Spiriti liberi e Superuomo

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

6.

Quindi: l'uomo superiore e di vasta esperienza scrive la storia. Chi non ha vissuto qualcosa di più grande e di più alto di tutti non saprà neanche interpretare nulla di grande e di alto del passato. La sentenza del passato è sempre una sentenza da oracolo: la comprenderete soltanto come architetti del futuro, come sapienti del presente.

Schopenhauer come educatore (considerazioni inattuali III, 1876)

4.

L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità, e questo soffrire gli serve a uccidere la sua propria volontà e preparare così quel completo capovolgimento e rovesciamento del suo essere, il cui raggiungimento è il senso vero e proprio della vita. Questo affermare francamente la verità appare agli altri uomini come un effetto della malvagità, poiché essi considerano un dovere dell'umanità conservare le loro sciocchezze e le loro bubbole e pensano che si debba essere malvagi per distruggere così i loro giocattoli. A un tale uomo essi sono tentati di gridare ciò che Faust dice a Mefistofele: «Ecco tu opponi il freddo pugno del diavolo alla potenza sempre viva e salutarmente creatrice»; e chi invece volesse vivere schopenhauerianamente, somiglierebbe forse di più a un Mefistofele che a un Faust ‑ proprio per i più deboli occhi moderni, che nella negazione vedono sempre il marchio del maligno.

Ma c'è una modo di negare e di distruggere che è invece proprio l'emanazione di quel potente anelito alla santificazione e alla salvezza di cui Schopenhauer fu il primo filosofico maestro, tra noi uomini dissacrati e secolarizzati. Ogni esistenza che può essere negata, merita anche di esserlo; e essere veritiero significa credere ad un'esistenza che non potrebbe essere assolutamente negata e che è essa stessa vera e senza menzogna. Perciò colui che è veritiero avverte nella sua attività un significato metafisico, spiegabile secondo le leggi di una vita diversa e superiore, e, nel senso più profondo, affermativo: anche se tutto ciò che fa appare come un distruggere e un infrangere le leggi di questa vita…

Certo egli distrugge la sua felicità terrena con il suo eroismo, deve essere ostile anche verso gli uomini che ama, verso le istituzioni dal cui grembo è uscito; non può risparmiare né uomini né cose, anche se, nel ferirle, soffre con loro; sarà misconosciuto e considerato a lungo alleato di quelle forze che egli più disprezza, dovrà, secondo una misura umana della sua visione, essere ingiusto, con tutta la sua aspirazione alla giustizia: tuttavia potrà prendere coraggio e consolazione dalle parole che Schopenhauer, suo grande educatore, una volta ha usato: «Una vita felice è impossibile, il massimo che l'uomo può raggiungere è una vita eroica…

Chi intende la propria vita solo come un punto nello sviluppo di una generazione o di uno Stato o di una scienza e vuole, quindi, appartenere completamente al racconto del divenire, alla storia, non ha compreso la lezione impartitagli dell'esistenza e deve impararla un'altra volta. Questo eterno divenire è un ingannevole teatrino di marionette, per il quale l'uomo dimentica se stesso; è la vera e propria distrazione che disperde l'individuo a tutti i venti, l'infinito e sciocco gioco che il tempo, grande fanciullo, gioca davanti a noi e con noi. L'eroismo della veridicità consiste dunque nello smettere un giorno di essere il giocattolo del tempo.

Nel divenire tutto è vuoto, ingannevole, piatto e degno del nostro disprezzo; l'enigma che l'uomo deve sciogliere, lo può risolvere solo partendo dall'essere, nell'essere così e non in altro modo, in ciò che non è soggetto al trapasso. Ora egli comincia a esaminare in quale misura sia concresciuto con il divenire, e in quale misura con l'essere ‑ un compito immane si erge davanti alla sua anima: distruggere tutto ciò che diviene, portare alla luce tutto ciò che vi è di falso nelle cose…

L'uomo eroico disprezza il suo benessere o il suo malessere, le sue virtù e i suoi vizi e comunque il misurare le cose su se stesso; da se stesso non si aspetta più nulla e in tutte le cose vuole penetrare con lo sguardo fino a raggiungere questo fondo privo di speranza. La sua forza è nel dimenticare se stesso; e se si ricorda di sé, misura la distanza tra il suo sommo fine e se stesso, ed è come se vedesse dietro e sotto di sé un meschino ammasso di scorie.

6.

Talvolta è più difficile ammettere un fatto che comprenderlo; ed è appunto quanto può accadere a molti che riflettono sulla frase: «l'umanità deve adoperarsi di continuo per generare singoli grandi uomini ‑ questo e nessun altro è il suo compito». Quanto volentieri si vorrebbe applicare alla società e ai suoi scopi un insegnamento, che si può ricavare dall'osservazione di una qualsiasi specie del regno animale o vegetale, che, cioè, in questa specie ciò che importa è soltanto il singolo esemplare superiore, più straordinario, potente, complicato e fecondo ‑ quanto sarebbe bello tutto ciò, se illusorie idee, inculcate con l'educazione, sulle finalità della società, non vi si opponessero con tenacia!

In verità è facile comprendere che là, dove una specie giunge ai suoi confini e al suo trapassare in una specie superiore, c'è lo scopo del suo sviluppo, non però nella massa degli esemplari e del loro benessere, o addirittura negli esemplari che, in ordine di tempo, sono gli ultimi, bensì, proprio in quelle esistenze apparentemente disperse e casuali che, talvolta, in condizioni favorevoli si realizzano qua e là: e altrettanto di facile comprensione dovrebbe essere anche l'esigenza che l'umanità, per giungere a essere consapevole del proprio fine, deve ricercare e produrre quelle condizioni propizie, in cui possono nascere quei grandi uomini redentori.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

99

Forza, bontà, dolcezza, purezza e una involontaria, innata misura nelle persone e nelle loro azioni; un terreno spianato, piacevole e riposante per il piede; un cielo luminoso che si riflette su volti e avvenimenti; il sapere e l'arte confluiti in una nuova unità; lo spirito che, senza presunzione e gelosia, abita con l'anima sua sorella e dall'opposizione ricava la grazia della serietà, non l'impazienza del dissidio: - tutto ciò costituirebbe l'elemento generale di contorno, lo sfondo dorato sul quale soltanto allora le lievi differenze tra gli ideali incarnati creerebbero il quadro vero e proprio - quello di una sempre crescente altezza umana.

180.

Una visione. - Ore di insegnamento e contemplazione per adulti, maturi e assai maturi, ogni giorno, senza costrizione, ma frequentate secondo i dettami della morale di ciascuno: le chiese come i luoghi per ciò più degni e ricchi di ricordi; per così dire, quotidiane feste celebrative della dignità della ragione umana raggiunta e raggiungibile; un nuovo e più pieno sbocciare e fiorire dell'ideale del maestro, nel quale dovrebbero fondersi il sacerdote, l'artista e il medico, il sapiente e il saggio, e così pure venire alla luce, nel loro insegnamento, nel loro discorso, nel loro metodo, le loro virtù individuali come una virtù collettiva - è questa la mia visione, che sempre mi si ripresenta e che credo fermamente abbia sollevato un lembo del velo del futuro.

Se la genialità, secondo quanto osserva Schopenhauer, consiste nel ricordo coerente e vivo di ciò che si è vissuto, allora nell'aspirazione a conoscere l'intero divenire storico - che sempre più potentemente distanzia l'epoca moderna da tutte le precedenti e ha fatto crollare per la prima volta la vecchia barriera tra natura e spirito, uomo e animale, morale e fisica - si potrebbe riconoscere un'aspirazione alla genialità dell'umanità nel suo complesso. La storia pensata compiutamente sarebbe autocoscienza cosmica.

287.

Censor vitae. - L’alternarsi di amore e di odio caratterizza a lungo la situazione interiore di colui che vuole arrivare a giudicar liberamente sulla vita; egli non dimentica, e tutto addebita alle cose, sia il bene che il male. Alla fine, quando l’intera lavagna della sua anima sarà completamente scritta da esperienze, egli non disprezzerà né odierà l’esistenza, ma nemmeno la amerà, e starà al di sopra di essa, ora con l’occhio della gioia, ora con quello della tristezza, e il suo animo sarà come la natura, ora estivo, ora autunnale.

329.

Sovranità. - Onorare anche ciò che è cattivo e aderire ad esso, quando ci piaccia, e non avere affatto idea di come ci si possa vergognare del proprio piacere, è il segno della sovranità, nelle grandi e piccole cose.

353.

Vermi. - Non parla contro la maturità di uno spirito il fatto che esso abbia qualche verme.

Volume II

99.

Il poeta come battistrada del futuro. - Tutta l'eccedente forza poetica che ancora esiste tra gli uomini d'oggi e non viene consumata per plasmare la vita dovrebbe, senza che nulla ne venga distolto, consacrarsi a un solo scopo, non quindi a ritrarre il presente e non a far rivivere e mettere in versi il passato, bensì ad indicare la strada del futuro: - e questo non nel senso che il poeta, simile a un fantastico economista nazionale, dovrebbe anticipare l'immagine di migliori condizioni popolari e sociali e le loro possibilità di realizzazione. Piuttosto, come in antico gli artisti sviluppavano poeticamente le immagini degli dèi, egli dovrebbe sviluppare poeticamente la bella immagine dell'uomo e intuire i casi in cui, in mezzo al nostro mondo e alla nostra realtà moderna, senza artificiosamente rifiutarli e fuggirli, sia ancora possibile l'anima grande e bella, là dove essa può ancora incarnarsi in situazioni di proporzionata armonia e da queste riceve visibilità, durata ed esemplarità e dove dunque, stimolando emulazione e invidia, essa aiuta a creare l'avvenire...

Forza, bontà, dolcezza, purezza e una involontaria, innata misura nelle persone e nelle loro azioni; un terreno spianato, piacevole e riposante per il piede; un cielo luminoso che si riflette su volti e avvenimenti; il sapere e l'arte confluiti in una nuova unità; lo spirito che, senza presunzione e gelosia, abita con l'anima sua sorella e dall'opposizione ricava la grazia della serietà, non l'impazienza del dissidio: - tutto ciò costituirebbe l'elemento generale di contorno, lo sfondo dorato sul quale soltanto allora le lievi differenze tra gli ideali incarnati creerebbero il quadro vero e proprio - quello di una sempre crescente altezza umana.

180.

Una visione. - Ore di insegnamento e contemplazione per adulti, maturi e assai maturi, ogni giorno, senza costrizione, ma frequentate secondo i dettami della morale di ciascuno: le chiese come i luoghi per ciò più degni e ricchi di ricordi; per così dire, quotidiane feste celebrative della dignità della ragione umana raggiunta e raggiungibile; un nuovo e più pieno sbocciare e fiorire dell'ideale del maestro, nel quale dovrebbero fondersi il sacerdote, l'artista e il medico, il sapiente e il saggio, e così pure venire alla luce, nel loro insegnamento, nel loro discorso, nel loro metodo, le loro virtù individuali come una virtù collettiva - è questa la mia visione, che sempre mi si ripresenta e che credo fermamente abbia sollevato un lembo del velo del futuro.

Aurora (1881)

56.

L'apostata del libero spirito. - Chi mai prova avversione verso degli uomini pii, muniti di una robusta fede? Al contrario, non guardiamo forse a loro con silenzioso rispetto e non ci rallegriamo di essi, con un profondo rammarico per il fatto che questi uomini eccellenti sentano in modo diverso da noi? Ma da dove ha origine allora quella profonda, improvvisa ripugnanza senza motivi per chi una volta possedeva tutta la libertà dello spirito e alla fine è divenuto «credente»? Se ci pensiamo, è come se avessimo visto uno spettacolo nauseante che velocemente dovessimo cancellare dall'anima! Non volteremmo forse le spalle all'uomo più venerato, se per questo riguardo ci divenisse sospetto? E in verità non per una condanna di tipo morale, ma per il presentirsi di un'improvvisa nausea e raccapriccio! Da dove l'acutezza di questa sensazione? Questo o quell'altro vorrà forse darci ad intendere che noi al fondo non siamo più del tutto sicuri di noi stessi? Che, in tempo, abbiamo piantato attorno a noi siepi di spine del più pungente disprezzo, affinché nel momento decisivo, quando l'età ci rende deboli e smemorati, non ci sia possibile abbandonare il nostro stesso disprezzo?

- Sinceramente questa supposizione è errata e chi la fa non sa niente di ciò che muove e determina lo spirito libero: come poco disprezzabile in se stesso appare a quest'ultimo il mutare le proprie opinioni! Come onora al contrario nella capacità di cambiare le proprie opinioni un raro ed elevato segno di distinzione, specialmente se questa lo accompagna fin nella vecchiaia! E la sua ambizione (non la sua pusillanimità) giunge perfino ad afferrare i frutti proibiti dello spernere se sperni e dello spernere se ipsum: ancor meno dinanzi a ciò ha paura dell'inane e dell'indolente! Inoltre la teoria dell'innocenza di tutte le opinioni è per lui certa come la teoria dell'innocenza di tutte le azioni: come potrebbe egli dinanzi all'apostata della libertà spirituale ergersi a giudice e carnefice! Piuttosto lo commuove il suo spettacolo, come lo spettacolo di un ripugnante malato commuove il medico: la nausea fisica di fronte a ciò che è flaccido, rammollito, ipertrofico, in fase di suppurazione per un attimo vince la ragione e la volontà di aiutare. Così la nostra buona volontà viene sopraffatta dalla immagine della mostruosa disonestà che deve aver esercitato il suo dominio nell'apostata del libero spirito: dall'immagine di una generale degenerazione propagatasi fin dentro l'ossatura del carattere.

164.

Forse prematuro. - Attualmente sembra che sotto ogni sorta di nomi falsi e fuorvianti e per lo più in una grande mancanza di chiarezza, da parte di coloro che non si ritengono più vincolati ai costumi e alle leggi vigenti, vengano fatti i primi tentativi di organizzarsi e di crearsi così un diritto: mentre essi sinora, diffamati come malfattori, come liberi pensatori, come scostumati e scellerati, vissero, corrotti e corruttori, in balia della loro condizione di messi al bando e della cattiva coscienza. Questo, nel suo insieme, dovrebbe esser trovato buono e giusto, anche se rende pericoloso il secolo venturo e pone ad ognuno il fucile in spalla: così esiste già una potenza opposta che sta sempre a ricordarci che non esiste un'unica morale moralizzatrice e che ogni eticità, affermando esclusivamente se stessa, uccide troppe buone forze e viene a costare troppo cara all'umanità.

Coloro che si differenziano e che così spesso sono fecondi e inventivi non devono essere più sacrificati; e non deve neppure esser più considerato vergognoso derogare dalla morale in azioni e in pensieri; nuovi esperimenti di vita e di comunità devono essere compiuti; un enorme peso di cattiva coscienza deve essere eliminato dal mondo, - queste universalissime mete devono esser riconosciute e favorite da tutti gli onesti e da tutti i ricercatori di verità!

267.

Perché così fiero? - Un nobile carattere si distingue da un carattere volgare per il fatto che egli non ha a disposizione un gran numero di abitudini e di punti di vista come quello: per lui essi sono casuali, non ereditati e non acquisiti con l'educazione.

La gaia scienza (1882)

4.

Ciò che serve alla conservazione della specie.

Sino ad oggi sono stati gli spiriti più forti e più cattivi a portare più avanti l'umanità: hanno ripetutamente acceso le passioni addormentate (in tutte le società ordinate la passione dorme), hanno ripetutamente risvegliato il senso del paragone, della contraddizione, del piacere per quanto è nuovo, osato, inesplorato, hanno costretto gli uomini a contrapporre opinioni a opinioni, modelli a modelli. Per lo più con le armi, abbattendo i confini e ferendo le pietà: ma anche con nuove religioni e morali!

In ogni maestro e predicatore del nuovo c'è la stessa cattiveria che rende malfamato ogni conquistatore, per quanto possa sembrare più raffinata, non metta subito in moto i muscoli e così, proprio per questo, non li rende altrettanto malfamati! Il nuovo è comunque in ogni caso cattivo, in quanto intende conquistare qualcosa, rovesciare i vecchi confini e le vecchie pietà; soltanto il vecchio è buono!

I buoni di ogni tempo sono coloro che seppelliscono in profondità i vecchi pensieri e li fanno fruttare, i coltivatori dello spirito. Ma ogni terreno alla fin fine si esaurisce, e deve tornare il vomere della cattiveria.

13. Sulla dottrina della sensazione di potenza.

Facendo agli altri del bene o del male, si esercita semplicemente il nostro potere su di loro; non si vuole nient'altro! Facendo del male a coloro ai quali vogliamo far sentire per primi il nostro potere, perché a tal fine il dolore è un mezzo assai più sensibile che il piacere: il dolore si interroga sempre sulla sua causa, mentre il piacere è incline a rimanere in se stesso e a non guardare all'indietro. Facendo del bene e volendo bene a coloro che in qualche modo dipendono già da noi (cioè sono già inclini a vedere in noi la loro causa), noi vogliamo accrescere il loro potere ― perché così accresciamo il nostro, oppure vogliamo mostrare loro il vantaggio insito nell'essere in nostro potere: così saranno più contenti della loro condizione e ostili ai nemici del nostro potere, per cui anche pronti a combatterli.

Che il fare del bene o del male comporti per noi dei sacrifici, non modifica il valore ultimo delle nostre azioni: persino se mettiamo in gioco la nostra vita, come il martire per la sua chiesa, è un sacrificio offerto alla nostra brama di potere o al fine di conservare la nostra sensazione di potenza. Chi sente di «essere in possesso della verità» a quanti altri possedimenti rinunzierà pur di salvare questa sensazione! Quante mai cose non getterà a mare per mantenersi «a galla» ― cioè sopra gli altri, che mancano della «verità»!

20. Dignità della follia.

Alcuni millenni ancora sul binario dell'ultimo secolo! In tutte le azioni umane si individua un'intelligenza eccelsa: ma proprio così l'intelligenza avrà perduto tutta la sua dignità. Essere intelligenti è necessario, certo, come lo è essere così consueti e banali che un gusto più schizzinoso possa avvertire questa necessità come una volgarità. E proprio come la tirannia della verità e della scienza sarebbero in grado di far crescere il prezzo delle menzogne, così una tirannia dell'intelligenza potrebbe provocare un nuovo genere di nobiltà. Essere nobili potrebbe allora forse significare avere qualche follia in testa.

55. L'ultima nobiltà.

Che cos'è che rende «nobili»? Certamente non il fatto di compiere sacrifici; anche chi è in preda alla voluttà più folle compie sacrifici. Certo non il fatto che si segua una passione: esistono anche passioni spregevoli. Certo non il fatto che si faccia qualcosa per gli altri, non egoisticamente: forse proprio nei più nobili l'egoismo è più coerente. Soltanto che la passione che colpisce il nobile è di tipo particolare, senza che egli si renda conto di questa particolarità: l'uso di un'unità di misura rara e singolare e quasi una pazzia, la sensazione di calore per cose che ad altri sembrano fredde, un indovinare valori che la bilancia non è in grado di registrare, un offrire sacrifici su altari dedicati a un dio sconosciuto, l'essere prodi senza ambire onori, un'autosufficienza che trabocca e si comunica a uomini e cose. Finora sono stati gli elementi strani e ignoti di questa stranezza a rendere nobili. Occorre però ricordare che con questo metro si è giudicato iniquamente, calunniandolo, tutto ciò che è consueto, prossimo e irrinunciabile, in breve la regola stessa dell'umanità, quanto maggiormente ha contribuito alla conservazione della specie, in favore delle eccezioni. Diventare avvocati della regola: forse questa potrebbe essere l'ultima forma e finezza in cui si rivelerà la nobiltà sulla terra.

288. Stati d'animo elevati.

Mi sembra che la maggior parte degli uomini non credano proprio negli stati d'animo elevati, tranne che per pochi istanti, al massimo qualche quarto d'ora, - con l'eccezione di quei pochi che hanno sperimentato personalmente sentimenti elevati di durata più lunga. Ma essere l'uomo di un unico sentimento elevato, l'incarnazione di un unico grande stato d'animo - questo è stato finora soltanto un sogno e una possibilità incantevole, ma la storia non ce ne ha fornito nessun esempio certo.

Eppure, prima o poi, essa potrebbe generare anche uomini siffatti, purché siano state create e stabilite una serie di condizioni preliminari favorevoli che, per ora, neppure il più felice dei casi riuscirebbe a mettere insieme. Forse lo stato abituale di queste anime future sarebbe proprio quello che sinora si è fatto strada nelle nostre anime soltanto con un brivido, eccezionalmente e di rado: un continuo altalenare tra alto e profondo e la sensazione di altezza e profondità, una costante impressione di salire le scale e, al contempo, di riposare sulle nuvole.

337. L '«umanità» futura.

Se guardo la nostra epoca con gli occhi di un'epoca lontana, non riesco a trovare nell'uomo di oggi niente di più straordinario di quella sua peculiare virtù e malattia denominata «senso storico». Con esso prende le mosse un qualcosa di totalmente nuovo e sconosciuto alla storia: se a questo seme si concedessero alcuni secoli e più, se ne potrebbe ricavare, alla fine, una pianta meravigliosa, con un profumo altrettanto meraviglioso, grazie alla quale la nostra vecchia terra diverrebbe più piacevole da abitare di quanto non lo sia adesso.

Noi del presente cominciamo per l'appunto a costituire la catena di un sentimento che in futuro sarà molto potente, un anello dopo l'altro, - sappiamo appena quel che stiamo facendo. Ci sembra quasi che non si tratti di un nuovo sentimento, ma della rimozione di tutti i vecchi sentimenti: il senso storico è ancora qualcosa di così povero e freddo, e molti ne sono aggrediti come dal gelo, diventando così ancora più poveri e freddi. Altri lo avvertono invece come il segno di un'età che si avvicina, e il nostro pianeta sembra loro un malato malinconico che, per dimenticare il suo presente, mette per iscritto la storia della sua gioventù. In effetti questo è un colore di questo nuovo sentimento: chi sa percepire tutta la storia dell'uomo come storia personale avverte anche, in virtù d'una generalizzazione enorme, tutto il cruccio del malato che pensa alla salute, del vecchio che pensa ai suoi sogni di gioventù, dell'amante che è derubato dell'amato, del martire che vede affondare i suoi ideali, dell'eroe la sera della battaglia che non ha deciso niente e tuttavia gli ha inflitto ferite e la perdita dell'amico; ma sopportare, saper sopportare questa enorme somma di crucci d'ogni genere e tuttavia essere ancora l'eroe che, allo spuntare di un secondo giorno di battaglia, saluta l'aurora e la propria felicità, in quanto uomo con davanti a sé e dietro a sé un orizzonte di millenni, in quanto erede di tutta la distinzione di tutto lo spirito passato, erede con i suoi obblighi, in quanto il più nobile di tutti i nobili dell'antichità e al contempo il primo di una nuova nobiltà, i cui pari nessuna epoca ha ancora veduto e sognato; e infine caricarsi tutto ciò in una sola anima e condensarlo in un unico sentimento: questo dovrebbe procurare una felicità che l'uomo non ha ancora conosciuto, la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, colmo di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole a sera, continua a effondere nel, mare doni tratti dalla sua inesauribile ricchezza e che, come lui, si sente ricchissima soltanto quando anche il più povero dei pescatori rema con un remo d'oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora - umanità!

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Prefazione di Zarathustra

4.

Ma Zarathustra guardò il popolo e si meravigliò. Poi disse:

L'uomo è una fune sospesa tra l'animale e il superuomo, una fune sopra l'abisso.

Un pericoloso passare dall'altra parte, un pericoloso esser per via, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso inorridire e arrestarsi.

Quel che è grande nell'uomo è che egli è un ponte e non una meta: quel che si può amare nell'uomo è che egli è transizione e tramonto.

Io amo coloro che non sanno vivere se non per tramontare, perché sono coloro che passano dall'altra parte.

Io amo i grandi spregiatori, perché sono i grandi veneratori e frecce del desiderio verso l'altra sponda.

Io amo coloro che non cercano oltre le stelle una ragione per tramontare e sacrificarsi: bensì si sacrificano alla terra perché divenga un giorno del superuomo.

Io amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere perché un giorno viva il superuomo.

Così egli vuole il proprio tramonto.

Io amo colui che lavora e inventa per edificare la casa al superuomo e preparargli terra animali e piante: perché così egli vuole il proprio tramonto.

Io amo tutti coloro che sono come gocce grevi, che cadono ad una ad una dalla nube oscura sospesa sopra gli uomini: essi annunziano che viene la folgore, e periscono come annunziatori.

Ecco, io sono un annunziatore della folgore e una goccia greve della nube: ma questa folgore si chiama superuomo. –

Io vi dico: si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza.

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Della virtù che dona

2.

Mille sentieri ci sono, per cui nessuno è ancora andato, mille salvezze e isole nascoste di vita. Inesauribili e inesplorati sono tuttora uomo e terra dell'uomo.

Vegliate e state in ascolto, solitari! Dal futuro giungono venti dal battito d'ala segreto; e a orecchi fini perviene una buona novella.

Voi solitari di oggi, voi che vi appartate, dovrete diventare un popolo: da voi, che scegliete voi stessi, deve nascere un popolo eletto: e da esso il superuomo.

In verità, un luogo di guarigione deve diventare la terra! Già l'avvolge un nuovo profumo, un profumo di salvezza, e una nuova speranza.

Parte seconda

Una volta si diceva Dio, quando si guardavano mari lontani; ma io v'insegnai a dire: superuomo.

Dio è una supposizione: ma io voglio che il vostro supporre non arrivi più lontano della vostra volontà creatrice.

Potreste creare un dio? Allora non parlatemi di dèi! Potreste però creare il superuomo.

Forse non voi stessi, fratelli! Ma potreste trasformarvi in padri e antenati del superuomo: e questo sia il vostro miglior creare!

Dio è una supposizione: ma io voglio che il vostro supporre resti nei limiti della pensabilità.

Potreste pensare un dio? Ma questo significhi per voi volontà di verità, che tutto si trasformi in umanamente pensabile, in umanamente visibile, in umanamente sensibile! Dovete pensare fino in fondo i vostri sensi!.

Parte quarta e ultima

La cena

2.

Davanti a Dio! Ma ora questo dio è morto! Uomini superiori, questo era il massimo pericolo per voi.

Dacché è nella tomba, siete risorti. Solo ora viene il grande meriggio, solo ora l'uomo superiore diventerà padrone!

Comprendete queste parole, o fratelli? Siete spaventati: il vostro cuore si sente mancare? Vi si spalanca davanti l'abisso? Davanti a voi spalanca le fauci il cane infernale?

Orsù! Orsù! Uomini superiori! La montagna del futuro umano ha già le doglie. Dio è morto ora noi vogliamo che viva il superuomo.

3.

I più preoccupati oggi domandano: «Come sopravviverà l'uomo?». Ma Zarathustra è il primo e l'unico a chiedere: «Come sarà l'uomo superato?».

Il superuomo mi sta a cuore, egli è la prima ed unica cosa che io abbia, e non l'uomo: non il prossimo, non il più povero, non il più sofferente, non il migliore.

O fratelli, ciò che mi riesce d'amare nell'uomo è il suo essere transizione e tramonto. E anche in voi molto mi fa amare e sperare.

Che voi abbiate disprezzato, uomini superiori, mi fa sperare. I grandi dispregiatori sono infatti i grandi veneratori.

Che abbiate disperato è segno di molto onore. Poiché non imparaste come arrendervi, non imparaste le piccole accortezze.

Oggi infatti la gente piccina è diventata padrona: essa predica rassegnazione e limitazione e accortezza e diligenza e riguardo e il lungo eccetera delle piccole virtù.

Tutto quello che è femmineo e di origine servile e soprattutto l'intruglio plebeo: questo oggi vuole diventare padrone di ogni destino umano o disgusto! Disgusto! Disgusto!

Questo domanda e domanda e non si stanca di domandare: «Come fa l'uomo a mantenersi nel modo migliore, più piacevole e il più a lungo possibile?». Così costoro sono i padroni di oggi.

Superate i padroni di oggi, fratelli, questa gente piccina: essa è il massimo pericolo per il superuomo!

Superate, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole accortezze, i riguardi da granelli di sabbia, il brulicare come formiche, i piaceri meschini, la «felicità dei più»!

E preferite disperare che arrendervi. E, in verità, io vi amo perché non sapete vivere oggi, uomini superiori! E così infatti che voi vivete nel modo migliore!

5.

«L'uomo è cattivo» così mi dicevano per confortarmi tutti i più saggi. Ah, se fosse ancora vero oggi! Poiché la cattiveria è l'energia migliore dell'uomo.

«L'uomo deve diventare migliore e più cattivo» così insegno io. La massima cattiveria è necessaria al meglio del superuomo.

Poteva andar bene per quel predicatore della gente piccina soffrire e scontare il peccato dell'uomo. Ma io mi rallegro del grande peccato come di una mia grande consolazione.

Ma non sono queste cose dette per gli orecchi lunghi. Non si conviene ogni parola ad ogni bocca. Sono cose sottili e remote: e verso di esse non devono spingersi zampe di pecora!

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

39.

Nessuno riterrà vera così facilmente una dottrina solo perché essa rende felice, o virtuosi: esclusi forse i cari «idealisti», che si entusiasmano per il buono, il vero, il bello e che lasciano nuotare nel loro stagno ogni sorta di multicolori, goffi e bonari desideri. Felicità e virtù non sono argomenti. Si dimentica troppo volentieri, anche da parte di spiriti illuminati, che il rendere felici e il rendere cattivi sono contro argomenti di peso altrettanto scarso.

Una cosa potrebbe essere vera, anche se dannosa e pericolosa in sommo grado; anzi potrebbe addirittura esser parte del carattere fondamentale dell'esistenza, che perisca chi giunge alla perfetta conoscenza, cosicché la forza di uno spirito si misura a seconda di quanta verità sia ancora in grado di sopportare, o detto più chiaramente, a seconda di quanto gli sia stato necessario assottigliarla, nasconderla, addolcirla, smussarla, falsificarla.

Ma non c'è alcun dubbio che al fine di scoprire determinate parti di verità i cattivi e gli infelici siano avvantaggiati e abbiano una maggiore probabilità di successo; per non parlare dei cattivi che sono felici, una Species che viene taciuta dai moralisti. Forse durezza e astuzia offrono condizioni più favorevoli alla nascita dello spirito forte, indipendente, e del filosofo, di quella soave, lieve, remissiva docilità e di quell'arte del prendere alla leggera, che si apprezza e con ragione, nel dotto. A condizione, e questo è pregiudiziale, che non si restringa il concetto di filosofo al filosofo che scrive libri ‑ o che porta nei libri la propria filosofia! Stendhal collabora all'immagine del filosofo dallo spirito libero con un ultimo tratto che non voglio tralasciare di sottolineare, a vantaggio del gusto tedesco: ‑ poiché esso va conto il gusto tedesco. «Pour ètre bon philosophe», dice quest'ultimo grande psicologo, «il faut être sec, clair, sans illusion. Un banquier, qui a fait fortune, a une partie du caractère requis pour faire des découvertes en philosophie, c'est -à‑dire pour voir clair dans ce qui est.»

56.

Chi come me, si è sforzato a lungo di pensare il pessimismo in tutta la sua profondità, con una specie di enigmatica avidità, e di liberarlo dell'angustia e dall'ingenuità, metà cristiana e metà tedesca con la quale esso di recente si è manifestato in questo secolo, cioè nella forma della filosofia schopenhaueriana; chi realmente, con occhio asiatico e più che asiatico, ha guardato una volta dentro e sotto questa attitudine del pensiero, quella più di ogni altra negatrice del mondo, ‑ al di là del bene e del male e non più come Budda e Schopenhauer nell'illusione e nell'incanto della morale, - costui con ciò, senza proprio volerlo, ha forse aperto gli occhi sull'ideale opposto: l'ideale dell'uomo più arrogante, più vitale, più affermatore del mondo, che non solo ha imparato ad adattarsi e a sopportare ciò che fu ed è, ma vuole riaverlo così come esso fu ed è, per tutta l'eternità, gridando instancabilmente da capo, non rivolgendosi soltanto a sé, ma all'intero dramma e spettacolo, e non solo a uno spettacolo, ma in fondo a quello, al quale questo spettacolo è necessario ‑ e che lo rende necessario: poiché ha sempre nuovamente bisogno di sé ‑ e si rende necessario ‑

197.

Si fraintendono profondamente l'animale rapace e l'uomo rapace (per esempio Cesare Borgia), si fraintende la «natura» fin tanto che si cerca ancora il «patologico» in fondo a queste belve e queste creature, le più sane di tutti i tropici, o addirittura un «inferno» a loro innato come hanno fatto fino ad oggi quasi tutti i moralisti. Si direbbe che nei moralisti ci sia odio per la foresta vergine e per i tropici! E che l'«uomo dei tropici» debba venir diffamato a tutti i costi sia come malattia e degenerazione dell’uomo sia come inferno e tortura di sé? Perché dunque? A favore delle «zone temperate»? A favore dell'uomo medio? «Dei «morali»? Dei mediocri? Questo per il capitolo «morale come pavidità».

203.

Noi, che abbiamo un'altra fede ‑ noi, per i quali il movimento democratico non è solo una forma di decadenza dell'organizzazione politica ma una forma di decadenza e cioè di riduzione dell'uomo, un suo diventare mediocre e perdere di valore: dove dobbiamo rivolgerci noi, con le nostre speranze? Verso nuovi filosofi, non rimane altra scelta; verso spiriti abbastanza forti e indipendenti da poter stimolare opposti giudizi di valore e rivalutare e capovolgere «valori eterni»; verso precursori, verso uomini del futuro, che già oggi formano quei lacci e quei nodi che costringeranno la volontà di millenni verso nuove strade. Per insegnare all'uomo che il suo futuro è volontà, dipendente da una volontà umana e per preparare grandi avventure e tentativi collettivi di disciplina e di educazione per metter fine in tal modo all'orribile dominazione dell'assurdo e del caso che si è chiamata «storia» ‑ l'assurdo della «maggioranza» è solo la sua forma più recente ‑: perciò sarà necessario un giorno un nuovo tipo di filosofi e di detentori del comando di fronte alla cui immagine tutti gli spiriti nascosti, terribili e benefici che sono esistiti sulla terra, figureranno pallidi e deformi.

227.

L'onestà, posto che sia questa la nostra virtù, quella dalla quale noi spiriti liberi non possiamo liberarci ‑ ora vogliamo occuparci di lei con ogni malizia e con ogni amore e non stancarci di «perfezionarci» nella nostra virtù che è l'unica che ci rimanga: e resti pure sospeso il suo splendore come una dorata, azzurra, derisoria luce serotina su questa cultura in declino e la sua pesante e tetra serietà! E se poi, un giorno, la nostra onestà si staccasse e sospirasse e stirasse le braccia e ci trovasse troppo duri e desiderasse qualcosa di meglio, di più facile, di più tenero, come un piacevole vizio: restiamo duri, noi ultimi stoici! e mandiamo in suo soccorso ciò che c'è in noi di diabolico ‑ il nostro disgusto per la goffaggine e l'approssimazione, il nostro «nitimur in vetimur», la nostra audacia da avventurieri, la nostra curiosità scaltra e raffinata, la nostra più sottile, più simulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento del mondo, che si libra e aleggia avidamente intorno a tutti i regni del futuro, ‑ veniamo in soccorso del nostro «Dio» con tutti i nostri «diavoli!»

258.

La cosa essenziale in una buona e sana aristocrazia è però che essa non si senta funzione (sia della regalità, che della comunità), ma suo senso e massima giustificazione, che essa assuma perciò con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che devono essere oppressi e abbassati per amor suo a divenire uomini incompleti, schiavi, strumenti. La sua fede fondamentale deve essere appunto che la società non può esistere per amore della società, ma deve essere solo il sostegno e l'infrastruttura grazie ai quali una specie eletta di esseri è in grado di elevarsi al suo compito superiore e soprattutto a una superiore esistenza: paragonabili in ciò a quelle piante rampicanti di Giava, avide di sole, sono chiamate Sipo Matador , che abbracciano con i loro rami tanto e con tanta forza una quercia da riuscire infine a spiegare in piena luce, alte su di essa ma su di essa appoggiate, la loro corona e a mettere in mostra così la loro felicità.

265.

Con il pericolo di spiacere a orecchie innocenti, pongo questo fatto: l'egoismo appartiene all'essenza dell'anima nobile, intendo quella fede inamovibile che a esseri quali «noi siamo», debbano essere sottomessi, per natura, altri esseri e ad esso sacrificarsi. L'anima nobile accoglie questo dato di fatto del suo egoismo senza alcun dubbio e anche senza un sentimento di crudeltà, di costrizione, d'arbitrio, ma piuttosto come cosa che possa fondarsi sulla legge originaria delle cose: ‑ se cercasse di darle un nome essa direbbe «è la giustizia stessa».

Essa ammette, in circostanze che al principio la fanno esitare, che, assieme a lei, esistono esseri con gli stessi diritti; ma non appena le è chiaro questo problema gerarchico, essa si muove tra questi simili dotati di uguali diritti, con la stessa sicurezza, nel pudore e nella tenera venerazione, che essa ha nei rapporti con se stessa, ‑ secondo una divina e innata meccanica che tutti gli astri conoscono. E’ una prova in più del suo egoismo, questa delicatezza e autolimitazione nel rapporto con i propri simili ‑ ogni astro è un siffatto egoista ‑ essa onora se stessa in loro e nei diritti che a loro concede, essa non dubita che la reciprocità di onori e di diritti, in quanto essenza di ogni rapporto, rientri parimenti nello stato naturale delle cose. L'anima nobile dà come prende, per un appassionato ed eccitabile istinto del contraccambio che risiede nel profondo. Inter pares il concetto di «grazie» non ha nessun senso e nessun piacevole odore; può esserci un modo sublime di accettare, per così dire, i doni che vengono dall'alto e di beni avidamente come fossero gocce: ma per quest'arte e quest'atteggiamento l'anima aristocratica non ha alcun talento. Ve la impedisce il suo egoismo: essa guarda mal volentieri, in generale, verso l'«alto», ‑ ma piuttosto davanti a sé, orizzontalmente, e con lentezza oppure verso il basso: ‑ essa si sa in alto. ‑

270.

L'orgoglio spirituale e il disgusto di ogni uomo che ha molto sofferto quanto profondamente gli uomini possano soffrire ne determina quasi l'ordine gerarchico ‑ la sua orribile certezza, dalla quale egli è interamente pervaso e di cui ha assunto il colore, di sapere, grazie alla propria sofferenza, più di quanto possano sapere i più prudenti e i più saggi; di aver conosciuto e abitato, una volta, molto lontani e paurosi mondi dei quali «voi non sapete nulla»! questo spirituale, silenzioso orgoglio di colui che soffre, questa fierezza del prescelto della conoscenza, dell'«iniziato», della vittima offerta in sacrificio, sente la necessità di ogni forma di travestimento, per proteggersi dal contatto di mani pressanti e pietose e soprattutto da tutto ciò che non gli è simile nel dolore. Il profondo soffrire rende nobili; separa. Una delle più sottili forme di travestimento è l'epicureismo e un certo coraggio del gusto, messo da allora in poi in evidenza, che prende alla leggera il soffrire e si oppone ad ogni cosa triste e profonda.

Vi sono «uomini sereni» che si servono della serenità, poiché essa fa sì che vengano fraintesi: ‑ essi vogliono essere fraintesi, vi sono «uomini di scienza» che si servono della scienza poiché essa dà un aspetto sereno e poiché la scientificità porta a concludere che l'«uomo è superficiale»: ‑ essi vogliono indurre a una falsa conclusione.

Vi sono spiriti liberi e temerari che vorrebbero celare e smentire di essere cuori infranti, fieri, insanabili; e talvolta persino la follia è la maschera di una scienza funesta, troppo certa: ‑ Da cui si deduce che è proprio di una umanità più raffinata provare venerazione «di fronte alla maschera» e non esercitare al momento sbagliato psicologia e curiosità.

273.

Un uomo che desidera ciò che è grande, considera chiunque egli trovi sulla propria strada o come mezzo o come ritardo e impedimento ‑ o come momentaneo divano. La nobile bontà, che gli è caratteristica verso i propri simili, è possibile soltanto se egli ha raggiunto la propria meta e domina. L'impazienza e la sua coscienza di essere sempre stato, fino a quel momento, condannato alla commedia ‑ poiché anche la guerra è una commedia e la cela, come ogni mezzo cela lo scopo ‑, gli rovinano ogni relazione: questo tipo d'uomo conosce la solitudine e ciò che essa ha in sé di più velenoso.

284.

Vivere con un'immensa e orgogliosa serenità; sempre al di là ‑ avere o non avere, secondo il proprio arbitrio, le proprie passioni, il proprio pro e contro, abbandonarsi ad esse, per ore; sedersi su di esse come su cavalli o su asini ‑ bisogna infatti saper trarre un utile dalla loro stupidità come dal loro fuoco. Mantenere i propri trecento sipari e anche gli occhiali neri: poiché ci sono casi nei quali nessuno deve guardarci negli occhi, e ancor meno nelle nostre «profondità». E scegliere per compagno quel vizio birbone e allegro che è la cortesia. E restar padrone delle proprie 4 virtù, del coraggio, della sagacia, della simpatia, della solitudine. Poiché la solitudine in noi è una virtù; in quanto sublime tendenza e impulso alla pulizia, la quale indovina come dal contatto tra uomo e uomo ‑ «dalla società» ‑ debba inevitabilmente conseguire la sporcizia. Ogni comunità rende, in qualche modo, in qualche luogo, in qualche momento ‑ «comuni».

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

25.

Uomini, che sono destini, che, reggendo se stessi, reggono destini, l'intera specie dei reggitori di pesi eroici: oh come volentieri una volta si riposerebbero da se stessi! come sono assetati di cuori e schiene forti, per essere liberi almeno per qualche ora da ciò che li schiaccia! E come inutilmente sono assetati!...

Stanno in attesa; vedono tutti quelli che passano accanto a loro: nessuno si fa loro incontro anche soltanto con la millesima parte di sofferenza e passione, nessuno indovina in che senso stanno in attesa...

Alla fine, alla fine imparano la loro prima regola di saggezza pratica ‑ non essere più in attesa; e subito dopo anche la seconda: essere socievoli, essere semplici, sopportare d'ora in poi tutti, sopportare tutto - in breve, sopportare ancora un po' di più di quello che avevano già sopportato fino allora…

30.

Raggiungere un'altezza e una prospettiva a volo d'uccello per la contemplazione, dalla quale si possa cogliere che tutto va proprio come dovrebbe andare; che ogni genere di «imperfezione» e di dolore in essa appartiene alla SUPREMA DESIDERABILITÀ…

37.

Colui che ha istinto per la gerarchia detesta le figure intermedie e coloro che le rappresentano: tutto ciò che è medio è suo nemico.

44.

Mettere in gioco la propria vita, la propria salute, il proprio onore, è la conseguenza della audacia e di una volontà prodiga che trabocca: non per amore degli uomini, ma perché ogni grande pericolo provoca la nostra curiosità in rapporto alla nostra forza, al nostro coraggio.

157.

Tendere alla parità dei diritti e alla fine alla parità dei bisogni, conseguenza quasi inevitabile della nostra forma di civiltà del commercio e dell'equivalenza dei suffragi politici, conduce all'eliminazione e alla lenta estinzione degli uomini superiori, più arrischiati, più singolari, e insomma più nuovi: lo sperimentare per così dire finisce, e viene raggiunta una certa stasi.

151.

Pensiero che manca agli «spiriti liberi»: la stessa disciplina che fortifica ulteriormente una natura forte e l'abilita a grandi iniziative, spezza e rende tristi i mediocri:

il dubbio

la largeur de coeur

l'esperimento

l'indipendenza.

179.

I popoli fanno di tutto per non avere grandi uomini. Per esistere, il grande deve perciò avere una forza d'attacco più grande della forza di opposizione che si è prodotta attraverso milioni di individui.

413. L 'oltreuomo

La mia domanda non è, che cosa subentra all'uomo: ma quale specie di uomo debba essere scelta, voluta, allevata come specie di valore superiore...

L'umanità non mostra un'evoluzione verso il meglio; o verso ciò che è più forte, o ciò che è superiore, nel senso in cui ciò oggi si crede: l'europeo del XIX secolo è, nel suo valore, di gran lunga al di sotto dell'europeo del Rinascimento; evoluzione non è per nulla necessariamente elevazione, potenziamento, rafforzamento...

In un altro senso c'è una continua riuscita di singoli casi nei più diversi luoghi della terra e a partire dalle più diverse civiltà, nei quali effettivamente si presenta un tipo superiore: qualcosa che in rapporto alla totalità dell'umanità è una specie di «oltreuomo». Tali casi fortunati di grande riuscita furono sempre possibili e forse saranno sempre possibili. E persino intere stirpi, generazioni, popoli possono eventualmente rappresentare un tale colpo...

Dai tempi più antichi che si possono immaginare, dai tempi della civiltà indiana, egiziana e cinese a oggi il tipo superiore di uomo è molto più omogeneo di quanto si pensi...

Si dimentica quanto poco l'umanità rientri in un unico movimento, come gioventù, vecchiaia, declino non siano affatto concetti che si addicano ad essa come totalità.

Si dimentica, per fare un esempio, come solo oggi la nostra cultura europea si avvicini di nuovo a quello stato di intenerimento filosofico e di civiltà tarda, a partire dal quale diventa comprensibile la nascita di un buddhismo.

Se mai sarà possibile tracciare linee isocrone di civiltà attraverso la storia, allora il concetto moderno di progresso arriverà convenientemente a essere capovolto: e lo stesso indice, secondo cui viene misurato, il democraticismo...

414.

Il problema che pongo qui non è che cosa debba subentrare all'umanità nella successione degli esseri; ma quale tipo di uomo si debba allevare, si debba volere, come tipo di valore superiore, più degno di vivere, più sicuro del futuro.

Questo tipo di valore superiore è già esistito abbastanza spesso: ma come un caso fortuito, come un'eccezione, mai come voluto. Piuttosto, proprio esso è stato temuto più di tutti, è stato finora quasi ciò che è da temere: e a partire dalla paura si è voluto, allevato, raggiunto il tipo contrario: l'animale domestico, l'animale da gregge, l'animale dei diritti uguali, il debole animale uomo, il «cristiano»...

L’Anticristo (1888)
Premessa

Bisogna essere integri fino alla durezza per sopportare nelle questioni spirituali la mia serietà e la mia passione. Si deve essere avvezzi alla vita sulle montagne, a vedere al di sotto le meschine ed effimere chiacchiere della politica e dell’egoismo dei popoli. Bisogna diventare indifferenti, senza mai chiedersi se la verità sia utile o fatale per qualcuno… Una predilezione della forza per domande che nessuno ha oggi il coraggio di porre; il coraggio del proibito; la predestinazione al labirinto. Un’esperienza fatta di sette solitudini. Nuove orecchie per una nuova musica. Nuovi occhi per ciò che è più distante. Una nuova coscienza per verità finora rimaste mute. E la volontà per l’economia in grande stile: mantenere la propria energia, il proprio entusiasmo… Il rispetto per sé stessi; l’amor proprio, la libertà illimitata in relazione a se stessi…

IV

L 'umanità non rappresenta, come si ritiene oggi, un'evoluzione verso il migliore, il più forte o il più elevato. Quella di «progresso» è soltanto un'idea moderna, vale a dire un'idea falsa. L'europeo di oggi vale assai meno dell'europeo del Rinascimento; evoluzione nel tempo non significa assolutamente evoluzione, progresso o rafforzamento.

In un altro senso, esistono singoli casi di riuscita che fanno costantemente la loro comparsa nelle più svariate parti della Terra e nelle più diverse civiltà dove si manifesta un tipo superiore, qualche cosa che in relazione all'intera umanità costituisce una specie di superuomo. Queste occasioni fortuite di grande riuscita sono sempre state possibili, e forse lo saranno sempre. Persino intere generazioni, tribù e popoli possono rappresentare, sotto determinati aspetti, tale colpo fortunato.

XXXII

Con una certa tolleranza d'espressione si potrebbe definire Gesù uno «spirito libero», non gli importa alcunché di tutto ciò che è fisso: la parola uccide, tutto ciò che è fisso uccide. Il concetto, l'esperienza della «vita» nel solo modo in cui li comprende si oppongono a ogni sorta di parola, di formula, di legge, di fede e di dogma. Parla solo delle cose più intime: «vita» o «verità» o «luce» sono le sue parole per questa dimensione più interiore; tutto il resto, la realtà nel suo complesso, l'intera natura, il linguaggio stesso, possiedono per lui solo valore di segno o di parabola. In questo caso non bisogna assolutamente commettere errori, per quanto sia grande la tentazione insita nei pregiudizi cristiani, intendo dire ecclesiastici: tale simbolismo par excellence si trova al di fuori di ogni religione, di ogni concetto di culto, di ogni scienza storica e naturale, di ogni esperienza del mondo, di ogni conoscenza, di ogni politica, di ogni psicologia, di ogni libro, di ogni arte; la sua «sapienza» risiede proprio nella assoluta ignoranza del fatto che esistano simili cose. La cultura non gli è nota neanche per sentito dire, non ha bisogno di combatterla, non la nega...

Lo stesso vale per lo stato, l'intero ordinamento civile e la società civile, il lavoro, la guerra: egli non ebbe mai alcun motivo per negare «il mondo», non ha mai sospettato del concetto ecclesiastico di «mondo»...

La negazione è per lui cosa totalmente impossibile. Allo stesso modo manca la dialettica, manca l'idea che una fede, una «verità» possano essere provate da ragioni (le sue prove sono «luci» interiori, intime sensazioni di piacere e affermazioni di sé, nient'altro che «prove di forza»). Una tale dottrina non può contraddire: essa non comprende in alcun modo che esistano altre dottrine, che altre dottrine possano esistere, non riesce a immaginare in alcun modo un giudizio differente dal proprio... Dove ne incontrerà uno una, ne piangerà la «cecità» con intima partecipazione, poiché essa vede la «luce», ma non solleverà obiezioni...

LVII

Solo agli uomini più spirituali sono concesse la bellezza, il bello: soltanto nel loro caso la bontà non è debolezza

Gli uomini più spirituali, essendo i più forti, trovano la loro felicità dove gli altri troverebbero la loro distruzione: nel labirinto, nella severità verso sé stessi e gli altri, nell'esperimento; la loro gioia sta nel dominio di sé: tra essi l'ascetismo diviene natura, bisogno, istinto. Il compito duro è per essi un privilegio, trastullarsi con i pesi che schiacciano gli altri uno svago... La conoscenza: una forma di ascetismo. Essi rappresentano la razza più onorevole di uomini: il che non esclude che sia la più allegra e la più amabile. Comandano non perché lo vogliono, ma perché è nella loro essenza; non sono liberi di essere secondi.

Per essere una pubblica utilità, una ruota, una funzione, è necessario essere predestinati per natura: non è la società, ma quella sola specie di felicità di cui è capace la grande maggioranza, a rendere questa una macchina intelligente. Per la mediocrità la felicità consiste nell'essere mediocri: l'abilità in una sola cosa, la specializzazione, sono un istinto naturale. Sarebbe totalmente indegno per uno spirito profondo vedere un'obiezione già nella stessa mediocrità. La mediocrità è addirittura il primo requisito per l'esistenza delle eccezioni: una cultura elevata trova in essa la sua condizione. Quando l'uomo eccezionale tratta i mediocri con più gentilezza di quanto non faccia con se stesso e con i suoi pari, non si tratta solo di gentilezza del cuore, ma semplicemente di un suo dovere...