Natura umana e organizzazione del comportamento

Istinto, Libertà, Volontà, Fato

La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869)

aprile 1862

Tutto si muove in circoli immensi che si allargano sempre più l'uno attorno all'altro; l'uomo è uno dei circoli che si trovano più all'interno. Se vuole cogliere e misurare le vibrazioni dei circoli esterni, deve astrarre da se stesso e dai circoli più ampi ma prossimi fino a giungere a quelli più esterni e più vasti. I circoli più ampi ma prossimi sono la storia (dei popoli, della società e dell'umanità. Cercare il centro comune di tutte le vibrazioni, il circolo infinitamente piccolo è compito della scienza; a questo punto, in cui l'uomo cerca quel centro dentro di sé e per sé, riconosciamo l'importanza unica che per noi debbono avere la storia e la scienza.

Ma, essendo l'uomo coinvolto e trascinato nei circoli della storia universale, nasce quel conflitto della volontà individuale con la volontà complessiva; qui troviamo accennato quel problema infinitamente importante, la questione cioè della giustificazione dell'individuo rispetto al popolo, del popolo rispetto all'umanità, dell'umanità rispetto al mondo; anche qui il rapporto fondamentale tra fato e storia.

1862

La volontà libera appare come ciò che non conosce catene, che è arbitrario; è l'infinitamente libero, avventuroso, lo spirito. Ma il fato è una necessità, a meno che non crediamo che la storia del mondo sia un errare nel sogno, le sofferenze indicibili dell'umanità pure immaginazioni, e noi stessi nient'altro che gli zimbelli delle nostre fantasie. Il fato è la forza infinita della resistenza contro la libera volontà; una volontà libera senza fato è tanto impensabile quanto lo spirito senza la realtà, il bene senza il male. Perché a fare una qualità occorre l'opposto.

Il fato predica continuamente il principio: «Sono gli eventi a determinare gli eventi». Se questo fosse il solo principio vero, l'uomo sarebbe lo zimbello di forze che agiscono senza farsi conoscere, non sarebbe responsabile dei suoi errori, sarebbe del tutto libero da distinzioni morali, un anello necessario in una catena. Buon per lui, se non si rende conto della sua situazione, se non si dibatte convulsamente nelle catene che lo avvincono, se non mira con brama delirante ad arruffare il mondo e il suo meccanismo!

Forse, allo stesso modo che lo spirito non può essere altro che la sostanza infinitamente più piccola e il bene l'evoluzione più sottile del male stesso, la volontà libera non è nient'altro che il potenziamento supremo del fato. Allora la storia del mondo è la storia della materia, questa parola presa in un significato infinitamente ampio. Perché vi debbono essere principi ancora più elevati, davanti ai quali tutte le differenze confluiscono in una grande unitarietà, davanti ai quali tutto è evoluzione, serie graduale, tutto affluisce in un oceano immane, dove di nuovo si incontrano tutte le leve che hanno fatto sviluppare il mondo, unite, fuse, come tutt’uno…

La volontà libera è anch'essa un'astrazione e significa la capacità di agire coscientemente, mentre con fato noi intendiamo il principio che ci guida nell'agire inconscio. L'agire in sé e per sé esprime sempre al tempo stesso un'attività dell'anima, una direzione della volontà, che noi stessi non abbiamo ancora bisogno di prendere di mira come oggetto. Nell'agire cosciente, esattamente come in quello inconscio, possiamo farci guidare, ma anche non guidare, da determinate impressioni. Di un'azione riuscita si dice spesso: per caso ho colto nel segno. Non importa affatto che ciò corrisponda sempre a verità. L'attività psichica continua con la stessa intensità, anche quando non la consideriamo con l'occhio intellettuale.

La nascita della tragedia (1872)

Basilea, fine dell'anno 1871

18.

È un fenomeno eterno: l'avida volontà trova sempre un mezzo per mantenere in vita e per costringere a vivere ancora, con un'illusione diffusa sulle cose, le sue creature. Questo è incatenato dal piacere socratico della conoscenza e dall'illusione di poter curare con essa l'eterna ferita dell'esistenza, quello è irretito dal seducente velo della bellezza dell'arte che gli ondeggia davanti agli occhi, quello ancora dalla consolazione metafisica che la vita eterna fluisca indistruttibile sotto il vortice dei fenomeni: per tacere delle illusioni più comuni e forse anche più forti, che la volontà tiene pronte in ogni istante. Quei tre gradi dell'illusione sono generalmente propri delle nature più nobilmente dotate, che sentono il peso e la durezza della esistenza con più profonda avversione, e che perciò devono essere illusi da stimolanti d'eccezione per superare questa avversità. In questi stimolanti consiste tutto ciò che chiamiamo cultura: secondo la proporzione delle mescolanze, abbiamo una cultura prevalentemente socratica o artistica o tragica: oppure, se sono permesse esemplificazioni storiche: si dà o una cultura alessandrina, o una cultura ellenica, o una cultura buddhistica.

Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV, 1876)

11.

Oppure risuonerebbero al nostro orecchio frasi come: la passione è migliore dello stoicismo e dell'ipocrisia, essere onesti, anche nel male, è meglio che perdere se stessi nella moralità della tradizione, l'uomo libero può essere sia buono che cattivo, mentre l'uomo non libero è una vergogna della natura e non troverà consolazione né in cielo né in Terra; chi vuol essere libero deve diventarlo per forza propria, a nessuno la libertà cade in grembo come un dono prodigioso. Anche se appaiono striduli e sinistri, questi sono i suoni che vengono da quel mondo futuro che ha davvero bisogno dell'arte e che da essa può anche aspettarsi un vero appagamento; è il linguaggio della natura reimmesso nell'umano, è esattamente ciò che io precedentemente ho definito sentimento autentico, agli antipodi con quello non-genuino oggi dominante.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

106.

Presso la cascata. - Guardando una cascata, nel vario incurvarsi, serpeggiare e rifrangersi delle onde noi crediamo di vedere libertà del volere e libera scelta; ma tutto è necessario, e ogni movimento matematicamente calcolabile. Così è anche per le azioni umane; si dovrebbe poter calcolare in anticipo ogni singola azione, se si fosse onniscienti, come pure ogni progresso della conoscenza, ogni errore, ogni malvagità. Anche colui che compie l’azione vive nell’illusione del libero arbitrio; se all'improvviso la ruota del mondo si arrestasse e un’intelligenza onnisciente e calcolatrice fosse là per utilizzare questa pausa, essa potrebbe raccontare il futuro di ogni essere sin nei tempi più lontani e indicare ogni traccia su cui quella ruota dovrà ancora passare. L’illusione che colui che agisce nutre su di sé, l’ipotesi della libera volontà, appartiene anch’essa a questo calcolabile meccanismo.

Volume II

9.

Da dove ha origine la dottrina della libertà del volere. - Su uno la necessità grava sotto forma delle sue passioni, su un altro come abitudine ad ascoltare e obbedire, su un terzo come coscienza logica, sul quarto come capriccio e malizioso piacere dell'avventura. Da questi quattro, comunque, la libertà del volere viene cercata appunto là dove ognuno di loro è più strettamente legato: è come se il baco da seta cercasse la libertà del suo volere proprio nel tessere. Da dove viene ciò? Evidentemente dal fatto che ciascuno si ritiene più libero là dove è più grande la sua sensazione di vita, quindi, come abbiamo detto, ora nella passione, ora nel dovere, ora nella conoscenza, ora nel capriccio. Il singolo individuo ritiene istintivamente che ciò che lo rende forte e lo stimola debba anche essere sempre l'elemento della sua libertà: egli considera dipendenza e ottusità, indipendenza e sensazione vitale come abbinamenti necessari.

- Viene così erroneamente traslata all'estremo campo metafisico un'esperienza che l'individuo ha fatto nel campo sociopolitico, dove l'uomo forte è anche l'uomo libero, dove il senso vitale di gioia e di dolore, l'intensità della speranza, l'audacia del desiderio, la potenza dell'odio sono pertinenza dei dominanti e degli indipendenti, mentre l'assoggettato, lo schiavo vive oppresso e ottuso.

- La teoria della libertà è una invenzione delle classi dominanti.

10.

Non sentire nuove catene. - Fino a che non sentiamo di dipendere da qualcosa, ci riteniamo indipendenti: una conclusione errata che dimostra come l'uomo sia presuntuoso e assetato di dominio. Egli infatti presume di dover notare e riconoscere in ogni caso la dipendenza non appena la subisce, con il presupposto che egli vive normalmente nell'indipendenza e che, se eccezionalmente la perdesse, sentirebbe immediatamente un contrasto del sentimento.

- E se invece fosse vero il contrario: che egli vive sempre in una molteplice dipendenza ma si ritiene libero quando, a causa della lunga abitudine, non sente più il peso delle catene? Solo per le nuove catene egli soffre ancora: - «libertà del volere» non significa altro che non sentire nuove catene.

11.

La libertà del volere e l'isolamento dei fatti. - La nostra abituale, imprecisa osservazione prende un gruppo di fenomeni come una unità e lo chiama un fatto: fra questo e un altro fatto essa si figura uno spazio vuoto, essa isola ogni fatto. Ma in verità tutto il nostro fare e conoscere non è una sequenza di fatti e di spazi vuoti, intermedi, ma un flusso continuo.

Ora, proprio la fede nella libertà della volontà è incompatibile con l'idea di un fluire continuo, omogeneo, indiviso e indivisibile; essa presume che ciascuna singola azione sia isolata e indivisibile; è un atomismo nell'àmbito del volere e del conoscere.

- Proprio come comprendiamo inesattamente i caratteri, così facciamo con i fatti: parliamo di caratteri uguali, di fatti uguali: né gli uni né gli altri esistono. Ora, noi lodiamo o biasimiamo, ma solo in base a questa falsa premessa che vi siano fatti uguali, che esista un ordinamento graduato di generi di fatti al quale corrisponda un ordinamento graduato di valori: quindi noi non isoliamo soltanto il singolo fatto, ma anche i gruppi di fatti ritenuti uguali (azioni buone, cattive, pietose, invidiose eccetera) - in entrambi i casi erroneamente.

- La parola e il concetto sono il motivo più evidente per cui crediamo a questo isolamento di gruppi di azioni: con essi noi non designiamo soltanto le cose, noi intendiamo originariamente afferrare con essi l'essenza delle cose stesse. Con parole e concetti veniamo ancor oggi continuamente tentati di immaginare le cose più semplici di quello che sono, separate l'una dall'altra, indivisibili, ognuna esistente di per sé. Nel linguaggio si nasconde una mitologia filosofica che, per quanto si possa essere prudenti, sbuca fuori a ogni istante. La fede nella libertà del volere, e cioè nei fatti uguali e nei fatti isolati, - trova nel linguaggio il suo fedele evangelista e avvocato.

12.

Gli errori fondamentali. - Perché l'uomo provi qualche piacere o dispiacere spirituale, deve essere dominato da una di queste due illusioni: o crede nell'uguaglianza di certi fatti, di certe sensazioni: nel qual caso egli, confrontando le condizioni attuali con quelle precedenti e trovandole uguali o diverse (come avviene per ogni ricordo), prova un piacere o un dispiacere spirituale; oppure crede nella libertà del volere, come quando pensa: «questo non avrei dovuto farlo», «questo sarebbe potuto andare diversamente», e ne ricava ugualmente piacere o dispiacere.

Senza gli errori che agiscono in ogni piacere o dispiacere dell'animo, non si sarebbe mai avuta una umanità - il cui sentimento fondamentale è e resterà questo, che nel mondo della non libertà l'uomo è il libero, l'eterno taumaturgo, sia che operi bene o male, la prodigiosa eccezione, il superanimale, il quasi-dio, il senso della creazione, l'indispensabile, la parola risolutiva dell'enigma cosmico, il grande dominatore della natura e spregiatore della stessa, l'essere che chiama la sua storia: storia del mondo! - Vanitas vanitatum homo.

23.

I seguaci della teoria della volontà libera hanno il diritto di punire? Gli uomini che per professione giudicano e puniscono, cercano in ogni caso di stabilire se un malfattore è in genere responsabile della sua azione, se egli poté adoperare la propria ragione, se egli agi per dei motivi e non inconsciamente o sotto costrizione. Se lo si punisce, si punisce il fatto che egli abbia preferito i motivi cattivi a quelli buoni, che egli dunque deve aver conosciuti. Dove questa conoscenza manca, l'uomo, secondo l'opinione dominante, non è né libero né responsabile: a meno che la sua mancata conoscenza, per esempio la sua ignorantia legis, non sia conseguenza di disinformazione volontaria; allora egli, già quando non ha voluta informarsi sui propri doveri, ha preferito i motivi cattivi ai buoni e deve ora scontare le conseguenze della sua cattiva scelta. Se egli invece non ha visto i motivi buoni, per esempio per ebetismo e idiozia, non si suole punirlo: gli è mancata, come si dice, la scelta, egli ha agito come animale. Il rinnegamento intenzionale della ragione migliore è oggi la presupposizione che si fa per il delitto passibile di pena.

Ma come può uno essere intenzionalmente più irragionevole di quanto non debba essere? Da dove viene la decisione, se i piatti della bilancia sono carichi di motivi buoni e cattivi? Certo non viene dall'errore, dalla cecità, non da una costrizione esterna, e neanche da una costrizione interna. (Si consideri del resto che ogni cosiddetta «costrizione esterna» non è nient'altro che la costrizione intima della paura e del dolore). Da dove? si chiede sempre di nuovo. La ragione dunque non sarebbe la causa, perché essa non potrebbe decidersi contro i motivi migliori?

Qui ora si chiama in aiuto la «volontà libera»: sarebbe il completo arbitrio a decidere, sopravverrebbe un momento, in cui nessun motivo agisce, in cui l'azione accade come un miracolo, sorgendo dal niente. Si punisce questa pretesa arbitrarietà in un caso in cui nessun arbitrio dovrebbe dominare: la ragione, che conosce la legge, il divieto e il comandamento, non avrebbe dovuto lasciare nessuna scelta, si dice, e avrebbe dovuto agire come costrizione e come forza superiore.

Il delinquente viene quindi punito perché fa uso della «volontà libera», vale a dire perché ha agito senza motivo, dove avrebbe dovuto agire in base a motivi. Ma perché ha fatto ciò? Ciò appunto non è lecito neanche più chiederlo: fu un'azione senza «per questo», senza motivo, senza origine, qualcosa senza scopo e senza ragione. - Ma, per la prima condizione di ogni colpevolezza sopra prevista, non si dovrebbe neanche punire un'azione simile! Neppure si può far valere l'altra specie di colpevolezza, come se qui qualcosa non fosse stato fatto, come se qualcosa fosse stato omesso, come se della ragione non si fosse fatto uso: giacché in ogni caso l'omissione avvenne senza intenzione! e solo l'omissione intenzionale di ciò che è comandato è considerata punibile.

Il delinquente ha sì preferito i motivi cattivi ai buoni, ma senza motivo e intenzione: egli non ha, è vero, adoperato la sua ragione, ma non per non adoperarla. Quella presupposizione, che si fa per il delitto passibile di pena, che egli abbia intenzionalmente rinnegato la propria ragione, -proprio essa è, se si ammette la «volontà libera», eliminata.

Voi non avete il diritto di punire, voi seguaci della teoria della «volontà libera», in base ai vostri stessi principi! -Ma questi in fondo non sono altro che un'assai stravagante mitologia concettuale; è la gallina che li ha covati, si è seduta sulle sue uova in disparte da ogni realtà.

24.

Per giudicare il delinquente e il suo giudice. Il delinquente, che conosce l'intero flusso delle circostanze, non trova la sua azione così fuori dell'ordine e della comprensibilità come i suoi giudici e biasimatori; ma la sua pena gli viene commisurata proprio in base al grado di stupore, da cui quelli sono còlti alla vista dell'azione come di una cosa incomprensibile. - Se la conoscenza che il difensore di un delinquente ha del caso e dei suoi precedenti arriva abbastanza lontano, le cosiddette circostanze attenuanti, che egli espone nell'ordine, devono finire col cancellare completamente la colpa. O, ancora più chiaramente: il difensore attenuerà progressivamente e da ultimo annullerà totalmente quello stupore che condanna e commisura la pena, costringendo ogni ascoltatore onesto all'intima confessione: «egli ha dovuto agire come ha agito; se noi punissimo, puniremmo l'eterna necessità». - Misurare il grado della pena in base al grado di conoscenza che si ha o che in genere si può acquistare della storia di un delitto, non cozza ciò contro ogni equità?

25.

Lo scambio e l'equità. In uno scambio si procederebbe in modo onesto e retto solo se ciascuno dei due che scambiano esigesse tanto, quanto la sua cosa gli sembra che valga, tenuto conto della fatica che è stata necessaria per ottenerla, della rarità, del tempo speso, ecc., oltre che del valore d'affezione. Non appena fa il prezzo in considerazione del bisogno dell'altro, egli è un più sottile brigante e ricattatore. - Se il denaro è uno dei due oggetti dello scambio, bisogna considerare che un tallero in mano a un ricco erede, a un lavoratore a giornata, a un commerciante, a uno studente, sono cose del tutto diverse: ciascuno dovrebbe ricevere per esso poco o molto, a seconda che avesse fatto quasi niente o molto per guadagnarlo - così sarebbe equo: in verità le cose stanno notoriamente in modo inverso. Nel gran mondo del denaro il tallero del ricco più pigro è più fruttifero di quello del povero laborioso.

26.

Gli stati di diritto come mezzi. Il diritto che riposa su contratti fra uguali sussiste finché la potenza di coloro che si sono accordati è appunto uguale o simile; la saggezza ha creato il diritto per por fine alla guerra e all'inutile sperpero tra potenze simili. Ma a tutto ciò si è anche posto fine altrettanto definitivamente, quando una parte è divenuta decisamente più debole dell'altra: allora subentra l'assoggettamento e il diritto cessa, ma l'effetto è lo stesso di quello che veniva finora raggiunto col diritto. Giacché ora è la saggezza del più forte che consiglia di risparmiare e di non sperperare inutilmente la forza dell'assoggettato: e spesso la situazione dell'assoggettato è più favorevole di quella del parificato. - Gli stati di diritto sono dunque mezzi temporanei che la saggezza consiglia, non già fini.

27.

Spiegazione della gioia per il male altrui. La gioia per il male altrui nasce da ciò, che ognuno, sotto più aspetti a lui ben noti, non sta bene, ha preoccupazione o pentimento o dolore: il danno che colpisce l'altro rende quest'ultimo uguale a lui, riconcilia la sua invidia.

-Se egli stesso invece sta proprio bene, accumula tuttavia nella sua coscienza l'infelicità del prossimo come un capitale per impiegarlo, nel caso di una sopravveniente infelicità propria, contro di essa: anche così egli prova «gioia per il male altrui». I sentimenti rivolti all'uguaglianza proiettano dunque il loro criterio nel campo della fortuna e del caso: gioia per il male altrui è l'espressione più comune per la vittoria e il ristabilimento dell'uguaglianza, anche nel superiore ordinamento del mondo. Solo da quando l'uomo ha imparato a vedere negli altri uomini suoi uguali, ossia dalla fondazione della società, esiste gioia per il male altrui.

50.

Potenza senza vittorie. - La più forte conoscenza (quella della totale mancanza di libertà della volontà umana) è tuttavia la più povera di successi: infatti ha avuto sempre l'avversario più forte, la vanità umana.

185.

Della morte razionale. - Che cos'è più razionale, fermare la macchina quando l'opera che da essa si aspettava è compiuta, - oppure lasciarla andare sino a che non si fermi da sola, ossia finché non si sia guastata? Quest'ultima cosa non è uno sperpero dei costi di manutenzione, un abuso della forza e dell'attenzione degli addetti ad essa? In tal modo non si getta via ciò che altrove sarebbe assai necessario? Non si diffonde una specie di disprezzo per le macchine, mantenendo e servendo alcune di esse in modo tanto inutile?

- Parlo della morte involontaria (naturale) e di quella volontaria (razionale). La morte naturale è la morte indipendente da qualsiasi ragione, la morte propriamente irrazionale, in cui la miserevole sostanza della buccia decide quanto a lungo il nocciolo debba durare o no: in cui dunque il carceriere rattrappito, spesso malato e ottuso, è il signore che stabilisce il momento in cui il suo nobile prigioniero deve morire. La morte naturale è il suicidio della natura, vale a dire la distruzione dell'essenza razionale ad opera dell'essenza irrazionale che ad essa è legata. Solo sotto una luce religiosa può sembrare il contrario: perché in tal caso, com'è giusto, la ragione superiore (dì Dio) emana il comando al quale la ragione inferiore deve attenersi. Al di fuori della mentalità religiosa, la morte naturale non merita nessuna esaltazione. - Un saggio ordinamento e disposizione della morte appartengono a quella morale del futuro, oggi affatto incomprensibile e apparentemente immorale, vedere l'alba della quale dev'essere una indescrivibile felicità.

La gaia scienza (1882)

Libro terzo

127.

Effetti postumi della più antica religiosità.

Le persone spensierate credono che ad agire sia soltanto la volontà; volere sarebbe cosa semplicissima, data, inderivabile, comprensibile di per sé. Costoro sono convinti che quando fanno qualcosa, ad esempio assestano un colpo, sono loro a colpire, e hanno colpito proprio perché volevano colpire. Non se ne fanno un problema: la sensazione della volontà è loro sufficiente non soltanto per presupporre causa ed effetto, ma anche per essere convinti di comprendere il rapporto intercorrente tra le due cose. Del meccanismo dell'evento e del lavoro immane e delicato che deve essere svolto per giungere a quel colpo, nonché del fatto che la volontà, di per sé, è incapace di svolgere anche la benché minima parte di tale lavoro, essi non sanno niente. La volontà è per loro una forza che agisce magicamente: la fede nella volontà come causa di effetti è la fede in forze che agiscono magicamente.

Orbene, in origine l'uomo credeva, ovunque vedesse un evento, che sullo sfondo ci fossero sempre, in quanto causa dello stesso, una volontà agente e un essere personale capace di volontà: il concetto di meccanicità gli era ben lontano. Poiché gli uomini, per un periodo immensamente lungo, hanno creduto soltanto alle persone (e non a materiali, forze, cose eccetera), la fede nella causa e nell'effetto è divenuta per loro basilare, e la impiegano dovunque accada qualcosa, ancora istintivamente, quale residuo di un atavismo di antichissima origine.

I princìpi «nessun effetto senza causa», «ogni effetto è a sua volta causa», sembrano generalizzazioni di principi molto più ristretti: «laddove c'è un'azione, c'è stata una volontà»; «si può agire soltanto su esseri capaci di volontà»; «non si dà mai un mero patire un'azione, privo di conseguenze, ma ogni patimento è un eccitamento della volontà» (verso azione, difesa, vendetta, rivalsa); ma originariamente questi e quei principi erano identici, né i primi erano generalizzazioni dei secondi, ma i secondi spiegazioni dei primi.

Schopenhauer, con la sua supposizione che tutto ciò che è soltanto volontà, ha innalzato sul trono una mitologia antichissima; non sembra che abbia mai tentato un'analisi della volontà, perché come tutti credeva alla semplicità e all'immediatezza di ogni volere, mentre la volizione è un meccanismo così complicato che quasi sfugge all'occhio che l'osserva.

Per contro, io stabilisco questi princìpi: in primo luogo, affinché nasca la volontà, è necessaria una rappresentazione di piacere e dispiacere. Secondariamente, il fatto che uno stimolo vigoroso sia avvertito come piacevole o spiacevole, dipende dall'intelletto che lo interpreta, che però lavora perlopiù a livello inconscio, e il medesimo stimolo può essere interpretato nel senso di un piacere o di un dispiacere. Terzo: soltanto gli esseri dotati di intelletto conoscono piacere, dispiacere e volontà: la stragrande maggioranza degli organismi non ne sanno niente.

Libro quarto

276.

Per l'anno nuovo.

Vivo ancora e penso ancora: debbo vivere ancora, perché debbo pensare. Sum, ergo cogito: cogito, ergo sum. Oggi chiunque si permette di esprimere il suo desiderio e il suo pensiero più caro: orbene, anch'io voglio dire ciò che oggi desidero da me stesso e qual è stato il primo pensiero che, quest'anno, mi ha sfiorato il cuore; quale pensiero sarà motivo, pegno e dolcezza della mia vita a venire! Voglio imparare sempre più a vedere la bellezza nella necessità delle cose: così diverrò uno di coloro che rendono belle le cose. Amor fati: questo sia, d'ora innanzi, il mio amore! Non voglio condurre nessuna guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio accusare neppure gli accusatori. La mia unica negazione sia distogliere lo sguardo! E, complessivamente e grossolanamente: voglio arrivare ad essere uno che dice soltanto di sì!

277. Provvidenza personale.

Esiste un certo acme nella vita: quando l'abbiamo raggiunto ci troviamo, con tutta la nostra libertà e per quanto abbiamo contestato al bel caos dell'esistenza ogni ragione e bontà provvidenziale, nel massimo pericolo di illibertà spirituale, e dobbiamo superare la nostra prova più difficile. Soltanto adesso, infatti, ci si presenta con la massima violenza l'idea di una provvidenza personale, e dispone del migliore intercessore, l'apparenza, proprio laddove andiamo toccando con mano che tutte, tutte le cose che ci riguardano si risolvono costantemente in quanto può esserci di meglio per noi.

La vita di ogni giorno e di ogni ora sembra non volere essere nient'altro se non una dimostrazione continuamente nuova di questo principio; di qualunque cosa si tratti, tempo cattivo o buono, la perdita di un amico, una malattia, una calunnia, il mancato arrivo di una lettera, la slogatura di un piede, un'occhiata in un negozio, una lite, l'aprire un libro, un sogno, un imbroglio: si rivela, subito o comunque prestissimo, una cosa che «non poteva mancare», - carica di significato e di utilità specificatamente per noi!

Esiste una seduzione più pericolosa che dichiarare finita la fede negli dèi di Epicuro, quegli sconosciuti spensierati, e credere in una qualche divinità preoccupata e meschina, che conosce personalmente ogni capello del nostro capo e non prova disgusto neppure a prestare i servigi più miserevoli? Orbene - nonostante tutto - lasciamo in pace gli dèi e i geni pronti a servire e accontentiamoci di supporre che la nostra abilità pratica e teorica nell'interpretare e riassettare gli avvenimenti abbia raggiunto il suo acme. Non pensiamo neppure in termini troppo elevati alla destrezza della nostra saggezza, se nel frattempo ci sorprende troppo la mirabile armonia che nasce quando suoniamo il nostro strumento:

Un'armonia il cui suono è più bello di quello che osavamo attribuirci.

Di fatto, ogni tanto con noi suona qualcun altro: il buon caso che, all'occasione, guida la nostra mano, e la provvidenza più saggia non potrebbero escogitare una musica più bella di quella che riesce a questa nostra folle mano.

294. Contro i calunniatori della natura.

Mi sono sgradevoli quegli uomini per i quali ogni inclinazione diventa subito una malattia, qualcosa di deformante o addirittura di vergognoso, - ci hanno indotto a pensare che le inclinazioni e gli istinti siano malvagi, provocando la nostra grande ingiustizia contro la nostra natura, contro ogni natura! Ci sono abbastanza uomini che possono abbandonarsi alle loro inclinazioni con grazia e spensieratezza: ma non lo fanno, per paura di quell'immaginaria «essenza malvagia» della natura! Ecco perché tra gli uomini si trova così poca distinzione: perché il suo marchio sarà sempre non avere paura di sé, non aspettarsi niente di ignominioso, volare senza esitazione laddove ci sentiamo spinti, noi uccelli nati liberi! Dovunque possiamo giungere, sarà sempre un luogo libero e assolato.

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte seconda

Sulle isole beate

Tutto ciò che è sensibile soffre in me ed è in prigione: ma il mio volere giunge sempre come liberatore e rasserenatore.

Volere libera: questa è la vera dottrina della volontà e della libertà così ve la insegna Zarathustra.

Non volere più e non valutare più e non creare più! Ah, che questa grande stanchezza sia sempre lungi da me!

Anche nel conoscere sento soltanto la gioia di generare e di divenire della mia volontà; e se la mia conoscenza è innocente, ciò accade

perché in essa è volontà di generare.

Lontano da dio e dèi mi attrasse questa volontà; che ci sarebbe da creare, se ci fossero gli dèi!

Verso l'uomo mi spinge sempre di nuovo la mia ardente volontà di creare; così si sente spinto il martello verso la pietra.



Il profeta

Volontà così si chiama ciò che libera e dispensa gioia: così v'insegnai, amici! Ma ora imparate questo: la volontà stessa è una

prigioniera.

Volere libera: ma come si chiama ciò che getta a sua volta in catene il liberatore?

"Fu": così si chiama il digrignar di denti della volontà e la mestizia più solitaria. Impotente contro ciò che è fatto è un cattivo

spettatore di tutto il passato.

La volontà non può volere sul passato; non poter infrangere il tempo e la brama del tempo, ecco la più solitaria mestizia della

volontà.

Volere libera: chi s'inventa da sé il volere, per gettare da sé la sua mestizia e ridersela del proprio carcere?

Ah, un pazzo diviene ogni prigioniero! Da pazza si redime anche la volontà prigioniera.

Che il tempo non torni indietro è il suo furore; "quello che fu" così si chiama il masso che essa non può smuovere.

E così smuove altri massi per furore e dispetto e si vendica di ciò che non prova come lei furore e dispetto.

Così la volontà, la liberatrice, divenne causa di sofferenza: e su tutto quello che può soffrire, si vendica di non poter tornare indietro.

Questa, solo questa è la vendetta stessa: la ripugnanza della volontà per il tempo e per il suo "fu".

In verità nella nostra volontà risiede una grande follia; e divenne maledizione per tutta l'umanità che questa follia imparasse lo

spirito!

Lo spirito di vendetta: amici miei, questo fu finora sempre il modo migliore di riflettere degli uomini; e dov'era dolore, là doveva essere sempre castigo.

"Castigo" si chiama infatti la vendetta stessa: con una parola mendace dissimula a se stessa una buona coscienza.

E poiché anche in colui che vuole c'è dolore, dolore per non poter volere sul passato, così il volere stesso e tutta la vita dovrebbe

essere castigo!

E allora nuvola su nuvola rotolò sullo spirito: fino a che la follia predicò: "Tutto passa, perciò tutto merita di passare!".

"E ciò stesso è la giustizia, quella legge del tempo, secondo cui il tempo deve divorare i suoi figli": così predicò la follia.

"Le cose sono moralmente ordinate secondo diritto e castigo. Oh, dov'è la redenzione dal flusso delle cose e dal castigo 'esistere'?"

Così predicò la follia.

"Ci può essere redenzione, se c'è un diritto eterno? Ah, inamovibile è il masso 'fu': eterni devono essere anche tutti i castighi!" Così

predicò la follia.

"Nessun'azione può essere distrutta: come potrebbe attraverso il castigo ritornare come non fatta! Questo, questo è l'eterno della

pena 'esistere', che l'esistere dev'essere in eterno azione e colpa!

A meno che la volontà alla fine non redima se stessa e volere non diventi non volere ": ma voi la conoscete, fratelli, questa litania

della follia!

Lontano vi condussi da questi canti, quando v'insegnai: "La volontà è una cosa che crea".

Tutto il "fu" è un frammento, un enigma, un atroce caso finché la volontà creante non dice: "Ma così volevo". Finché la volontà

creante non dice: "Ma così voglio! Così vorrò!".

Ma essa parlò già così? E quando avverrà ciò? E la volontà già staccata dal carro della propria follia?

Fu mai la volontà a se stessa redentrice e dispensatrice di gioia? Dimenticò lo spirito di vendetta e tutto il digrignar di denti?

E chi le insegnò la conciliazione col tempo e cose più alte di ogni conciliazione?

Cose più alte di ogni conciliazione deve volere la volontà che è volontà di potenza : ma come può avvenire ciò? Chi le insegnò anche il

volere sul passato?».

Parte terza

Di tavole antiche e nuove

9.

C'è un'antica fantasia e si chiama bene e male. Intorno a indovini e ad astrologi girò fino ad oggi la ruota di questa fantasia.

Un tempo si credeva a indovini e astrologi: e perciò si credeva: «Tutto è destino: tu devi,

perché sei costretto! ».

Poi di nuovo si diffidò di tutti gli indovini e gli astrologi: e perciò si credette: «Tutto è libertà: tu puoi perché vuoi!».

Fratelli miei, delle stelle e del futuro fino ad oggi si è solo fantasticato e mai nulla saputo: perciò fino ad oggi si è solo fantasticato e

mai nulla saputo del bene e del male!

Prima del levar del sole

Un po' di ragione, un seme di saggezza sparso da stella a stella, questo lievito è invero mescolato in tutte le cose: a causa della follia

la saggezza è mescolata in tutte le cose!

Un po' di saggezza è anche possibile: ma in tutte le cose trovai questa beata sicurezza: che esse preferiscono danzare sui piedi del

caso.



Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

19.

I filosofi hanno l'abitudine di parlare della volontà come se essa fosse la cosa più nota al mondo; Schopenauer diede anzi ad intendere che solo la volontà ci sarebbe effettivamente nota, assolutamente nota, senza detrazioni od aggiunte. Ma sono sempre più convinto che, anche in questo caso, Schopenauer abbia fatto solo ciò che appunto i filosofi usano fare: che egli abbia accolto e enormemente ampliato un pregiudizio, popolare. La volontà mi sembra prima di tutto qualcosa di complicato, qualcosa che ha un'unità soltanto verbale, - e appunto nell'unità della parola è racchiuso il pregiudizio popolare, che ha prevalso sulla sempre scarsa cautela dei filosofi. Siamo dunque per una volta più cauti, siamo «meno- filosofi» -, diciamo: in ogni volere c'è prima di tutto una pluralità di sensazioni, e cioè la sensazione della condizione, dalla quale ci si vorrebbe allontanare, la sensazione della condizione verso la quale si vorrebbe andare, la sensazione di questo stesso «da» e «verso», e poi ancora una simultanea sensazione muscolare, la quale, anche senza che noi mettiamo in movimento «braccia» e «gambe», per una specie di abitudine comincia il suo gioco non appena noi «vogliamo».

21.

La causa sui è la più bella autocontraddizione che sia stata escogitata fino ad oggi, una specie di stupro e di violenza contro natura della logica: ma lo sfrenato orgoglio dell'uomo ha portato a rimaner profondamente e orrendamente preso proprio in questa assurdità. L'esigenza di «libertà del volere», in quello spirito superlativamente metafisico, quale purtroppo domina ancora sempre nelle teste dei semicolti, la pretesa di assumere da soli la completa ed estrema responsabilità per le proprie azioni e liberarne Dio, mondo, progenitori, caso, società, non è infatti niente di meno che quella causa sui e il trarsi fuori tirandosi per i capelli, con una temerarietà maggiore di quella di Münchhausen, dalla palude del nulla all'esistenza delle cose. Posto che qualcuno giunga in tal modo a vedere la stolida dabbenaggine di questo famoso concetto di «libero volere» e lo cancelli dalla sua mente, lo prego ora di fare un altro passo avanti e di cancellare dalla sua mente anche il contrario di quel non-concetto di «libero volere»: intendo la «volontà non-libera» che deriva da un abuso di causa ed effetto...

«La volontà non libera» è mitologia: nella vita reale esistono solo volontà forti e deboli. E’ già quasi sempre un sintomo della sua debolezza, che un pensatore in ogni «concatenamento causale» e «necessità psicologica» avverta la presenza della costrizione, della necessità, della inevitabilità delle conseguenze, dell'oppressione, della mancanza di libertà: proprio sentire in questo modo significa tradirsi da soli. E in genere, se ho osservato esattamente, la «non-libertà del volere» viene considerata come problema da due lati completamente opposti, ma sempre in modo profondamente «personale»: gli uni non vogliono abbandonare a nessun prezzo la loro «responsabilità», la fede in sé, il diritto personale al proprio merito (appartengono a questo gruppo le razze boriose ); gli altri al contrario, non vogliono alcuna responsabilità, non vogliono essere colpevoli di nulla e pretendono, per un intimo disprezzo di sé, di poter scalzar via se stessi in una qualsiasi direzione. Questi ultimi, quando scrivono libri, sono soliti assumere oggi le parti dei delinquenti, una specie di compassione socialista è la loro maschera preferita. E in effetti il fatalismo di questi deboli voleri si abbellisce sorprendentemente quando sa farsi passare come «la religion de la souffrance humaine»: questo il suo «buon gusto».

36.

Posto che null'altro ci sia «dato» come reale se non il nostro mondo di avidità e di passioni, che non possiamo scendere o salire verso nessun'altra «realtà», se non appunto la realtà dei nostri istinti - poiché pensare è solo un reciproco atteggiamento di questi istinti -: non sarebbe permesso tentare e chiederci se questo «dato» non sia sufficiente a comprendere sulla base di dati simili, anche il così detto mondo meccanicistico (o «materiale»)?...

Posto infine che si riuscisse a spiegare tutta la nostra vita istintiva come la evoluzione e la ramificazione di una unica forma fondamentale tipica del volere - cioè della volontà di potenza, com'è la mia tesi; ammesso che si potessero ricondurre tutte le funzioni organiche a questa volontà di potenza e che si trovasse in questa anche la soluzione del problema della riproduzione e della nutrizione - ed è un problema unico - ci si sarebbe con ciò procurati il diritto di definire chiaramente ogni forza agente come: volontà di potenza. Il mondo visto dall'interno, il mondo definito e designato secondo il suo «carattere intelligibile» - esso sarebbe appunto «volontà di potenza» e nulla oltre a questo. -

87.

Cuore legato, spirito libero. - Se si incatena strettamente il proprio cuore e lo si tiene prigioniero, si possono concedere al proprio spirito molte libertà

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

36.

Sul rango decide il quantum di potenza che sei; il resto è viltà.

71.

Dispiacere e piacere sono le modalità d'espressione dei giudizi più stupide che si possano mai pensare; naturalmente questo non vuol dire che i giudizi formulati in tal guisa debbano essere stupidi. Omettere ogni fondazione e logicità, un sì o un no nella riduzione a un appassionato volere-avere o respingere, una sigla imperativa la cui utilità non è disconoscibile: questo è piacere e dispiacere. La loro origine è nella sfera centrale dell'intelletto; il loro presupposto è un sentire, ordinare, sussumere, verificare, dedurre, infinitamente accelerato: piacere e dispiacere sono sempre fenomeni-fine, non «cause»...

La decisione su che cosa debba provocare dispiacere e piacere è dipendente dal grado della potenza: quella medesima cosa che, rispetto a un quantum di potenza piccolo appare come pericolo e costrizione a una difesa molto repentina, può avere come conseguenza, nel caso di una maggiore coscienza di pienezza di potenza, una stimolazione voluttuosa, un sentimento di piacere.

Tutti i sentimenti di piacere e di dispiacere già presuppongono un misurare secondo l'utilità totale, secondo la dannosità totale: perciò una sfera in cui abbia luogo il volere un fine (stato) e uno scegliere i mezzi per esso. Piacere e dispiacere non sono mai «fatti originari».

Piacere e dispiacere sono reazioni-della-volontà (stati di eccitazione), nei quali il centro dell'intelletto fissa il valore di determinati mutamenti sopravvenuti rispetto al valore totale, nello stesso tempo come introduzione di controazioni.

96.

Si riporti colui che fa nuovamente nel fare, dopo averlo dedotto concettualmente da questo e dopo aver in tal modo vanificato il fare; si riprenda nuovamente nel fare il far-qualcosa «lo scopo l'«intenzione», il «fine», dopo averlo tratto artificialmente da esso e dopo aver in tal modo annullato il fare; tutti i «fini», gli «scopi», i «sensi» sono soltanto modalità di espressione e metamorfosi dell'unica volontà che inerisce a ogni accadere, la volontà di potenza; l'avere fini, scopi, intenzioni, volere in generale è come voler-diventare-più forti, volere accrescersi e per questo volere anche i mezzi; l'istinto più generale e più basso in ogni fare e volere è rimasto il più sconosciuto e latente proprio dal momento che in pratica seguiamo sempre il suo comando, siamo questo comando... Ogni valutazione è soltanto una conseguenza e una più angusta prospettiva al servizio di quest'unica volontà: il valutare stesso è soltanto questa volontà di potenza; una critica dell'essere alla luce di uno qualunque di questi valori è qualcosa di paradossale e di ambiguo; anche posto che in questo si introducesse un processo di decadenza, questo processo starebbe ancora al servizio di questa volontà...

Valutare l'essere stesso: ma il valutare stesso è ancora questo essere - e dicendo no, noi facciamo sempre ancora ciò che siamo... Dobbiamo riconoscere l'assurdità di questo comportamento valutativo dell'esistenza; e poi tentare di indovinare che cosa in realtà si verifica in tal caso sintomatico.

283.

Il fatto che il corso degli eventi prenda la sua via indipendentemente dal consenso dei più è stato causa del fatto che sulla terra si è introdotto anche qualcosa di straordinario…

L’Anticristo (1888)

XIV

In altri tempi si attribuiva all'uomo il «libero arbitrio», dote derivatagli da un ordine superiore: oggi gli abbiamo persino sottratto la volontà, nel senso che la volontà non può più essere intesa come facoltà. Il vecchio termine «volontà» serve solo a designare una risultante, una specie di reazione individuale che necessariamente segue da una moltitudine di stimoli in parte contraddittori e in parte concordanti. La volontà non «opera» più, non «muove» più nulla... Un tempo nella coscienza dell'uomo, nel suo «spirito» si coglieva la prova della sua origine superiore, della sua divinità; per renderlo più perfetto gli fu consigliato di rinchiudere in sé i propri sensi, come una tartaruga, di cessare i rapporti con ciò che è terreno e di spogliarsi della veste mortale: allora sarebbe rimasta la sua parte essenziale, lo «spirito puro». Anche su questo abbiamo cambiato idea: il divenire coscienti, «lo spirito», sono per noi un sintomo di una relativa imperfezione dell'organismo, di un tentativo, di un annaspare, di un errore grossolano, come di una fatica in cui viene impiegata inutilmente un'enorme quantità di forza nervosa; neghiamo che alcunché possa essere fatto alla perfezione fintanto che è fatto cosciente. Lo «spirito puro» è una pura idiozia: se astraiamo dal sistema nervoso, dai sensi, dalle «mortali spoglie», abbiamo fatto male i calcoli, tutto qui!

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

I quattro grandi errori

8.

Nessuno è responsabile del fatto di esistere, di esser fatto in questo o in quel modo, di trovarsi in queste circostanze, in questo ambiente. La fatalità del suo essere non va scissa dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà. Egli non è la conseguenza di una sua propria intenzione, di una volontà, di uno scopo, con lui non si tenta di raggiungere un «ideale di uomo» o un «ideale di felicità» o un «ideale di moralità»,   è assurdo voler far rotolare il suo essere verso un qualsiasi scopo.