniera rilevante la fase evolutiva della personalità e residua nell’adulto sotto forma di plasticità cerebrale. Nella misura in cui la neotenia comporta un’apertura all’apprendimento di gran lunga superiore ad ogni altro animale, essa ha dato luogo ad un critico allentamento del patrimonio istintuale, al punto che, come scrive Gehlen, l’uomo è l’essere carente e sprovvisto per eccellenza di moduli comportamentali automatici.

La neotenia, peraltro, coincide anche con la comparsa di un’empatia di grande intensità, fondamentale al fine di definire uno stretto e duraturo legame del bambino con il mondo degli adulti, funzionale a promuovere la trasmissione della cultura.

Il quadro dell’uomo, come emerge oggi dalle neuroscienze e dagli studi di psicologia evolutiva, è profondamente diverso da quello descritto da Nietzsche e da Freud, che, a posteriori, appare fortemente influenzato da un’epoca storica contrassegnata dal darwinismo sociale e dall’Imperialismo.

Ciò nondimeno, se i presupposti ideologici che sottendono la concezione di Nietzsche e di Freud dell’inconscio - vale a dire il riferimento all’esistenza rispettivamente della volontà di potenza o delle pulsioni  - oggi non sono convalidabili, la scoperta della tendenza costante della coscienza umana alla mistificazione rimane del tutto valida.

Il problema, ovviamente, è come interpretarla. Nietzsche ha del tutto ragione laddove afferma che la coscienza si inganna e si lascia ingannare dalla cultura perché l’uomo ha bisogno di tenersi al riparo dalla consapevolezza della sua dimensione esistenziale, che è quella di un essere vulnerabile, precario, finito e destinato a finire, quindi oggettivamente del tutto insignificante nell’economia dell’Universo.

Per spiegare la tendenza alla mistificazione della coscienza umana il riferimento ai contenuti esistenziali ansiogeni, però, non basta.

In una Conferenza (Mistificazione e Demistificazione) ho scritto:

“La teoria della rimozione - scrive Freud - è la pietra angolare su cui poggia tutto l'edificio della psicanalisi. In quanto processo psichico universale la rimozione sarebbe all’origine della costituzione dell’inconscio come campo separato dalla coscienza.

A Freud va il merito indubbio di avere scoperto, oltre alla rimozione, un certo numero di meccanismi che mantengono l’Io al riparo da alcuni aspetti di sé che egli non tollera, non vuole riconoscere, di cui ha paura o ritiene poco o punto compatibili con l’immagine cosciente che ha di sé. La storia della psicoanalisi ne ha aggiunto degli altri. Attualmente i trattati di psicoanalisi riportano come meccanismi difensivi i seguenti (in ordine alfabetico):

Annullamento retroattivo, Conversione, Conversione nell’opposto, Diniego (della realtà), Formazione reattiva, Idealizzazione, Identificazione, Identificazione con l’aggressore, Identificazione proiettiva, Introiezione, Isolamento, Negazione, Preclusione, Proiezione, Razionalizzazione, Regressione, Repressione, Riflessione sulla propria persona, Riparazione, Scissione dell’Io, Scissione dell’oggetto, Spostamento.

Non è opportuno inoltraci in un’analisi tecnica di questi meccanismi. Basterà dire che i più importanti, in quanto facilmente reperibili in ogni esperienza soggettiva, sono la rimozione, la proiezione, la conversione, la negazione e la razionalizzazione. La rimozione mantiene i contenuti psichici “sgradevoli” nel “cestino” dell’inconscio, la proiezione li sposta nell’ambiente esterno, la conversione li esprime attraverso il corpo. Quando ciò non basta, il soggetto, se si trova di fronte ad un contenuto psichico o ad un comportamento incompatibile con l’immagine che ha di sé, può semplicemente negare che gli appartenga o razionalizzarlo, giustificandolo in qualche modo...

Posto, dunque, che i meccanismi difensivi esistono indubbiamente, c’è ancora oggi da chiedersi da cosa l’uomo ha bisogno di difendersi.

Una prima risposta di ordine generale, del tutto estranea al pensiero freudiano, è che l’uomo si difende dall’inquietudine dovuta alla complessità del suo essere e del mondo, dall’intuizione di convivere con un flusso ridondante di pensieri ed emozioni, dai dubbi perpetui su un’identità sottesa da parti diverse e contraddittorie tra loro; in altri termini, si difende dalla percezione di una caoticità che non ha nulla a che vedere con le pulsioni, essendo riconducibile alla struttura stessa del cervello e della mente.

L’Io cosciente ha un bisogno radicale di unità, di coesione e di continuità nel tempo, che è stato definito giustamente “coazione alla sintesi”. In nome di questo bisogno unitario, che concorre a dare un senso di stabilità all’identità personale, ogni soggetto è letteralmente costretto a sovrapporre alla sua realtà interiore, che comporta parti diverse e in qualche misura scisse, un’immagine almeno minimamente coerente, che lo tranquillizza e soprattutto lo fa sentire “normale”.

La mistificazione sarebbe anzitutto l’espressione universale del bisogno di un soggetto di assimilare la propria immagine ad un modello normativo socialmente convalidato.

In questa ottica, riesce chiaro che un certo grado di mistificazione è fisiologico nel corso dell’evoluzione della personalità allorché il soggetto deve rispondere alle aspettative sociali dei genitori e degli educatori.

Nella tarda adolescenza e al di là della fase evolutiva dovrebbe avviarsi un processo lento e graduale di demistificazione o autenticazione. Per motivi sociali, culturali e soggettivi, tale processo, però, che richiede determinati strumenti cognitivi e una grande fatica, raramente si realizza.

Ciò significa che, in linea generale, lo scarto tra l’immagine che l’Io ha di sé e la sua personalità profonda è sempre piuttosto rilevante, e compensato dall’immagine sociale che si attesta sul registro della normalità apparente.

Se le cose stanno così, è difficile non arrivare immediatamente alla conclusione che i meccanismi di difesa sono più attivi laddove, a livello cosciente, la complessità non affiora, le contraddizioni sono represse, proiettate, negate, annullate, ecc. e i dubbi esistenziali sembrano non avere alcun peso: nei cosiddetti “normali”, insomma.

Saldamente attestato sulla difesa della normalità, nonostante abbia fornito egli stesso criteri tali da vanificare il rigido confine tra normalità e “anormalità”, Freud non è mai giunto ad una conclusione del genere, che, dopo Fromm e l’antipsichiatria, invece sembra imporsi.

L’antologia della normalità “folle”, in quanto fondata prevalentemente su meccanismi di mistificazione, potrebbe effettivamente occupare un’intera enciclopedia.

La scissione tra buono e cattivo, apprezzabile e spregevole, normale e anormale (o deviante), noi e loro, associata alla proiezione, è la matrice dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia, del pregiudizio verso i malati di mente e i piccoli criminali, che comporta la proiezione su tutti gli estranei e i diversi di tutte le parti negative di sé.

La messa in atto sottende la vita di molte persone la cui frenetica iperattività, portata avanti per il bene della famiglia, serve ad impedire al soggetto di stare un minuto solo con se stesso.

La rimozione fa sì che le persone si sentono in media buone e sensibili, perché rimuovono e negano le conseguenze dei loro comportamenti a carico degli altri. Confondono, in media, la sensibilità con la suscettibilità narcisistica, che li porta a reagire emotivamente con violenza a comportamenti subiti che essi agiscono tranquillamente a carico degli altri.

La negazione induce numerosi soggetti a sostenere di non avere detto e fatto ciò che hanno detto e hanno fatto, a protestare di essere stato fraintesi o a giustificare con le più varie motivazioni (spesso prive di fondamento) i loro comportamenti.

La formazione reattiva trasforma in individui ipercontrollati, compiti e socialmente inappuntabili, soggetti che nell’ambito della privacy domestica sono impulsivi, irascibili, aggressivi e talora sadici.

La “normale follia” oscilla, insomma, tra inganno e mistificazione.

I “normali” utilizzano i meccanismi di difesa per mantenere, ai loro occhi e a quelli degli altri, un’immagine di sé, che spesso è scollata dai loro comportamenti. Lo fanno solitamente in buona fede, sollecitati da esigenze soggettive ma anche dalla pressione normativa del gruppo, realizzando, in genere, quel modello di personalità che Fromm ha definito strutturalmente deficitaria: integrata nella società, in qualche misura efficiente nell’adempimento dei ruoli, ma anche rattrappita dal non uso di potenzialità evolutive.

I meccanismi di difesa che essi adottano sono tutti ego-sintonici, vale a dire soddisfano l’esigenza dell’Io di pensare di essere quello che desidera essere e che, molto spesso, corrisponde ai codici normativi vigenti nella società. Le difese concorrono a mantenere un livello spesso elevato di autostima, di sicurezza, di spigliatezza, di convinzione nel proprio valore che, di fatto, è poco giustificato.”

Questa interpretazione, se contesta l’ipotesi della volontà di potenza di Nietzsche come pulsione primaria, lasciando pensare che nell’inconscio umano il bisogno più profondamente radicato sia quello di appartenere ad un sistema sociale e di essere riconosciuto dagli altri, appare più adeguata di qualunque altra a valorizzare il tragitto di demistificazione di Nietzsche che, al di là della critica della coscienza e della volontà libera, verte sulla profonda influenza che la società esercita sull’individuo facendo leva sull’istinto gregario. Quella influenza, infatti, come si ricorderà, Nietzsche l’ha sperimentata drammaticamente nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza.

Il suo disprezzo nei confronti dell’istinto gregario è in gran parte una conseguenza di quella esperienza. Ciò nondimeno, la critica di Nietzsche alla cultura normalizzate e omologante appare ancora oggi densa di significato.

Essa ha rappresentato e rappresenta il fondamento di una rivoluzione culturale destinata a portare l'uomo a convivere criticamente con una coscienza che funziona, spontaneamente e per effetto del senso comune, come una fabbrica di certezze.


 

Lettura IV

Dal crollo dei valori al Nichilismo positivo
“L'uom

“L'uomo moderno crede in modo sperimentale ora in questo, ora in quel valore e poi lo lascia decadere: la sfera dei valori superati e decaduti diventa sempre più grande; si sente sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile benché sia stata tentata in grande stile la decelerazione.

Alla fine egli tenta una critica dei valori in generale; ne conosce l'origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido...

Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli...”                                                                                                                                                                              La volontà di potenza

                                                                 

o m La volontà di potenza
 
Indice
Normalità e Devianza
La critica della morale e del costume
Mentalità, Super-Io e neuroni specchio
Nietzsche, l’Anticristo
Il pensiero politico di Nietzsche
Il Nichilismo attivo e il Superuomo

Normalità e Devianza

La conferenza precedente si è conclusa rilevando il ruolo di Nietzsche come precursore della psicoanalisi freudiana. Occorre però tenere conto di una differenza oltremodo importante tra Nietzsche e Freud: la valutazione radicalmente diversa che essi danno di ciò che giace al fondo della mente come espressione dell’evoluzione naturale (alla quale credono entrambi, anche se nessuno dei due sembra avere letto attentamente L’origine dell’uomo di Darwin), vale a dire una spinta motivazionale che Nietzsche definisce volontà di potenza e Freud riconduce alle pulsioni.

Per Nietzsche, tale spinta è fondamentale nel promuovere l’affermazione dell’individuo e la sua realizzazione al di là dei vincoli posti dall’istinto del gregge.

Per Freud, come vedremo nel prossimo ciclo di conferenze, essa, che ha un carattere primitivo, selvaggio e malvagio, è un pericolo permanente per per il buon vivere civile, che, attraverso i diversi dispositivi di controllo sociale, deve in ogni modo reprimerla e contenerla.

Freud, insomma, difende la Civiltà (occidentale); Nietzsche, viceversa, intende abbatterla dalle fondamenta. Nell'ottica nietzschiana del rovesciamento degli idoli, la normalità corrente, che è il prodotto della "civilizzazione" dell'individuo, è una pavida rinuncia ad accettare la sfida della Natura, mentre la devianza, comunque essa si esprima, implica un’accettazione di questa sfida.

In ogni caso, sia assoggettato all’istinto del gregge o agito dalla volontà di potenza, l’uomo, per Nietzsche, non è libero perché il suo comportamento è la risultante delle diverse motivazioni che egli alberga, che fanno capo all’intera vicenda del singolo soggetto nella sua interazione con il mondo. In quanto tale esso è determinato, necessario, fatale quindi non imputabile.

La negazione del libero arbitrio ha un significato fondamentale nel pensiero di Nietzsche. Essa infatti rappresenta il presupposto dello scopo che più di ogni altro gli interessa: liberare l’umanità dai sensi di colpa, vale a dire dal terribile fardello prodotto dall’interiorizzazione del controllo sociale e dei codici normativi in virtù dei quali il gruppo pretende di “addomesticare” il singolo individuo subordinandolo alle sue esigenze.

Tale scopo, ritenuto essenziale per restituire all'umanità la capacità di coltivare la libertà sulla quale incombono incubi moralistici e vincoli sociali, riconosce, come in tutta l'opera di Nietzsche, una motivazione soggettiva inconscia. Una serie di indizi, tra cui le ricorrenti depressioni che esitano nella catastrofe psichica finale, attestano che egli è stato letteralmente perseguitato dai sensi di colpa.

Non insisterò su questo aspetto. Si tratta di valutare, al di là di esso, l'incidenza del pensiero nietzschiano sul problema ancora attuale della Normalità e della Devianza.

Nietzsche naturalmente non ignora la distinzione che si dà tra devianza intesa in senso generale e criminalità. Riguardo a quest’ultima, però, le sue idee sono estremamente originali (fin troppo, come vedremo). Nietzsche, infatti, contesta l’esistenza del libero arbitrio e, di conseguenza, il diritto della società di punire il criminale sulla base della sua responsabilità personale:

"102. «L’uomo agisce sempre bene.» - Noi non accusiamo la natura di immoralità quando ci manda un temporale e ci fa bagnare: perché chiamiamo immorale l’uomo che fa il male? Perché in questo caso supponiamo una volontà libera, dominatrice nel suo arbitrio, e nell’altro, invece, una necessità. Ma questa distinzione è un errore. Inoltre: neppur il far del male volontariamente, noi lo chiamiamo sempre immorale; ad esempio, si uccide una zanzara intenzionalmente e senza esitazione, perché il suo ronzio ci infastidisce, si punisce il delinquente intenzionalmente e gli si fa del male per proteggere noi e la società. Nel primo caso è l’individuo che, per conservarsi o anche per non procurarsi un dolore, fa intenzionalmente del male; nel secondo caso è lo Stato. Ogni morale ammette che si arrechi danno volontariamente in caso di legittima difesa: cioè quando si tratta della propria conservazione. Ma questi due punti di vista bastano a spiegare tutte le cattive azioni che l’uomo commette contro l’uomo: si vuole il nostro piacere o si vuole allontanare il dolore; in certo qual modo si tratta pur sempre della nostra conservazione. Socrate e Platone hanno ragione: qualunque cosa faccia, l’uomo fa sempre il bene, ossia: ciò che gli sembra buono (utile), a seconda del livello del suo intelletto e del grado di volta in volta raggiunto dalla sua razionalità.” (UTU)

Alla luce del determinismo inconscio, Dissidenza, Devianza, Trasgressione, De-linquenza sono termini accomunati dal riferimento a comportamenti in opposizione ad una Norma. E' questa, secondo Nietzsche, con i suoi meccanismi di controllo sociale, a produrre la Devianza.

Nietzsche intuisce che lo Stato, avocando a se stesso l’esercizio della violenza punitiva, ha cercato di sormontare la legge del taglione, della vendetta privata. Egli pensa però che, nella misura in cui esso realizza la vendetta infliggendo al colpevole una pena afflittiva, esercita una ingiusta prepotenza perché la punizione si fonda sull’attribuzione al criminale di un libero arbitrio che egli di fatto non ha.

La concezione che Nietzsche ha del comportamento umano è sostanzialmente deterministica. Egli non intende negare che, nel momento in cui il criminale commette un reato, possa sapere che sta violando la legge. La tendenza a delinquere, però, si riconduce, a suo avviso, all’intera storia interiore del soggetto e fa capo ad una serie indefinita di motivazioni inconsce per cui, nonostante quella consapevolezza, il delinquente non può agire in altro modo. Egli dunque è responsabile oggettivamente dell’azione che compie, ma non soggettivamente. Punirlo, tanto più se il significato della pena è afflittivo, è dunque un’ingiustizia legalizzata.

L'inesistenza del libero arbitrio porta, dunque, Nietzsche a contestare la pertinenza del concetto di imputabilità:

“Quel pensiero oggi così a buon mercato e apparentemente così naturale e inevitabile, cui si è sempre dovuto far ricorso per spiegare come si è originato sulla terra il sentimento della giustizia, il pensiero cioè che «il delinquente merita di essere punito perché avrebbe potuto agire diversamente», è [...] una forma assolutamente tarda, anzi raffinata del giudicare e del dedurre umano.” (GM)

“23.

I seguaci della teoria della volontà libera hanno il diritto di punire? Gli uomini che per professione giudicano e puniscono, cercano in ogni caso di stabilire se un malfattore è in genere responsabile della sua azione, se egli poté adoperare la propria ragione, se egli agi per dei motivi e non inconsciamente o sotto costrizione. Se lo si punisce, si punisce il fatto che egli abbia preferito i motivi cattivi a quelli buoni, che egli dunque deve aver conosciuti. Dove questa conoscenza manca, l'uomo, secondo l'opinione dominante, non è né libero né responsabile: a meno che la sua mancata conoscenza, per esempio la sua ignorantia legis, non sia conseguenza di disinformazione volontaria; allora egli, già quando non ha voluta informarsi sui propri doveri, ha preferito i motivi cattivi ai buoni e deve ora scontare le conseguenze della sua cattiva scelta. Se egli invece non ha visto i motivi buoni, per esempio per ebetismo e idiozia, non si suole punirlo: gli è mancata, come si dice, la scelta, egli ha agito come animale. Il rinnegamento intenzionale della ragione migliore è oggi la presupposizione che si fa per il delitto passibile di pena.

Ma come può uno essere intenzionalmente più irragionevole di quanto non debba essere? Da dove viene la decisione, se i piatti della bilancia sono carichi di motivi buoni e cattivi? Certo non viene dall'errore, dalla cecità, non da una costrizione esterna, e neanche da una costrizione interna. (Si consideri del resto che ogni cosiddetta «costrizione esterna» non è nient'altro che la costrizione intima della paura e del dolore). Da dove? si chiede sempre di nuovo. La ragione dunque non sarebbe la causa, perché essa non potrebbe decidersi contro i motivi migliori?

Qui ora si chiama in aiuto la «volontà libera»: sarebbe il completo arbitrio a decidere, sopravverrebbe un momento, in cui nessun motivo agisce, in cui l'azione accade come un miracolo, sorgendo dal niente. Si punisce questa pretesa arbitrarietà in un caso in cui nessun arbitrio dovrebbe dominare: la ragione, che conosce la legge, il divieto e il comandamento, non avrebbe dovuto lasciare nessuna scelta, si dice, e avrebbe dovuto agire come costrizione e come forza superiore.

Il delinquente viene quindi punito perché fa uso della «volontà libera», vale a dire perché ha agito senza motivo, dove avrebbe dovuto agire in base a motivi. Ma perché ha fatto ciò? Ciò appunto non è lecito neanche più chiederlo: fu un'azione senza «per questo», senza motivo, senza origine, qualcosa senza scopo e senza ragione. - Ma, per la prima condizione di ogni colpevolezza sopra prevista, non si dovrebbe neanche punire un'azione simile! Neppure si può far valere l'altra specie di colpevolezza, come se qui qualcosa non fosse stato fatto, come se qualcosa fosse stato omesso, come se della ragione non si fosse fatto uso: giacché in ogni caso l'omissione avvenne senza intenzione! e solo l'omissione intenzionale di ciò che è comandato è considerata punibile.

Il delinquente ha sì preferito i motivi cattivi ai buoni, ma senza motivo e intenzione: egli non ha, è vero, adoperato la sua ragione, ma non per non adoperarla. Quella presupposizione, che si fa per il delitto passibile di pena, che egli abbia intenzionalmente rinnegato la propria ragione, - proprio essa è, se si ammette la «volontà libera», eliminata. Voi non avete il diritto di punire, voi seguaci della teoria della «volontà libera», in base ai vostri stessi principi! - Ma questi in fondo non sono altro che un'assai stravagante mitologia concettuale; è la gallina che li ha covati, si è seduta sulle sue uova in disparte da ogni realtà.” (GS)

“24.

Per giudicare il delinquente e il suo giudice. Il delinquente, che conosce l'intero flusso delle circostanze, non trova la sua azione così fuori dell'ordine e della comprensibilità come i suoi giudici e biasimatori; ma la sua pena gli viene commisurata proprio in base al grado di stupore, da cui quelli sono còlti alla vista dell'azione come di una cosa incomprensibile. - Se la conoscenza che il difensore di un delinquente ha del caso e dei suoi precedenti arriva abbastanza lontano, le cosiddette circostanze attenuanti, che egli espone nell'ordine, devono finire col cancellare completamente la colpa. O, ancora più chiaramente: il difensore attenuerà progressivamente e da ultimo annullerà totalmente quello stupore che condanna e commisura la pena, costringendo ogni ascoltatore onesto all'intima confessione: «egli ha dovuto agire come ha agito; se noi punissimo, puniremmo l'eterna necessità». - Misurare il grado della pena in base al grado di conoscenza che si ha o che in genere si può acquistare della storia di un delitto, non cozza ciò contro ogni equità?” (GS)

Ma se il delinquente non è libero, e quindi capace di agire diversamente da come agisce, cosa deve fare la Società laddove si confronta con un crimine? Nietzsche fornisce una risposta assolutamente sorprendente e "utopistica":

“Una comunità, acquistata maggior potenza, non prende più tanto sul serio le trasgressioni del singolo, perché esse non possono più essere considerate, come per l'innanzi, così pericolose e eversive per l'esistenza del tutto: il trasgressore non viene più «messo al bando» e escluso, la collera generale non può più scatenarsi contro di lui sfrenatamente come prima anzi al contrario, a partire da quel momento, il malfattore sarà accuratamente protetto e difeso dalla comunità contro questa collera e particolarmente contro quella di coloro che sono stati direttamente danneggiati.

Il compromesso con la collera di coloro che sono stati più di tutti colpiti dalla cattiva azione; uno sforzo per localizzare il caso e prevenire una più estesa o anzi generale partecipazione e stato di ansia; tentativi di trovare degli equivalenti e di sistemare tutta l'azione (la compositio); prima di tutto la volontà, che si fa strada con sempre maggiore decisione, di ritenere ogni trasgressione in qualche modo compensabile col denaro, cioè di isolare, per lo meno in una qualche misura, il delinquente dalla sua azione ecco i tratti che si sono impressi sempre più chiaramente sull'ulteriore sviluppo del diritto penale.

Se la forza e l'autocoscienza di una comunità crescono, anche il diritto penale si addolcisce, ogni indebolimento e ogni più profondo stato di pericolo porta di nuovo alla luce forme più dure di questo. Il «creditore» si è fatto sempre più umano a misura che la sua ricchezza aumentava: alla fine misura stessa della sua ricchezza è diventata la sua capacità di sopportare dei danni senza soffrirne. Non sarebbe inconcepibile una consapevolezza di forza da parte della società, per cui essa potesse concedersi il lusso più aristocratico possibile lasciare impuniti coloro che le arrecano pregiudizio. «Che cosa mi importa dei miei parassiti?» potrebbe dire. «Vivano pure e prosperino: sono ancora abbastanza forte da permettermelo! »... La giustizia, che era cominciata con il «tutto è compensabile col denaro, tutto deve essere compensato col denaro», finisce per chiudere un occhio e lasciar andare gli insolventi; finisce, come ogni cosa buona sulla terra, per annullare se stessa. Questo autoannullamento della giustizia: si sa bene con quale bel nome viene chiamato - grazia; essa resta, come è ovvio, prerogativa del più potente, meglio ancora, il suo al di là del diritto.” (GM)

E’ evidente che se il pensiero di Nietzsche è per tanti aspetti in opposizione al senso comune e allo stato esistente di cose, lo è massimamente in rapporto al problema della criminalità, la cui repressione da secoli rappresenta uno degli assi portanti della civiltà borghese. E’ inutile sottolineare l’incidenza che tale problema ha nel nostro mondo, laddove lo spostamento dell’elettorato europeo verso il centro-destra riconosce tra i suoi motivi principali la sicurezza, vale a dire la lotta alla criminalità.

A sua insaputa, Nietzsche giunge a conclusioni che non sono molto diverse da quelle cui è giunto Marx. Ne Il crepuscolo degli idoli egli scrive:

“Il tipo del delinquente è il tipo dell'uomo forte in condizioni avverse, un uomo forte reso malato. Gli mancano i luoghi selvaggi, una certa natura e una forma di esistenza più libera e pericolosa, in cui sia legittimo tutto ciò che nell'istinto dell'uomo forte è arma e difesa. Le sue virtù sono messe al bando dalla società; gli impulsi più vivi che egli ha ancora con sé, presto si deformano a contatto di affetti deprimenti, del sospetto, del timore, del disonore. Ma questa è press'a poco la ricetta della degenerazione fisiologica. Chi deve fare di nascosto, con lunga tensione, cautela, astuzia, le cose che sa far meglio, le cose che farebbe più volentieri, diventa anemico; e poiché dai suoi istinti egli miete solo pericolo, persecuzione, sciagura, anche il suo sentimento verso questi istinti si stravolge  li sente come una fatalità.

E’ la società, la nostra società mansuefatta, mediocre, castrata, il luogo in cui un uomo genuino, che proviene dai monti o dalle avventure sul mare, necessariamente degenera in criminale.” (CI)

Ponendo da parte il riferimento all'uomo forte, Marx avrebbe potuto sottoscrivere una frase del genere.

Certo, i presupposti sono del tutto diversi. Secondo Nietzsche, la devianza dalla norma è la conseguenza dei vincoli eccessivi che la società pone all’espressione della volontà di potenza individuale; secondo Marx, invece, essa fa capo a squilibri socio-economici che impediscono ad un soggetto di rispettare i suoi doveri di appartenenza.

Nietzsche, inoltre, esalta la devianza in tutte le sue forme, assumendola come espressione di un potenziale di individuazione frustrato, che imbocca il canale della trasgressione alla Norma penale, mentre Marx la assume come un indizio di un dramma personale e sociale.

Si tratta, nell’uno e nell’altro caso, di un’impostazione del tutto in contrasto con la coscienza del cittadino medio che, oggi più che mai, rivolge allo Stato una domanda insistente di sicurezza che riguarda essenzialmente i beni patrimoniali, la proprietà (oltre che ovviamente l’integrità fisica). Il cittadino medio, però, non si chiede se la distribuzione squilibrata della ricchezza non sia uno dei fattori che incrementano la criminalità, né se quella distribuzione non si fondi, al di là del merito personale in cui egli crede profondamente, su singolari meccanismi che rendono lecite le speculazioni immobiliari e borsistiche (reati finanziari che sono sostanzialmente “furti” e danneggiano non singole persone ma un numero indefinito di persone), né infine se le motivazioni di protesta in virtù delle quali egli giustifica l’evasione fiscale, come protesta contro l’arbitrio dello Stato che si appropria di ciò che gli appartiene, non siano identiche a quelle del ladro comune.

Quanti cittadini medi, conniventi con un ordine sociale iniquo che essi, con il loro radicale egoismo, alimentano, sono di fatto moralmente responsabili della rabbia sociale che si manifesta sotto forma di attentato alla proprietà? Quanti di essi propongono la pena di morte per i rapinatori occasionali e subiscono, come se fossero una fatalità, le crisi economiche dovute a reati finanziari che rimangono impuniti?

Questo discorso, più marxiano che nietzschiano, può apparire ideologico. In realtà esso è marxiano e nietzschiano perché identifica nella normalità, nell’organizzazione complessiva della società e della cultura, la matrice della devianza.

Sono la morale corrente e il costume, inteso come abitudine e senso comune, a decidere cosa è normale e cosa non lo è, e ad associare alla devianza la colpa e la punizione.

Cosa si può dire oggi a riguardo?

Tra le discipline umane e sociali, la Criminologia è in assoluto quella meno definita, coesa e metodologicamente attrezzata. Le teorie abbondano, da quelle genetiche a quelle sociologiche, ma nessuna ha conseguito uno statuto egemone e, dati i presupposti ideologicamente diversi da cui muovono gli autori, è quasi impossibile prevedere che possano sopravvenire tentativi di integrazione teorica.

Ciò detto, la provocazione di Nietzsche mantiene un valore attuale. Già si è accennato a come il problema del libero arbitrio venga affrontato dalle scienze neurobiologiche contemporanee sulla base di un sospetto sempre più profondo sulla sua pertinenza.

Qui occorre solo aggiungere che le provocazioni di Nietzsche e le riflessioni della neurobiologia urtano contro un ostacolo di grande portata: il riferimento alla responsabilità personale sul comportamento agito che è un presupposto fondamentale dell’ordinamento civile e penale, ed è profondamente radicato nel senso comune.

Ciò che Nietzsche e le scienze contemporanee propongono è un radicale ripensamento a riguardo, ma la cosa sembra di là da venire.

Alcune provocazioni intellettuali, peraltro, hanno tempi molto lunghi di gestazione. Esse, peraltro, spesso, vengono raccolte prima da altri intellettuali e poi, anche se non necessariamente, dall’opinione pubblica.

Tra gli intellettuali che, implicitamente, hanno ripreso il discorso di Nietzsche sulla devianza, occorre ricordare almeno Michel Foucault e il suo straordinario saggio “Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello…”. Si tratta dell’analisi di un orribile delitto avvenuto in Francia nel 1835, che parte dalla memoria scritta dall’assassino stesso prima di suicidarsi (“quaranta pagine di straordinaria bellezza”) e, attraverso tutta la documentazione storicamente disponibile, cerca di ricostruirne le motivazioni e il dibattito cui esso dette luogo tra giuristi e psichiatri.

La penna di Foucault prescinde da qualunque tentazione di analisi psicologica. Egli ricostruisce lo sfondo del delitto - la campagna normanna post-rivoluzionaria che, per effetto dell’avanzante liberalesimo, è divenuta un universo silenzioso di infelicità, frustrazione, violenza -, la storia di una famiglia contrassegnata da una moglie-madre terribilmente tirannica e prevaricatrice (in cui noi non stentiamo a riconoscere l’incarnazione dell’isterica maligna, della donna cioè che si riscatta dal suo ruolo tradizionalmente subordinato all’uomo facendogli la guerra fino al punto di volerlo umiliare), il tenero ed empatico rapporto che il figlio intrattiene con il padre, che lo porta a scrivere:

“Mi sembrò che sarebbe per me una gloria, che mi sarei immortalato morendo per mio padre, mi raffiguravo i guerrieri che morivano per la loro patria e per il loro re ... dicevo tra me: quelli là morivano per sostenere il partito di un uomo che non conoscevano e che neppure li conosceva, che non aveva mai pensato a loro; ed io morirò per liberare un uomo che mi ama e mi predilige…”

L’analisi di Foucault, alla fine, assegna il delitto all’ambito dei comportamenti fatali, che si realizzano cioè per la somma di indefinite variabili storiche, sociali, culturali, familiari, soggettive, ecc. che, nel loro complesso, sembrano non dare scampo all’individuo.

Nietzsche avrebbe condiviso in toto il lavoro di Foucault e, come si evince dal complesso del suo pensiero sulla criminalità, ne avrebbe esteso le conclusioni a tutti i delitti. Senza accordare molto credito al libero arbitrio, si può ritenere che anche a questo livello Nietzsche estremizza e generalizza intuizioni che, comunque, sono vere più spesso di quanto comunemente si ritenga.

E’ quasi superfluo aggiungere che, in conseguenza del significato negativo che associa costantemente alla normalità, Nietzsche si può ritenere un antipsichiatra ante-litteram.

Basta leggere le seguenti citazioni:

“4.

Quale significato ha, sotto l'aspetto fisiologico, quella follia da cui sorse sia l'arte tragica che comica, la follia dionisiaca? Come? Forse la follia non è necessariamente il sintomo della degenerazione, del tramonto, della civiltà troppo tarda? Ci sono forse - un problema per psichiatri,-., nevrosi della salute? della giovinezza del popolo e del suo animo giovanile?" (NT)

“12.

Il cattivo riconoscere e l’erroneo identificare sono la causa del cattivo dedurre di cui ci rendiamo colpevoli nel sogno: sicché, se ci richiamiamo alla mente un sogno con chiarezza, ci spaventiamo di noi stessi, tanta è la pazzia che si nasconde in noi. La perfetta chiarezza di tutte le rappresentazioni oniriche, la quale ha come presupposto la fede incondizionata nella loro realtà, ci riporta ad antichi stati dell’umanità, quando l’allucinazione era oltremodo frequente e prendeva intere comunità, interi popoli. Dunque, nel sonno e nel sogno, noi eseguiamo ancora una volta il compito dell’umanità primitiva.” (UTU)

“14. Significato della follia nella storia della moralità. - Se nonostante quella spaventosa oppressione dell'«eticità dei costumi», sotto la quale sono vissute tutte le comunità umane per molti millenni prima del nostro computo del tempo e ancora in essa in tutto e per tutto fino ad oggi (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell'eccezione e, per così dire, nella zona cattiva): - se, dico, nonostante questo, sempre di nuovo hanno fatto irruzione pensieri, valutazioni e impulsi nuovi e devianti, questo avvenne con una compagnia da far venire i brividi: quasi ovunque è la follia che apre la strada al nuovo pensiero, che infrange il magico potere di una venerata consuetudine e superstizione.

Comprendete voi per quale motivo dovette essere la follia? Qualcosa di così terribile e imprevedibile nella voce e nei gesti come i demonici umori del tempo e del mare e perciò degno di un timore e di un'osservazione analoghi? Qualcosa che portava il segno di una completa involontarietà così visibilmente come le convulsioni e la bava dell'epilettico, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una divinità? Qualcosa che conferiva al portatore di un nuovo pensiero persino timore e tremore di sé, senza più rimorsi di coscienza, spingendolo a divenire il profeta e il martire di quello? Mentre oggi ci viene sempre di nuovo fatto capire che al genio, invece di un granello di sale, è dato un granello della radice della follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque vi sia follia, c'è anche un granello di genio e di saggezza, - qualcosa di «divino», come ci si sussurrava.” (AUR)

“20. Dignità della follia. Alcuni millenni ancora sul binario dell'ultimo secolo! In tutte le azioni umane si individua un'intelligenza eccelsa: ma proprio così l'intelligenza avrà perduto tutta la sua dignità. Essere intelligenti è necessario, certo, come lo è essere così consueti e banali che un gusto più schizzinoso possa avvertire questa necessità come una volgarità. E proprio come la tirannia della verità e della scienza sarebbero in grado di far crescere il prezzo delle menzogne, così una tirannia dell'intelligenza potrebbe provocare un nuovo genere di nobiltà. Essere nobili potrebbe allora forse significare avere qualche follia in testa.”

“76.

Se non ci fosse stata, in ogni tempo, una gran maggioranza di uomini i quali identificavano nella disciplina della loro testa - la loro «ragionevolezza» - il loro orgoglio, i loro obblighi, le loro virtù, e che ogni fantasticheria ed esuberanza di pensiero offendeva o svergognava in quanto amici del «sano intelletto umano», l'umanità sarebbe andata in malora già da tempo! Il pericolo più grande che aleggiava e continua ad aleggiare su di loro era lo scoppio della pazzia: cioè lo scoppio della discrezionalità nel percepire, vedere e udire, il piacere della mancanza di disciplina in testa, la gioia per il non-intelletto umano. Non la verità e la certezza sono il contrario del mondo dei folli, ma la generalità e la obbligatorietà nei confronti di tutti imposte da una fede, ovvero la mancanza di discrezionalità nel giudizio” (GS)

Anche se Nietzsche non ha dedicato mai una riflessione specifica alla follia, è del tutto evidente che egli ha anticipato uno dei criteri da cui è sorta l’antipsichiatria: la distinzione tra trasgressione alla norma e devianza residua.

In un libro piuttosto famoso negli anni ’70 del secolo scorso, Thomas J. Scheff illustra in questi termini la distinzione:

“Con la prima si intende un comportamento che sia in chiara violazione delle regole accettate dal gruppo, e che vengono abitualmente definite dai sociologi come norme sociali. Se i sintomi delle malattie mentali devono essere interpretati come violazioni delle norme sociali, è necessario specificare di quale tipo di norme si tratti. Nella maggior parte dei casi al violatore non viene imposto il marchio di malato di mente, ma quello di maleducato, ignorante, immorale, criminale, o forse solo turbato, secondo il tipo di norma in gioco. Ci sono però innumerevoli norme su cui il consenso del gruppo è così assoluto che i suoi membri mostrano di darle per scontate…

I gruppi sociali creano la devianza stabilendo le regole la cui infrazione costituisce appunto devianza e applicandole a particolari individui che vengono classificati come estranei... la devianza non una qualità dell'atto che una persona compie, ma piuttosto una conseguenza dell'applicazione da parte degli altri di regole e sanzioni al "trasgressore." Il deviante è uno cui questo marchio stato applicato con successo; il comportamento deviante è tale in quanto così marchiato dalla gente.

Secondo questa definizione, i devianti non sono un gruppo di persone che hanno commesso la stessa azione, ma che sono state stigmatizzate come tali.

La cultura del gruppo fornisce un vocabolario di termini per classificare molte violazioni: esempi comuni ne sono delitto, perversione, ubriachezza e maleducazione. Ognuno di questi termini deriva dal tipo di norma infranta, e, in ultima analisi, dal tipo di comportamento in gioco. Dopo aver esaurito queste categorie, però, esiste sempre un residuo dei più diversi tipi di violazione, per cui la cultura non fornisce nessun esplicito marchio…

Per interpretare casi di trasgressione alla norma cui non può essere dato un nome, e che vengono richiamati all'attenzione della società, è utile allora che queste violazioni possano essere raggruppate in una categoria residua: stregoneria, invasamento, o, nella nostra società, malattia mentale.”

L’oppressione legata alla Norma, alla Morale, al Costume, alle Tradizioni è uno dei temi portanti del pensiero di Nietzsche.

La critica della morale e del costume

Come si è detto nella precedente conferenza, la scoperta nietzschiana della naturale tendenza della coscienza umana alla mistificazione, vale a dire a ingannare se stessa e a farsi ingannare, aderendo a tradizioni culturali, valori morali e  codici normativi che sono funzionali semplicemente ad omologare l’individuo,a dargli un’illusoria tranquillità, facendolo sentire integrato nel gruppo, e a mantenere la coesione sociale, ha un valore che noi non siamo ancora in grado di apprezzare.

E’ difficile rinunciare soggettivamente alle pretese certezze dell’io, che ci dona il senso dell’unità, della coerenza e della continuità nel tempo al prezzo della rimozione delle infinite contraddizioni che sottendono la coscienza e rappresentano il materiale da costruzione di un’identità più autentica, più plastica, più aperta e tollerante.

E’ difficile per la società rinunciare a storicizzare e relativizzare  i valori culturali su cui essa si fonda, e dal cui rispetto discende la normalità, rappresentino solo uno dei modi possibili in cui gli esseri umani possono regolare la loro convivenza

Alle pretese certezze dell’io corrisponde di fatto, a livello di ogni società, l’etnocentrismo, vale a dire la convinzione che la sua cultura, i suoi ordinamenti siano superiori a quelli di tutte le altre.

Se queste illusioni potessero essere sormontate, non c’è dubbio che l’umanità farebbe un salto di qualità rivoluzionario. Il singolo individuo diventerebbe riflessivo, autocritico, prudente nei suoi giudizi, desideroso di capire sempre più le sue contraddizioni e di evolvere verso una maggiore autenticità. La società diventerebbe tollerante, aperta al confronto con altre culture, orientata a colmare le sue lacune attingendo ad un patrimonio culturale globale.

Nonostante l’asprezza del suo pensiero, il sogno di Nietzsche non è affatto irragionevole. Certo, si tratta di un sogno astratto, intellettuale, che non tiene conto che gli esseri umani utilizzano le opportunità che vengono messe a loro disposizione dalla società, e che quindi la realizzazione di quel sogno dipende da una nuova programmazione sociale piuttosto che dalla selezione di spiriti liberi.

L’individualismo, sia pure nell’ottica di un’individuazione eroica che fa capo alla possibilità realmente esistente che il singolo soggetto possa contrapporsi al mondo nel quale si trova a vivere, contestandone l’organizzazione, la cultura, la sostanziale mediocrità, è il limite del pensiero di Nietzsche, da cui discende l’aspra e impietosa critica nei confronti del conformismo e del senso comune.

Egli interpreta la tendenza della coscienza alla mistificazione come espressione della debolezza e della natura sostanzialmente servile di gran parte della popolazione, che vengono sfruttate dal Potere religioso, politico e culturale per mantenere l’uomo in uno stato di alienazione e di inconsapevolezza riguardo alla sua reale condizione. Il suo impegno, pertanto, è di demistificare il Potere, dimostrando che esso non ha alcun valore intrinseco, ma lo ricava solo dall’istinto gregario dell’uomo.

La subordinazione dell’individuo al gruppo, la sua adesione al costume, alla morale corrente e al senso comune  è una vera ossessione per Nietzsche. Le motivazioni inconsce di questa fobia dell’omologazione culturale sono ormai note. Si tratta di capire in quale misura essa gli consente di cogliere gli aspetti disfunzionali del bisogno di appartenenza/integrazione sociale.

Leggiamo dunque le citazioni più significative a riguardo.

“16.

Principio primo della civiltà. Presso i popoli primitivi esiste un genere di costumi, la cui mira pare essere il costume in generale: minuziose e in fondo superflue prescrizioni.., che però mantengono continuamente nella coscienza la persistente vicinanza del costume, l'ininterrotta costrizione a praticarlo; e questo per rafforzare il grande principio con cui ha inizio la civiltà: qualsiasi costume è migliore di nessun costume.” (AU)

“89.

Il costume e la sua vittima.  L'origine del costume risale a due pensieri: «la comunità val più dell'individuo» e «è preferibile un vantaggio durevole a uno passeggero»; da cui si deduce che il vantaggio durevole della comunità è senz'altro da anteporre a quello del singolo, specialmente al suo benessere momentaneo, ma anche al suo vantaggio durevole e persino alla sua sopravvivenza.

Ora, sia che l'individuo soffra di una istituzione che giova alla comunità, sia che, a causa di essa, intristisca e vada in rovina,  il costume dev'essere mantenuto e la vittima sacrificata…

Così si resta al costume e alla moralità: la quale è appunto solo il sentimento di tutto l'insieme dei costumi tra i quali si vive e si è stati educati  educati, invero, non come individui ma come membri di un tutto, come numeri di una maggioranza.

 Così accade di continuo che il singolo per mezzo della sua moralità si metta in minoranza.” (UTU)

“9.

Eticità non è nient'altro (e quindi niente più!), che obbedienza ai costumi, di qualunque tipo possano essere; i costumi però sono il modo tradizionale di agire e di valutare.

In cose ove non comanda alcuna tradizione, non v'è alcuna eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccola diviene la sfera dell'eticità. L'uomo libero è privo di etica, perché in tutto vuol dipendere da sé e non da una tradizione: in tutti gli stati primordiali dell'umanità il significato di «cattivo» corrisponde a quello di «individuale», «libero», «arbitrario», «insolito», «imprevisto», «incalcolabile»…

Che cos'è la tradizione? Un'autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda.  E in cosa si distingue questo sentimento di fronte alla tradizione, dal sentimento della paura in generale? Esso è la paura di un intelletto superiore che comanda, di una potenza incomprensibile e indeterminata, di qualcosa di più che personale,  v'è superstizione in questa paura.

Originariamente l'intera educazione e cura della salute, il matrimonio, l'arte medica, l'agricoltura, la guerra, il parlare e il tacere, i rapporti tra gli uomini e quelli con gli dèi appartenevano alla sfera dell'eticità: essa pretendeva che si osservassero delle prescrizioni, senza pensare a sé come individui…

Non ci si inganni sul motivo di quella morale che come segno di eticità esige la più difficile osservanza del costume! Il superamento di sé non viene richiesto per le utili conseguenze che esso ha per l'individuo, ma perché il costume, la tradizione appaiono dominanti, nonostante ogni opposta voglia e vantaggio individuali: il singolo si deve sacrificare  questo esige l'eticità del costume…

Ovunque ci sia una comunità e quindi un'eticità del costume, domina anche il pensiero che il castigo per la offesa al costume ricada soprattutto sulla comunità: quel castigo sovrannaturale, la cui manifestazione e i cui limiti sono così difficili da comprendere e vengono sondati con tanta superstiziosa angoscia. La comunità può obbligare il singolo a reintegrare a favore del singolo o della comunità il danno più immediato conseguente alla sua azione; essa può prendersi anche una specie di vendetta sul singolo, per il fatto che a causa sua, come presunta conseguenza della sua azione, nubi e temporali dell'ira divina si sono addensati sulla comunità,  tuttavia essa sentirà la colpa del singolo soprattutto come propria colpa e ne porterà il castigo come il proprio castigo : «i costumi sono divenuti più fiacchi»  così si lamenta l'anima di ciascuno  «se tali azioni sono possibili».

Ogni azione individuale, ogni individuale modo di pensare provoca un brivido; non è possibile calcolare cosa devono aver sofferto nell'intero decorso della storia gli spiriti più rari, più raffinati, più originali per il fatto di esser sentiti come malvagi e pericolosi, anzi per il fatto che essi stessi si sentirono tali.

L'originalità di ogni tipo, sotto il dominio dell'eticità dei costumi, ha acquistato una cattiva coscienza; fino a questo momento il cielo dei migliori ne è stato ancor più oscurato di quanto avrebbe dovuto essere.” (AU)

“19.

Eticità e instupidimento.  Il costume rappresenta le esperienze di uomini passati circa ciò che si presumeva utile e nocivo,  ma il sentimento del costume (eticità) non si riferisce a quelle esperienze come tali, bensì all'età, alla sacralità, alla indiscutibilità del costume. E con ciò questo sentimento agisce contro il fatto che si facciano nuove esperienze e si correggano i costumi: cioè l'eticità agisce contro la nascita di nuovi e migliori costumi: essa instupidisce.” (AU)

“34.

Sentimenti morali e concetti morali.  Evidentemente i sentimenti morali vengono trasmessi in modo che i bambini percepiscano negli adulti forti inclinazioni e avversioni verso determinate azioni e che, come fossero nati scimmie, imitino queste inclinazioni e avversioni; nell'avanzare della vita, quando si ritrovano pieni di questi affetti acquisiti con la pratica e ben esercitati, ritengono sia una questione di decenza un tardivo perché, una sorta di argomentazione, che giustifichi quelle inclinazioni e avversioni. Queste «argomentazioni» però non hanno niente a che fare, in essi, né con l'origine, né con il grado del sentimento: ci si contenta appunto solo della regola secondo cui, in quanto esseri razionali, si dovrebbero avere delle ragioni per il pro e per il contro, e in verità delle ragioni dichiarabili e accettabili.

Pertanto la storia dei sentimenti morali è del tutto diversa dalla storia dei concetti morali. I primi sono potenti prima dell'azione, gli ultimi in particolare dopo l'azione, in considerazione della necessità di esprimersi sopra di essa.” (AU)

“L'istinto del gregge. Laddove incontriamo una morale troviamo sempre una valutazione e un ordinamento gerarchico degli istinti e delle azioni umane. Queste valutazioni e ordinamenti gerarchici sono sempre espressione dei bisogni di una comunità e di un gregge: ciò che giova in primo luogo - ma anche in secondo e in terzo - alla comunità, diventa anche la suprema scala di valori di ogni singolo. Con la morale il singolo è addestrato ad essere funzione del gregge e ad attribuirsi valore soltanto in quanto funzione. Poiché le condizioni della conservazione di una comunità sono assai diverse da quelle di un'altra comunità, ci sono state morali assai diverse e, in riferimento alle sostanziali trasformazioni che ancora ci aspettano di greggi e comunità, Stati e società, si può profetizzare che ci saranno ancora morali molto differenti. La moralità è l'istinto del gregge nel singolo.”  (GS)

“Poiché in ogni tempo, da quando sono esistiti gli uomini, sono esistite anche greggi umane (gruppi familiari, comunità, stirpi, popoli, Stati, Chiese) e sempre molti che obbediscono in rapporto al piccolo numero di chi comanda,  tenuto conto dunque che l'ubbidienza fino ad oggi è stata esercitata e insegnata tra gli uomini più di ogni altra cosa e più a lungo, possiamo giustamente supporre che oggi, in media, il bisogno di ubbidienza è innato in ognuno, come una specie di coscienza formale, che ordina: «tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi lasciare qualche cosa incondizionatamente», in breve «tu devi». Questo bisogno cerca di soddisfarsi e di riempire la propria forma con un contenuto; essa afferra, secondo la sua forza, impazienza e tensione, poco schizzinosa, come un grossolano appetito e accetta ciò che le viene gridato all’orecchio da chiunque comandi genitori, maestri leggi pregiudizi di casta opinione pubblica” (ABM)

“La demenza è rara nei singoli,  ma è la regola nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche” (ABM)

E’ fuori di dubbio che Nietzsche fa riferimento ad una società diversa dalla nostra: la società del suo tempo, che era ancora (almeno in Germania) altamente gerarchizzata e assoggettata a due Autorità (Trono e Altare) alleate tra loro. Si tratta, dunque, di contestualizzare la sua analisi del rapporto tra individuo e gruppo, ma non fino al punto di ritenerla anacronistica. Tale giudizio, infatti, implica una mistificazione.

A noi piace pensare di essere uomini liberi e comunque molto più liberi di quelli del passato. Ma quanto c’è di vero in questo? Probabilmente meno di quanto ci aggrada.

Per quanto concerne la società italiana, i sociologi sostengono che il numero di persone che, leggendo libri, riviste, giornali, e navigando su Internet, possono essere ritenute impegnate nel coltivare una coscienza critica – quali che siano le conclusioni cui pervengono – arriva appena a cinque milioni. E gli altri cinquanta milioni e passa? Vivono condividendo il senso comune alimentato dalla poltiglia televisiva, dallo scambio comunicativo quotidiano, dall’aria che si respira (ove sono depositati i codici normativi dominanti).

Un autentico paradosso, poi, è rappresentato dai giovani, che rivendicano precocemente e talora precocissimamente la libertà dalle gerarchie, dall’autorità, dalle tradizioni. Li si direbbe spiriti liberi se non fosse il fatto che essi precocemente incappano in un modello adultomorfo che impone loro un certo modo di sentire, di pensare e di agire piuttosto volgare, rozzo, “sbracato” che sembra terribilmente omologato e stereotipato.

L’appartenenza sociale, di fatto, è ancora oggi un problema per quanto riguarda l’effetto di inibizione che esercita sul bisogno di individuazione.

Vero è che questo problema oggi si pone in termini più articolati e complessi di quanto Nietzsche potesse pensare attribuendo la mediocrità della maggioranza alla codardia e alla pigrizia.

Mentalità, Super-Io e neuroni specchio

Nietzsche drammatizza al massimo grado quanto si dà di massificante, alienante e spersonalizzante nel controllo sociale sull’individuo, che è costitutivo di ogni aggregato umano e fa leva sulla sua paura di essere emarginato, rifiutato, escluso o punito. Per esercitarsi, la tirannia della società profitta dell’istinto gregario rappresentato nella maggioranza della popolazione, che comporta la tendenza al conformismo, all’omologazione, alla normalizzazione.

E’ questo l’aspetto del pensiero di Nietzsche che ha alimentato svariati tentativi di recuperarlo e valorizzarlo nella cornice del marxismo o della sinistra culturale come teorico dell’alienazione. Il problema è che, preda della sua pulsione verso un’individuazione antitetica, egli vede in qualunque tipo di aggregazione sociale un male. Nietzsche, in breve, ha una visione persecutoria dell’influenza sociale sull’individuo, sicché la salvezza si può realizzare solo in virtù della distanza e dell’isolamento elitario. Il suo intento univoco è di disgregare letteralmente la sovrastruttura culturale della civiltà occidentale, al fine di concedere agli spiriti liberi di respirare aria pulita e di non essere soffocati dal tanfo dei putridi valori normativi.

Se questo è vero, il pensiero di Nietzsche è irrecuperabile nella cornice di una sinistra comunque intesa, che prescinda da un orientamento anarcoide (che ovviamente non ha nulla a che vedere con l’anarchia storica).

Ciò nondimeno, l’impegno con cui Nietzsche critica le tradizioni culturali e i valori morali mantiene oggi una viva attualità dopo la scoperta degli storici francesi che ogni struttura sociale riconosce un sistema di valori che scorrono nelle profondità dell’inconscio sociale, condizionando, modellando e recintando il modo di sentire, di pensare e di agire dei singoli individui. Tale scoperta dà ragione a Nietzsche per quanto concerne il fatto che i valori culturali e morali si producono in determinate circostanze, sulla base di interpretazioni che gli esseri umani forniscono della realtà che vivono, ma si tramandano poi per inerzia nel corso delle generazioni fino a conseguire effetti anche assolutamente alienanti. Questo significa che nessun valore, nessuna norma, nessuna legge, nessuna tradizione va assunta come valida se non se ne comprendono le origini e il significato storico.

In un articolo, che ho citato numerose volte, G. Duby, che  è un marxista, scrive:

“Le ideologie presentano un certo numero di caratteristiche che è opportuno mettere subito in evidenza:

1. Appaiono come come sistemi completi e sono naturalmente globalizzanti, dal momento che pretendono di offrire della società, del suo passato, del suo presente, del suo futuro, una visione del mondo. Fino a un'epoca molto recente, le immagini della società hanno dunque mantenuto strette corrispondenze con le cosmologie e le teologie, e di conseguenza appaiono inseparabili da un sistema di credenze; nell'Europa medievale, a esempio, ogni rappresentazione dei rapporti sociali cercava necessariamente appoggio in qualcuno dei testi fondamentali del cristianesimo.

2. Le ideologie, che hanno come prima funzione quella di rassicurare sono, altrettanto naturalmente, deformanti. L’immagine che esse offrono dell’organizzazione sociale si costruisce su un incastro coerente di inflessioni, di slittamenti, di deformazioni, su di una prospettiva, su un gioco di chiaroscuri che tende a velare certe articolazioni proiettando tutta la luce su altre, per meglio servire interessi particolari. In tal modo lo schema dualistico e nettamente manicheo che, nel pensiero degli ecclesiastici del secolo IX, contrapponeva i «potenti» e i «poveri», poté incoraggiare la chiesa e la monarchia, i cui interessi coincidevano, a resistere alle pressioni dell'aristocrazia laica; ma questa immagine mascherava (e ha continuato a mascherare fin nello spirito dei più recenti storici della società) certe essenziali funzioni sociali ed economiche della signoria rurale.

3. Ne consegue che, in una società data, coesistono molteplici sistemi di rappresentazioni, che, naturalmente, sono concorrenti. Queste opposizioni sono in parte formali e corrispondono all'esistenza di molteplici livelli di cultura. Esse riflettono soprattutto antagonismi che nascono talvolta dalla giustapposizione di etnie separate, ma che sono sempre determinati dalla disposizione dei rapporti di potere. Un certo numero di tratti comuni avvicinano queste ideologie, dal momento che le relazioni vissute di cui esse offrono l'immagine sono le stesse, e si costruiscono in seno allo stesso insieme culturale e si esprimono negli stessi linguaggi. Tuttavia di solito le une si presentano come le immagini rovesciate delle altre, a cui si contrappongono. L'amore cortese, ad esempio, adultero e «pagano», appare, nella cristianità del secolo XII, come un'inversione quasi beffarda delle relazioni affettive vissute in seno ai lignaggi e alle compagnie vassallatiche, e nelle nuove forme della devozione alla Vergine. In effetti, il sistema ideologico di cui questo gioco mondano costituiva uno dei pilastri più saldi, copriva gli atteggiamenti dei cavalieri celibi che non ottemperavano ai costumi familiari, messi ormai in difficoltà dalla progressiva sclerosi dei rapporti feudali e di cui la morale della chiesa pretendeva di arginare le trasgressioni.

4. Totalizzanti, deformanti, concorrenti, le ideologie si dimostrano anche stabilizzatrici. È, ovviamente, il caso dei sistemi di rappresentazioni che mirano a conservare I vantaggi acquisiti dagli strati sociali dominanti; ma questa osservazione è ugualmente. valida per quelli, antagonisti, che riflettono, rovesciandoli, i primi. L'organizzazione ideale di cui fanno sognare le ideologie più rivoluzionarie è ancora effettivamente percepita, al termine delle vittorie che esse incitano a riportare, come qualcosa di stabile e definitivo: nessuna utopia chiama alla rivoluzione permanente.

Questa inclinazione alla stabilità deriva dal fatto che le rappresentazioni ideologiche partecipano alla pesantezza insita in tutti i sistemi, di valori. la cui ossatura è fatta di tradizioni. La rigidezza dei diversi organi di educazione, la permanenza formale degli strumenti linguistici, la potenza dei miti, l'istintiva reticenza nei confronti dell'innovazione che si radica nel più profondo dei meccanismi della vita ostacolano la possibilità che esse si modifichino sensibilmente nel corso del processo che le trasmette a ogni nuova generazione.

La paura del futuro fa si che le ideologie si appoggino naturalmente alle forze di conservazione, di cui ci si accorge che sono in realtà predominanti nella maggior parte degli ambienti culturali che si giustappongono e si compenetrano in seno al corpo sociale. Talvolta è la stessa disposizione delle tecniche di produzione a rendere più forte la resistenza al cambiamento: cosa che avviene ad esempio nelle società che presentano basi nettamente agrarie. La loro sopravvivenza dipende dalla stabilità di un sistema coerente di ricette empiriche, il cui equilibrio, risultato di lunghi sforzi di adattamento alle condizioni naturali, sembra fragile, e lo è effettivamente tanto più quanto più le tecniche sono fruste. Queste società vivono dunque nel timore di novità che rischierebbero di rompere questo equilibrio; si rinchiudono, per proteggersi, in un guscio di costumi, e trovano il loro fondamento nel rispetto di una saggezza di cui gli anziani appaiono come i più sicuri depositari.

Tuttavia, più solidamente e più comunemente, il conservatorismo si appoggia sulla stessa gerarchia sociale. I ceti dominanti, i cui interessi sono serviti da modelli ideologici più agguerriti degli altri, in genere, e nella misura in cui la loro superiorità materiale sembra, loro, più sicura, si concedono il lusso di incoraggiare le innovazioni nel campo dell'estetica e della moda. Tuttavia nel profondo. si mostrano molto attenti a difendersi contro tutti i cambiamenti meno superficiali che potrebbero mettere in discussione i poteri e i vantaggi che detengono.”

Penso che Nietzsche sottoscriverebbe gran parte di queste frasi. Del resto anche Duby sarebbe d’accordo con Nietzsche laddove egli afferma che ricostruire la genealogia dei valori culturali è l’unica possibilità che consente di valutarne appieno il significato autentico. Di sicuro egli non condividerebbe il fatto che  quei valori sono prodotti dalla maggioranza dei cittadini, che, casomai, li assimilano e li subiscono.

La verità profonda che ha scoperto Nietzsche è che, per gli esseri umani sia sul piano individuale che di gruppo, qualsiasi costume (o sistema di valori) è meglio di nessun costume. Proprio perché il mondo è caotico e senza senso gli esseri umani hanno bisogno di una cultura che, ponendo in esso un po’ di ordine, lo renda vivibile. La cultura, peraltro, dovendo ridurre la varietà genetica che si dà tra gli esseri umani, non può che strutturarsi sulla base di valori medi, vale a dire riconoscibili e agibili da parte della maggioranza degli individui che appartengono ad un determinato contesto socio-culturale.

Questa necessità non verrebbe meno neppure se la cultura fosse vissuta in termini relativi e considerata criticamente come uno dei molteplici modi di significare il mondo e il rapporto tra gli esseri umani. Il senso comune è, probabilmente, un orizzonte non trascendibile dell’esperienza umana, anche se si può pensare che esso possa depurarsi di opinioni pregiudiziali e di aberrazioni interpretative.

Costretto, dalla sua condizione carenziale, a produrre cultura per sopravvivere, l’uomo è stato agevolato dalla natura che ha predisposto il cervello a funzionare, nelle fasi evolutive, come un replicatore culturale. L’analisi ha scoperto nel Super-io la funzione, in gran parte inconscia, che agevola la replicazione, anche se questa non va intesa in senso meccanicistico perché i valori trasmessi dalle generazioni precedenti vengono comunque percepiti e interiorizzati sulla base della sensibilità soggettiva. Le neuroscienze, di recente, in virtù della scoperta dei neuroni specchio, che promuovono l’empatia e l’imitazione, ha fornito un fondamento neurobiologico alla teoria del Super-io, che rappresenta la crisalide culturale della personalità umana, che solo in virtù di un processo di istituzionalizzazione può, eventualmente, procedere verso l’individuazione e la differenziazione.

Nietzsche ha ragione nello stigmatizzare il carattere assoluto che tendono ad assumere i valori culturali e morali una volta prodotti, come pure nel rilevare che gran parte degli esseri umani rimangono per sempre nel loro bozzolo originario e che la loro proterva, per quanto inconsapevole, convinzione di essere normali e depositari della verità ha reso sempre la vita difficile agli spiriti critici e liberi, che hanno bisogno di “volare” (metafora che si ritrova spesso nei suoi scritti).

Egli però è preda di una logica antitetica che lo porta ad opporre in maniera radicale la logica dell’individuazione a quella dell’appartenenza.

Cosa si può dire oggi a riguardo?

E’ fuor di dubbio che il sentirsi parte di un gruppo e condividerne i valori e i moduli di comportamento che esso ritiene normativi abbia un effetto sull’individuo sostanzialmente rassicurante e tranquillizzante. In quanto animale sociale, l’uomo di fatto è letteralmente catturato dal mito dell’armonia, che residua a livello inconscio come espressione delle prime fasi evolutive della personalità.

Oggi sappiamo anche che il mito dell’armonia ha un fondamento neurobiologico. Laddove si realizza in forma estrema, benché illusionale, vale a dire nel corso di un innamoramento, esso corrisponde all’attivazione del sistema endorfinico. Laddove, viceversa, si limita a dare un senso di appartenenza ad un gruppo, esso corrisponde  all’attivazione del sistema serotoninergico.

C’è da considerare, però, che se il cervello umano è catturato dal mito dell’armonia, vale a dire dall’esigenza di non sentirsi escluso da tutto e da tutti, esso comporta anche un bisogno di individuazione che si manifesta in forme evidente in molteplici momenti di crisi oppositive che intervengono nel corso dell’evoluzione della personalità e raggiunge l’acme nel corso dell’adolescenza.

Anche il bisogno di individuazione ha una corrispondenza neurobiologica. Esso infatti entra in azione sulla base dell’attivazione del sistema dopaminergico, che determina uno stato d’animo caratterizzato da una minore soggezione sociale, da una tendenza all’opposizione e da un’apertura esplorativa al nuovo.

Come risulta chiaro a livello adolescenziale, il bisogno di individuazione implica la messa in discussione dei principi, dei valori, delle norme trasmesse dagli adulti. Esso anticipa la possibilità, destinata a realizzarsi lentamente, che l’individuo giunga a formulare un sistema di valori avvertito come personale e mantenga, per tutta la vita, un atteggiamento critico nei confronti della pressione normativa operata dall’ambiente, riconoscendo in essa una sollecitazione all’omologazione, vale a dire a pensare o ad agire in maniera conformistica.

Volendo utilizzare una metafora forte, si può dire che a quella che Nietzsche ritiene la peste - il mito dell’armonia fondato sull'appartenenza -, la natura ha provveduto con il vaccino dell’individuazione.

Sarebbe ingenuo, però non riconoscere che, per l’influenza dell’ambiente o per quieto vivere, la programmazione intrinseca al cervello raramente si realizza. La crisi adolescenziale spessissimo abortisce dando luogo ad un modo di essere normalizzato che, se coincide con un certo grado di integrazione sociale, induce l’individuo a non avvertire più alcuna spinta nella direzione dell’individuazione.

Possiamo riconoscere a Nietzsche il merito di aver scoperto in quale misura, nella maggioranza della popolazione, il bisogno di appartenenza inibisce e inattiva quello di individuazione, per cui gli esseri umani vengono meno al dovere di interrogarsi sulla loro condizione e al piacere di percorrere vie nuove. Egli ha anticipato di decenni la diagnosi di Fromm della personalità normale come strutturalmente deficitaria.

Nietzsche, però, a differenza di Fromm, riteneva che siffatta condizione fosse meno di origine storico-culturale, che costituzionale. La cultura, dal suo punto di vista, non avrebbe fatto altro che esaperare questo aspetto, producendo una maggioranza di esseri deboli e malriusciti. A fuorviare l’uomo dalla sua natura, univocamente impregnata dalla volontà di potenza, avrebbe cominciato il Cristianesimo ecclesiale. Vanamente ostacolata dal Rinascimento, la decandenza sarebbe poi continuata con l’avvento della democrazia liberale, con il Capitalismo e con Il Socialismo.

Nietzsche, l’Anticristo

Nietzsche è divenuto famoso soprattutto per aver denunciato la “morte di Dio”. Il termine, come vedremo, non va solo riferito alla religione, bensì a tutti gli idoli culturali che gli uomini hanno costruito e di cui sono divenuti schiavi.

Per quanto riguarda la religione, in particolare quella cristiana, la critica di Nietzsche è una conseguenza della sua ossessione di liberare l’umanità, e se stesso, dai sensi di colpa.

Il Cristianesimo, di fatto, è la religione della colpa per eccellenza. Esso non solo fa incombere sull’umanità il riferimento mostruoso ad una colpa ancestrale che si trasmette di generazione in generazione al punto che ogni essere umano viene alla luce gravato del peccato originale, ma eleva a dogma il fatto che l’espiazione di quella colpa passa attraverso il sacrificio del Figlio di Dio, vale a dire un deicidio di cui l’uomo è responsabile e da cui può riscattarsi solo identificandosi con il Crocifisso e prendendo su di sé la Croce.

Nietzsche ha pagato per tutta la vita la colpa di essersi ribellato a questa nefasta ideologia. In Ecce Homo, scritto pochi mesi prima di precipitare nella follia, egli giunge addirittura ad identificarsi con il Crocifisso, dando a questa identificazione un significato affatto particolare. Egli ha accettato la sofferenza psichica e psicosomatica non per espiare i peccati del mondo, ma per liberare il mondo dal senso di colpa e dal concetto stesso di peccato.

L’identificazione con il Cristo comporta anche una interpretazione originale della sua parabola umana. Cristo, di fatto, è morto come un criminale, in conseguenza del suo aspro conflitto con la Chiesa di Gerusalemme, alleata del potere romano.

Che un criminale sia stato rivalutato al punto di diventare il simbolo della Civiltà occidentale è, per Nietzsche, una conferma del ruolo che i devianti svolgono nella storia.

E’ il Gesù contro la Tradizione, il senso comune, il Poterecostituito che interessa a Nietzsche. Leggiamo alcune citazioni:

“XXVII

Non vedo contro che cosa fosse diretta [la] rivolta, di cui si pensò, o si fraintese, che Gesù fosse il propugnatore, se non contro la Chiesa ebraica, la «Chiesa» presa proprio nel senso in cui l'intendiamo oggi. Fu una rivolta contro i «buoni» e i «giusti», contro i «santi d'Israele», contro la gerarchia sociale, non contro la corruzione di questi ma contro la casta, il privilegio, l'ordine, la formula; fu la sfiducia negli «uomini superiori», un no pronunciato contro tutto ciò che concerneva preti e teologi…

Questo santo anarchico che innalzò gli umili, i reietti e i «peccatori», Ciandala all'interno del giudaismo fino a contrastare l'ordine dominante, in un linguaggio che, se si deve credere ai Vangeli, porterebbe ancora oggi in Siberia, era un criminale politico, per quanto fossero possibili i criminali politici in una società assurdamente apolitica. Questo lo portò alla croce: prova ne è l'iscrizione apposta su di essa. Morì per sua colpa e manca ogni fondamento per affermare che morì per i peccati degli altri…

XXIX

Che cosa significa «buona novella»? Si scopre la vita vera, la vita eterna: questa non è promessa, è qui, è dentro di voi: in quanto vissuta nell'amore, nell'amore senza sottrazione o esclusioni, senza distanza. Tutti sono figli di Dio, Gesù non reclama assolutamente nulla solo per sé e in quanto è figlio di Dio: ciascuno è uguale all'altro…

Fare di Gesù un eroe! E che malinteso peggiore ancora il termine «genio»! Ogni nostra nozione, ogni nostro concetto culturale di «spirito» non aveva alcun significato nel mondo in cui visse Gesù. Detto con il rigore del fisiologo, una parola totalmente diversa sarebbe qui al suo posto più idonea: la parola idiota…

XXXII

La «buona novella» significa esattamente che non ci sono più contrasti; il Regno dei Cieli appartiene ai fanciulli; la fede che qui si rivela non è una fede conquistata con le lotte: c'è, è fin dal principio, è, per così dire, un infantilismo che ritorna a ciò che è spirituale…

Con una certa tolleranza d'espressione si potrebbe definire Gesù uno «spirito libero», non gli importa alcunché di tutto ciò che è fisso: la parola uccide, tutto ciò che è fisso uccide. Il concetto, l'esperienza della «vita» nel solo modo in cui li comprende si oppongono a ogni sorta di parola, di formula, di legge, di fede e di dogma. Parla solo delle cose più intime: «vita» o «verità» o «luce» sono le sue parole per questa dimensione più interiore; tutto il resto, la realtà nel suo complesso, l'intera natura, il linguaggio stesso, possiedono per lui solo valore di segno o di parabola…

XXXIV

Se comprendo qualcosa di questo grande simbolista è il fatto che assunse per realtà, per «verità», esclusivamente le realtà interiori e che intese tutto il resto, tutto ciò che è naturale, temporale, spaziale e storico, soltanto come segni, come spunti di parabole. Il concetto di «figlio dell'uomo» non è una persona concreta appartenente alla storia, qualcosa di individuale, di unico, ma un fatto «eterno», un simbolo psicologico affrancato dalla nozione di tempo. Lo stesso vale, nel senso più elevato, anche per il Dio di questo simbolista tipico, per il «regno di Dio», per il «regno dei Cieli», per i «figli di Dio»…

Il «regno di Dio» non è qualcosa che si attende; non ha né ieri né domani, non viene «tra mille anni», è un'esperienza di cuore; è ovunque e in nessun luogo…

XXXV Questo «messaggero della buona novella» morì come aveva vissuto, e come aveva insegnato, non per «redimere gli uomini», ma per mostrare come si deve vivere. Ciò che lasciò in eredità all'umanità è la pratica: il suo contegno dinanzi ai giudici, alle guardie, agli accusatori e a ogni sorta di calunnia e derisione, il suo contegno sulla croce. Non reagisce, non difende il proprio diritto, non fa un solo passo per respingere da sé il peggio, anzi, lo provoca... Prega, soffre, ama con quelli e in quelli che gli fanno del male. Le parole al ladrone sulla croce contengono l'intero Vangelo: «Costui era davvero un uomo divino, un figlio di Dio!» dice il ladrone. «Se lo credi - risponde il redentore, - tu sei in paradiso, anche tu sei figlio di Dio». Non difendersi, non andare in collera, non attribuire responsabilità... Non resistere neppure al malvagio, ma amarlo…”

“XXXIX

La parola «cristianesimo» è già un equivoco; in realtà c'è stato un solo cristiano ed è morto sulla croce. Il Vangelo è morto sulla croce. Ciò che si chiamò Vangelo da quel momento in poi era già l'opposto di ciò che egli aveva vissuto: una cattiva novella, un dysangelium. È falso fino all'assurdo il vedere in una «fede», per esempio nella fede della redenzione per mezzo di Cristo, la caratteristica peculiare del cristiano: solo la pratica cristiana, una vita come quella che visse colui che morì sulla croce, questo è cristiana... Ancora oggi è possibile una vita simile, e per certi uomini persino necessaria: il cristianesimo autentico e originario sarà possibile in ogni tempo…”

Nell’interpretazione di Nietzsche, Gesù è un santo anarchico, uno spirito libero, un idiota dostoevskiano, un personaggio al di là del bene e del male. Non un debole, perché non ha avuto alcuna paura di sfidare l’Autorità e di morire per le sue idee. Neppure un eroe, però, perché egli ha fatto semplicemente ciò che il cuore gli dettava di fare. L’interpretazione di è azzardata, ma meno fantasiosa di quanto si possa pensare.

Se si leggono i vangeli prescindendo dalle pallide interpretazioni ecclesiali, ciò che sorprende è il carattere culturalmente eversivo della predicazione di Gesù. Egli non solo non rispetta i codici comportamentali rituali tradizionali (l'astensione da ogni lavoro il sabato, il digiuno, le abluzioni preprandiali, la vendetta come risarcimento, ecc.), ma rifiuta di riconoscere la sacralità dei doveri parentali (“«Chi viene a me e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, le sorelle e perfino la propria vita non può essere mio discepolo») e attacca con estrema asprezza la ricchezza, considerata da sempre espressione della benevolenza divina («Quanto è difficile entrare nel regno di Dio! E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio»).

In rapporto al suo contesto culturale, Gesù è sicuramente, come sostiene Nietzsche, uno spirito libero. Al tempo stesso, come accade ad ogni spirito libero, egli è però anche un uomo del suo tempo, che non riesce ad affrancarsi dal riferimento biblico ad una natura umana gravata dal male:

“L'errore di Cristo. Il fondatore del cristianesimo credeva che niente facesse soffrire gli uomini quanto i loro peccati: fu questo il suo errore, l'errore di colui che si sentiva senza peccato, cui mancava un'esperienza in questo senso! Così la sua anima si sentiva ricolma di quella misericordia prodigiosa e fantastica per una miseria che persino nel suo popolo, il quale del peccato era l'inventore, raramente era considerata una gran miseria! Ma in seguito i cristiani sono riusciti a dare ragione al loro maestro, consacrando il suo errore e innalzandolo al rango di verità.” (LGS)

Ecco il nodo problematico. Spirito libero, Gesù ha commesso un solo errore: dare credito all’esistenza del male contrapposto al bene. Su questo errore si è edificata la Chiesa.

Tra l’insegnamento di Cristo e il Cristianesimo ecclesiale, Nietzsche non vede alcuna continuità, ma solo errore, fraintendimento, mistificazione, ipocrisia:

“Una decisione pericolosa. La decisione cristiana di ritenere il mondo brutto e cattivo ha reso il mondo brutto e cattivo.” (LGS)

“Il cristianesimo ha preso le parti di tutto ciò che è debole, vile, malriuscito; ha fatto un ideale dell'opposizione agli istinti di conservazione della vita forte. Ha persino corrotto la ragione delle nature intellettualmente più vigorose, insegnando agli uomini a considerare i valori supremi della spiritualità come peccaminosi, come ingannevoli, come tentazioni. L'esempio più deplorevole è la corruzione di Pascal, il quale riteneva la propria ragione giunta alla perversione per colpa del peccato originale, mentre era solo stata corrotta dal suo cristianesimo!” (AC)

“Nel cristianesimo gli istinti di chi è sottomesso e oppresso sono in primo piano: le classi inferiori sono quelle che vi cercano la salvezza. Qui la casistica del peccato, l'autocritica, l'inquisizione della coscienza è praticata come occupazione, come rimedio specifico contro la noia; qui è costantemente tenuto in vita un rapporto affettivo con un potente chiamato «Dio» (con la preghiera) ; il più elevato viene considerato irraggiungibile, un dono, una «grazia». Qui manca anche un luogo che sia pubblico: i luoghi nascosti, le stanze buie sono cristiani. Qui si disprezza il corpo, si ripudia l'igiene come forma di sensualità; la Chiesa si oppone alla pulizia (la prima misura presa dai cristiani dopo la cacciata dei mori fu la chiusura dei bagni pubblici, mentre la sola Cordova ne possedeva 270). È cristiano un certo senso di crudeltà verso sé stessi e verso gli altri, è cristiano l'astio per coloro che la pensano differentemente, è cristiana la volontà persecutoria. Idee tetre ed eccitanti sono in primo piano; gli stati spirituali più desiderati e designati con i nomi più eccelsi sono quelli epilettoidi; la dieta viene scelta in modo da favorire fenomeni morbosi e sovreccitare i nervi. È cristiana l'ostilità mortale contro i dominatori della Terra, contro i «nobili», e nello stesso tempo una competizione più nascosta e segreta (si lascia loro il corpo, si vuole solo l'«anima»). È cristiano l'odio per lo spirito, l'orgoglio, il coraggio, la libertà, il libertinaggio spirituale; è cristiano l'odio per i sensi, per la gioia dei sensi, l'odio per la gioia in generale…” (AC)

“II cristianesimo si chiama religione della pietà. La pietà è in antitesi alle affezioni toniche che accrescono l'energia del sentimento vitale: ha un effetto depressivo. Quando si compatisce si perde forza. La perdita di forza che la vita ha già subito per la sofferenza è ulteriormente aumentata e moltiplicata dalla pietà. La stessa sofferenza grazie alla compassione diventa contagiosa; talvolta può condurre a una perdita collettiva di vita e di energia vitale, che è assurda se rapportata al quantum della causa (il caso della morte del Nazareno). Questo è il primo aspetto; ma ve n'è uno ancora più importante.

Se si considera la compassione in base al valore delle reazioni che di solito scatena, il suo carattere letale appare in una luce assai più chiara. La pietà contrasta nel complesso la legge dell'evoluzione, che poi è la legge della selezione. Preserva ciò che è maturo per la distruzione; difende i diseredati e i condannati della vita; a causa del gran numero di soggetti cagionevoli di ogni specie che mantiene in vita conferisce alla vita stessa un aspetto tetro e incerto.” (AC)

“Il cristianesimo è stato fin ad oggi la più fatale specie di arroganza. Uomini non abbastanza grandi né abbastanza duri per poter dare, da artisti, forma all’uomo, uomini non abbastanza forti né lungimiranti da far valere, con un sublime superamento di sé, la legge primaria dei mille e mille fallimenti e naufragi; uomini non abbastanza nobili da vedere la profondità delle diverse gerarchie e dell'abisso tra uomo e uomo  questi uomini, con la loro «uguaglianza di fronte a Dio», hanno dominato fino ad oggi le sorti dell'Europa, finché si è giunti ad allevare una specie rimpicciolita, quasi ridicola, un animale che vive in branco, arrendevole, malaticcio e mediocre, l'europeo di oggi...” (ABM)

“Ciò che un tempo era soltanto malato oggi è diventato indecente, essere cristiani oggi è indecente. Ed è qui che ha inizio il mio disgusto. Mi guardo attorno: non una parola è rimasta di ciò che un tempo si chiamava «verità», non sopportiamo neppure più che un sacerdote pronunci la parola «verità». Sia pure secondo le più modeste esigenze di rettitudine, oggi bisogna sapere che un teologo, un sacerdote o un papa, a ogni frase che pronuncia non è solo in errore, ma mente; che non è più libero di mentire «innocentemente», per «ignoranza». Il sacerdote sa come chiunque altro che non v'è più né «Dio», né «peccatore», né «Redentore»; che il «libero arbitrio» e l'«ordine morale del mondo» sono menzogne; la serietà e la radicale vittoria spirituale su di sé non permettono più ad alcuno di essere ignorante su questo aspetto...

Tutti i concetti della Chiesa sono riconosciuti per quello che sono: le più perfide falsificazioni che esistano, allo scopo di svalutare la natura e i valori naturali: il sacerdote stesso è riconosciuto per quello che è: la specie più pericolosa di parassita, il vero ragno velenoso della vita...

Sappiamo, la nostra coscienza lo sa, quanto valgano oggi e a che servivano queste sinistre invenzioni dei sacerdoti e della Chiesa, con le quali è stato raggiunto quello stato di autoprofanazione dell'umanità, la cui vista può suscitare disgusto: i concetti di «aldilà», «giudizio finale», «immortalità dell'anima», di «anima» stessa, sono strumenti di tortura, sistemi di crudeltà di cui si servirono i sacerdoti per diventare e rimanere padroni...

Lo sanno tutti: eppure tutto rimane immutato. Dove è dunque andato a finire l'ultimo senso di decoro e di rispetto di sé, quando persino i nostri uomini di stato, una razza di uomini assai spregiudicata, di fatto completamente anticristiani, si definiscono ancora oggi cristiani e prendono parte all'eucaristia?…” (AC)

Se si tiene conto che ancora oggi l’insegnamento della Chiesa rimane vincolato ai dogmi del peccato originale (per cui la natura umana è inquinata dal Male), e della realtà del Demonio come Persona, le critiche di Nietzsche appaiono ampiamente giustificate. In nome della salvezza dell’uomo, la Chiesa in realtà è contro l’uomo perché strumentalizza la sua finitezza, inducendolo a viverla con un’angoscia intollerabile, che postula, per essere alleviata, di una prospettiva trascendente, e gli promette la salvezza a patto che egli si assoggetti a valori morali che mortificano la sua natura.

Del tutto giuste sotto il profilo dottrinario al punto di avere contribuito incisivamente ad avviare il processo di secolarizzazione della società occidentale, tuttora in corso, le crotiche di Nietzsche, al solito, hanno un taglio non dialettico. Esse appaiono carenti per due aspetti.

 La sua ricostruzione del Cristianesimo come alleanza dei deboli, dei miserabili e degli incolti contro i forti, sottesa dal culto della compassione, è poco attendibile da un punto di vista storico: è, ahimé, un luogo comune, fondato sul presupposto che gran parte dei primi cristiani fossero schiavi o persone di umile condizione.

In realtà, le cose non stanno così. Il successo del Cristianesimo, soprattutto a Roma, è stato dovuto ad un’adesione massiccia di persone appartenenti al ceto agiato e colto. Aderendo al Cristianesimo, i ricchi, oltre a rinunciare al proprio patrimonio a favore della comunità, si ponevano in opposizione alla società, mettendo in gioco lo status, il prestigio e la stessa incolumità fisica. Il loro esempio eroico ha avuto un effetto trainante sulle masse.

Come ogni rivoluzione allo stato nascente che si pone contro l’ordine costituito, anche quella cristiana ha richiesto ai suoi adepti prove straordinarie di coraggio e di fede. Se si vuole, si può parlare di fanatismo, ma non certo di debolezza.

I primi cristiani, vale a dire i cristiani del primo secolo dopo Cristo, erano paradossalmente spiriti liberi e rivoluzionari nella misura in cui contestavano il Potere costituito e l’ordinamento iniquo della società, fondata sulla schiavitù, in nome dell’universale fratellanza umana, vale a dire dell’uguaglianza. Non per caso essi venivano messi a morte come attentatori del Potere imperiale.

Il secondo aspetto riguarda le due anime del Cristianesimo – quella conservatrice e quella rivoluzionaria, schierata da sempre a difesa dei diritti dell’uomo e in particolare dei più deboli e degli oppressi - che Nietzsche non differenzia. E’ vero che alla sua epoca il Cristianesimo progressista era assolutamente minoritario. Se così non fosse stato, però, la critica di Nietzsche avrebbe avuto forse un’asprezza maggiore, perché il Cristianesimo progressista esalta l’uguaglianza tra gli esseri umani

Il problema, come si è detto fin dalla prima conferenza, è che l’uguaglianza, intesa come valore etico e non come negazione delle differenze individuali, vale a dire come ugualitarismo, è la bestia nera di Nietzsche in quanto comporta il pericolo della dittatura di una maggioranza pigra e mediocre. Non c’è da sorprendersi, dunque, se dopo aver demolito criticamente il Cristianesimo, Nietzsche rivolge i suoi strali contro la democrazia liberale e il Socialismo.

Il pensiero politico di Nietzsche

Il pensiero politico di Nietzsche, aristocratico (sia pure in termini del tutto indipendenti dalla nobiltà di sangue), elitario e anti democratico, è forse l’aspetto più caduco della sua riflessione sull’uomo e sulla condizione umana.

Non ripeterò quanto già detto nella prima conferenza sull’elogio che Nietsche fa della necessità della disuguaglianza tra gli esseri umani affinché i forti, i Migliori possano traghettare l’umanità verso il regno del Superuomo, né della sua ossessione per una selezione culturale, implicitamente razzista, che dovrebbe spazzare via tutti i deboli, gli esseri malriusciti.

Ciò che mi preme rilevare è che, nella cornice di un pensiero sostanzialmente “scellerato”, si danno comunque alcune riflessioni di grande significato. La scelleratezza di Nietzsche, come si è detto, è facile da comprovare. Alle citazioni proposte nella prima Conferenza, ne aggiungo solo due:

“Lo «Stato» più antico apparve come una tirannia terribile, come un meccanismo stritolatore e privo di scrupoli, e proseguì su questa via, fino a quando questa materia grezza di popolo e di semianimalità non venne finalmente bene amalgamata e resa duttile, e altresì dotata di forma.

Ho usato la parola «Stato»: è chiaro a quale mi riferisco:  un branco qualsiasi di biondi animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni, che organizzata militarmente e con la forza di organizzare, abbatte senza riguardo le sue orribili zampe su una popolazione forse enormemente superiore per numero, ma ancora priva di forma, ancora nomade. Così ha inizio in terra lo «Stato»: credo che sia eliminato il sogno illusorio che lo faceva cominciare con un «contratto». Chi può comandare, chi è naturalmente «padrone», chi incede tirannico nelle azioni e nei gesti  non ha certo bisogno di contratti! Con esseri simili è impossibile fare calcoli, essi arrivano come il destino, senza motivo, senza ragione, senza riguardo, senza pretesti, compaiono come il fulmine, troppo orribili, troppo convincenti, troppo «diversi» per essere anche soltanto odiati. La loro opera è una creazione di forme istintiva, un conio di forme, essi sono gli artisti più involontari e inconsapevoli che esistano insomma, dove essi appaiono c'è qualcosa di nuovo, un prodotto di dominio che vive, in cui parti e funzioni sono delimitate e finalizzate, in cui non trova posto niente che non abbia prima ricevuto un «senso» in relazione al tutto.

Essi ignorano che cosa sia la colpa, la responsabilità, il rispetto, questi organizzatori nati; in essi domina quell'egoismo terribile dell'artista, che ha uno sguardo d'acciaio e sa di essere giustificato nell'«opera», come la madre nel figlio, per tutta l'eternità. Non sono costoro quelli in cui è cresciuta la «cattiva coscienza» lo si intende benissimo dal principio  ma tuttavia senza di loro essa non sarebbe cresciuta, questa mala pianta, essa non esisterebbe se sotto il peso dei colpi dei loro martelli, della loro violenza di artisti non si fosse cacciato dal mondo, o per lo meno dalla vista e reso quasi latente un enorme quantum di libertà. Questo istinto della libertà reso latente dalla violenza  lo abbiamo già capito  questo istinto di libertà represso, soffocato, incarcerato nell'intimo, che finisce per non potersi scaricare e sfrenare altro che contro se stesso: questo e solo questo è, al suo inizio, la cattiva coscienza.” (GM)

“259.

Astenersi reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, equiparare la propria volontà a quella degli altri: ciò può divenire in un certo qual rozzo modo una buona abitudine tra individui, ove ve ne siano le condizioni (cioè la loro effettiva omogeneità di forze e di valori e la loro appartenenza reciproca all'interno di un unico corpo). Non appena però si volesse prendere questo principio in senso più ampio e, se possibile, come principio fondamentale della società, esso si dimostrerebbe subito per ciò che è: volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza. Occorre qui pensare in modo esaustivo al fondamento e rifiutarsi ad ogni debolezza sentimentale: la vita stessa è essenzialmente, appropriazione, violazione, sopruso su ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza e imposizione delle proprie forme, annessione e perlomeno  ed è il caso più benevolo , sfruttamento, ma a che scopo bisognerebbe usare sempre proprio queste parole, sulle quali si è impressa sin dai tempi antichi un'intenzione diffamatoria?...

Lo «sfruttamento» non appartiene a una società deteriorata o incompleta e primitiva: esso appartiene all'essenza stessa di ciò che è vivente, come organica funzione fondamentale essa è una conseguenza della caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita.” (ABM)

Su questa base, non c’è da aspettarsi che un orientamento critico nei confronti della democrazia, che promuove demagogicamente l’uguaglianza, il regime parlamentare,  i politici e le masse degli elettori:

“438.

Chiedere la parola.  Il carattere demagogico e l’intenzione di influire sulle masse sono oggi comuni a tutti i partiti politici: essi tutti sono costretti, a causa di questa intenzione, a trasformare in grandi affreschi di stupidità i loro principi e a dipingerli sulle pareti. Non c’è più nulla da fare, anzi è superfluo persino muovere un dito contro questo fenomeno; infatti in questo campo vale quanto dice Voltaire: quand la populace se méle de raisonner, tout est perdu. Dacché ciò è accaduto, ci si deve rassegnare alla nuova situazione, come ci si rassegna quando un terremoto ha sconvolto i vecchi confini, la configurazione del terreno e ha cambiato il valore della proprietà.

Inoltre: se oggi, in ogni politica, si tratta di render la vita tollerabile al maggior numero possibile di uomini, questi uomini dovranno pur determinare anche che cosa intendano per vita tollerabile; se presumono di possedere l’intelligenza necessaria per trovare i mezzi atti allo scopo, a che sentirebbe dubitarne? Ora, essi vogliono essere finalmente gli artefici della propria felicità e infelicità; e se questo sentimento di autodeterminazione, l’orgoglio per quelle quattro o cinque idee che hanno in testa e che vanno esponendo, rende loro effettivamente la vita così piacevole da far loro sopportare volentieri le fatali conseguenze della loro limitatezza: c’è poco da obiettare, premesso che questa limitatezza non vada tanto in là da pretendere che tutto in questo senso diventi politica e che ognuno viva e operi secondo questi criteri.

Innanzitutto, cioè, dev’essere più che mai consentito ad alcuni di astenersi dalla politica e di farsi un po’ da parte: anch’essi son spinti a ciò dal piacere dell’autodeterminazione; e vi può andar congiunto anche un pizzico dell’orgoglio nel tacere, quando a parlare sono in troppi o anche solo in molti. Inoltre bisogna perdonare a questi pochi se non danno tanta importanza alla felicità dei molti, e qui intendiamo popoli o strati di popolazione, e si permettono qua e là un’espressione ironica; infatti la loro serietà sta altrove, la loro felicità è un’altra cosa, il loro fine non può star chiuso in una goffa mano che abbia solo cinque dita.

Giungerà infine - cosa che sarà concessa loro con gran difficoltà, ma che tuttavia dovrà esser concessa  di tempo in tempo un momento in cui essi usciranno dal loro silenzioso isolamento e metteranno nuovamente alla prova la forza dei loro polmoni: allora si chiameranno l’un l’altro come degli smarriti in un bosco, per farsi riconoscere e per incoraggiarsi a vicenda; e certamente verranno dette ad alta voce cose che suoneranno male alle orecchie cui non sono destinate.  Subito dopo il bosco tornerà silenzioso, così silenzioso che si potrà nuovamente percepire con chiarezza il sibilo, il ronzio e il battito d’ali degli innumerevoli insetti che vivono dentro, sopra e sotto di esso.” (UTU)

“Sul dominio dei sapienti. ‑ E’ facile, ridicolmente facile, stabilire il modello per la scelta di un corpo legislativo. Innanzitutto dovrebbero isolarsi, fiutandosi e riconoscendosi a vicenda, gli uomini onesti e fidati di un paese, che allo stesso tempo siano maestri ed esperti in qualche cosa: da essi poi, in una scelta più ristretta, dovrebbero selezionarsi i più grandi specialisti e sapienti in ogni campo specifico, anche qui riconoscendosi e garantendosi a vicenda. Quando il corpo legislativo fosse così composto, infine dovrebbero per ogni singolo caso decidere solo i voti e i giudizi degli esperti più specializzati, e l'onestà di tutti gli altri dovrebbe esser diventata abbastanza grande, da esser una semplice questione di decenza il lasciare solo a quelli la facoltà di votare in merito: sicché, nel senso più stretto, la legge scaturisce dall'intelligenza dei più intelligenti.

‑ Oggi votano i partiti: e in ogni votazione debbono esserci centinaia di coscienze vergognose ‑ quelle dei male informati, degli incapaci di giudizio, di quelli che ripetono l'opinione altrui, che vanno dietro agli altri, che vengono trascinati. Niente avvilisce la dignità di ogni nuova legge più di questo rossore della disonestà ad essa aderente e a cui ogni voto di partito costringe.

Ma, come abbiamo detto, è facile, ridicolmente facile, metter su una cosa del genere: nessuna potenza del mondo oggi è abbastanza forte per realizzare il meglio, ‑ a meno che la fede nella superiore utilità della scienza e di coloro che sanno non finisca per illuminare anche il più malintenzionato e venga preferita alla fede, oggi predominante, nel numero. Nel senso di questo futuro il nostro motto sia: «Più rispetto per chi sa! E abbasso tutti i partiti!».” (UTU)

“In disparte.

Il parlamentarismo, ovvero la pubblica licenza di poter scegliere tra cinque opinioni politiche fondamentali, lusinga quei molti che vorrebbero apparire autonomi e individuali e desiderano lottare per le loro opinioni. In fin dei conti, però, è indifferente se al gregge sia imposta una opinione o se gliene siano concesse cinque. Chi si discosta da una delle cinque opinioni pubbliche e si mette in disparte, si ritrova sempre tutto il gregge contro di sé.”(LGS)

E’ evidente che l’atteggiamento politico di Nietzsche è dipendente dalla sua visione aristocratica del mondo. Ciò nondimeno, se si mette tra parentesi l’ossessione elitarista, le sue critiche non sono prive di fondamento. Sono, tra l’altro, quasi le stesse che A. de Tocqueville, aristocratico di nascita, ha analizzato nel suo capolavoro, La democrazia in America. La differenza tra Tocqueville e Nietzsche è che il primo è spietatamente analitico, ma anche benevolo nei confronti delle conseguenze sociali dell’avvento della democrazia borghese. Per cogliere questa differenza, basta una sola citazione, per altro celeberrima:

“Che cosa chiedete alla società e al suo governo? Bisogna intendersi. Volete conferire allo spirito umano una certa dignità, un modo generoso di affrontare le cose del mondo? Volete ispirare agli uomini una sorta di disprezzo per i beni materiali? Desiderate far nascere o alimentare convinzioni profonde, e gettare le basi per grandi abnegazioni?

Si tratta, per voi, di raffinare i costumi, di elevare le maniere, di far splendere le arti? Volete la poesia, la fama, la gloria?

Avete l'intenzione di organizzare un popolo in modo da agire fortemente sugli altri? Lo destinate a grandi imprese e, qualunque sia il risultato dei suoi sforzi, a lasciare una traccia immensa nella storia?

Se tale, a vostro avviso, è l'obiettivo principale che devono perseguire gli uomini uniti in società, non scegliete il governo della democrazia; sicuramente non vi condurrebbe allo scopo.

Ma se vi sembra utile orientare l'attività intellettuale e morale dell'uomo sulle necessità della vita materiale, ed impiegarla a produrre il benessere; se la ragione vi pare più proficua agli uomini del genio; se il vostro scopo non è di creare virtù eroiche, ma abitudini pacifiche; se preferite vedere vizi piuttosto che delitti, e trovare meno azioni grandi, pur di incontrare un numero minore di grandi crimini; se, invece di agire in seno a una società brillante, vi basta vivere in mezzo a una società prospera; se, infine, l'obiettivo principale di un governo non è, secondo voi, quello di dare all'intero corpo della nazione la maggior forza e la maggior gloria possibili, ma di procurare a ciascuno degli individui che lo compongono il massimo benessere e di evitargli la maggiore miseria possibile, allora rendete uguali le condizioni, e costituite un governo democratico." (p. 294)

L’idea di una società prospera, irretita dal benessere materiale, ragionevole ma non gloriosa, abitudinaria e anche viziosa ma non violenta è orribile per Nietzsche. Ma è proprio questa la società che si va delineando nella seconda metà dell’800 in conseguenza della progressiva egemonia della classe borghese.

Nietzsche disprezza la borghesia in quanto agente storica della democrazia. Egli vede nell‘avidità del denaro e del possesso un segno certo di degenerazione:

"310.

Un pericolo, nella ricchezza.  Solo chi ha spirito dovrebbe avere proprietà: altrimenti la proprietà costituisce un pericolo pubblico. Infatti il proprietario, che non sa fare alcun uso del tempo libero che la proprietà potrebbe garantirgli, continuerà sempre ad aspirare alla proprietà: questa aspirazione sarà per lui una distrazione, lo stratagemma nella sua lotta contro la noia. Nasce così, da una modesta proprietà che a un uomo spirituale basterebbe, la vera e propria ricchezza: ossia come brillante risultato di mancanza d'autonomia e di povertà spirituale. Ora però egli appare assai diverso da come la sua meschina origine farebbe supporre, perché può mascherarsi di cultura e d'arte: egli appunto può comprare la maschera. In tal modo provoca l'invidia dei più poveri e ignoranti  i quali in fondo invidiano sempre la cultura, e nella maschera non vedono la maschera  e prepara via via un rivolgimento sociale: infatti una rozzezza dorata e uno studiato gonfiarsi nel preteso «godimento della cultura» ispirano il pensiero che «dipende solo dal denaro»  mentre, certo, dal denaro qualcosa dipende, ma molto di più dipende dallo spirito." (UTU)

"317.

Il possesso possiede.  Solo fino a un certo punto il possesso rende l'uomo più indipendente, più libero; un grado più in là  e il possesso diventa il padrone, e il possessore il suo schiavo: come tale deve sacrificargli il suo tempo, il suo pensiero, e da quel momento si vede costretto a un rapporto, inchiodato a un luogo, incorporato in uno Stato  e tutto forse contro il suo più intimo ed essenziale bisogno."

"304.

Spiriti della sovversione e spiriti del possesso. L'unico rimedio contro il socialismo che sia ancora in vostro potere è: non provocarlo, il che significa vivere con moderazione e sobrietà, evitare per quanto è possibile l'ostentazione dell'opulenza e venire in aiuto dello Stato, quando esso impone tasse rilevanti su tutto ciò che è superfluo e ha l'apparenza del lusso. Non volete questo rimedio? Allora, ricchi borghesi che vi dite «liberali», ammettetelo, è la vostra stessa disposizione quella che trovate così terribile e minacciosa nei socialisti, ma che ammettete in voi stessi come inevitabile, come se nel loro caso essa fosse qualcosa di diverso. Se, così come siete, non aveste il vostro patrimonio e la preoccupazione di conservarlo, questa vostra disposizione vi renderebbe socialisti: solo il possesso vi distingue da loro. Dovete innanzitutto vincere voi stessi, se volete in qualche modo vincere i nemici della vostra agiatezza.

 E magari quell'agiatezza fosse realmente benessere! Non sarebbe così esteriore e provocatrice d'invidia, sarebbe più partecipe, più benevola, più accomodante, più provvida. Ma la falsità e l'affettazione delle gioie del vostro vivere, che stanno più nel senso del contrasto (che altri non le abbiano e vi invidino) che non nel senso di un appagamento e potenziamento delle forze  le vostre case, i vostri abiti, le vostre vetture, le vostre vetrine, le esigenze del vostro palato e della vostra mensa, il vostro rumoroso entusiasmo per l'opera e la musica, e infine le vostre donne, formate e colte, ma di metallo non nobile, dorate, ma senza il suono dell'oro, scelte da voi come oggetti da esposizione, e che come tali si comportano:  questi sono i velenosi propagatori di quella malattia popolare, il socialismo, che come una rogna del cuore si comunica sempre più rapidamente alla massa, ma che in voi ha la sua prima sede e il suo focolaio. E chi potrebbe oggi fermare questa peste?" (UTU)

Ancora più critico e violento è Nietzsche nei confronti del Socalismo, nel quale legge il pericolo di orientare l’umanità verso un mondo di esseri mediocri:

“La totale degenerazione dell'uomo giù fino a ciò che oggi appare ai babbei socialisti e alle teste vuote come il loro «uomo del futuro»,  come il loro ideale  questa degenerazione e deprezzamento dell'uomo a perfetto animale del gregge (o come essi dicono in uomo della «società libera»), questo abbrutimento dell'uomo in bestiola con uguali diritti ed esigenze è possibile, non vi è alcun dubbio! Chi ha pensato a questa possibilità fino in fondo, almeno una volta, conosce una nausea in più rispetto agli uomini,  e forse anche un nuovo compito!” (ABM)

451.

Giustizia come richiamo di partito.  Nobili rappresentanti (anche se non proprio molto sagaci) della classe dominante possono ben ripromettersi: vogliamo trattare gli uomini da uguali, riconoscere loro uguali diritti. ln questo senso una mentalità socialista, fondata sulla giustizia, è possibile; ma, come s’è detto, solo all’interno della classe dominante, che in questo caso esercita la giustizia a prezzo di sacrifici e di rinunce. Di contro, esigere l’uguaglianza dei diritti, come fanno i socialisti della casta assoggettata, non è affatto qualcosa che scaturisce dalla giustizia, bensì dall’avidità.  Se a una belva si avvicinano pezzi di carne sanguinolenta per poi allontanarglieli di nuovo, sino a che quella alla fine ruggisce, pensate che quel ruggito voglia dire giustizia? (UTU)

452.

Proprietà e giustizia.  Quando i socialisti dimostrano che tra gli uomini d’oggi la distribuzione della proprietà è la conseguenza di infinite ingiustizie e violenze e in summa rifiutano ogni vincolo, verso uno stato di cose dai fondamenti così iniqui, essi vedono solo un lato della questione.  Tutto il passato della cultura antica si basa sulla violenza, sulla schiavitù, sull’inganno, sull’errore; ma non possiamo decretare la scomparsa di noi stessi, eredi di tutte quelle situazioni, anzi concrezioni di tutto quel passato, né dobbiamo desiderare di isolarne una parte. La disposizione all’ingiustizia si annida anche nell’animo dei non possidenti: non sono migliori dei possidenti, né hanno alcun privilegio morale, perché una volta i loro antenati sono stati possidenti. Non occorrono nuove violente suddivisioni, ma graduali trasformazioni del modo di pensare: in tutti deve farsi più grande la giustizia e più debole l’ istinto di sopraffazione. (UTU)

457.

Schiavi e operai.  Che noi attribuiamo maggior valore al soddisfacimento della vanità che a ogni altro bene (sicurezza, impiego, piaceri di ogni sorta) è dimostrato in un grado ridicolo dal fatto che ognuno (a prescindere da ragioni politiche) desidera l’abolizione della schiavitù e aborre oltre ogni limite dal ridurre gli uomini in questa condizione: mentre ognuno deve dirsi che gli schiavi vivono sotto ogni rapporto più sicuri e felici dell’operaio moderno, e che il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del «lavoratore». Si protesta in nome della «dignità umana»: ma è, per dirla schiettamente, quella cara vanità che considera come la sorte più dura il non essere equiparati, l’esser considerati pubblicamente inferiori. (UTU)

473.

Il socialismo e i suoi mezzi.  Il socialismo è il fantastico fratello minore dell’ormai superato dispotismo, di cui vuol diventare erede; le sue aspirazioni son dunque reazionarie nel senso più profondo. Esso desidera infatti una pienezza di potere statale quale solo il dispotismo ha posseduto, anzi supera tutto il passato nella sua aspirazione all’annientamento formale dell’individuo: il quale gli si presenta come un ingiustificato lusso di natura, che dev’essere corretto e trasformato in un adeguato organo della comunità.

A causa della sua parentela, esso compare sempre in prossimità di un eccessivo dispiegamento di potere, come l’antico, tipico socialista Platone alla corte del tiranno siciliano; desidera (e a volte favorisce) il cesareo Stato forte di questo secolo, in quanto, come abbiamo detto, ne vorrebbe diventare l’erede. Ma neppure questa eredità basterebbe ai suoi scopi: esso ha bisogno della più umile e mai vista sottomissione di tutti i cittadini di fronte allo Stato assoluto; e, poiché non può più contare nemmeno sulla vecchia pietà religiosa verso lo Stato, ma deve piuttosto lavorare incessantemente, senza volerlo, all’eliminazione di essa  in quanto cioè lavora all’eliminazione di tutti gli Stati esistenti  può sperare di esistere solo qua e là, per breve tempo, per mezzo del più violento terrorismo. Perciò si prepara in segreto a un dominio del terrore e alle masse seimignoranti ficca in testa come un chiodo la parola «giustizia», per privarle totalmente dell’intelletto (dopo che questo ha già abbastanza sofferto a causa della mezza cultura) e procurar loro la buona coscienza per il gioco cattivo che dovranno giocare.  

II socialismo può servire a insegnare molto brutalmente ed efficacemente il pericolo insito in ogni accumulazione di potere statale, e in questo senso a ispirare sfiducia nei confronti dello Stato stesso. Quando la sua voce roca irromperà nel grido di battaglia: «Quanto più Stato possibile!»; questo grido in un primo momento sarà più rumoroso che mai; ma presto proromperà, con forza tanto maggiore, il grido opposto: «Quanto meno Stato possibile!». (UTU)

446.

Una questione di potenza, non di diritto.  Per gli uomini che in ogni cosa guardano alla superiore utilità, non esiste nel socialismo, nel caso esso sia realmente la rivolta delle vittime di un’oppressione millenaria contro i loro oppressori, alcun problema di diritto (con la ridicola, molle domanda: «Sino a che punto si deve cedere alle sue pretese?»), bensì unicamente un problema di potenza («Sino a che punto si possono utilizzare le sue pretese?»); dunque come per una forza naturale, ad esempio il vapore, il quale o viene costretto dall’uomo, come dio delle macchine, a servirlo oppure, in caso di difetti alla macchina, ossia di errori nel calcolo umano per costruirla, manda in pezzi macchina e uomo.

Per risolvere la questione del potere, bisogna sapere quale sia la forza del socialismo, e sotto quale forma esso possa venire usato come una potente leva entro il gioco attuale delle forze politiche; in determinate circostanze bisognerebbe persino far di tutto per rafforzarlo.  

Di fronte a ogni grande forza  sia pure la più pericolosa - l’umanità deve pensare a farne uno strumento dei suoi scopi.  

II socialismo si conquista un diritto solo quando tra le due potenze, i rappresentanti del vecchio e quelli del nuovo, sembra delinearsi un conflitto, e quando un calcolo avveduto sulla maggior conservazione e compatibilità possibili fa nascere dall’una parte e dall’altra il desiderio di un contratto. Senza contratto non v’è diritto. Sinora, però, nel campo di cui abbiamo parlato non ci sono né guerre né contratti, e dunque nemmeno diritti, nemmeno un «dovere». (UTU)

In conclusione, non c’è nulla da sperare da parte dei partiti e della politica:

480.

Invidia e pigrizia in direzione diversa.  I due partiti avversari, quello socialista e quello nazionale  quale che sia il loro nome nei vari paesi d’Europa  son degni l’uno dell’altro: le forze motrici sono in ambedue l’invidia e la pigrizia. In un campo si vuol lavorare il meno possibile con le mani, e nell’altro il meno possibile con la testa; in quest’ultimo si odia e si invidia l’individuo che si distingue, che si fa da sé, che non vuol farsi allineare allo scopo di un’azione di massa; nel primo invece si odia e si invidia la classe sociale migliore, esteriormente più favorita, il cui vero compito, la produzione dei massimi beni della civiltà, rende interiormente la vita tanto più difficile e dolorosa. Se poi si riesce a fare dello spirito dell’azione di massa lo spirito delle classi sociali più elevate, le schiere socialiste hanno perfettamente ragione di voler livellare anche esteriormente tra sé e quelle, dato che interiormente, nel cervello e nel cuore, sono già livellate tra loro.  Vivete da uomini superiori e continuate ad agire nell’interesse della cultura superiore  e tutto quanto vive in essa riconoscerà il vostro diritto, e l’ordinamento sociale, di cui siete la cima, sarà immune da ogni cattivo sguardo e da ogni attacco! (UTU)

Per quanto l’orientamento antidemocratico e antiuguaglitario di Nietzsche sia contestabile, in nome del fatto che gli esseri umani, pur diversi tra loro, hanno gli stessi diritti, tra i quali si dà anche la libertà di perseguire la propria autorealizzazione entro i limiti imposti dalla dotazione individuale, è fuor di dubbio che le sue critiche hanno un peso e conservano una qualche attualità.

Rilevato già da Tocqueville, il pericolo che la democrazia (e non solo in Italia) degeneri e diventi una forma di populismo incentrato sulla manipolazione mediatica degli elettori, al fine di instaurare la dittatura della maggioranza, come pure che essa divenga mera espressione di lobbyes privilegiate che la utilizzano per fare i propri interessi, è sotto gli occhi di tutti. Il pericolo poi che il Socialismo stesso si adegui alla società capitalistica riducendosi ad essere una cinghia di trasmissione dello stile di vita borghese presso le masse operaie e rinunci a promuovere un progetto alternativo all’esistenze è pure esso evidente.

Con il suo elitarismo aristocratico, Nietzsche politico vale ben poco. Come critico della società borghese e in via di imborghesimento, come critico insomma di una società che programma l’uguaglianza nella mediocrità, la sua voce ha ancora valore.

Egli legge ciò che la realtà sociale alla luce del sogno di un’umanità superiore a quella del suo tempo e a quella che abbiamo ancora sotto i nostri occhi, che, per alcuni aspetti, non è affatto migliorata.

La realizzazione di quel sogno, però, postula secondo Nietzsche l’abbattimento di tutti gli idoli che l’umanità ha costruito nel corso della sua storia per impedirlo. E’ per questa via che egli giunge al Nichilismo positivo e alla concezione del Superuomo.

Il Nichilismo attivo e il Superuomo

Il nichilismo inteso in senso generico, come visione di un universo senza senso all’interno del quale l’uomo rappresenta una minuscola ed effimera fluttuazione casuale, è presente in Nietzsche fin dall’esordio di Verità e menzogna in senso extramorale. Esso compare cinque anni dopo, quasi negli stessi termini, in Umano, troppo Umano:

“14.

L'uomo, il commediante del mondo.  Ci dovrebbero essere creature più di spirito di quanto non sia l'uomo, semplicemente per gustare a fondo l'umorismo insito nel fatto che l'uomo si consideri il fine di tutto l'esistere del mondo e l'umanità si ritenga seriamente soddisfatta solo in vista di una missione nel mondo. Se un dio ha creato il mondo, creò l'uomo come scimmia di dio, come continuo motivo di divertimento nelle sue troppo lunghe eternità. La musica delle sfere intorno alla terra sarebbe allora la risata di scherno di tutte le altre creature intorno all'uomo. Con il dolore quell'annoiato Immortale solletica il suo animale preferito per trovare, nei gesti tragicoorgogliosi, nell'interpretazione delle sofferenze, ma soprattutto nell'inventiva spirituale della più presuntuosa crea4ira, la sua gioia quale inventore di questo inventore. Poiché chi ideò l'uomo per scherzo ebbe più spirito dell'uomo, e anche più gusto per lo spirito.

 Persino qui, dove la nostra umanità vuole per una volta umiliarsi spontaneamente, la presunzione ci gioca uno scherzo, in quanto noi uomini vorremmo essere, almeno in questa presunzione, qualcosa di assolutamente incomparabile e meraviglioso. La nostra unicità nel mondo! Ah, è una cosa fin troppo inverosimile! Gli astronomi, ai quali tocca talvolta di scrutare realmente un orizzonte staccato dalla terra, fanno capire che la goccia di vita nel mondo è senza significato per il carattere complessivo del mostruoso oceano di divenire e trapassare; che innumerevoli astri hanno condizioni simili alla terra per la generazione della vita, moltissimi, quindi  ma francamente neppure una manciata in confronto a quegli infiniti altri che non hanno mai avuto il germoglio della vita o che ne sono guariti da tempo: che la vita su ciascuno di questi astri, in confronto alla durata della loro esistenza è stata un attimo, una vampata con lunghi, lunghi intervalli di tempo dietro di sé -  quindi, in nessun caso lo scopo è il fine ultimo della loro esistenza.

Forse la formica del bosco è altrettanto fermamente convinta di essere scopo e meta dell'esistenza del bosco, come lo siamo noi quando nella nostra fantasia associamo quasi involontariamente la fine dell'umanità alla fine della terra: anzi, siamo ancora modesti se ci limitiamo a questo e non organizziamo per le onoranze funebri dell'ultimo uomo un crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Persino l'astronomo più spregiudicato non può immaginare la terra senza vita se non come lo splendente e fluttuante sepolcro dell'umanità.”

E’ quasi inevitabile cogliere l’assonanza tra il pessimismo cosmico nitzscheano e quello leopardiano. A differenza di Leopardi, la cui opera sembra tramata sul basso continuo del vanitas vanitatum ed omnia vanitas biblico, Nietzsche, come abbiamo visto, si impegna a criticare e a demolire tutti gli stratagemmi che l’umanità ha messo in opera per sfuggire alla verità che la riguarda, vale a dire la tragicità della sua condizione legata alla consapevolezza di esserci e l’insignificanza oggettiva dell’esserci. Egli demolisce: il mito dell’Io cosciente unitario e quello della libera volontà, il primato della Ragione a favore di impulsi sotterranei che determinano gran parte dei comportamenti umani, la consueta distinzione morale tra Bene e Male, il concetto di un Essere supremo e di qualsivoglia trascendenza, il mito della Socialità, dello Stato, della Democrazia e dell’uguaglianza,, l’utopia socialista.

E’ alla luce di questa critica radicale che prende corpo il nichilismo:

“In fondo che cosa è accaduto: Il sentimento della mancanza di valore fu raggiunto quando si capì che non è possibile interpretare il carattere complessivo dell'esserci né con il concetto di «fine», né con il concetto di «unità», né con il concetto di «verità». In tal modo non si ottiene e non si raggiunge nulla; nella molteplicità del divenire manca l'unità onnicomprensiva: il carattere dell'esserci non è «vero», è falso..., non c'è più nessuna ragione di vagheggiare un mondo vero...

In breve: le categorie «fine», «unita», «essere» con le quali avevamo posto un valore nel mondo, sono da noi nuovamente tratte fuori  e ora il mondo sembra senza valore...

Posto che abbiamo capito che non è più possibile interpretare il mondo con queste tre categorie e che dopo questa constatazione il mondo comincia a essere per noi senza valore, allora dobbiamo chiederci da dove derivi la nostra credenza in queste 3 categorie ; cerchiamo se non sia possibile negare loro questa credenza. Una volta che queste 3 categorie siano state svalutate, allora la dimostrazione della loro inapplicabilità al tutto non è più una ragione per svalutare il tutto.

Risultato: la credenza nelle categorie della ragione è la causa del nichilismo,  abbiamo misurato il valore del mondo con categorie che si rapportano a un mondo puramente simulato.

Risultato finale: tutti i valori con cui fino ad ora abbiamo tentato in primo luogo di rendere per noi stimabile il mondo e con cui poi, proprio per questo, l'abbiamo svalutato, essendosi rivelati inapplicabili  tutti questi valori, riguardati dal punto di vista psicologico, sono risultati di determinate prospettive dell'utilità per la conservazione e l'accrescimento di forme umane di dominio: e soltanto falsamente proiettati nell'essenza delle cose. Fa ancor sempre parte della ingenuità iperbolica dell'uomo «porre» se stesso come senso e misura di valore delle cose...” (VP)

E’ in questo senso che va intesa la morte di Dio annunciata da Nietzsche già ne La gaia scienza:

“Il più grande evento recente - il fatto che Dio è morto, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inattendibile - inizia già a gettare le sue prime ombre sull'Europa. Almeno per quei pochi i cui occhi, e la differenza che essi albergano, sono abbastanza forti e raffinati per questo spettacolo, sembra che per l'appunto sia tramontato un qualche sole e che una qualche fiducia profonda e antica si sia trasformata in dubbio: a loro il nostro vecchio mondo giunge ogni giorno più vespertino, più sfiduciato, più estraneo, «più vecchio». Nel complesso però si può dire che quest'evento è di per sé troppo grande, troppo lontano, troppo in disparte dalle capacità di comprensione di molti perché si possa affermare che anche solo la sua notizia sia pervenuta; figuriamoci poi se molti potrebbero sapere che cosa esso comporti - e come debba crollare, una volta che sia stata seppellita questa fede, tutto ciò che su di essa era costruito, appoggiato, cresciuto: ad esempio tutta la nostra morale europea. Questa lunga pienezza e sequenza di demolizioni, distruzioni, tramonti, crolli ormai imminenti: chi già oggi potrebbe indovinare tutto questo, recitando la parte del maestro e profeta di questa mostruosa logica dell'orrore e preannunziando un oscuramento e un'eclissi di sole di cui probabilmente sulla terra non si è mai visto l'uguale?...

Persino noi, nati per sciogliere enigmi, che per così dire attendevamo sulle montagne, collocati fra l'oggi e il domani e partecipi della tensione, della contraddizione fra l'oggi e il domani, noi primogeniti e prematuri del secolo venturo, che dovremmo già scorgere le ombre che presto avvilupperanno l'Europa: da che cosa dipende che persino noi assistiamo a questo offuscamento senza una vera partecipazione e, soprattutto, senza preoccupazione e paura? Siamo forse ancora troppo soggetti alle conseguenze più immediate di questo evento - e queste immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, non sono assolutamente, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, tristi e rabbuianti, ma costituiscono un nuovo genere, difficile da descrivere, di luce, felicità, sollievo, rasserenamento, incoraggiamento, aurora... In effetti, noi filosofi e «spiriti liberi» ci sentiamo, alla notizia che il «vecchio Dio è morto», come sfiorati da una nuova aurora; il nostro cuore trabocca di gratitudine, stupore, presagi, attesa, - finalmente l'orizzonte ci sembra di nuovo libero, posto che non sia chiaro, finalmente le nostre navi possono riprendere il largo, verso ogni pericolo, agli uomini della conoscenza è di nuovo concesso ogni ardimento, il nostro mare, il mare aperto è di nuovo là, e forse non c'è mai stato un mare così «aperto».”

Questo brano è di fondamentale importanza. Per un verso, infatti, esso ribadisce il tramonto irreversibile non già della Religione, ma di tutto ciò di elevato in cui l’uomo ha creduto per scampare all’insignificanza del suo esserci. La morte di Dio è la morte di un senso ultimo dell’esperienza umana, che inaugura l’avvento del nichilismo:

“Descrivo quello che avverrà: l'avvento del nichilismo. Posso descriverlo ora, poiché ora si verifica qualcosa di necessario  i segni di ciò sono dappertutto, per questi segni non mancano ormai che gli occhi. Non lodo, né qui biasimo che ciò accada: io credo che c'è una delle crisi più grandi, il momento della più profonda autoriflessione dell'uomo: che poi l'uomo si riprenda, che riesca a dominare questa crisi, è questione della sua forza: è possibile... L'uomo moderno crede in modo sperimentale ora in questo, ora in quel valore e poi lo lascia decadere: la sfera dei valori superati e decaduti diventa sempre più grande; si sente sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile  benché sia stata tentata in grande stile la decelerazione. Alla fine egli tenta una critica dei valori in generale; ne conosce l'origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido... Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli...” (VP)

Per un altro verso, la scomparsa dall’orizzonte della cultura umana di un senso che trascende la vicenda mondana, produce due diverse conseguenze positive: la prima è il brivido di un’infinita libertà di pensiero che può muoversi in tutte le direzioni senza più steccati o recinti; la seconda è il ricondursi alla vita accettando la sua problematicità e ricavando da questa consapevolezza un senso di salute, di benessere, di pienezza.

Questo apparente paradosso, che giustifica la definizione del nichilismo nietzscheano come nichilismo attivo o positivo, è giustificato dal fatto che l’uomo, il quale riesce a rinunciare alle illusioni tradizionali, sa e sente di essere il precursore di una nuova umanità che non avrà più paura della propria condizione reale. Certo, questa prospettiva sembra estremamente remota:

“E qui soffoco un sospiro e una ultima speranza. Quale è, per me in particolare, la cosa intollerabile per eccellenza? La cosa che non riesco a dominare da solo, che mi mozza il fiato e mi consuma? Aria cattiva! Aria cattiva! La possibile vicinanza di qualcosa di deforme, il dover sentire il lezzo delle interiora di un'anima deforme!... Del resto, che cosa non sopportiamo di miseria, privazioni, intemperie, malattie, fatiche e solitudine? In fondo riusciamo a risolvere tutto il resto, fatti come siamo per un'esistenza sotterranea e di lotta; si ritorna sempre a vedere la luce, si riesce sempre a vivere ancora un'ora splendente di vittoria  e allora eccoci, come siamo nati, indistruttibili, tesi, pronti al nuovo, all'ancora più difficile, più lontano, come un arco teso al massimo dal massimo della tribolazione.  

Ma di tempo in tempo mi sia concesso  posto che esistano divine protettrici, al di là del bene e del male  uno sguardo, mi sia concesso un solo sguardo su qualcosa di perfetto, di compiuto, felice, potente, trionfante, tale ancora da incutere qualche timore! Su un uomo, che giustifichi l'uomo su un felice accidente, complementare e salvifico dell'uomo, in grazia del quale si possa continuare ad aver fede nell'uomo. Poiché è così: l'immiserimento e il livellamento dell'uomo europeo cela in sé il nostro più grande pericolo, perché questo spettacolo rende stanchi...

Oggi non vediamo niente che voglia diventare più grande, si ha il presagio che tutto continui ad affondare sempre più in basso, e si faccia sempre più sottile, più buono, più intelligente, più confortevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano  l'uomo, e questo è indubbio  si fa sempre «migliore»... E questo è appunto il fatale destino d'Europa  col timore per l'uomo abbiamo perso anche l'amore, la venerazione, la speranza e la volontà verso l'uomo stesso. La vista dell'uomo rende ormai stanchi  e che cosa è oggi il nichilismo se non questo?... Siamo stanchi dell'uomo...”  (GM)

Nietzsche, però, non ha alcun dubbio riguardo all’avvento del Superuomo, che preconizza e definisce in termini che sono anche contraddittori, ma non scevri di un commovente utopismo:

“99

Forza, bontà, dolcezza, purezza e una involontaria, innata misura nelle persone e nelle loro azioni; un terreno spianato, piacevole e riposante per il piede; un cielo luminoso che si riflette su volti e avvenimenti; il sapere e l'arte confluiti in una nuova unità; lo spirito che, senza presunzione e gelosia, abita con l'anima sua sorella e dall'opposizione ricava la grazia della serietà, non l'impazienza del dissidio:  tutto ciò costituirebbe l'elemento generale di contorno, lo sfondo dorato sul quale soltanto allora le lievi differenze tra gli ideali incarnati creerebbero il quadro vero e proprio  quello di una sempre crescente altezza umana.” (UTU)

“180.

Una visione.  Ore di insegnamento e contemplazione per adulti, maturi e assai maturi, ogni giorno, senza costrizione, ma frequentate secondo i dettami della morale di ciascuno: le chiese come i luoghi per ciò più degni e ricchi di ricordi; per così dire, quotidiane feste celebrative della dignità della ragione umana raggiunta e raggiungibile; un nuovo e più pieno sbocciare e fiorire dell'ideale del maestro, nel quale dovrebbero fondersi il sacerdote, l'artista e il medico, il sapiente e il saggio, e così pure venire alla luce, nel loro insegnamento, nel loro discorso, nel loro metodo, le loro virtù individuali come una virtù collettiva  è questa la mia visione, che sempre mi si ripresenta e che credo fermamente abbia sollevato un lembo del velo del futuro.

Se la genialità, secondo quanto osserva Schopenhauer, consiste nel ricordo coerente e vivo di ciò che si è vissuto, allora nell'aspirazione a conoscere l'intero divenire storico  che sempre più potentemente distanzia l'epoca moderna da tutte le precedenti e ha fatto crollare per la prima volta la vecchia barriera tra natura e spirito, uomo e animale, morale e fisica  si potrebbe riconoscere un'aspirazione alla genialità dell'umanità nel suo complesso. La storia pensata compiutamente sarebbe autocoscienza cosmica.” (UTU)

“Stati d'animo elevati.

Mi sembra che la maggior parte degli uomini non credano proprio negli stati d'animo elevati, tranne che per pochi istanti, al massimo qualche quarto d'ora, - con l'eccezione di quei pochi che hanno sperimentato personalmente sentimenti elevati di durata più lunga. Ma essere l'uomo di un unico sentimento elevato, l'incarnazione di un unico grande stato d'animo - questo è stato finora soltanto un sogno e una possibilità incantevole, ma la storia non ce ne ha fornito nessun esempio certo.

Eppure, prima o poi, essa potrebbe generare anche uomini siffatti, purché siano state create e stabilite una serie di condizioni preliminari favorevoli che, per ora, neppure il più felice dei casi riuscirebbe a mettere insieme. Forse lo stato abituale di queste anime future sarebbe proprio quello che sinora si è fatto strada nelle nostre anime soltanto con un brivido, eccezionalmente e di rado: un continuo altalenare tra alto e profondo e la sensazione di altezza e profondità, una costante impressione di salire le scale e, al contempo, di riposare sulle nuvole.”  (GS)

“L '«umanità» futura.

Se guardo la nostra epoca con gli occhi di un'epoca lontana, non riesco a trovare nell'uomo di oggi niente di più straordinario di quella sua peculiare virtù e malattia denominata «senso storico». Con esso prende le mosse un qualcosa di totalmente nuovo e sconosciuto alla storia: se a questo seme si concedessero alcuni secoli e più, se ne potrebbe ricavare, alla fine, una pianta meravigliosa, con un profumo altrettanto meraviglioso, grazie alla quale la nostra vecchia terra diverrebbe più piacevole da abitare di quanto non lo sia adesso.

Noi del presente cominciamo per l'appunto a costituire la catena di un sentimento che in futuro sarà molto potente, un anello dopo l'altro, - sappiamo appena quel che stiamo facendo. Ci sembra quasi che non si tratti di un nuovo sentimento, ma della rimozione di tutti i vecchi sentimenti: il senso storico è ancora qualcosa di così povero e freddo, e molti ne sono aggrediti come dal gelo, diventando così ancora più poveri e freddi. Altri lo avvertono invece come il segno di un'età che si avvicina, e il nostro pianeta sembra loro un malato malinconico che, per dimenticare il suo presente, mette per iscritto la storia della sua gioventù.

In effetti questo è un colore di questo nuovo sentimento: chi sa percepire tutta la storia dell'uomo come storia personale avverte anche, in virtù d'una generalizzazione enorme, tutto il cruccio del malato che pensa alla salute, del vecchio che pensa ai suoi sogni di gioventù, dell'amante che è derubato dell'amato, del martire che vede affondare i suoi ideali, dell'eroe la sera della battaglia che non ha deciso niente e tuttavia gli ha inflitto ferite e la perdita dell'amico; ma sopportare, saper sopportare questa enorme somma di crucci d'ogni genere e tuttavia essere ancora l'eroe che, allo spuntare di un secondo giorno di battaglia, saluta l'aurora e la propria felicità, in quanto uomo con davanti a sé e dietro a sé un orizzonte di millenni, in quanto erede di tutta la distinzione di tutto lo spirito passato, erede con i suoi obblighi, in quanto il più nobile di tutti i nobili dell'antichità e al contempo il primo di una nuova nobiltà, i cui pari nessuna epoca ha ancora veduto e sognato; e infine caricarsi tutto ciò in una sola anima e condensarlo in un unico sentimento: questo dovrebbe procurare una felicità che l'uomo non ha ancora conosciuto, la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, colmo di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole a sera, continua a effondere nel, mare doni tratti dalla sua inesauribile ricchezza e che, come lui, si sente ricchissima soltanto quando anche il più povero dei pescatori rema con un remo d'oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora - umanità!” (GS)

“Ma prima o poi, in un'età più forte di questo presente marcio e dubbioso di sé, dovrà pure giungere fino a noi l'uomo del riscatto, l'uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, sempre di nuovo sospinto dall'urgere della sua forza via da ogni isolamento, da ogni trascendenza, l'uomo la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà  mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo affondare nella realtà, per poter estrarre e portare con sé un giorno, tornato nuovamente alla luce, la redenzione di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che l'ideale, quale esso è stato finora, le ha gettato addosso.

Quest'uomo del futuro, che ci redimerà non solo dall'ideale quale è stato sino ad oggi, ma anche da quello che da esso dovette nascere, dalla grande nausea, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco del mezzodì e della grande decisione, che libererà di nuovo l'uomo, che restituirà alla terra la sua meta e all'uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla  dovrà venire un giorno...” (GM)

Se si fa eccezione per l’ossessione secondo la quale il Superuomo potrà realizzarsi solo sulla base del sacrificio di innumerevoli esseri umani (ossessione dovuta al fatto che Nietzsche vede nel sacro egoismo e nel cinismo gli unici antidoti nei confronti dell’istinto del gregge e dell'omologazione), è evidente che l’utopia di Nietzsche concerne un universo  di spiriti liberi, aperti ad ogni novità, coraggiosi nell’affrontare le vicissitudini dell’esistenza, nobili nella misura in cui essi avvertono l’impulso allo sviluppo e all’autorealizzazione come bisogno intrinseco e non dipendente da valori trascendenti (religiosi, morali o sociali): un universo, insomma, di spiriti totalmente devoluti all’individuazione e affrancati dall’istinto del gregge.

C’è, come ormai risulta chiaro, molto di autobiografico in questa utopia, che è la proiezione nel futuro del tragitto di individuazione eroica nel quale Nietzsche ha identificato il suo destino di guida e di precursore della nuova umanità. C’è anche molto di inconscio in questo ideale di uomo liberato da ogni suggestione trascendente e da qualsivoglia influenza sociale che è in antitesi radicale al modo in cui Nietzsche è vissuto sino all’adolescenza.

Ciò nondimeno, se ci si tura il naso in rapporto alla selvaggia selezione naturale che Nietzsche ritiene indispensabile per l’avvento del Superuomo, non si può non rimanere sorpresi dal fatto che l’utopia nietzschiana non è radicalmente diversa da quella marxiana dell’uomo nuovo, universale o totale. In entrambe si esprime un’insofferenza radicale nei confronti del modello borghese di uomo, del suo angusto orizzonte, dei suoi mediocri obbiettivi (la sicurezza, la proprietà, il successo, ecc.) e la necessità impaziente che questo tipo d’uomo vada superato.

Ma in che termini si può oggi porre il problema del superamento dell’uomo? E qual è il contributo che Nietzsche, con il suo genio e i suoi eccessi, può ancora apportare a tale superamento?

Cercherò di rispondere a questi interrogativi nell’ultima conferenza.


 

Lettura V

Ciò che è vivo e ciò che è morto di Nietzsche
Indice
Premessa. Il dramma e la grandezza di Nietzsche
Le forzature ideologiche di Nietzsche
Alla ricerca della libertà
Da Marcuse a Cristopher Lasch
Volontà di potenza e natura umana
Il primato del corpo sulla mente
Coscienza e Inconscio
Nietzsche tra Filosofia e Panantropologia
Nietzsche e il post-modernismo
Premessa. Il dramma e la grandezza di Nietzsche

Nel corso delle conferenze ho cercato di prendere sul serio la citazione riportata come esergo della prima, nella quale Nietzsche stesso sollecita a valutare il suo pensiero e la sua ricerca come una confessione le cui matrici affondano nelle memorie e nell’organizzazione dell’inconscio.

Prendere sul serio tale intuizione porta ad identificare tre nuclei dinamici che sottendono l’impresa di Nietzsche: il sospetto nei confronti di tutte le tradizioni e di tutti i valori ritenuti sacri; la rivendicazione della capacità critica e destruens della mente umana affrancata dall’ipnosi del gregge; la necessità di essere duro e crudele, con se stesso e con gli altri, per portare quella capacità alle estreme conseguenze.

Non è difficile capire, alla luce della biografia di Nietzsche, l’origine e il significato di questi tre nuclei. Il sospetto deriva dalla risoluzione dell’ipnosi mistica in cui egli è vissuto sino alla tarda adolescenza; la rivendicazione della capacità critica della mente dallo sprigionarsi di una genialità rimasta in precedenza intrappolata in una visione del mondo religiosa; la necessità di essere duro e crudele dalla paura di cadere nuovamente nella trappola dell’istinto del gregge e dal rifiuto, conseguente ad essa, di abbandonarsi a qualsivoglia influenza sociale.

Quest’ultimo aspetto è in assoluto il più importante. Esso ha portato infatti Nietzsche sul terreno di un’individuazione eroica, che ha richiesto il sacrificio della sua sensibilità sociale, l’isolamento progressivo e alla fine completo dal mondo e dall’affettività, e l’adozione di una logica interpretativa della condizione umana sul registro dell’antitesi e dell’esclusione di qualunque mediazione dialettica.

Non sarebbe rispettoso nei confronti di Nietzsche iscrivere la sua vicenda nell’ambito di una “patologia” del bisogno di individuazione, che ha cristallizzato il suo modo di sentire e di pensare sul registro dell’Io antitetico. Sarebbe addirittura ridicolo dato che Nietzsche stesso ha riconosciuto nella sua “malattia” la matrice del suo spirito critico e della sua grandezza. Al tempo stesso, è inevitabile identificare nel suo pensiero, oltre che nella sua vicenda umana, gli indizi di una genialità squilibrata e tendente costantemente all’eccesso.

I contributi imperituri che il funambolo Nietzsche ha donato all’umanità, prima della caduta finale, espressivi della sua genialità sono facili da elencare:
      - la difficoltà dell’uomo di accettare la sua appartenenza al mondo naturale, e di essere un animale insignificante come gli altri nell’economia dell’universo:
      - il ruolo tranquillizzante e al tempo stesso alienante della morale e della cultura
      - la tendenza della coscienza ad ingannare se stessa e a farsi ingannare
      - la religione come espressione estrema del bisogno di sfuggire alla verità che ingabbia l’uomo nell’orizzonte mondano e nel suo destino personale
      - la critica del libero arbitrio e, di conseguenza, dell'imputabilità e della punibilità
      - la critica della scienza nella sua pretesa di sostituire la religione donando all’uomo nuove certezze assolute
      - la contestazione del progresso borghese e della democrazia come forma più sottile e insidiosa di schiavizzazione dell’essere umano
      - il richiamo all’uomo di dimostrarsi all’altezza della sfida cui è stato chiamato dal caso accettando i suoi limiti e il dolore dell’esistenza senza rinunciare alla sua incoercibile vocazione verso un’autentica felicità, che implica il sì alla vita

Ciascuno di questi contributi, come si è visto nel corso delle letture, può essere sottoposto ad un’analisi critica e discusso in nome di ulteriori dati forniti dalle scienze umane e sociali più recenti. Tale analisi, se consente di recuperare il pensiero di Nietzsche in una dimensione dialettica, estranea alla logica antitetica che egli adotta, nulla toglie ad un’avventura intellettuale e creativa che si può ritenere tra le più straordinarie che mai siano state realizzate da un essere umano.

Di questa avventura, alcuni aspetti, in parte già discussi, meritano di essere approfonditi.

Nonostante Nietzsche abbia rivendicato più volte il suo ruolo di psicologo, che oggi, per la vastità smisurata dei suoi interessi, sarebbe più opportuno definire come di panantropologo, egli ha avuto la “sventura” di essere stato identificato come filosofo e di essere stato interpretato e commentato prevalentemente da filosofi. Pur non avendo letto tutta la letteratura filosofica dedicata a Nietzsche, ne ho letto quanto basta per giungere alla conclusione che essa è, nel suo complesso insoddisfacente. I filosofi della cattedra - genia che Nietzsche ha criticato ferocemente - non possono fare a meno di esporre sistematicamente il suo pensiero, con l’intento segreto di confrontarsi con esso. I filosofi maggiori - per esempio Heidegger, Jaspers, Derrida, ecc. - tendono viceversa ad assimilare Nietzsche al loro sistema di pensiero.

Sfugge ai filosofi per un verso la patologia dell’individuazione che sottende il pensiero di Nietzsche, vale a dire la matrice personale del suo pensiero, e, per un altro, la dimensione panantropologica dello stesso, che, pur rifiutando un’organizzazione sistematica, giunge a definire una visione del mondo che concerne l’origine e il posto dell’uomo nel mondo, la sua natura, il significato dell’interazione tra questa e la cultura, ecc.

Una lettura panantropologica di Nietzsche postula, a mio avviso, oggi più che mai, di valutare le sue ipotesi non già alla luce della storia della filosofia, ma dei dati forniti dalle scienze umane e sociali. Si tratta, ovviamente, di un’impresa alquanto difficile, che, in questa sede, può essere affrontata solo parzialmente per valutare ciò che è vivo e ciò che è morto in Nietzsche.

Alla ricerca della libertà

C’è un paradosso che sottende tutta l’esperienza umana e intellettuale di Nietzsche. Per un verso, infatti, egli, come abbiamo visto nella conferenza precedente, nega che esista il libero arbitrio in nome del fatto che l’organizzazione del comportamento umano è determinata dall’organizzazione gerarchica di motivazioni che agiscono al di sotto della coscienza. Su questo determinismo pressoché assoluto si fonda il sì alla vita, vale a dire l’accettazione consapevole e coraggiosa della casualità, della contraddittorietà e dell’irrazionalità che dominano l’esistenza.

Per un altro verso, però, Nietzsche esalta la libertà al punto da sacrificare ad essa la sua vita e da perseguirla all’insegna di un’individuazione eroica, che lo mette in rotta con il mondo. Che cos’è, in ultima analisi, il Superuomo se non uno spirito libero?

Si potrebbe spiegare questo paradosso ipotizzando che per Nietzsche la libertà esiste solo sotto forma di opposizione nei confronti delle Tradizioni, del senso comune, dei valori morali correnti. Si tratterebbe però di una spiegazione riduttiva.

Torniamo alla citazione posta come esergo della prima lettura. Essa contiene due intuizioni vertiginose. La prima è che la morale, vale a dire il modo di sentire, di pensare e di agire, non solo del filosofo ma di ogni individuo, è sempre oggettivato dal suo comportamento, nel quale confluiscono la coscienza e l’inconscio. La seconda è che il vero essere dell’uomo non coincide quasi mai con ciò che egli pensa di sé poiché dipende da ciò che si agita al di sotto della coscienza.

Si potrebbero condensare queste intuizioni in un messaggio che suonerebbe così: l’uomo è quello che fa e quello che fa è determinato sostanzialmente da motivazioni inconsce.

Nietzsche ritiene - lo si ricava da tutta la sua opera - che queste motivazioni siano di due generi: le une, che verrebbe da definire sovrastrutturali, sono la conseguenza dell’influenza ambientale, dell’educazione, della cultura, le altre, infrastrutturali, sono di ordine naturale.

Su questa base, riesce evidente che per libertà Nietzsche intende un processo di liberazione delle pulsioni naturali, che spingono l’uomo ad affermare e realizzare le sue potenzialità individuali, la sua vocazione ad essere, dalle inibizioni, dalle repressioni e dalle distorsioni prodotte dall’appartenenza culturale.

Il rovesciamento degli idoli che Nietzsche persegue, e cioè la necessità di abbattere tutti i valori che l’istinto del gregge ha prodotto nel tentativo di contenere la volontà di potenza individuale, assume il suo pieno significato solo tenendo conto dell’obiettivo di liberare la natura umana da un’oppressione secolare che le ha impedito di dispiegarsi.

Se teniamo conto che la volontà di potenza di cui parla Nietzsche oggi può essere identificata con il bisogno di opposizione/individuazione, c’è molto di vero nel suo pensiero.

Sarebbe ingenuo, però, ignorare che la libertà cui aspira Nietzsche è un’utopia. Oggi sappiamo, infatti, che, per quanto un individuo possa essere dotato di genialità critica e di capacità introspettive, nel suo tragitto di liberazione dalle influenze culturali alienanti , esso si imbatte in un ostacolo insormontabile. L’influenza, infatti, dell’appartenenza e della cultura sulla mente umana, che coinvolge l’inconscio ancor più della coscienza, è tale che, nel fondo della mente umana, si danno sempre residui “ideologici” che non possono essere mai del tutto estirpati.

Non è ragionevole identificare in questo aspetto, come fa Nietzsche, un male assoluto. Hans G. Gadamer, uno dei filosofi più influenti del Novecento, partendo dal fatto che l’uomo, gettato nella realtà storica con le sue limitate capacità di comprenderne la complessità, non può fare altro, consciamente e inconsciamente, che interpretarla - e l’interpretazione esclude che egli possa arrivare alla verità assoluta - è giunto a riabilitare il concetto di pre-giudizio, che l’Illuminismo razionalistico ha totalmente squalificato. Secondo Gadamer, un tessuto pre-giudiziale è costitutivo della soggettività umana come conseguenza della sua appartenenza storico-culturale. Per pre-giudizio egli intende ciò che gli uomini del passato hanno ritenuto valido e hanno selezionato, dunque la Tradizione culturale. Senza questo patrimonio di sapere, gli uomini dovrebbero ad ogni generazione ricominciare da capo. Essi hanno dunque bisogno di interiorizzare i pre-giudizi per giungere alla consapevolezza di sé e all’attività critica.

Gadamer riconosce che tra i pre-giudizi se ne danno anche di profondamente errati o addirittura aberranti, ma ritiene anche che, se si prescinde dal ritenere che le generazioni passate abbiano sbagliato in tutto, se ne diano di giusti e di profondi.

Una liberazione radicale dai pre-giudizi così intesi, è praticamente impossibile per chiunque. Ciò che l’uomo, e a maggior ragione, lo studioso può fare è mantenere un atteggiamento critico, vale a dire cercare di comprendere quali pre-giudizi o presupposti ideologici guidano il suo modo di pensare, di sentire e di agire.

Con la sua avversione radicale nei confronti dell’influenza sociale, Nietzsche, attraverso il rovesciamento di tutti gli idoli, ha tentato un’impresa impossibile. La sua strenua volontà di affrancarsi da tutti i pre-giudizi lo ha portato fuori misura e non lo ha affrancato affatto da un’ideologia che miete di continuo vittime tra gli intellettuali il cui obiettivo è di afferrare la chiave ultima della condizione umana, che non può prescindere da una teoria inerente la natura umana. Tale ideologia comporta proprio il confondere il personale con l’impersonale, vale a dire ricavare quella teoria dalla propria esperienza soggettiva, conscia e inconscia, che è di ordine storico-culturale.

Si possono fornire indefiniti esempi a riguardo. Ne fornisco uno, significativo del fatto che tutti gli studiosi nel campo delle scienze umane e sociali si stanno orientando verso l’Araba Fenice della panantropologia.

Di recente, un biologo che ha ricevuto nel 1974 il Premio Nobel, ha pubblicato un libro dal titolo singolare: Genetica del peccato originale. L’autore - Christian de Duve - è un biologo che ha scritto negli ultimi anni due libri importanti sull’evoluzionismo: nel 2003 "Come evolve la vita. Dalle molecole alla mente simbolica" e nel 2008 "Alle Origini della Vita".

Ne Il peccato originale, dopo avere illustrato alcuni aspetti rilevanti della storia dell’umanità (la crescita demografica, le guerre e i conflitti perpetui, il deterioramento del pianeta), egli fornisce la seguente “spiegazione” del titolo:

“La selezione naturale, questo motore potentissimo dell'evoluzione, ha privilegiato nei geni dei nostri progenitori tratti che erano immediatamente favorevoli alla loro sopravvivenza e alla loro riproduzione, nelle condizioni vigenti al loro tempo e nel loro ambiente, senza alcun riguardo per le conseguenze future...

La selezione naturale ha privilegiato indistintamente tutte le qualità personali in grado di contribuire al successo immediato degli individui.

I tratti umani conservati dalla selezione naturale si sono rivelati straordinariamente fecondi. Senza pretendere di farne un inventario completo, che è attualmente fuori della nostra portata, vi trovo in particolare un certo numero di proprietà individuali fra cui l'intelligenza, l'inventività, la destrezza, l'ingegnosità e il potere di comunicare, altrettante qualità che dobbiamo al cervello estremamente efficiente da noi acquisito nel corso degli ultimi milioni di anni e che hanno permesso le fantastiche realizzazioni scientifiche e tecnologiche a cui si deve il nostro successo evolutivo.

I caratteri selezionati comprendevano, però, anche l'egoismo, la cupidigia, l'astuzia, l'aggressività e ogni altra proprietà suscettibile di apportare un beneficio personale immediato, indipendentemente da ogni costo futuro per se stessi o per gli altri. La crisi finanziaria mondiale che si è abbattuta sul nostro mondo come un uragano nell'autunno 2008 illustra in un modo particolarmente drammatico la persistenza di quei caratteri nel mondo attuale. Di contro, la selezione naturale ha favorito assai poco qualità i cui vantaggi non si sarebbero potuti manifestare se non a lungo termine, come la preveggenza, la prudenza, il senso di responsabilità e la saggezza. I frutti di queste qualità sarebbero apparsi per lo più troppo tardi per essere selezionati.

Sul piano collettivo, la selezione naturale ha favorito tratti come la solidarietà, lo spirito di cooperazione, la tolleranza, la compassione, l'altruismo, fino al sacrificio personale per il bene comune, che costituiscono i fondamenti delle società umane. Queste buone disposizioni sono però generalmente limitate ai membri di determinati gruppi dati. La contropartita negativa di questi tratti "buoni" ha compreso un atteggiamento difensivo, la diffidenza, la competitività e l'ostilità verso i membri di altri gruppi: tratti che sono all'origine dei conflitti e delle guerre che hanno caratterizzato l'intera storia dell'umanità fino ai nostri giorni...

La ricerca dell'interesse immediato, sia essa individuale o collettiva, spiega altrettanto bene il nostro sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali quanto la nostra assenza di preoccupazione per le conseguenze nefaste delle nostre attività, i cui effetti sono cresciuti oggi fino a minacciare il futuro della nostra specie e quello di buona parte del mondo vivente. Tutto ciò che va oltre il futuro immediato, si tratti della nostra pensione, della nostra speranza di vita, della sorte dei nostri figli e nipoti o della data delle prossime elezioni, per limitarci a citare alcune scadenze familiari, non ci preoccupa.
Tutti questi fatti sono noti e abbondantemente denunciati dai media. Ciò che io, come biologo, ho voluto sottolineare in questo libro, è che essi derivano da tratti innati, iscritti e preservati nei nostri geni dalla selezione naturale. Utili in passato, in una certa fase della nostra evoluzione, questi tratti sono diventati nocivi. Essi costituiscono un fardello naturale che ci assumiamo alla nascita. Questo difetto della natura umana non è sfuggito alla perspicacia dei nostri antenati.

Il peccato originale non è altro che il difetto iscritto nei geni umani dalla selezione naturale
Gli antichi saggi nulla sapevano del DNA e della selezione naturale, ma capivano abbastanza dell'eredità per potere scrivere la storia dell'umanità in termini di generazioni successive risalendo fino ai nostri più remoti progenitori. E sapevano abbastanza della natura umana per essere in grado di scoprirvi un difetto fondamentale, lasciatoci dai nostri avi e trasmesso di generazione in generazione. Essi immaginarono così, per spiegare questa tara ereditaria in termini di nozioni che erano loro familiari, il mito stupefacente del peccato originale, collocato nel contesto nostalgico di un paradiso perduto. E, per non abbandonarsi alla disperazione, inventarono l'idea del riscatto, o meglio dell'atto di redenzione che sarebbe venuto a salvare l'umanità dalla sua caduta. Questo mito ispira ancora oggi le credenze, le speranze e i comportamenti di buona parte dell'umanità. Ecco perché non era del tutto inappropriato indicare il "colpevole", come ho fatto all'inizio di questo capitolo, nella selezione naturale, salvo che per il fatto che non si tratta di colpa nel senso generale del termine. Non c'è nessuna Eva da incolpare, e nessun serpente, ma solo la selezione naturale, che è inevitabilmente cieca, insensibile, priva di preveggenza come di responsabilità...

Meno romantica del racconto della Genesi, la nozione proposta ha il merito di fondarsi sulla realtà. Invece di fare appello all'intervento di un ipotetico redentore che sfugge totalmente al nostro controllo, essa conferisce all'umanità stessa il potere e la responsabilità di cancellare la tara originaria, o quanto meno di contrastarne le conseguenze. Anzi, noi siamo gli unici fra tutti gli esseri viventi sulla Terra a non essere totalmente schiavi della selezione naturale. Grazie al nostro cervello superiore, noi
abbiamo la capacità di riflettere sul futuro e di ragionare, di decidere e di agire alla luce delle nostre previsioni e aspettative, anche contro il nostro interesse immediato se occorre, e a beneficio di un bene futuro. Noi possediamo la facoltà unica di poter agire contro la selezione naturale.” (pp. 171-175)

Tra Natura e Cultura, insomma, dovendo attribuire la “colpa” della nostra condizione, de Duve non ha dubbi: la colpa sta dalla parte della prima.

E’ evidente che egli assume l’uomo che ha sotto gli occhi - l’individuo borghese e addirittura lo speculatore finanziario - come uomo universale, e dà per scontato che l’individuo, come noi lo concepiamo, sia sempre esistito. Si tratta di presupposti ampiamente ideologici che dà come scontati. Non potrebbe essere forse diversamente, dato che egli ha dedicato la sua vita allo studio della cellula e, presumibilmente, come accade a diversi biologi, è portato a pensare che la cellula venga prima dell’organismo.

E’ facile, peraltro, dimostrare che l’intuizione nietzschiana del carattere inesorabilmente personale e inconscio delle teorie che vengono costruite per spiegare la natura umana vale per gran parte degli studiosi che operano nell’ambito delle scienze umane e sociali. Da qualche tempo a questa parte, in conseguenza dello sviluppo di tecniche particolari, la frontiera della ricerca sull’uomo è divenuta lo studio del cervello. La neurobiologia è letteralmente esplosa, ma sono esplosi anche i contrasti tra gli studiosi che si dividono tra neuronali e umorali, dualisti e monisti, cognitivisti e “misteriani”. I contrasti, ovviamente, vengono portati avanti sulla base di argomentazioni scientifiche, ma di fatto essi corrispondono a opzioni ideologiche di fondo - razionalismo/passionalismo, spiritualismo/materialismo, scientismo/antiscientismo, ecc. - dietro ciascuna delle quali si danno modi di sentire e di vedere, che affondano le loro radici nella storia personale degli autori, nella loro ideologia e, da ultimo, nell’inconscio.

Prendere sul serio quell’intuizione e applicarla al pensiero di Nietzsche, come si è visto, non è però affatto semplice. Con la sua pretesa di totale onestà interiore, e nonostante una capacità riflessiva, introspettiva e critica che ha pochi confronti nella storia della cultura, Nietzsche non sfugge al ricatto ideologico della mente umana, che tende comunque a trasformare il personale in impersonale e a velare quanto di soggettivo e di inconscio si dà nell’attività del pensiero.

La sua ricerca della libertà assoluta dalle influenze sociali è esitata pertanto in una serie di splendide intuizioni, ma anche di forzature ideologiche, valer a dire di pre-giudizi nel senso negativo del termine.

Le forzature ideologiche di Nietzsche

Ho ribadito più volte che la catastrofe psicologica sopravvenuta con la perdita di una fede intensamente partecipata fino alla tarda adolescenza è, a mio avviso, l’evento più importante della storia interiore di Nietzsche. Le conseguenze di tale catastrofe sono rese del tutto evidenti dall’ossessione anticristiana che lo ha letteralmente perseguitato, sino ad indurlo (con l’Anticristo e Ecce homo) ad una vera e propria identificazione con Gesù, interpretato come uno “spirito libero”. Ciò nondimeno, come abbiamo visto, Nietzsche è giunto a negare che la religione abbia avuto un qualunque rilievo psicologico nella sua esperienza personale, estendendo tale negazione sino all’infanzia, come se avesse letteralmente rimosso le struggenti testimonianze mistiche affidate agli scritti autobiografici.

A mio avviso, però, più della perdita della fede, sopravvenuta in seguito ad una prepotente spinta adolescenziale verso l'individuazione, sono state le sue conseguenze soggettive a determinare la carriera umana e intellettuale di Nietzsche. Le ho analizzate nel corso della prima Conferenza, per cui mi limito ad elencarle: la fobia di qualsivoglia tipo di influenza sociale, vissuta come contaminante e alienante; il desiderio nostalgico dell’armonia perduta, che si è realizzata in virtù del nichilismo positivo, vale a dire del sì alla vita; lo sprigionarsi di uno spirito critico che, rifiutando ogni trascendenza e non riconoscendo alcun limite, si è posto l’obiettivo di demistificare, sul piano individuale, collettivo e storico-culturale, l’esperienza umana, riconducendola alla nuda verità della sua radicale insignificanza e del suo essere espressione di una sola motivazione impersonale - la volontà di potenza, intesa come affermazione della “forza” dell’individuo contro ogni resistenza che ad essa si oppone.

In queste conseguenze è agevole identificare l’espressione di un’“apertura degli occhi” sulla realtà del mondo e della vita intervenuta traumaticamente a livello adolescenziale e che è stata abreagita non solo accettando il trauma, ma ripetendolo coattivamente nel corso dell’esistenza sotto forma di demolizione di tutti i sistemi di valore su cui si fonda la Civiltà occidentale.

Il tragitto umano e intellettuale di Nietzsche è fin troppo facilmente riconducibile ad una crisi adolescenziale “maligna”, rimasta persistentemente cristallizzata sul registro del Grande Rifiuto nei confronti del mondo e di un’opposizionismo e negativismo viscerali nei confronti di qualsivoglia Norma o Tradizione.

Realizzandosi in un individuo dotato di potenzialità intellettuali indubbiamente geniali, tale processo ha esaltato lo spirito critico e la creatività, ma ha comporta inesorabilmente delle forzature “ideologiche” che in Nietzsche sono del tutto evidenti.

La forzatura di maggiore peso è ricondotta solitamente alla maledizione del Cristianesimo, che conclude l’Anticristo:

“Condanno il cristianesimo, sollevo contro la Chiesa cristiana l'accusa più terribile che abbia mai levato un accusatore. A mio parere essa, la più grande corruzione che si possa immaginare, ha avuto la volontà dell'ultima corruzione possibile. La Chiesa cristiana non ha lasciato nulla di intatto nella sua corruzione, ha reso ogni valore un disvalore, ogni verità una menzogna, ogni integrità una bassezza d'animo. E si osi ancora parlarmi dei suoi benefici «umanitari»! Abolire una condizione di miseria era contrario al suo più profondo vantaggio: ha vissuto sulla miseria, ha creato miserie per fare eterna se stessa...
Per esempio il germe del peccato: fu soltanto la Chiesa ad arricchire l'umanità di tale misera condizione! L' «uguaglianza delle anime davanti a Dio»: questa falsità, questo pretesto di rancunes delle persone abiette, questo concetto esplosivo che infine divenne rivoluzione, idea moderna e principio del declino dell'intero ordine sociale, è dinamite cristiana...
Benefici «umanitari» del cristianesimo! Coltivare dalla humanitas una contraddizione di sé stessi, un'arte di autolesionismo, una volontà di mentire a qualsiasi costo, un'avversione e un disprezzo per ogni istinto buono e onesto! Eccoli i benefici del cristianesimo! Il parassitismo come unica prassi della Chiesa; con il suo ideale di anemia, di «santità» che succhia tutto il sangue, l'amore e la speranza di vita; l'aldilà come volontà di negare ogni realtà: la croce come distintivo di riconoscimento per la cospirazione più lugubre che sia mai esistita, una cospirazione contro il benessere, la bellezza, la buona costruzione, il valore, lo spirito, la bontà d'animo, contro la vita stessa…”

Nonostante un fondo indubbio di verità, tali frasi sono state scritte da un soggetto che presagiva la catastrofe che incombeva nel suo inconscio, e, non essendo in grado di interpretarla, opponeva ad essa come difesa un delirio di onnipotenza.

La necessità di affrancare l’umanità dalla religione non nasce certo con Nietzsche. Da Senofane, che sottolineò il carattere antropomorfico della divinità, sino a Marx, quella necessità si è posta ricorrentemente nella storia della cultura umana, e si è incrementata dopo l’avvento dell’Illuminismo. A differenza di Marx, che ritiene indispensabile l’abbandono della religione affinché gli uomini aprano gli occhi sull’ingiustizia dello stato di cose esistente sulla Terra e si propongano di lottare per sormontarlo, senza abbandonarsi alla fantasia dell’aldilà, Nietzsche ritiene che quell’abbandono sia necessario per consentire all’umanità di giungere ad una consapevolezza definitiva sulla sua condizione che promuova il sì alla vita e riabiliti l’unico scopo che può dare senso alla sua comparsa casuale: il procedere verso l’oltreuomo, il regno degli spiriti liberi.

La convinzione di Marx che la concezione storico-dialettica della realtà potesse porre fine all’alienazione religiosa è risultata oltremodo ingenua. Quella di Nietzsche, oltre che ingenua, è tracotante: egli pensa, infatti, con la sua opera, di aver messo Dio a morte e, in quanto Anticristo, di avere avviato un nuovo ciclo di Civiltà.

Cosa dire a riguardo?

Non è prevedibile, se non in tempi molto lunghi, che la religione - il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islamismo, il Buddismo, l’Induismo, ecc. - possa essere sradicata dalla cultura umana, e non tanto perché essa, sia pure in forme diverse, fornisce una risposta all’intuizione dell’Infinito che circola nella mente umana e ai problemi ultimi dell’esistenza. Il problema è che ogni religione, laddove è radicata, rappresenta un mito fondativo, vale a dire concorre a dare ad un gruppo, ad un’etnia, ad una nazione o ad un insieme di nazioni un senso di identità.

Per qualunque collettività, non diversamente da quanto accade al singolo individuo, non c’è terrore maggiore della perdita di identità.

Nel 2001, un antropologo - Francesco Remotti - ha scritto un libro il cui titolo è poco equivocabile: Contro l’identità. Il titolo provocatorio fa riferimento al fatto che l'identità, sia a livello individuale che collettivo, è un "tentativo talvolta eroico (e irrinunciabile) di salvazione rispetto all'inesorabilità del flusso e del mutamento" (p. 10) e, per ciò, tende naturalmente a irrigidirsi e a cristallizzarsi fino al punto di chiudersi e misconoscere le connessioni con lo sfondo cui appartiene e con il flusso che permane al fondo di ogni vicenda. L’ossessione identitaria fa capo alla necessità di differenziare l’Io dall’Altro e il Noi da Loro. Essa tende all’irrigidimento perché “rimane incancellabile il sospetto, al fondo persino la certezza, che la propria forma di umanità (la propria identità) non è la sola… Vi è tensione tra identità e alterità: l'identità si costruisce a scapito dell'alterità, riducendo drasticamente le potenzialità alternative; è interesse perciò dell'identità schiacciare, far scomparire dall'orizzonte l'alterità. […] Questo gesto di separazione, di allontanamento, di rifiuto e persino di negazione dell'alterità non giunge mai a un suo totale compimento o realizzazione. L'identità respinge, ma l'alterità riaffiora" (p. 61).

Per andare oltre l'identità, "il primo passo che occorre compiere è esattamente quello di uscire da una logica puramente identitaria ed essere disposti a compromessi e condizioni che inevitabilmente indeboliscono le pretese solitarie, tendenzialmente narcisistiche e autistiche dell'identità. Uscire dalla logica identitaria significa inoltre essere disposti a riconoscere il ruolo formativo, e non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell'alterità" (p. 99). Quest'uscita, già avviata sul piano della psicologia individuale (laddove si riconosce che "in un certo senso, siamo tutti composti da una molteplicità di "io" e di "sé", e la nozione di un sé come intrinsecamente relazionale è discontinuo è ormai anch'essa un fuoco verso cui si registrano molte convergenze" p. 101), deve avvenire anche per quanto riguarda il "noi".

Il paradosso è che le grandi religioni, che sono universalistiche, hanno tentato alle loro origini di abbattere i “recinti” identitari, riconducendo gli esseri umani alla consapevolezza dell’appartenenza ad una stessa specie e del loro comune destino. Il fatto che il loro radicamento in determinati ambiti geografici abbia contribuito a cristallizzare le Civiltà la dice lunga sul fatto che l’ossessione identitaria ha radici nell’inconscio umano più profonde di quanto si pensi.

Se questo è vero, l’utopia di Nietzsche di un mondo guarito dal morbo religioso, di un universo di spiriti liberi, pacificati dall’elevato grado di realizzazione raggiunta e intenti a coltivare la vita nell’assoluta consapevolezza della sua sostanziale insignificanza, appare veramente come espressione di un genio visionario affetto da un delirio di onnipotenza.

Sarebbe già molto giungere ad una forma di autentico pluralismo, vale a dire di rispetto tra credenti e non credenti su tutta la faccia del Pianeta. Purtroppo, siamo oltremodo lontani da questo traguardo. I credenti, sia pure in forme diverse, continuano ad essere, sia pure in forme diverse, intolleranti nei confronti degli atei, e molti di questi li ripagano con la stessa moneta.

La forzatura ideologica di maggior peso operata da Nietzsche, però, come accennavo non è da identificarsi nella maledizione della Religione, bensì nel suo disprezzo senza limiti nei confronti del senso comune e dell’uomo comune. Oltre a quelle già riportate, leggiamo le seguenti citazioni:

“Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita.” (CI 3)

“Per l’uomo comune, ordinario, il valore della vita si fonda unicamente sul fatto che egli si considera più importante del resto del mondo. La grande mancanza di fantasia da cui è affetto fa si che egli non possa sentirsi compenetrato in altri esseri, e partecipi dunque il meno possibile al loro destino e alla loro sofferenza. Chi invece potesse veramente prendervi parte, dovrebbe disperare del valore della vita; se riuscisse ad accogliere in sé e a sentire l’intera coscienza dell’umanità, proromperebbe in una bestemmia contro l’esistenza - perché nel complesso l’umanità non ha mete e di conseguenza l’uomo, considerando il suo intero decorso, non può trarne consolazione o appiglio, ma disperazione.

Se, in tutto quel che fa, guarda alla estrema mancanza di scopo dell’umanità, il suo operare assume ai suoi occhi il carattere dello spreco. Ma sentirsi - come umanità, e non solo come individuo - sprecati, come vediamo sprecati dalla natura i singoli fiori, è un sentimento al di sopra di ogni sentimento. Ma chi ne è capace?” (UTU)

“Gli uomini della vita mancata. - Taluni sono di una stoffa tale che alla società è permesso fare di loro questa o quella cosa: in tutte le circostanze essi si troveranno bene, e non dovranno lagnarsi di una vita mancata.” (AU)

La mediocrità dell’uomo comune, vale a dire del soggetto la cui ossessione di essere normale lo induce a privilegiare l’appartenenza e l’integrazione sociale rispetto all’individuazione, vale a dire allo sforzo di prendere posizione in rapporto al mondo e di operare scelte significative di vita, è un dato di fatto che abbiamo ancora oggi sotto gli occhi.
Il problema è come interpretare questa realtà. Ebbro del suo acume intellettuale, Nietzsche la analizza colpevolizzando gli esseri umani, accusandoli di essere pigri, codardi, neghittosi, accidiosi, da ultimo ridicoli con la loro pretesa di avere un Io:

“La maggior parte degli uomini, qualsiasi cosa possano dire e pensare del loro «egoismo», nonostante ciò, in tutta la loro vita, non fanno niente per il loro ego, ma soltanto per il fantasma dell'ego, che si è formato, su di essi, nella mente delle persone del loro ambiente e che si è loro trasmesso, - in conseguenza di ciò, tutti insieme vivono in una nebbia di opinioni impersonali, semipersonali e di valutazioni arbitrarie, quasi poetiche, ognuno nella testa di un altro, e questa testa sempre in altre teste: uno strano mondo di fantasmi, che in tutto questo sa darsi un aspetto così sobrio! Questa nebbia di opinioni e di abitudini cresce e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge; in essa si trova l'enorme influsso dei giudizi generali su «l'uomo» - tutti questi uomini sconosciuti a se stessi credono all'esangue entità astratta di «uomo», cioè a una finzione; e ogni cambiamento che viene introdotto in questa astrazione attraverso i giudizi di singoli potenti (come principi e filosofi) influisce straordinariamente in irrazionale misura sulla grande maggioranza, - tutto ciò per il motivo che ogni singolo in questa maggioranza non può contrapporre alcun ego reale, a lui accessibile e da lui conosciuto a fondo, a quella pallida finzione universale e, così, non può annullarla.” (AU)

C’è una verità di fondo che Nietzsche coglie nella società borghese del suo tempo con cui interagisce. Tale verità concerne il fatto che l’uomo che pensa di avere raggiunto una piena individualità e una completa padronanza razionale di sé e dà al suo ego un’estrema importanza è un essere quant’altri mai manipolato e alienato.

E’ in riferimento a questo uomo che Nietzsche parla dell’umanità come una specie mal riuscita. Se poniamo da parte la tensione estrema con cui egli ha tentato di differenziarsi radicalmente da tale modello, finendo con l’incarnare il tipo opposto dell’essere mal riuscito – quello del genio visionario malato ed emarginato -, possiamo renderci conto della misura in cui la “diagnosi” di Nietzsche abbia influito sulle riflessioni successive sull’alienazione umana.


L’alienazione rivisitata

Lo svuotamento di senso dell’esistenza non è stato introdotto nella filosofia da Nietzsche, ma da Marx, che lo ritiene una conseguenza inesorabile del Capitalismo sia a livello di classi popolari che di classi agiate, le une oppresse dal lavoro e dall’aspirazione ad una vita migliore in termini consumistici, le altre affondate in un benessere che le rende sterilmente compulsive.

Richiamandosi esplicitamente a Marx, ma dando rilevo al pensiero di Nietzsche e tentando di recupera quello di Freud in un’ottica potenzialemnte rivoluzionaria, H. Marcuse pubblica nel 1955 Eros e Civiltà e nel 1964 L’uomo ad una dimensione. Entrambi rappresentano una critica alla civiltà industriale che rievoca il pensiero di Nietzsche.
In Eros e civiltà, per esempio, Marcuse afferma:

« ... il fine della vita, anzichè essere quello di godere e far godere il nostro stare al mondo, a titolo di liberi soggetti-oggetti libidici, è storicamente divenuto il lavoro e la fatica, che gli individui hanno finito per accettare come qualcosa di "naturale",o come la "giusta" punizione per qualche colpa commessa, "introiettando" in tal modo la repressione, secondo il principio della cosiddetta "autorepressione dell'individuo represso".»

Tuttavia - secondo Marcuse - la civiltà della prestazione non è riuscita a far tacere completamente l'impulso primordiale verso il piacere, la cui memoria è conservata nell'inconscio e nelle sue fantasie: «La fantasia ha una funzione d'importanza decisiva nella struttura psichica totale: essa collega gli strati più profondi dell'inconscio con i prodotti più alti della coscienza (arte), il sogno con la realtà; conserva gli archetipi della specie, le idee eterne ma represse della memoria collettiva e individuale, le immagini represse e ostracizzate della libertà.»

Ne L’uomo ad una dimensione, poi, Marcuse parte addirittura implicitamente dal presupposto nietzschiano della critica della coscienza integrandolo con l’apporto di Marx.
Secondo Marcuse, la coscienza è semplicemente il modo in cui le persone si rapportano alla realtà con un loro modo di sentire, di pensare e di agire. La possibilità che essa sia vera o falsa, vale a dire fedele ai dati reali esperiti o più o meno mistificata rispetto ad essi, dipende dal fatto che il suo statuto non è di ordine primariamente ed esclusivamente psicologico. Certo, ogni soggetto ha una sua esperienza della realtà, ma perché questa esperienza si integri fino a dar luogo ad un livello di coscienza, vale a dire ad una certa visione del mondo, occorre un a priori che è dato, semplicemente, dalla società e dalla cultura col suo carico di valori, tradizioni, pregiudizi, luoghi comuni, ecc. La coscienza è dunque, per il processo stesso che la fonda, una dimensione ideologica, ritagliata sullo sfondo di un mondo storico, nella quale il soggetto riversa le sue potenzialità nella misura in cui essa può accoglierle.

Ciò spiega la distinzione tra coscienza e mente, la quale ultima contiene vari aspetti della realtà esperiti ma non integrati (rimossi dunque) e una quota di potenzialità inespresse e frustrate. Si tratta dunque di una definizione sociologica e psicoanalitica della coscienza, che sottolinea, per un verso, la partecipazione del sociale alla sua integrazione e alla selezione delle informazioni, e, per un altro, quanto ci può essere in essa di vero ma, nel contempo, precluso dall'assetto cosciente. Entrambe le definizioni traggono senso dal riconoscere la radicale storicità dell'esperienza soggettiva: l'ambiente socio-storico non solo informa la coscienza ma la forma anche in maniera tale che essa è sollecitata a riconoscere qualcosa, a misconoscere qualcos'altro e, soprattutto, a negare e a rimuovere gli effetti di disordine e di frustrazione che l'ambiente produce in rapporto al capitale dei bisogni autentici depositati nella natura umana.

Ciò che interessa Marcuse non è, però, lo statuto e l'organizzazione della coscienza come dato universale dell'esperienza umana, che è un'astrazione, bensì il modo in cui funziona effettivamente la coscienza nell'ambito di un contesto storico specifico, quello della società industriale avanzata.

La tesi di fondo di Marcuse è che la coscienza del cittadino medio occidentale è caratterizzata da un tratto specifico, la falsificazione, in nome della quale essa si sente libera senza esserlo, in virtù del fatto che scambia come propri bisogni i bisogni imposti dal sistema socio-economico (definiti impropriamente bisogni sociali):

"In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali." (p. 9)

"L'apparato impone le sue esigenze economiche e politiche, in vista della sua difesa e dell'espansione, sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria." (p. 17)

Il controllo sulle coscienze è assicurato dall'interiorizzazione dei falsi bisogni, vale a dire da bisogni propri del sistema che vengono interiorizzati, vissuti e perseguiti come bisogni individuali:

"E' possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni "falsi" sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia… La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni." (p. 19)

Il paradosso del sistema industriale avanzato consiste proprio nell'avere creato le condizioni oggettive per la liberazione degli autentici bisogni umani (lo Stato del benessere), ma nel dovere reprimere ogni istanza di liberazione, attraverso l'imposizione di falsi bisogni, per perpetuare se stesso:

"Con tutta la sua razionalità, lo Stato del benessere è uno stato in cui regna l'illibertà, poiché la sua amministrazione totalmente accentrata impone una restrizione sistematica su a) il tempo libero "tecnicamente" disponibile; b) la quantità e la qualità di beni e servizi "tecnicamente" disponibili per i bisogni vitali dell'individuo: c) l'intelligenza (cosciente e inconscia) capace di comprendere e realizzare le possibilità di autodeterminazione." (p. 62)

"La sua promessa suprema è una vita sempre più confortevole per un numero sempre più grande di persone, le quali, in senso stretto, non sanno immaginare un universo di discorso e di azione qualitativamente differente, poiché la capacità di manipolare e di contenere l'immaginazione e lo sforzo sovversivi è parte integrante della società data." (p. 18)

L'uomo a una dimensione (la “bestia nera” di Nietzsche) è per l'appunto il soggetto che, avendo accettato la razionalità del reale, non ha più la percezione del possibile, non vive più lo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, sia in riferimento alla realtà che a se stesso. Questa definizione non implica in alcun modo l'equivoco in cui caddero i critici conservatori e non pochi sessantottini secondo il quale l'uomo unidimesionale è una marionetta, un burattino, un automa. Egli è un uomo in carne ed ossa, spesso in buona fede, che sente e pensa e si sforza anche di capire qualcosa e di dare significato alla propria vita e al mondo. L'attività cognitiva non viene dunque negata. Il problema è che essa finisce sistematicamente nei canali di pietra ideologici di ciò che si deve pensare e sentire e di come si deve agire.

Il paradosso di un sistema sociale che crea, con la sua ricchezza, le premesse di una liberazione radicale dell'uomo e stabilisce poi, attraverso l'interiorizzazione di falsi bisogni, un dominio pressoché totale sulla coscienza, è il leit-motiv del saggio. Esso viene svolto su due piani.

Da una parte, Marcuse cerca di dimostrare che il sistema capitalistico, mirando a soddisfare le sue esigenze, che sono quelle di uno sviluppo illimitato, non può che identificare quelle con i bisogni individuali e infine imporle:

"Nelle zone più altamente sviluppate della società contemporanea, il trapianto dei bisogni sociali nei bisogni individuali è così efficace che la differenza tra i due sembra essere puramente teorica. E' mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e d'indottrinamento? Tra l'automobile come jattura e come comodità? Tra gli orrori e i comodi dell'architettura funzionale? Tra il lavoro che serve alla difesa nazionale e quello che giova soprattutto ai profitti delle società per azioni?" (p.22)

Dall'altra parte, Marcuse analizza gli effetti dell'interiorizzazione dei bisogni del sistema a livello di coscienza e di soggettività, laddove essi, sotto forma di falsi bisogni, giungono a sostituire quelli propri dell'individuo e della natura umana. Tali effetti coincidono con la falsa coscienza, vale a dire con una coscienza felice che accetta la realtà così com'essa è, la vive come una realtà razionale, anzi l'unica possibile, e si preclude l'accesso ad una più profonda comprensione dei fatti. In altre parole nega l'irrazionalità intrinseca alla civiltà industriale, che pone le premesse per la liberazione dell'uomo dal bisogno ma poi di fatto la ostacola, e rimuove le istanze di liberazione che premono a livello inconscio.

L’ascendenza nietzschiana del pensiero di Marcuse è indubbia, e conferma che tra l’antropologia marxiana e quella nietzschiana non c’è incompatibilità assoluta, per quanto i presupposti di partenza siano del tutto diversi,

In un’ottica liberal-progressista, che implica una risposta a Marcuse, nel 1984 lo storico Cristopher Lasch, dopo aver avviato con La cultura del Narcisismo (1981) il discorso sulla condizione psicosociologica contemporanea, pubblica L’Io minimo. Il titolo è pregnante. L’io minimo è un io in stato di assedio, che si contrae e si ripiega su se stesso non per motivi egoistici, ma perché è terrorizzato dall’incertezza del presente e dall’incubo del futuro. E’ un io, insomma, il cui interesse primario è la difesa della sua identità e della sua sopravvivenza psichica, un io incerto dei propri contorni, che aspira a riprodurre il mondo a sua immagine e a fondersi con esso, un io infine dolorosamente consapevole della tensione tra le sue aspirazioni illimitate e la sua limitatezza, tra l’originario presagio di immortalità e il suo stato mortale, tra unità e separazione.

Come è sopravvenuta questa trasformazione? Lasch risponde facendo riferimento al crollo dei valori tradizionali, al venire meno del senso della comunità, alla difficoltà sempre più rilevante di stabilire affetti e, da ultimo, con la cattura nell’ideologia del benessere, che il sistema alimenta offrendo alla tensione verso l’Infinito che sottende l’anima umana il miraggio di una compiuta soddisfazione attraverso gli oggetti di consumo. Via via che questo miraggio si rivela deludente, l’io è spinto sempre più a ripiegarsi su se stesso e a difendersi dal senso di vuoto che avverte, a cui non possono porre più rimedio i suoi infiniti desideri (i falsi bisogni marcusiani).

Secondo Lasch, dunque, la crisi dei valori auspicata da Nietzsche si è compiutamente realizzata, ma la sua conseguenza non è affatto positiva. Quello nel quale viviamo non è affatto un universo di spiriti liberi, aperti all’avventura della vita, bensì di soggetti impauriti e insicuri riguardo al presente e al futuro, dolorosamente consapevoli tra l’altro dell’abisso che vi è tra le aspirazioni e i limiti umani, ma, proprio per questo, inclini a chiudersi nel loro “bunker” egoistico.

Nella misura in cui si è realizzata, dunque, la soluzione nietzschiana del nichilismo non funziona.

Il problema è che quella soluzione è di ordine strettamente individuale, e comporta il misconoscimento che gli esseri umani vivono in società e hanno bisogno di un quadro di valori che medi le esigenze collettive e quelle individuali. Ma è proprio questa mediazione del tutto estranea al pensiero di Nietzsche, che attribuisce all’uomo solo il bisogno di individuazione e pensa, tra l’altro, che esso possa realizzarsi solo in virtù di un conflitto costante con il mondo cui si appartiene.

E’ inutile e ingeneroso sottolineare ulteriormente che il funambolo Zarathustra-Dioniso-Cristo non ce l’ha fatta a rimanere in equilibrio sulla fune della solitudine sospesa sull’abisso da sormontare per transitare dall’uomo all’oltreuomo. I motivi di tale caduta sono molteplici. Non da ultimo, occorre considerare l’enfasi eccessiva sulla volontà di potenza.

Volontà di potenza e Natura umana

La teoria della Natura umana di Nietzsche si può ricostruire facendo riferimento per un verso all’istinto del gregge e per un altro alla volontà di potenza.

L’istinto del gregge in Nietzsche non ha nulla a che vedere con un bisogno sociale primario, che egli nega. Esso esprime semplicemente il condizionamento che il gruppo opera sull’individuo sfruttando la sua debolezza di entrare in conflitto con i più e di trovarsi isolato. E’ la matrice insomma della morale, del come si deve vivere all’interno di un determinato contesto socio-storico:

“La collettività sta con i suoi membri in quel rapporto di base così importante che è quello del creditore verso i suoi debitori. Si vive in una comunità, si gode dei vantaggi di una collettività (oh, quali vantaggi! oggi talvolta li sottovalutiamo), si abita protetti, al riparo, in pace e nella fiducia, senza preoccupazioni per quello che riguarda certi danneggiamenti e atti di ostilità, ai quali è esposto l'uomo al di fuori, colui che è «escluso»” (GM)

L’istinto del gregge esprime solo dunque la paura della rappresaglia sociale che inesorabilmente investe chi, non intendendo pagare il suo debito, vale a dire attenersi al tu devi socialmente imposto, si pone come insolvente, danneggiatore, delinquente:

“La comunità, il creditore ingannato, si farà pagare come meglio potrà, ci si può contare.
Si tratta qui, per lo meno, del danno immediato, che il danneggiatore ha provocato: a prescindere da ciò, colui che delinque è soprattutto colui che «viola», che rompe un patto o viene meno alla parola data contro il tutto, in relazione a tutti i beni e le piacevolezze della vita comunitaria, cui egli ha partecipato fino a quel momento.
Il delinquente è un debitore che non solo non ripaga i vantaggi e gli anticipi di cui ha goduto, ma che passa addirittura a vie di fatto col suo creditore: dal che deriva, ovviamente, che a partire da quel momento non solo egli perderà tutti questi beni e vantaggi, ma gli verrà fatto anche ricordare che importanza hanno questi beni.
L'ira del creditore danneggiato, della collettività, lo restituisce allo stato selvaggio e assolutamente fuori legge dal quale era stato fino a quel momento protetto: lo respinge dal suo seno e da questo momento ogni specie di ostilità può essere esercitata contro di lui.” (GM)

Il rapporto tra l’individuo e la società si pone, dunque, in Nietzsche in termini di aut-aut: o quegli si assoggetta a pagare il suo debito, venendo a far parte del gregge, o viene
sanzionato, escluso, perseguitato.

Per quanto si possa riconoscere nell’appartenenza sociale un pericolo costante di normalizzazione e di omologazione, sembra che a Nietzsche sfugga del tutto un dato elementare: il primato del gruppo sull’individuo è dovuto meno alla “violenza” che esso esercita che non al fatto che l’essere umano viene al mondo in una condizione di radicale insufficienza, dipendenza e immaturità. A Nietzsche, la cui concezione dell’uomo è marcatamente adultomorfa, questo dato dà fastidio, perché rievoca in lui l’originaria condizione infantile di bambino e adolescente ligio alle regole e timorato. Ma le cose stanno così.

Il bisogno di appartenenza riconosce la sua matrice primaria nel fatto che l’infante ha bisogno di un rapporto affettivo e culturale con il mondo adulto per acquisire consapevolezza di se stesso e per apprendere i rudimenti che lo predispongono ad assumere, lentamente, i ruoli sociali che definiscono la sua personalità adulta.

Oggi sappiamo che tale bisogno è sotteso dall’empatia, vale a dire dalla necessità del bambino di sintonizzarsi affettivamente in rapporto agli adulti. Sappiamo anche che la sua condizione di prematurità e di inermità evoca negli adulti stessi un moto naturale di empatia, che si traduce in cura, protezione, tenerezza, conforto, ecc.

Almeno sotto il profilo affettivo, dunque, la socialità non è affatto persecutoria, bensì indispensabile all’assunzione da parte del bambino di caratteristiche umane. Certo, la socialità comporta inesorabilmente in fase evolutiva l’interiorizzazione dei valori trasmessi dalla famiglia, dagli educatori e dalla società. Se si considera questo un male, è un male inevitabile: è la conseguenza del critico allentarsi degli istinti sopravvenuto in rapporto con la comparsa della specie umana. L’allentamento degli istinti, posto in luce a analizzato da A. Gehlen, ha reso l’essere umano bisognoso di cultura più di ogni altro animale.

Preda di un bisogno di individuazione antitetico all’appartenenza, e dunque orientato verso una mitica autosufficienza, Nietzsche non può tenere conto di questo dato e, dunque, drammatizza la dipendenza culturale dell’individuo dal gruppo, in conseguenza della quale egli giunge ad interiorizzare i valori culturali e morali dominanti con il loro carico di contraddizioni, fraintendimenti, pregiudizi, ipocrisie, falsità, ecc.

E’ per questo che egli parla dell’individuo sociale come un essere inesorabilmente corrotto:

“Definisco corrotto un animale, una specie, un individuo quando perde i propri istinti, quando sceglie e preferisce ciò che gli è dannoso. Una storia dei «sentimenti più elevati», degli «ideali dell'umanità» - ed è possibile che finisca necessariamente per narrarla - quasi costituirebbe anche una spiegazione del perché l'uomo sia così corrotto. Considero la vita stessa un istinto di crescita, di durata, di accumulo di forze e di potenza: dove la volontà di potenza vien meno, là è il declino. Affermo che questa volontà manca in tutti i valori supremi dell'umanità, che sotto i nomi più santi regnano valori di declino, valori nichilistici.” (AC)

In questa citazione, riesce evidente che la corruzione significa sostanzialmente una repressione della volontà di potenza, vale a dire dell’unico istinto che Nietzsche riconosce come intrinseco alla natura umana.

La definizione della volontà di potenza non è mai sufficientemente chiara nell’opera nitzscheana. Sicuramente essa è distinta dalla volontà schopenahueriana. Questa infatti fa riferimento alla cieca e insensata bramosia degli esseri viventi, che li destina inesorabilmente al dolore. In Nietzsche, invece, la volontà di potenza è un attributo dell’individualità, una spinta motivazionale che, pur essendo in sé e per sé impersonale (in quanto “istinto di crescita, di durata, di accumulo di forze”), se riesce ad agire in opposizione all’istinto del gregge, porta l’individuo ad aprirsi alla vita, a cercare la novità, l’avventura, il rischio e persino il dolore, e a trovare in questa sfida il senso della sua esistenza.

La volontà di potenza nietzscheana è una spinta motivazionale verso un’individuazione eroica, che promuove l’affermazione di sé anche contro gli altri, le convenzioni, il senso comune. E’ paradossalmente la rivendicazione di una libertà totale che coincide con l’accettazione del fato, del proprio destino nella misura in cui esso muove dalle viscere del corpo e della mente.

L’antitesi che Nietzsche pone tra istinto del gregge e volontà di potenza ha un grande significato solo se essa viene interpretata in termini dialettici.

Il bisogno di individuazione, di fatto, oggi si può assumere come corrispondente ad una programmazione biologica, rappresentata secondo uno spettro di intensità in tutti i corredi genetici individuali. Esso, però, non potrebbe realizzarsi se non in opposizione a modi di sentire, di pensare e di agire proposti o prescritti culturalmente e interiorizzati.

Altrove ho scritto che l’interiorizzazione della cultura di appartenenza e l’individuazione possono essere omologati al processo alimentare. Dato il suo essere carente e bisognoso (che riguarda il corpo non meno che la mente), il soggetto non potrebbe sussistere se non introiettasse “oggetti” (cibo, valori) che provengono dal mondo esterno. Al tempo stesso, perché l’introiezione funzioni, è necessario che gli “oggetti” vadano incontro ad un processo di digestione che ne consente l’assimilazione, vale a dire l’appropriazione da parte del soggetto stesso. Il cibo si trasforma in carne, ossa, sangue, ecc., vale a dire nei tessuti che specificano l’individualità biologica. I valori culturali, se vengono elaborati e assimilati per effetto del bisogno di individuazione, diventano modi di sentire, di pensare e di agire che il soggetto avverte come espressivi della sua vocazione ad essere.

L’antitesi che Nietzsche pone tra istinto del gregge e individuazione ha un significato storico. Di fatto, ancora oggi, nella maggioranza delle persone, i valori culturali acquisiti dall’ambiente rimangono introiettati, realizzando quella singolare struttura di personalità che David Riesman in La folla solitaria (il Mulino, Bologna 1999) ha definito autodiretta, intendendo con ciò che i giudizi sociali introiettati funzionano come una sorta di pilota automatico del comportamento individuale. Questa nuova condizione si può ritenere più insidiosa rispetto a quella che l’ha preceduta, la quale, per influenza della Religione e della comunità, determinava una personalità eterodiretta, guidata cioè direttamente da Dio o dagli occhi della gente.

Nietzsche ritiene giustamente che l’autodirezione, e a maggior ragione l’eterodirezione rappresentino penose rinunce che i soggetti operano in rapporto al loro dovere di pensare criticamente e di essere in disaccordo con le scelte culturali operate dalla società.
Nella misura in cui, però, demonizza l’istinto gregario, riconoscendo in esso solo un ostacolo sulla via dell’individuazione e dello strutturarsi di una personalità autonoma, guidata cioè da un sistema di valori assimilato, egli misconosce il fatto che è solo l’interiorizzazione dei valori culturali prodotta dall’appartenza a promuovere l’individuazione.

Questo significa che la personalità dell’essere umano comporta necessariamente aspetti eterodiretti, autodiretti e autonomi. La combinazione e il peso specifico di tali aspetti possono senz’altro consentire di differenziare uno spettro che riconosce come estremi l’uomo comune (o se si vuole banale) prevalentemente etero- e autodiretto e l’uomo differenziato e originale, prevalentemente autonomo.

Il mito nietzscheano di uno spirito totalmente libero e autonomo è privo di fondamento, perché l’individuazione si realizza e non può realizzarsi che come un ordito su di una trama prodotta dall’appartenenza socio-culturale.

Laddove un individuo, come è accaduto a Nietzsche, ritiene di avere raggiunto una condizione di libertà totale nel sentire, nel pensare e nell’agire, per quanto egli possa essere differenziato, originale e geniale, ciò significa solo che rimuove gli aspetti etero- e autodiretti della sua personalità.

Per quanto riguarda Nietzsche, questo aspetto può essere comprovato biograficamente. Egli, infatti, dopo le dimissioni dall’Università, ha in pratica troncato i ponti con il mondo, girovagando di continuo e coltivando orgogliosamente la sua libertà di pensiero. Questa libertà però si è tradotta nello scrivere e nel pubblicare libri. Certo, egli li pubblicava indirizzandoli agli spiriti liberi e aspettando che questi, riconoscendosi nel suo pensiero, avviassero la rivoluzione destinata a portare l’umanità sulla via dell’Oltreuomo. Ciò nondimeno, egli ha accusato pesantemente il colpo dello scarso successo conseguito in vita (o meglio sino al momento in cui è precipitato nella follia).

Questo colpo non è stato forse insignificante nel precipitare la crisi. Negli ultimi lavori e nei biglietti della follia è assolutamente evidente che Nietzsche compensa la frustrazione con un delirio di onnipotenza il cui significato è trasparente: tutti sanno e hanno preso atto della sua grandezza e della sua straordinarietà, tutti riconoscono che egli è il pensatore più geniale che sia mai esistito, il quale ha radicalmente cambiato il corso della storia umana. Tutti, non solo gli spiriti liberi.

Certo, il delirio di onnipotenza si associa al desiderio di essere riconosciuto come il genio che ha cambiato il corso della storia: insomma come dominatore del mondo. Ma è il mondo nella sua totalità il referente del delirio, tanto è vero quello che scrive Marx laddove dice che l’uomo è un animale a tal punto sociale che può isolarsi solo in società.

Il primato del corpo sulla mente

Se l’enfatizzazione del bisogno di individuazione viene mortificata dal suo porsi in antitesi radicale rispetto al bisogno di appartenenza, un merito indubbio di Nietzsche consiste nell’avere recuperato la dimensione del Corpo come primaria rispetto alla Mente, correggendo l’errore di Cartesio, che ha scisso il legame tra le due dimensioni assegnando la prima al regno della materia e la seconda a quella dello spirito.

Ne La gaia scienza si legge:

“Dietro i più alti giudizi di valore dai quali fino ad ora è stata guidata la storia del pensiero sono nascosti fraintendimenti della costituzione fisica, sia del singolo, sia dei ceti o addirittura delle razze.
Tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, si possono sempre considerare sintomi di determinati corpi; e se globalmente a tali affermazioni o negazioni del corpo non si può attribuire nemmeno un briciolo di significato, esse pur tuttavia forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono, come abbiamo detto, sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, autodominio nella storia, ma anche dei suoi impedimenti, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà di finire.
Io continuo ad aspettarmi che un medico filosofico nel senso non comune del termine ― ovvero che si dedichi al problema della salute globale di popolo, tempo, razza, umanità ― abbia finalmente il coraggio di portare alle sue estreme conseguenze il mio dubbio e di osare questa affermazione: fino ad oggi, tutto il filosofare non è stato «verità», ma qualcos’altro, diciamo salute, futuro, crescita, potenza, vita..”

Se Nietzsche ritiene che il corpo, con i suoi diversi stati, influisca anche sull’attività filosofica, vale a dire su di un’attività intellettuale che sembra lontana dalla fisiologia propriamente intesa, è evidente che egli assegna alla dimensione somatica un valore importante. Questo aspetto non è sorprendente se si tiene conto della sua concezione pulsionale, ma, di certo, sembra azzardato.

In realtà, via via che le neuroscienze approdano ad una visione monistica dell’essere umano, per cui corpo e mente sono intimamente intrecciate e interagenti tra loro, la concezione di Nietzsche trova un consenso progressivo.

Di medici filosofici sui generis, di fatto, ne sono sopravvenuti parecchi in seguito all’avvento della neurobiologia. Anche la storia delle Neuroscienze, però, si è inaugurata pagando un tributo all’opposizione tra Ragione ed Emozione, che ha percorso con alterne vicende tutta la storia della riflessione dell’uomo sull’uomo partendo dalla distinzione, nata con la cultura greca, tra apollineo e dionisiaco.

Nel 1983, agli albori delle ricerche neuroscientifiche, J.-P. Changeux pubblica un libro diventato rapidamente famoso (L’Uomo neuronale, Feltrinelli, Milano) la cui tesi di fondo è radicalmente computazionale:

“La macchina cerebrale possiede la proprietà di effettuare calcoli sugli oggetti mentali. Essa li evoca, li combina, e in tal modo crea nuovi concetti, nuove ipotesi per paragonarle tra loro. Funziona come simulatore.” (p. 160)

In aperta antitesi al pensiero di Changeux, nel 1988, J. D. Vincent, dà alle stampe Biologia delle passioni (Einaudi, Torino), che valorizza il ruolo delle emozioni consce e inconsce:

“Accanto al cervello neuronico... esiste un vero e proprio cervello umorale che modifica continuamente e in tutte le sue strutture il funzionamento del primo...; un cervello indeterminato e vaporoso, responsabile della parte affettiva e passionale dell'individuo.” (p. 87).

In virtù della progressiva egemonia conseguita dal Cognitivismo, il cervello “vaporoso” di Vincent è finito nel dimenticatoio, finché i limiti della teoria computazionale non sono divenuti del tutto evidenti. In conseguenza di questo, l’antitesi tra Ragione ed Emozione è progressivamente sfumata in nome del riconoscimento della relativa autonomia dei moduli cognitivi e dei sistemi emozionali, che si integrano funzionalmente nell’esperienza soggettiva.

La presa d’atto dell’importanza delle emozioni e dei sentimenti nell’organizzazione mentale umana è ormai avanzata al punto che si ammette che solo un approfondimento scientifico di questo mondo “vaporoso”, e in gran parte inconscio, più che quello dell’attività dei moduli cognitivi, possa permettere di elaborare una teoria integrata della coscienza e della mente umana.

Il più famoso medico filosofico preconizzato da Nietzsche è indubbiamente Antonio Damasio, che ha scritto un’importante trilogia sul problema del rapporto tra esperienza somatica e esperienza mentale.

Con L'errore di Cartesio (Adelphi, Milano 1995), egli confuta il tentativo cartesiano di separare res extensa e res cogitans, vale a dire di affermare il primato della mente sul corpo. Alla luce degli studi contemporanei, la razionalità non appare affatto indipendente dai meccanismi di regolazione biologica dell’organismo, tra i quali le emozioni e i sentimenti svolgono un ruolo particolare perché sono in grado di condizionare fortemente, e talvolta, inconsapevolmente, gli stati d’animo, i pensieri e le decisioni.

In Emozione e coscienza (Adelphi, Milano 2000), affrontando il tema della coscienza dalla duplice prospettiva dell'analisi a livello neurofisiologico e delle relative corrispondenze sul piano psicologico, Damasio ribadisce l’importanza dei meccanismi automatici di regolazione dell’omeostasi biologica e rileva il ruolo centrale a tal fine delle emozioni, le quali modificano di continuo lo stato del corpo. La rappresentazione di questo stato a livello della corteccia si traduce in un sentimento cosciente, vale a dire nella definizione di un Sè capace di sentire, di ricordare e di narrare la sua esperienza.

Con Alla ricerca di Spinoza - un commosso omaggio al filosofo olandese che per primo ha superato l’errore di Cartesio, Damasio, intuendo lo stretto legame esistente tra la mente e il corpo, porta a compimento la sua ricerca elaborando una teoria elegante e coerente delle emozioni e dei sentimenti.

Il pensiero di Damasio muove dal presupposto che l’organismo umano, in quanto prodotto dell’evoluzione, ha ereditato molteplici meccanismi di regolazione omeostatici, che, nel loro complesso, possono essere rappresentati da una struttura ad albero ai quali se ne sono aggiunti di nuovi. Partendo dal basso e procedendo verso l’alto, egli ipotizza i seguenti livelli di regolazione: il processo del metabolismo; comportamenti normalmente associati all'idea del piacere (e della gratificazione) o del dolore (e della punizione); al livello immediatamente superiore: impulsi e motivazioni (fame, sete, sesso, curiosità e esplorazione, gioco; più in alto ancora: le emozioni vere e proprie; in cima i sentimenti che generano la coscienza.

Nell’ottica di Damasio, la coscienza, con tutti i suoi complessi fenomeni, è fortemente dipendente dagli stati del corpo che vengono continuamente rappresentati a livello di mappe cerebrali. Egli scrive

“Il sentimento, nel senso più stretto e rigoroso del termine, è l'idea che il corpo sia in un certo modo. In questa definizione si può sostituire «idea» con «pensiero» e « percezione». Se guardiamo al di là dell'oggetto che ha causato il sentimento - e i pensieri e la modalità di pensiero conseguenti - vediamo precisarsi il suo nucleo: i contenuti del sentimento consistono nella rappresentazione di un particolare stato del corpo.
Gli stessi commenti sarebbero pienamente applicabili ai sentimenti di tristezza e di qualsiasi altra emozione, come pure ai sentimenti degli appetiti e di qualunque sequenza di reazioni regolatrici abbia luogo nell'organismo. I sentimenti, nell'accezione adottata in questo libro, non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie, ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l'organismo.” (p. 106)

“I sentimenti sono percezioni, e io propongo che la loro percezione trovi il necessario supporto nelle mappe cerebrali del corpo. Una certa variazione del piacere o del dolore è un contenuto costante di quella percezione che chiamiamo sentimento...
La mia ipotesi, allora, presentata sotto forma di definizione provvisoria, è che un sentimento sia la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti. I sentimenti emergono quando il semplice accumulo dei dettagli registrati nelle mappe raggiunge un certo stadio...” (p. 108)

“Per come la vedo io, l'origine delle percezioni che costituiscono l'essenza del sentimento è chiara: c'è un oggetto generale - il corpo - costituito di molte parti continuamente registrate in molteplici strutture cerebrali. Chiari sono anche i contenuti di quelle percezioni: i diversi stati del corpo descritti dalle mappe cerebrali, scelti in un'ampia gamma di possibilità... Lo stato particolare di quelle componenti del corpo, così come è ritratto nelle mappe cerebrali, è un contenuto delle percezioni che costituiscono i sentimenti. I substrati immediati dei sentimenti sono dunque le mappe di miriadi di aspetti di stati corporei diversi, nelle regioni del cervello deputate all'elaborazione sensoriale, designate a ricevere segnali afferenti da tutto il corpo.” (p. 109-110)

“In breve, il contenuto essenziale dei sentimenti è la mappa di un particolare stato corporeo; il substrato dei sentimenti è l'insieme delle configurazioni neurali corrispondenti allo stato del corpo e dalle quali può emergere un'immagine mentale di quello stato. Essenzialmente, un sentimento è un'idea - un'idea del corpo e, in particolare, un'idea di un certo aspetto del corpo, del suo interno, indeterminate circostanze. Il sentimento di un'emozione è l'idea del corpo nel momento in cui esso è perturbato dall'emozione.” (p. 111)

“I sentimenti sono percezioni e in quanto tali, per certi versi, paragonabili ad altre percezioni. Le percezioni visive reali, per esempio, corrispondono a oggetti del mondo esterno, le cui caratteristiche fisiche colpiscono la nostra retina e modificano temporaneamente le configurazioni delle mappe sensoriali nel sistema visivo. Anche nel caso dei sentimenti, all'origine del processo c'è un oggetto le cui caratteristiche fisiche innescano una catena di segnali che attraversano le mappe cerebrali nelle quali l'oggetto stesso è rappresentato. Proprio come nella percezione visiva, parte del fenomeno è dovuta all'oggetto, e parte all'interpretazione che ne dà il cervello. Tuttavia quel che è diverso - e non si tratta di una differenza banale - è che nel caso dei sentimenti gli oggetti e gli eventi all'origine del processo si trovano all'interno del corpo, e non all'esterno. Può darsi che i sentimenti siano processi mentali come qualsiasi altra percezione, ma i loro oggetti, rappresentati nelle mappe, sono comunque parti e stati dell'organismo in cui essi insorgono.” (p. 113)

La concordanza tra le ipotesi di Damasio e quelle di Nietzsche, per il quale gli stati d’animo sono espressivi dello stato corporeo, è assolutamente rilevante.

C’è concordanza, però, anche su di un aspetto criticabile: il solipsismo per cui corpo e mente rappresentano una sorta di monade. Damasio prende in considerazione le emozioni sociali, ma esclusivamente come fattori di regolazione dei rapporti interpersonali e della vita di relazione sociale.

Nietzsche probabilmente è stato spinto a valorizzare il corpo non solo dalla sua avversione nei confronti di ogni sorta di idealismo, ma anche dall’avere riconosciuto in esso una dimensione naturalmente individuata e, in quanto tale, sottratta all’influenza sociale. Si tratta di un errore. L’equilibrio del corpo dipende di sicuro da meccanismi automatici di regolazione omeostatica, ma questi non sono affatto immuni dal risentire positivamente o negativamente dalla relazione che, fin dalla nascita, l’individuo intrattiene con il mondo sociale.

Le prove a riguardo sono molteplici. La più efficace, a mio avviso, è legata al fenomeno dell’ospitalismo indagato da R. Spitz, il quale ha accertato che, in alcuni brefotrofi, ove i bambini erano accuditi in maniera ineccepibile sotto il profilo alimentare ed igienico, ma asettica, in quanto non supportata da scambi affettivi con i care-takeers, alcuni di essi morivano nonostante la normalità di tutti gli indici fisiologici.

Nietzsche li avrebbe giudicati presumibilmente deboli e malriusciti. Oggi questa debolezza, indubbia e universale, può essere ricondotta alla condizione neotenica dell’uomo, che lo rende non solo in fase evolutiva ma per sempre dipendente, anche nei suoi equilibri psicosomatici, dalla relazione con l’Altro.

La neotenia è la debolezza e la forza dell’uomo. Per il primo aspetto, essa vincola l’uomo, i suoi bisogni e il suo stesso corpo, all’Altro. Per il secondo aspetto, mantenendo un’elevata plasticità cerebrale, essa può promuovere anche lo spirito critico e in alcuni individui, come Nietzsche, la genialità.

L’adultomorfismo in cui Nietzsche si è rifugiato è, dunque, un vicolo cieco. Il coraggio eroico con cui lo ha percorso gli va riconosciuto, ma, al di là dei contributi preziosi che egli ha fornito alla cultura, se la sua vicenda ha un senso, il senso è questo: l’intelligenza umana è assolutamente e infinitamente libera, ma il suo “cuore” non lo è mai. E, se è vero che il “cuore”, vale a dire la sfera dei bisogni, dei desideri, delle emozioni, è intimamente e reciprocamente correlata al corpo, non lo è meno che esso, nella sua matrice più profonda, vibra in relazione all’Altro.

Coscienza e Inconscio

Ne La scoperta dell’inconscio (Bollati Boringhieri, Torino 1976), Henri F. Ellenberger dedica a Nietzsche un denso paragrafo dal quale risultano chiare sia le sue intuizioni precorritrici sull’inconscio sia l’influenza che tali intuizioni hanno avuto su Freud, Adler e Jung.

Egli scrive:

“Negli aspetti positivi, Nietzsche è importante sia per i suoi concetti psicologici sia per quelli filosofici. La novità dei primi è stata riconosciuta, in ritardo, soprattutto ad opera di Ludwig Klages, Karl Jaspers e Alwin Mittasch. Klages si spinge fino al punto di affermare che Nietzsche è il vero fondatore della psicologia moderna. Thomas Mann riteneva che Nietzsche fosse "il più grande critico e psicologo della morale noto alla storia della mente umana". Anche le sue idee sulla criminalità e sulle pene, come è stato mostrato, sono caratterizzate da una grande originalità di pensiero e conservano un notevole interesse dal punto di vista della criminologia moderna.

Alwin Mittasch ha mostrato il collegamento tra le idee psicologiche di Nietzsche e le scoperte contemporanee sull'energia psichica. Nietzsche trasferì nel campo della psicologia il principio di Robert Mayer sulla conservazione e sulla trasformazione dell'energia. Nello stesso modo in cui l'energia fisica può rimanere accumulata e quiescente sotto forma d'energia potenziale oppure può entrare in azione e produrre lavoro meccanico, così Nietzsche fornì un'immagine del modo con cui "una quantità d'energia (psichica) accumulata" poteva attendere fino al momento di venire utilizzata, e del modo con cui a volte una piccola causa "innescante" poteva liberare una notevole scarica o esplosione d'energia psichica. L'energia mentale poteva anche venire accumulata volontariamente in previsione di una futura utilizzazione a un livello superiore. Poteva anche venire trasferita da una pulsione all'altra. Ciò portò Nietzsche a considerare la mente umana come un sistema di pulsioni, e alla fine a considerare le emozioni come un "complesso di rappresentazioni inconsce e di stati della volontà".

Ludwig Klages ha mostrato come Nietzsche fosse un importante esponente di una tendenza che dominava negli anni 1880, cioè la tendenza alla psicologia che "demistifica" o "smaschera", la stessa sviluppata da Dostoevskij e da Ibsen in altre direzioni. L'interesse di Nietzsche era rivolto a svelare come l'uomo sia un essere che inganna sé stesso e che nello stesso tempo inganna continuamente i propri simili. "In occasione di tutto quello che un uomo rende manifesto, si può domandare: che cosa nasconderà? da che cosa deve distogliere lo sguardo? quale pregiudizio deve suscitare? E poi ancora: fino a che punto giunge la sottigliezza di questa dissimulazione? E, così facendo, in che cosa costui s'inganna?" Poiché l'uomo mente a sé stesso più ancora che agli altri, lo psicologo deve trarre le proprie conclusioni dal significato effettivo di un certo comportamento, piuttosto che dalle parole in sé o dagli atti in sé. Ad esempio, l'insegnamento del Vangelo: "Chi si umilia sarà esaltato", deve tradursi così: "Chi si abbassa vuol essere innalzato [391.

Inoltre, quelli che l'uomo crede essere i suoi veri sentimenti e le sue vere convinzioni spesso non sono altro che i resti di convinzioni, o di semplici affermazioni, dei suoi genitori o dei suoi antenati. In tal modo viviamo tanto della follia quanto della saggezza dei nostri antenati. Gli sforzi di Nietzsche per mostrare che ogni possibile tipo di sentimento, di opinione, di atteggiamento, di condotta, di virtù affonda le proprie radici nell'autoinganno o nella menzogna inconscia furono inesauribili. Per questo "ciascuno è agli antipodi di sé stesso"; l'inconscio è la parte essenziale dell'individuo, e la coscienza è solo una specie di formula dell'inconscio, una formula scritta in linguaggio simbolico: "...un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito."

Nietzsche concepiva l'inconscio come una zona di pensieri confusi, di emozioni, di pulsioni, e nello stesso tempo come una zona in cui si ripetevano gli stadi precedenti dell'individuo e della specie. L'oscurità, il disordine, la mancanza di coerenza che caratterizzano le nostre rappresentazioni nei sogni ricordano la condizione della psiche umana nei suoi stadi più primitivi. Le allucinazioni dei sogni ci ricordano le allucinazioni collettive che colpivano intere comunità di uomini primitivi. "Dunque: nel sonno e nel sogno, espletiamo ancora una volta il compito (Pensum: il 'penso') dell'umanità primitiva" Ii sogno è la ripetizione di frammenti appartenenti sia alla nostra preistoria sia alla preistoria dell'umanità. Ciò è altrettanto valido per le esplosioni di passione sfrenata quanto per la follia .

Tanto Klages quanto Jaspers hanno mostrato la grande importanza delle teorie nietzschiane sulle pulsioni, sulle loro relazioni mutue, sui loro conflitti, sulle loro metamorfosi. Nelle sue prime opere Nietzsche parlava del bisogno di piacere e del bisogno di lotta, della pulsione sessuale e della pulsione ad associarsi, e anche della pulsione alla conoscenza e alla verità. Gradualmente egli giunse ad attribuire la predominanza a una sola pulsione fondamentale, la volontà di potenza. Soprattutto, Nietzsche descrisse il destino delle pulsioni: le loro compensazioni illusorie e le loro scariche sostitutive, le loro sublimazioni, le loro inibizioni, il loro volgersi contro l'individuo, senza tuttavia dimenticare la possibilità del loro controllo cosciente.

Il concetto di sublimazione non era nuovo; esso fu applicato da Nietzsche tanto alle pulsioni sessuali quanto a quelle di aggressione. Egli considerava la sublimazione come il risultato di un'inibizione o di un processo intellettuale, e pensava che fosse una manifestazione molto diffusa. "Buone azioni sono cattive azioni sublimate." Anche nella loro forma più altamente sublimata, le pulsioni conservano la loro importanza: "Grado e specie di sessualità in un uomo si estendono sino all'ultimo vertice del suo spirito."

Con il nome di inibizione (Hemmung) Nietzsche descrive ciò che oggi è chiamato rimozione, e applica tale concetto alla percezione e alla memoria. "Dimenticare non è una semplice vis inertiae... ma piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso più rigoroso, d'inibizione." "Io ho fatto questo dice la mia memoria. Io non posso aver fatto questo dice il mio orgoglio, e resta irremovibile. Alla fine, è la memoria ad arrendersi."
Per quanto riguarda il volgersi delle pulsioni contro l'individuo stesso, questo concetto fornisce la chiave di molti altri concetti fondamentali di Nietzsche: risentimento, coscienza morale, origine della civiltà.

La parola "risentimento" comprendeva ogni tipo di sentimenti di rancore, di disprezzo, d'invidia, di animosità, di gelosia, e di odio; Nietzsche la usò con un nuovo significato. Quando i sentimenti di questo tipo sono inibiti, diventando così inconsci per il soggetto, essi si manifestano in forma mascherata, soprattutto in forma di morale falsa. La morale cristiana affermava Nietzsche costituiva una forma raffinata di risentimento; essa era la morale di taluni schiavi che erano incapaci di ribellarsi apertamente contro i loro oppressori e che quindi avevano scelto una via traversa per ribellarsi: questa dava loro un senso di superiorità, ottenuta umiliando i nemici. Il comandamento cristiano: "Ama il tuo nemico" costituisce per Nietzsche un modo sottile per portare il proprio nemico all'esasperazione; esso costituisce dunque una forma crudelissima di rivincita. Il concetto nietzschiano di risentimento sarebbe poi stato accolto, con modificazioni e con ulteriori sviluppi, da Max Scheler e da Marañon.

La teoria di Nietzsche sull'origine della coscienza morale gli fu ispirata dall'amico Paul Rée, che affermava che la coscienza aveva origine dall'impossibilità di scaricare le pulsioni aggressive dell'uomo: un'impossibilità che comparve in un dato periodo storico. Nella Genealogia della morale Nietzsche, come Rée, raffigurò l'uomo primitivo come una "belva feroce", un "animale predatore", "la magnifica divagante bionda bestia avida di preda e di vittoria". Ma con la costituzione della società umana, le pulsioni dell'uomo selvaggio e libero non poterono più scaricarsi verso l'esterno e perciò dovettero volgersi verso l'interno. Questa fu anche l'origine del senso di colpa, che a sua volta fu la prima radice della coscienza morale nell'umanità. Nell'individuo, il processo è imposto dall'azione dei comandamenti morali e delle inibizioni di ogni tipo. "Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell'infanzia ci fu regolarmente richiesto senza motivo da parte di persone che veneravamo o temevamo... La credenza nell'autorità è la fonte della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel petto dell'uomo, bensì la voce di alcuni uomini nell'uomo."Inoltre, l'individuo ha in sé opinioni e sentimenti di ogni tipo, che derivano dai genitori e dagli antenati ma che egli crede suoi. "Nel figlio diventa convinzione quel che nel padre era ancora menzogna." Non solo i padri ma anche le madri determinano la condotta dell'individuo. "Ognuno porta in sé un'immagine della donna derivata dalla madre: da essa ognuno viene determinato a rispettare o a disprezzare le donne in genere, o a essere generalmente indifferente verso di loro."

Nietzsche spiega l'origine della civiltà nello stesso modo in cui spiega l'origine della coscienza: da una rinuncia alla gratificazione delle pulsioni. In ciò si può riconoscere la vecchia teoria di Diderot e dei suoi seguaci. La civiltà è identificata con una malattia e con una sofferenza dell'umanità, perché essa è: "... la conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d'animale, ... di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità".” (pp. 319-322)

La sintesi di Ellenberger richiede di essere approfondita.

Il merito enorme e imperituro di Nietzsche non sta tanto nella scoperta dell’inconscio bensì nella acuta focalizzazione della tendenza spontanea della coscienza ad ingannare se stessa e ad essere ingannata. Sia la mistificazione soggettiva che quella culturale avrebbero, secondo Nietzsche, lo stesso significato: quello di consentire all’uomo di stare al riparo dalla verità che egli alberga, vale a dire di essere non solo un animale malriuscito e miserevole, tanto più perché dotato della consapevolezza intuitiva della sua miseria, ma di essere, nel suo fondo, null’altro che un predatore aggressivo, impietoso con i deboli, amante della crudeltà che, per sopravvivere socialmente, deve accettare la domesticazione e la civilizzazione.

Il passaggio dall’originaria condizione barbarica all’aggregazione di gruppo e statale viene ricostruito in questi termini da Nietzsche:

“Questi semianimali felicemente adattati alla vita selvaggia, alla guerra, al nomadismo, all'avventura all'improvviso videro tutti i loro istinti svalutati e «scardinati». Dovettero allora camminare sulle gambe e «sorreggersi», mentre prima erano stati portati dall'acqua: una pesantezza tremenda li affliggeva. Si sentivano incapaci delle operazioni più elementari, per questo mondo nuovo e sconosciuto non possedevano più le loro antiche guide, gli istinti regolatori, inconsciamente incapaci di fallire erano ridotti, poveri infelici, a pensare, a dedurre, a calcolare, a combinare cause ed effetti, ridotti alla loro «coscienza», al più miserevole e ingannevole dei loro organi!

Credo che mai sulla terra ci sia stato un tal senso di miseria, un tale plumbeo disagio mentre quegli istinti antichi non avevano certo cessato improvvisamente di manifestare le loro esigenze! Solo che soddisfarle era difficile e solo raramente possibile: in sostanza essi dovettero trovarsi nuove e quasi sotterranee soddisfazioni.

Tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell'uomo: solo così si sviluppa nell'uomo quella cosa che più tardi riceverà il nome di «anima».

Tutto il mondo interiore, agli inizi sottile come se fosse teso tra due strati epiteliali, si è espanso e spalancato, ha guadagnato profondità, larghezza, altezza, tanto quanto le possibilità dell'uomo di scaricarsi all'esterno sono state impedite. Quei bastioni terribili con cui l'organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà - le pene sono fatte soprattutto di questi bastioni - fecero sì che tutti quegli istinti dell'uomo libero e randagio, regredendo, si rivolgessero contro l'uomo stesso. L'inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell'attacco, delle mutazioni, della distruzione tutto quello che si rivolta contro i possessori di tali istinti: questa è l'origine della «cattiva coscienza».

L'uomo che in mancanza di nemici esterni e resistenze, costretto nelle oppressive strettoie e regolarità di costumi, dilaniava impaziente se stesso, si perseguitava, si torturava, si punzecchiava, si maltrattava, questo animale che si butta contro le sbarre della sua gabbia ferendosi, che vogliono «domare», questo essere privato di qualcosa, divorato dalla nostalgia del deserto, che ha dovuto fare di sé un'avventura, una camera di tortura, una giungla malsicura e piena di pericoli questo dissennato, questo prigioniero disperato e sitibondo di desiderio, diventò l'inventore della «cattiva coscienza».” (GM)
Nonostante Nietzsche abbia intuito che la natura primitiva e selvaggia dell’uomo contiene un bisogno di affermazione che, se convogliato nel canale dell’individuazione, può essere “sublimato” e oggettivarsi in forme altamente positive e creative attraverso la filosofia, la scienza, l’arte, ecc., è fuor di dubbio che l’inconscio nietzschiano è caotico, ridondante e pulsionale. Questa concezione è stata fatta propria da Freud, che ha mutuato da Nietzsche anche il termine Es, ed è stata accolta anche da Jung che l’ha definita Ombra.

La difficoltà di superare tale concezione è legata al fatto che essa sembra l’unica atta a giustificare la potenza dei meccanismi di mistificazione, che Freud ha ulteriormente illuminato e descritto. Se l’uomo non avesse una paura profonda del suo essere inconscio, perché mai sarebbe costretto ad ingannare se stesso?

Oggi si può rispondere a questo interrogativo facendo riferimento a una serie di dati forniti dalla biologia evoluzionistica postdarwiniana, dalla neurobiologia e dalla teoria struttural-dialettica.

Intanto, la distinzione tra coscienza razionale (o presunta tale) e Inconscio pulsionale non sembra avere più molto senso. L’uomo, come già si è detto, nasce sulla base di un critico allentamento dei meccanismi di regolazione istintivi. Ciò significa che l’inconscio non è pulsionale, ma ridondante di emozioni, fantasie, pensieri, desideri. Caotico e complesso, di certo, ma non barbarico, perché, dato il ruolo che l’empatia svolge nel corso dello sviluppo della personalità, l’inconscio umano sembra strutturarsi sulla base della relazione tra Io e Altro. La dotazione di un istinto sociale potente al punto di governare gran parte dell’esperienza umana sia a livello reale che interiore è al di fuori di ogni dubbio.

In secondo luogo, proprio in quanto modellato dall’intersoggettività, l’inconscio sembra depositario dei due bisogni intrinseci cui si è fatto più volte riferimento: il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e il bisogno di opposizione/individuazione. In tensione dialettica tra di loro, tali bisogni non sono necessariamente antitetici: una situazione di equilibrio soggettivo postula una dinamica che comporta la soddisfazione dell’uno e dell’altro a seconda delle diverse circostanze di vita.

Tanto è vero questo che, se all’epoca di Nietzsche e di Freud, le esigenze sociali postulavano una notevole repressione del bisogno di individuazione, attualmente il modello normativo dominante postula spesso la repressione del bisogno di appartenenza, della sensibilità sociale e dell’empatia. Questa repressione, specie se si realizza in soggetti dotati di grande empatia, produce spesso una sintomatologia non meno penosa di quella prodotta in passato dalla repressione del bisogno di individuazione. Come interpretare tale circostanza se non facendo riferimento al fatto che l’inconscio è programmato ed attratto da una situazione di equilibrio dinamico tra i bisogni, vale a dire da una situazione che postula doveri sociali e diritti individuali?

Anziché barbarico, l’inconscio appare paradossalmente umano, troppo umano, radicalmente antropomorfico.

Ma, se questo è vero, perché la coscienza umana è indotta sistematicamente alla mistificazione?

Presumibilmente i motivi sono due. Il primo è di ordine psicobiologico. La ridondanza inconscia è inquietante perché essa implica l’esistenza di indefiniti stati di coscienza e addirittura di molteplici soggettività in contraddizione tra loro. L’uomo tende sistematicamente a sacrificare questa ricchezza in nome dell’esigenza suprema di unità, coesione e continuità nel tempo dell’Io. Tale sacrificio non è in assoluto necessario: la ridondanza è anche la matrice dell’evoluzione personale, del cambiamento, della creatività, all’insegna di una integrazione dialettica tra i bisogni intrinseci. Ma sfruttare tale ricchezza richiede un impegno che mediamente gli esseri umani non sono inclini a realizzare, tanto più se essi sono indotti dall’ambiente a normalizzarsi e non ad individuarsi.

Il secondo motivo è di ordine storico-culturale. Nietzsche ha validamente contestato la concezione dell’io borghese padrone di se stesso, razionale ed autonomo. Egli riteneva che l’io fosse dominato e condizionato da pulsioni e motivazioni inconsce del tutto sottratte al suo controllo. Non solo la psicoanalisi ma anche la psicologia e la neurobiologia contemporanee confermano la fondatezza di questa intuizione.

Ma se, come risulta dalla pratica e dalla teoria struttural- dialettica, l’inconscio ha una configurazione antropomorfica tale che le emozioni, le fantasie e i contenuti di pensiero sembrano letteralmente irretiti dalla relazione tra Io e Altro (reale e rappresentato interiormente), la necessità della mistificazione sembra riconducibile alla difficoltà degli esseri umani, immersi in una cultura individualistica, di accettare il primato del sociale interiorizzato a livello inconscio.

Tale primato, costitutivo della struttura profonda della personalità umana, non è insormontabile. L’individuazione è il processo in virtù del quale l’io, riconoscendo quel primato, può giungere ad affermare la sua libertà e la sua indipendenza.

L’ossessione dell’individuazione, come si è visto, è stata centrale nell’esperienza umana di Nietzsche e nella sua produzione intellettuale. Egli però l’ha sempre vissuta in antitesi radicale rispetto all’appartenenza sociale e, probabilmente, ne ha pagato duramente le conseguenze.

Nietzsche tra Filosofia e Panantropologia

Nietzsche ha più volte ribadito la sua distanza dalla tradizione filosofica e la sua volontà di fondare una nuova disciplina chiama Psicologia. Di cosa si tratti risulta chiaro dalle seguenti citazioni:

“Il noto è l'abituale, e l'abituale è difficilissimo da «conoscere», cioè da vedere come problema da considerare estraneo, lontano, «fuori di noi»... La grande sicurezza delle scienze naturali in rapporto alla psicologia e alla critica degli elementi della coscienza - scienze innaturali, si dovrebbe quasi dire - è fondata proprio sul fatto che scelgono quale loro oggetto l'estraneo: mentre volere scegliere quale oggetto il non-estraneo è quasi contraddittorio e assurdo.” (GS)

“Tutta quanta la psicologia è rimasta impigliata fino ad oggi in pregiudizi e timori morali; essa non ha osato scendere nel profondo. Considerarla, come io la considero, quale morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: ‑ è un punto che finora nessuno ha neppure sfiorato con il pensiero: per quanto almeno è consentito riconoscere, in ciò che è stato scritto fino ad ora, un sintomo di ciò che fino ad ora è stato taciuto.” (ABM)

“Mai prima d'ora si è dischiuso a viaggiatori temerari e ad avventurieri un più profondo mondo della conoscenza: e lo psicologo, che in tal modo «compie il sacrificio» che non è il sacrificio dell'intelletto, al contrario! avrà almeno il diritto di pretendere che la psicologia venga nuovamente riconosciuta come signora delle scienze, per il servizio e la preparazione della quale le altre scienze esistono. Poiché la psicologia è ormai di nuovo la via che conduce ai problemi fondamentali.” (ABM)

E’ evidente che la Psicologia di cui parla Nietzsche è un sapere che assume l’introspezione, l’osservazione e l’interpretazione dei fatti umani come unica possibilità di dare una risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza. Tenendo conto del fatto che oggi tale sapere, al di là della genialità intuitiva di Nietzsche, deve integrare anche gli apporti della genetica, della neurobiologia, della psicoanalisi, della sociologia, dell’antropologia culturale, ecc., non sembra azzardato parlare di panantropologia e assumere Nietzsche tra i suoi precursori, tenendo conto, tra l’altro, dell’interesse sempre vivo che egli ha manifestato nei confronti delle scienze naturali (di cui era critico).

Ciò nonostante, il destino di Nietzsche finora è stato quello di essere annoverato tra i filosofi e di essere stato addirittura egemonizzato dai filosofi, gran parte dei quali, sulla scia di Heidegger, si affannano a risolvere problemi - come quello se Nietzsche mette a morte la metafisica o è l’ultimo dei metafisici - che, sinceramente, al di fuori della filosofia, hanno ben scarso valore ai fini di una panantropologia.

Che sia possibile un uso diverso del pensiero di Nietzsche è agevole da provare.

Nel suo monumentale lavoro, pubblicato poco prima della morte - La struttura della teoria dell’evoluzione (Codice edizioni, Torino 2003) -, Gould riconosce che Nietzsche, in Genealogia della morale, introducendo la distinzione tra l’origine storica dall’utilità attuale ha colto un aspetto fondamentale della metodologia storica che, applicato all’evoluzionismo, consente di sormontare l’ideologia adattamentista:

“Nietzsche definisce la necessità di distinguere l'origine storica dall'utilità attuale come "il punto di vista principale della metodologia storica" (trad. it. p. 68). "Per ogni tipo di storia non esiste alcun principio più importante" aggiunge, poco prima di presentare la sua dichiarazione più esplicita sul problema generale (trad. it. p. 66): "Il principio, cioè, che la causa genetica di una cosa e la sua finale utilità, nonché la sua effettiva utilizzazione e inserimento in un sistema di fini, sono fatti toto caelo disgiunti l'uno dall'altro; che qualche cosa d'esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza a essa superiore in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, manipolata e adattata a nuove utilità".

Per risolvere il suo particolare problema, Nietzsche ha bisogno di operare questa separazione perché desidera collocare l'origine della punizione nella manifestazione quasi inevitabile di una primaria volontà di potenza. Ma se commettiamo l'errore di equiparare un'utilità moderna accettata ed efficace (nella deterrenza o nella risoluzione del debito, ad esempio) con la ragione dell'origine, non capiremo mai la genealogia della morale. Ancora una volta, e contrariamente al frainteso comune, Nietzsche non vuole richiamarsi all'origine storica come a una fonte di convalida. Al contrario, sostiene che dobbiamo comprendere le ragioni dell'origine, se vogliamo analizzare la fonte e la forza della motivazione sottostante (qualunque sia la sua utilità attuale), e avere così una comprensione migliore delle nostre azioni e della nostra natura.

In un passo affascinante, Nietzsche utilizza poi l'esempio biologico dell'occhio e della mano per sostenere la propria idea specifica di punizione e per introdurre una graduatoria relativa, in cui l'adattamento dell'utilità attuale è considerato come un'impronta secondaria su una fonte originale più fondamentale:

Per bene che si sia compresa l'utilità di un qualsiasi organo fisiologico (o anche di un'istituzione giuridica, di un costume sociale, di un uso politico, di una determinata forma nelle arti o nel culto religioso), non è perciò stesso ancora compreso nulla relativamente alla sua origine: comunque ciò possa suonare molesto e sgradevole [...]. Da tempo immemorabile, infatti, si è creduto dì comprendere nello scopo comprovabile, nell'utilità di una cosa, di una forma, di un'istituzione, anche il suo fondamento d'origine, e così l'occhio sarebbe stato fatto per vedere, la mano per afferrare. Così ci si è figurata la pena come fosse stata inventata per castigare. Ma tutti gli scopi, tutte le utilità sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente (ibid.).

Altri due aspetti della straordinaria analisi di Nietzsche mostrano come avesse compreso compiutamente questo principio chiave della spiegazione storica con tutte le sue implicazioni di ampia portata, ciascuna delle quali riveste uguale importanza nella biologia evoluzionistica. In primo luogo, egli riconosce (come fece Darwin) che svincolare l'utilità attuale dall'origine storica determina il campo della contingenza e dell'imprevedibilità nella storia: infatti se qualche organo, durante la sua storia, subisce una serie di singolari cambiamenti nella sua funzione, allora non possiamo né predirne il prossimo utilizzo a partire da un valore corrente né lavorare comodamente a ritroso per chiarire le ragioni sottostanti all'origine di quel tratto. Si noti, nel passo seguente, come Nietzsche si riferisca alla catena di utilità secondarie come ad "adattamenti"; come egli specifichi che i passi nella sequenza delle utilità si susseguano "a caso" (nel senso proposto da Eble, 1999, di essere slegati, e impredicibili da, stati precedenti, e non nel senso strettamente matematico); e come egli riconosca chiaramente il significato di questo principio per fugare ogni speranza di poter interpretare una storia filetica come "progresso verso una meta", un'altra somiglianza quasi sovrannaturale con la concezione di Darwin del significato della contingenza nell'evoluzione:

L'intera storia di una "cosa", di un organo, di un uso può essere in tal modo un'ininterrotta catena di segni che accenna a sempre nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non hanno neppure bisogno di essere in connessione tra loro, anzi talvolta si susseguono e si alternano in guisa meramente casuale. "Evoluzione" di una "cosa", di un uso, di un organo, quindi, è tutt'altro che il suo progressus verso una meta, e ancor meno un progressus logico e di brevissima durata, raggiunto con un minimo dispendio di forza e di beni bensì il susseguirsi di processi di assoggettamento pretesi su tale cosa, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti uno dall'altro (trad. it. pp. 6667).
In secondo luogo, Nietzsche promulga un ordine di importanza, fornendo ragioni per considerare l'origine come primaria in senso più che puramente temporale e le utilità attuali come serie di "adattamenti" (sua descrizione) secondari con uno statuto solo transitorio e minore influenza (rispetto alla forza duratura dell'origine primaria) su ogni condizione futura. Non difenderei questa graduatoria per applicarla alla teoria evoluzionistica, se non altro perché la "volontà di potenza" formativa di Nietzsche identifica una forza persistente che deve influenzare anche ogni adattamento successivo, mentre il contesto originale di un carattere fenotipico evoluto non ha bisogno di esercitare una simile presa continuativa sulla storia. Però, apprezzo il punto di vista di Nietzsche che può essere tradotto in termini evoluzionistici come fonte originaria di vincolo. La ragione originaria continua a esercitare una presa sulla storia mediante il vincolo strutturale che incanala gli utilizzi posteriori.” (pp. 1518-1520)

L’intuizione di Nietzsche viene, in breve, utilizzata da Gould per corroborare l’ipotesi secondo la quale l’uso attuale di un organo non necessariamente deve essere ricondotto alla selezione. Esso, infatti, può essere ricondotto alla presenza nell’organo stesso di strutture e potenzialità funzionali non riconducibili ad una selezione adattiva,. che solo successivamente alla loro origine possono eventualmente, essere utilizzate.

Per definire tali potenzialità Gould usa il termine di exaptation. E’ difficile non capire che il concetto di exaptation dà un fondamento scientifico all’esuberanza, alla ricchezza e all’opulenza di cui parla più volte Nietzsche come espressione propria della vita: esuberanza che, in alcuni soggetti iperdotati, coincide con un orientamento iperadattivo, per esempio con una passione compulsiva per la conoscenza o un elevato grado di creatività.

Gould, che si limita a valorizzare il principio metodologico enunciato da Nietzsche in rapporto alle discipline storiche, non coglie questo aspetto. Ma esso ha un’importanza del tutto particolare. Sulla base dell’exaptation, infatti, il concetto di Superuomo può essere riformulato, togliendo ad esso il significato assoluto di superiorità di alcuni individui rispetto alla massa che esso ha in Nietzsche.

Il fatto che il cervello umano sia ridondante di potenzialità esattate che, presumibilmente, sono state finora utilizzate solo parzialmente, può fare pensare che tutti gli esseri umani sono in qualche misura iperdotati (anche se alcuni lo sono di sicuro più di altri), e che quindi, almeno sulla carta, il superamento dell’alienazione normativa, che Nietzsche ha denunciato, sia ancora possibile.

L’uso che Gould fa del pensiero di Nietzsche, ricavandone un principio essenziale per una disciplina storica come l’evoluzionismo, è molto più profondo di quello che ne hanno fatto e ne fanno molti filosofi.

E’ vero che, da qualche tempo, i filosofi stessi cercano di rilanciare la loro disciplina in un’ottica meno angusta e più aperta all’interazione con le scienze.

In un libro recente (Ma io chi sono, Milano, Garzanti 2010), R. Precht - un filosofo tedesco - cerca di coniugare la tradizione filosofica con la psicologia e la neurobiologia per rispondere alle tre domande su cui si è da sempre esercitata la filosofia: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare? Non è sorprendente che il primo capitolo sia dedicato a Nietzsche. Vi si legge:

“La grandezza di Nietzsche fu nella sua critica, tanto spietata quanto vivace. Come nessun filosofo prima di lui, evidenziò in modo appassionato la presunzione e l'ignoranza con cui l'uomo giudicava il mondo circostante secondo la logica e la verità della propria specie, quella umana. Gli «animali intelligenti» credono di possedere uno status esclusivo. Nietzsche invece difese con veemenza la tesi secondo cui l'uomo è davvero un animale, condizione, questa, che ne determina anche il pensiero: attraverso impulsi e istinti, attraverso la sua volontà primitiva, attraverso le sue limitate possibilità conoscitive. Di conseguenza, la maggior parte dei filosofi occidentali aveva torto quando concepiva l'uomo come qualcosa di eccezionale, come una sorta di computer dell'autocoscienza ad altissima prestazione.

Può infatti l'uomo conoscere davvero sé stesso e la realtà oggettiva? Ha veramente questa capacità? La maggior parte dei filosofi non ne aveva mai dubitato. Altri non si erano nemmeno posti il problema. Avevano dato per scontato che il pensiero umano fosse di per sé una sorta di pensiero universale. In effetti, non consideravano l'uomo un animale intelligente, ma un essere di livello superiore. Avevano sistematicamente negato l'eredità proveniente dal regno animale, un'eredità che però continuava a osservarli con lo stesso ghigno inequivocabile: la mattina, nello specchio, quando si facevano la barba, e dopo il lavoro, quando si infilavano sotto il piumone. Uno dopo l'altro, questi filosofi avevano scavato un profondo fossato tra uomo e animale. L'intelletto e l'intelligenza umani, la capacità di pensare e di giudicare, erano l'unico criterio salvifico per giudicare la natura animata. E condannarono ciò che era «soltanto» fisico e corporale come qualcosa di assolutamente secondario.

Per essere certi che le loro idee sublimi sulla propria natura fossero giuste, i filosofi dovevano supporre che Dio avesse provvisto l'uomo di un apparato conoscitivo impeccabile. Grazie a esso potevano leggere nel «libro della natura» la verità sul mondo.

Ma se era vero che Dio era morto, anche questo apparato non doveva essere messo molto meglio. Esso, infatti, non poteva che essere un prodotto della natura e, quindi, come tutto ciò che esiste in natura, un po' imperfetto. Questa convinzione Nietzsche l'aveva mutuata da Arthur Schopenhauer: «Dopo tutto siamo degli esseri puramente temporali, finiti, transitori, onirici, che volano via come ombre». E cosa se ne farebbero esseri del genere di un «intelletto che captasse dei rapporti infiniti, eterni, assoluti»?...

Lo sguardo spietato di Nietzsche sulla filosofia e sulla religione ha dimostrato quanto sia forzata la maggior parte delle definizioni che l'uomo dà di sé stesso. (Il fatto che lui in prima persona abbia a sua volta attuato delle forzature è tutto un altro discorso.) La coscienza umana non fu plasmata dall'impellente domanda: «Cos'è la verità?». Più importante fu senz'altro il quesito: «Cos'è meglio per la mia sopravvivenza?». Tutto ciò che non contribuiva a risolvere questa problematica aveva pare poche possibilità di incidere in maniera determinante sull'evoluzione della specie umana...”

Dissacrando la religione, che comporta l’accesso da parte dell’uomo ad una verità assoluta rivelata, criticando una tradizione filosofica che assegna alla ragione il compito di pervenire alla verità, contestando la scienza positivistica che, alla sua epoca, intende far proprio questo obiettivo fallito dalla filosofia, Nietzsche ha segnato per sempre i limiti del sapere umano sulla Natura e sull’Uomo.

Nessuno ormai tra i filosofi e gli scienziati pensa di poter pervenire ad una verità assoluta. La complessità della realtà, dal livello cosmico a quello del cervello umano, è tale che in essa si danno isole di determinismo, per le quali valgono leggi lineari di causa-effetto, immerse in un mare di indeterminismo, per il quale valgono solo leggi probabilistiche. In breve, la causalità concerne un numero infinitesimale di fenomeni, mentre la casualità governa tutti gli altri.

Le intuizioni di Nietzsche sui limiti del sapere umano sono dunque del tutto fondate. Purtroppo, esse sono state e sono male utilizzate dai filosofi (oltre ovviamente che dai teologi) per portare avanti una polemica antiscientista, vale a dire per sostenere, con una non malcelata soddisfazione, che anche le scienze sono costruzioni concettuali che nulla hanno a che vedere con la “cosa in sé”.

L’affermazione è senz’altro vera in linea di principio. Occorre tenere conto che se essa, all’epoca di Nietzsche, aveva un significato storico in rapporto al trionfalismo positivistico, oggi non lo ha più. La scienza ormai prescinde, per merito di Nietzsche ma anche di una sua evoluzione autocritica, dal porsi come obiettivo la verità assoluta della “cosa in sé”. Essa si limita a formulare modelli e ad interrogare sperimentalmente (ove possibile) la realtà per verificare quale di essi sia più pertinente, vale a dire più approssimato rispetto alla verità.

La citazione di Precht, pur tratta da un libro per molti aspetti notevole, è significativa del cattivo uso che i filosofi, nonostante gli sforzi di rinnovamento, fanno di Nietzsche. Precht deriva implicitamente dal fatto che Nietzsche ritiene l’uomo un animale come gli altri la sua adesione al darwinismo adattivo.

In realtà, come abbiamo visto, per quanto non abbia una conoscenza di prima mano del pensiero di Darwin, Nietzsche contesta l’ideologia adattamentista in nome del fatto che “l'aspetto complessivo della vita non è lo stato di bisogno, lo stato di fame, bensì la ricchezza, l'opulenza, persino l'assurda dissipazione dove si lotta, si lotta per la potenza…” (CI). Egli ammette insomma, nell’uomo, una spinta istintiva e motivazionale che va al di là dell’adattamento.

Questo messaggio, però, come abbiamo visto, è stato raccolto da Gould e non dai filosofi.

Se si intende valorizzare il pensiero di Nietzsche, occorre prescindere dal fatto che la sua critica radicale ha umiliato e tolto definitivamente valore alla scienza. Il suo contributo, di fatto, l’ha resa umile e consapevole dei suoi limiti, che non ne impediscono, però, il progresso. Popper, un filosofo della scienza tutt'altro che ostile a Nietzsche, ha scritto: “Nella scienza possiamo tendere alla verità e lo facciamo. La verità è il valore fondamentale. Quel che non possiamo raggiungere è la certezza. Ad essa dobbiamo rinunciare.”

Nietzsche e il post-modernismo

Nietzsche ha cessato di pensare e di scrivere nel 1889. Ciò nondimeno, ne Le filosofie del Novecento, scritta da G. Fornero e S. Tassinari (Bruno Mondadori, Milano 2002), a lui è dedicato il primo capitolo il cui titolo è La crisi delle certezze. Il posto d’onore è dovuto al fatto che l’influenza filosofica di Nietzsche è aumentata di continuo dopo la sua morte, ed è cresciuta pressoché senza sosta nel corso del Novecento sino ad esitare nel Nichilismo e nel Post-modernismo.

In un lucido saggio (Il nichilismo, Laterza, Bari 1999), Franco Volpi, dopo aver ricostruito la storia del pensiero nichilista, riconoscendo il ruolo centrale di Nietzsche nel porlo al centro della riflessione filosofica novecentesca, giunge alle seguenti conclusioni

“Sono svanite la forza vincolante delle norme morali e la possibilità che esse trovino disponibilità ad essere accettate e applicate… I riferimenti tradizionali - i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori - sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l'indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l'isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l'efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella di freni di bicicletta montati su un jumbo jet (Beck, 1988: 194). Sotto la calotta d'acciaio del nichilismo non v'è più virtù o morale possibile.

Il fatto è che il paradigma perduto è stato sostituito da uno nuovo che impone i propri imperativi a ogni condotta e comportamento umano. È il paradigma tecnico-scientifico. La scienza e la tecnica - che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta - forniscono una guida assai più efficace e coercitiva dell'agire di quanto non possa fare la morale. Impongono obbligazioni che vincolano più di tutte le morali scritte nella storia dell'umanità, rendendo superfluo, d'ora in avanti, ogni altro imperativo. La scienza e la tecnica organizzano la vita sul pianeta con l'ineluttabilità di uno spostamento geologico. Al loro cospetto l'etica e la morale hanno ormai la bellezza di fossili rari.

L'uomo contemporaneo non ha alternative: qualsiasi cosa pensi o faccia, è già comunque sottomesso alla coercizione della «tecnoscienza». Ciò nonostante egli si culla ancora nell'attitudine edificante dell'umanesimo tradizionale e dei suoi ideali, che appaiono però impotenti rispetto alla realtà della tecnoscienza e che producono, tutt'al più, un'evasione e una compensazione…

La domanda che a questo punto si impone è se il nichilismo sia davvero - come riteneva Heidegger - un approdo inevitabile del razionalismo occidentale, una sorta di inveramento essenziale del potere distruttivo della razionalità nata con i Greci, o se esso non sia piuttosto - come pensava Husserl - un tradimento dell'originaria idea di ragione, un imbarbarimento e un impoverimento di quel logos, che con Socrate, Platone e Aristotele aveva saputo imporsi sul nichilismo di un Gorgia. Questo dilemma ha tormentato il pensiero contemporaneo - lo testimonia la polemica in merito alla «critica totale della ragione» intercorsa tra due suoi esponenti di spicco, Apel e Derrida - e, se mai si potrà dirimerlo, per farlo appare comunque indispensabile una distanza storica che ancora non abbiamo maturato…

Ma - ci si chiede - se è vero che il nichilismo comincia là dove cessa la volontà di autoingannarci, possiamo allora trasformare l'esperienza che ne abbiamo fatto in un insegnamento, ovvero in un vigoroso invito alla lucidità del pensiero e alla radicalità del domandare - in un'epoca in cui gli altari abbandonati vengono abitati da demoni?
Jean Dubuffet ha scritto che «soltanto il nichilismo è costruttivo» perché è «l'unico cammino che porta l'uomo a stabilirsi nella chimera» (Dubuffet, 1969:80). La provocazione di questo artista e teorico dell'avanguardia, anche senza essere condivisa, aiuta a vedere che il nichilismo ci ha trasmesso effettivamente un insegnamento corrosivo e inquietante ma al tempo stesso profondo e coerente.

Ci ha insegnato che noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata - non la religione né il mito, non l'arte né la metafisica, non la politica né la morale e nemmeno la scienza - in grado di parlare per tutte le altre, che non disponiamo più di un punto archimedeo facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all'intero. È questo il senso più profondo della terminologia negativa - «perdita del centro», «svalutazione dei valori», «crisi di senso» - che il nichilismo ha fatto fiorire e che evidentemente esprime la crisi d'autodescrizione del nostro tempo.

Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v'è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare.

Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all'altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro.

Dopo la caduta delle trascendenze e l'entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che disfa incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.” (p. 115 -117)

Le conclusioni di Volpi possono essere condivise, ma con una riserva: esse implicano che la tela di Penelope del sapere umano sia inesorabilmente deputata ai filosofi-tessitori.
I filosofi di fatto sono quelli che più di tutti gli altri studiosi hanno utilizzato Nietzsche per diminuire la portata della crescita esponenziale delle scienze nel Novecento.

E’ questo il senso complessivo del Postmodernismo, di cui Fornero e Tassinari (Filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002) danno la seguente caratterizzazione:

“Alla base di ogni filosofia postmoderna vi è una specifica interpretazione della modernità, sulla quale concordano, almeno in linea generale, i suoi principali teorici. Schematicamente, secondo i postmoderni, la modernità (cioè il periodo che va, grosso modo, da Cartesio a Nietzsche) sarebbe caratterizzata da alcune direttrici fondamentali, ossia dalla tendenza:

a) a credere in visioni onnicomprensive del mondo (idealismo, marxismo ecc.) capaci di fornire "legittimazioni" filosofiche al conoscere e all'agire;

b) a pensare in termini di "novità" e "superamento", ossia a identificare ciò che è "nuovo" con ciò che è "migliore" e ciò che è "trascorso" con ciò che è "superato". Credenza che dà luogo a quel tipico fenomeno che è la "moda" (termine che ha la stessa radice di "moderno");

c) a concepire la storia in termini di "emancipazione", ossia come percorso "progressivo" di cui gli intellettuali conoscono i fini (la libertà, l'eguaglianza, il benessere ecc.) e i mezzi idonei a realizzarli (la diffusione dei lumi, la rivoluzione proletaria, le conquiste della tecnoscienza ecc.);

d) a concepire l'uomo come "dominatore" della natura e ad esaltare la scienza, con la conseguente riduzione della realtà a "oggetto" omologabile e formalizzabile secondo criteri di tipo ipotetico-sperimentale. Idea che comporta una parallela identificazione della ragione con la ragione scientifica;

e) a pensare secondo le categorie di "unità" e "totalità", in modo da subordinare la folla eterogenea degli eventi e dei saperi a "gerarchie forti", mettenti capo a un unico "centro" e a un unico orizzonte globale di senso (ontologico, storico, gnoseologico ecc.). Tendenza che si accompagna a quell'uniformazione coatta della particolarità e della diversità che fa tutt'uno con la ragione-dominio dell'Occidente e con la sua vocazione "terroristica" (Lyotard) e "violenta" (Vattimo).

A queste idee-madri della modernità i postmoderni contrappongono una costellazione teorica che, pur non potendo venir ridotta a un semplice capovolgimento dialettico del moderno, costituisce pur sempre un'alternativa rispetto a esso, ovvero:

a) la sfiducia nei macrosaperi onnicomprensivi e legittimanti e la proposta di forme "deboli" (Vattimo) o "instabili" (Lyotard) di razionalità, basate sulla convinzione dell'inesistenza di fondamenti ultimi e unitari del sapere e dell'agire. Sfiducia che, in concreto, si traduce in un congedo dai movimenti culturali dominanti degli anni sessanta e settanta, ossia dallo strutturalismo, dalla psicoanalisi e dal marxismo, accomunati da un monismo teorico e metodologico proteso alla ricerca di un fondamento unico dei fenomeni;

b) il rifiuto dell'enfasi del "nuovo" e della categoria avanguardista di "superamento". Tant'è che il postmoderno, più che come l'ultima avanguardia, intende essere la fine di tutte le avanguardie e dell'arrogante pretesa "moderna" di fare piazza pulita del passato;

c) la rinuncia a concepire la storia alla stregua di un processo universale o necessario, in grado di fungere da piattaforma "garantita" dell'umanità verso l'emancipazione e il progresso.
Rinuncia che si accompagna all'elaborazione di una sorta di "pensiero senza redenzione", ossia a una sfiducia programmatica nei confronti di ogni terapia "salvifica" (politica, esistenziale, artistica ecc.) finalizzata al raggiungimento di una condizione umana "trasparente" e dialetticamente "riconciliata" con se stessa;

d) il rifiuto di identificare la ragione con la ragione tecnico-scientifica e di concepire l'uomo come padrone incontrastato della natura e dell'ambiente. Diniego che connette la sensibilità postmoderna all'ecologismo, inteso come movimento di reazione agli effetti distruttivi del dominio tecnologico sulla natura e ricerca di una nuova cultura dell'abitare;

e) il privilegiamento del paradigma della molteplicità rispetto al paradigma dell'unità, ossia la consapevolezza che «il mondo non è uno, ma molti». Consapevolezza che fa tutt'uno con la tesi della natura storico-localistica (o "etnica") delle credenze e che si traduce in una difesa programmatica della plurivocità e della differenza, accompagnata da una serie di pratiche culturali di rottura, quali la frammentazione, la regionalizzazione, la dissociazione, la decanonizzazione, l'ibridazione, la carnevalizzazione ecc. tese a far valere i diritti del molteplice, del particolare, del diverso, del difforme, dell'incommensurabile. Tutte pratiche e situazioni che, a differenza di quanto accadeva nelle cosiddette "filosofie della crisi" della prima metà del Novecento, non vengono tuttavia prospettate e in ciò risiede una delle maggiori novità del postmoderno con un senso di nostalgia o di rimpianto per l'intero perduto, ma come un fatto positivo, ovvero come un segno della raggiunta maturità dell'uomo contemporaneo. Come simboli di questo "mondo a frammenti", i postmoderni scelgono figure quali il labirinto (incarnazione tipica dell'inesistenza di mappe o fili conduttori certi), Orfeo (il mitico semidio che continua a cantare anche dopo la morte per smembramento) o la torre di Babele, emblema, quest'ultima, della proliferazione dei linguaggi e di un mondo irrimediabilmente diversificato e sconnesso, in cui cessa di avere senso il tentativo tradizionale di trovare un «meta-vocabolario che in qualche maniera tenga conto di tutti i vocabolari possibili, di tutti i modi possibili di giudicare e sentire».”

In un certo senso, i pensatori post-modernisti non accolgono solo il nichilismo di Nietzsche, ma anche la sua qualificazione positiva. L’apertura alla novità, alla diversità, al pluralismo dei saperi, al relativismo, che inaugura la possibilità di percorrere i tragitti di sapere più vari nell’ambito di un universo simbolico infinito, sembra quasi restituire al nichilismo una dimensione esuberante e festosa.

Penso, però, che i pensatori post-moderni abbiano ecceduto non già nell’assumere Nietzsche come loro precursore (genealogia inoppugnabile), ma nel ricavare dal suo pensiero una sorta di orientamento relativistico e contestualistico che, preso atto della pluralità delle culture e dei punti di vista, postula di sospendere ogni giudizio su di essi.

E’ difficile non cogliere nel pensiero post-modernista una sorta di riscatto della filosofia rispetto alla scienza. I filosofi rivendicano alla loro disciplina di aver coltivato da sempre l’apertura alla novità, alla diversità e alla pluralità dei saperi, e, in conseguenza di questo, stigmatizzano il presunto dogmatismo della scienza.

L’avversione dichiarata di Nietzsche per ogni forma di pensiero sistematico e totalizzante, che i postmodernisti hanno assunto come un Vangelo, è indubbia.. Ma c’è da chiedersi se tale avversione implichi necessariamente la rinuncia a costruire, con cautela e senza alcuna pretesa di ingabbiare la realtà, un modello atto ad interpretare e a comprendere l’uomo, la sua singolare strutturazione mentale e i fatti che da essa discendono.

In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, c’è da chiedersi se non sia possibile interpretarli sulla base della doppia natura umana, vale a dire della dotazione di un bisogno primario e potente di appartenenza/integrazione sociale, che dà ad ogni cultura e ad ogni sistema di valori che la caratterizzano, un significato prevalente di riduzione della diversità che sussiste tra i singoli individui, al fine di promuovere un’organizzazione sociale dotata di una certa coesione e della capacità di riprodursi attraverso le generazioni, e di un bisogno altrettanto potente, benché secondario, di opposizione/individuazione che, con il suo animarsi, promuove in alcuni individui la spinta a criticare la cultura di appartenenza nel tentativo di impedire una cristallizzazione conservatrice e di introdurre in essa elementi di novità e di rinnovamento.

Io ritengo che questo sia possibile.

In questa ottica, il pensiero di Nietzsche, con il suo carattere marcatamente antitetico, può essere recuperato e valorizzato come un potente antidoto rispetto all’inerzia di ogni cultura.

Se si utilizza poi il concetto di ridondanza funzionale del cervello, che è maturato nella cornice della biologia evoluzionistica più recente, non si stenta a capire che Nietzsche, come ogni genio, ha attinto a piene mani, senza rendersene conto, in questo patrimonio genetico dell’umanità, giungendo all’intuizione di mondi possibili rispetto all’esistente.
Nietzsche ha dimostrato che un uomo geniale, sotteso da un’incoercibile passione per la conoscenza, può da solo mettere in discussione e in crisi gran parte delle tradizioni, dei costumi, dei codici normativi, delle convenzioni, dei pregiudizi, dei luoghi comuni, ecc. vigenti nel mondo cui appartiene.

L’analisi del pensiero di Nietzsche alla luce dei dati forniti dalle scienze umane e sociali, che ho tentato di svolgere in queste Conferenze, pone di fronte al fatto che alcune sue intuizioni - in particolare lo statuto mistificato della coscienza, la tendenza degli esseri umani verso la normalizzazione e l’omologazione, l’effetto catturante dei quadri mentali di lunga durata - risultano non solo convalidate, ma potenziate e arricchite. Altre - come il riferimento all’istinto del gregge, l’ossessione antiugualitaristica, la necessità che l’individuazione si realizzi sempre sotto forma di contrapposizione antitetica ed eroica rispetto al mondo - sembrano invece criticabili se non addirittura caduche.

Ritengo che il futuro del pensiero di Nietzsche riposi sul fatto che tale analisi possa essere ulteriormente approfondita, scorporando quel pensiero dalla filosofia e inserendolo nella cornice della panantropologia. In questa cornice, fin da ora egli risulta come il più profondo, inquieto e inquietante teorico che si sia mai dato del bisogno di individuazione e del rapporto intrinsecamente, ma non, com’egli pensa, fatalmente e univocamente, conflittuale tra esso e il bisogno di appartenenza.

L’analisi del pensiero di Nietzsche alla luce dei dati forniti dalle scienze umane e sociali, che ho tentato di svolgere in queste Conferenze, pone di fronte al fatto che alcune sue intuizioni - in particolare lo statuto mistificato della coscienza, la tendenza degli esseri umani verso la normalizzazione e l’omologazione, l’effetto catturante dei quadri mentali di lunga durata - risultano non solo convalidate, ma potenziate e arricchite. Altre - come il riferimento all’istinto del gregge, l’ossessione antiugualitaristica, la necessità che l’individuazione si realizzi sempre sotto forma di contrapposizione antitetica ed eroica rispetto al mondo - sembrano invece criticabili se non addirittura caduche.

Ritengo che il futuro del pensiero di Nietzsche riposi sul fatto che tale analisi possa essere ulteriormente approfondita, scorporando quel pensiero dalla filosofia e inserendolo nella cornice della panantropologia. In questa cornice, fin da ora egli risulta come il più profondo, inquieto e inquietante teorico che si sia mai dato del bisogno di individuazione e del rapporto intrinsecamente, ma non, com’egli pensa, fatalmente e univocamente, conflittuale tra esso e il bisogno di appartenenza.