Mistificazione |
La nascita della tragedia (1872)Basilea, fine dell'anno 1871 25. Se potessimo immaginare un incarnarsi della dissonanza — e cosa altrimenti è l'uomo? — questa dissonanza avrebbe bisogno, per vivere, di una splendida illusione, che coprisse con un velo di bellezza la sua propria essenza. Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)I. Nell’uomo quest’arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri, e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensibilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l’uomo durante la notte, per tutta la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale glielo impedisca; mentre devono esserci uomini che grazie alla forza di volontà hanno eliminato il russare. In quanto l’individuo vuole conservare se stesso di fronte ad altri individui, in uno stato di cose naturale egli si serve dell’intelletto per lo più soltanto per la simulazione; ma poiché l’uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in un gregge, stipula un patto di pace e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo verso il raggiungimento di quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà essere la «verità», il che significa che si è trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della verità; sicché si chiarisce qui per la prima volta il contrasto di verità e menzogna: il mentitore si serve delle connotazioni valide, le parole, per far apparire l’irreale come reale; egli dice per esempio d’essere ricco, mentre in questo caso la connotazione appropriata sarebbe «povero». Stravolge le convenzioni basilari attraverso scambi arbitrari o addirittura inversione dei nomi. Se fa questo a proprio vantaggio e anzi in modo da recare danno, la società non avrà più fiducia in lui e senz’altro lo bandirà da sé. Gli uomini qui fuggono non tanto il fatto di essere truffati, quanto il fatto di essere danneggiati attraverso la truffa. In fondo non è l’inganno che in questo caso essi detestano, bensì le brutte e nocive conseguenze di certi generi di inganni. Soltanto in un senso ristretto come questo l’uomo vuole anche la verità. Egli desidera gli effetti piacevoli, e atti a conservare la vita, della verità; verso la conoscenza pura, priva di conseguenze, egli è indifferente, ed ha addirittura un atteggiamento ostile verso le verità che possono essere dannose e distruttrici. Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)5. Colui il quale vuol comprendere, accertare, cogliere come sublime, l'incomprensibile, costui potrà essere detto razionale, ma soltanto nel senso in cui Schiller parla dell'intelletto dei razionali: costui non vede qualcosa che invece il bambino vede, non sente qualcosa che invece il bambino sente; questo qualcosa è proprio il più importante: poiché egli non lo capisce, la sua comprensione è più infantile del bambino e più ingenua della ingenuità — malgrado le molte furbe rughette dei suoi lineamenti incartapecoriti e il virtuosismo delle sue dita nel dipanare il garbuglio. Ciò vuol dire: egli ha annientato e perduto il suo istinto, egli non può più ora, fidando nel «divino animale», lasciar cadere le redini, quando la sua mente vacilla e il suo cammino conduce attraverso deserti. Così l'individuo diventa titubante e incerto e non può più confidare in se stesso: affonda dentro di sé nell'interiorità, vale a dire, in questo caso, nel caotico ammasso delle nozioni apprese che non operano all'esterno, dell'istruzione che non diventa vita. Se ci si sofferma sull'esteriore, si osserva come l'espulsione degli istituti tramite la storia abbia tramutato gli uomini quasi in puri abstracta e ombre: nessuno mette più in pericolo la propria persona, ma ognuno si maschera da persona colta, da dotto, poeta, politico. Se si afferrano tali maschere, con l'idea che si abbia a che fare con qualcosa di serio e non solo con un gioco di marionette — poiché tutti simulano serietà — ci si ritrova all'improvviso tra le mani stracci e pezze variopinte. Perciò non bisogna più lasciarsi ingannare, bisogna ordinare loro: «Toglietevi le giubbe, oppure siate ciò che sembrate!». Chiunque sia serio in modo autentico non deve più trasformarsi in un Don Chisciotte, poiché ha cose più importanti da fare che sottrarsi con simili realtà presunte. Ad ogni modo deve fare molta attenzione, gridare ad ogni maschera il suo «Alt! Chi va là?» e strapparle il travestimento. Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)4. L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità, e questo soffrire gli serve a uccidere la sua propria volontà e preparare così quel completo capovolgimento e rovesciamento del suo essere, il cui raggiungimento è il senso vero e proprio della vita. Questo affermare francamente la verità appare agli altri uomini come un effetto della malvagità, poiché essi considerano un dovere dell'umanità conservare le loro sciocchezze e le loro bubbole e pensano che si debba essere malvagi per distruggere così i loro giocattoli. A un tale uomo essi sono tentati di gridare ciò che Faust dice a Mefistofele: «Ecco tu opponi il freddo pugno del diavolo alla potenza sempre viva e salutarmente creatrice»; e chi invece volesse vivere schopenhauerianamente, somiglierebbe forse di più a un Mefistofele che a un Faust proprio per i più deboli occhi moderni, che nella negazione vedono sempre il marchio del maligno. Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV, 1876)5. L'uomo non può più farsi conoscere nella sua miseria mediante il linguaggio, quindi non può più comunicare veramente se stesso: in questa condizione oscuramente percepita, il linguaggio è diventato dappertutto una forza a sé, che con braccia spettrali afferra gli uomini e li sospinge dove essi in realtà non vogliono andare; non appena cercano di comunicare reciprocamente e di unirsi per un'opera, li afferra la follia dei concetti universali, anzi dei puri suoni verbali, e in seguito a questa incapacità di comunicare, i risultati creativi della loro unità d'intenti portano a loro volta il segno dell'incomprensione, in quanto non corrispondono ai bisogni reali, ma appunto soltanto al vuoto di quelle parole e di quei concetti dispotici: così a tutte le sue sofferenze l'umanità aggiunge anche la sofferenza della convenzione, ossia di un'intesa nelle parole e nelle azioni senza un'intesa nel sentimento. Come, nel processo di decadenza di ogni arte, si raggiunge un punto in cui la morbosa proliferazione di mezzi e di forme si impone tirannicamente alle anime giovani degli artisti e le rende sue schiave, così oggi, nella decadenza dei linguaggi, si è schiavi delle parole; sotto questa costrizione nessuno è più in grado di mostrare se stesso, di parlare ingenuamente, e pochi in genere riescono a preservare la propria individualità, nella lotta con una cultura che crede di dimostrare il suo successo non andando incontro in modo formativo a sentimenti ed esigenze chiari, ma impastoiando l'individuo nella rete dei «concetti chiari» e insegnandogli a pensare correttamente: come se avesse qualche valore far di qualcuno un essere che pensa e argomenta correttamente, se prima non si è riusciti a far di lui un essere che sente correttamente. Il rapporto tra musica e vita non è soltanto quello tra un tipo di linguaggio e un altro tipo di linguaggio; è anche il rapporto fra l'intero mondo uditivo e tutto il mondo visivo. Ma, intesa come fenomeno visivo e paragonata con le precedenti manifestazioni della vita, l'esistenza dell'uomo moderno mostra una povertà e un'estenuazione indicibili, nonostante l'indicibile ricchezza di colori, di cui può sentirsi allietato solo il più superficiale degli sguardi. Si guardi più acutamente e si analizzi l'impressione di questo gioco di colori così violentemente mosso: non sembra nel suo insieme il brillio e lo sfolgorio di innumerevoli pietruzze e di minuscoli frammenti presi a prestito da culture precedenti? Non è tutto sfoggio inadeguato, movimento scimmiottato, esteriorità usurpata? Un abito di cenci colorati per chi è nudo e ha freddo? Un'apparente danza di gioia che si pretende da un sofferente? Espressioni di orgoglio insolente esibite da chi è profondamente ferito? E nel mezzo, dissimulate e nascoste solo dalla rapidità del movimento e del turbine grigia impotenza, cocente disarmonia, laboriosissima noia, infamante miseria! La figura dell'uomo moderno è diventata mera apparenza; in quel che egli oggi rappresenta non si rende visibile lui stesso, anzi resta nascosto; e tutto quel che di attività artistica inventiva si è conservato presso un popolo, per esempio presso i Francesi e gli Italiani, viene speso nell'arte di questo giocare a nascondersi. Quando, in città popolose, guardo passarmi accanto migliaia di persone con l'espressione dell'indifferenza o della fretta, mi dico sempre: debbono star male dentro. Ma per tutti costoro l'arte esiste soltanto perché si sentano ancora peggio, più tetri e insensibili, oppure più frettolosi e bramosi. Giacché li cavalca e li vessa senza posa il falso sentimento, e non permette loro assolutamente di ammettere con se stessi la propria miseria; se vogliono parlare, la convenzione mormora loro all'orecchio qualcosa, e allora dimenticano quel che volevano dire; se vogliono intendersi fra loro, il loro spirito è come paralizzato da un incantesimo, e così chiamano felicità quel che è la loro infelicità, e per loro sventura si alleano anche volontariamente tra loro. Così sono in tutto e per tutto trasformati e degradati a schiavi abulici del falso sentimento. Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)Volume I 51. Se uno vuole a lungo e con perseveranza sembrare qualcosa, alla fine difficilmente potrà essere qualcosa d’altro. La professione di quasi ogni uomo, persino dell’artista, comincia con l’ipocrisia, con un imitare dall’esterno, un copiare quanto è d’effetto. Colui che indossa sempre la maschera di espressioni amichevoli, deve alla fine acquisire un potere sulle disposizioni benevole, senza le quali non ci si può costringere ad esprimere cordialità - e alla fine saranno queste a dominarlo, egli sarà benevolo. 79. Doppiamente ingiusti. - Talvolta favoriamo la verità con una duplice ingiustizia: quando cioè vediamo e rappresentiamo l'uno dopo l'altro i due lati di una cosa che non siamo capaci di vedere insieme, in modo però da poter ogni volta misconoscere o negare l'uno dei due, nell'illusione che quel che vediamo sia tutta la verità. 86. Con che cosa vediamo l'ideale. - Ogni uomo eccellente si ostina nella propria eccellenza e non sa guardare liberamente al di là di essa. Se d'altronde non possedesse la sua buona dose di imperfezione non potrebbe, a causa della sua virtù, raggiungere alcuna libertà spirituale e morale. I nostri difetti sono gli occhi con i quali vediamo l'ideale. 190. Tardiva giustificazione dell'esistenza. - Non pochi pensieri sono entrati nel mondo come errori e illusioni, ma son divenuti verità perché in seguito gli uomini hanno attribuito ad essi un substrato reale. 608. Scambio di causa ed effetto. - Inconsciamente noi cerchiamo i principi e le dottrine che si confanno al nostro temperamento, sicché alla fine sembra che siano stati quei principi e quelle dottrine a produrre il nostro carattere e a conferirgli tenuta e sicurezza: mentre è accaduto esattamente il contrario. Del nostro pensiero e del nostro giudizio si fa in seguito, come sembra, la causa del nostro essere: ma in effetti è il nostro essere la causa per cui noi pensiamo e giudichiamo in un certo modo. - E che cosa ci induce a questa quasi inconsapevole commedia? La pigrizia e la comodità e, non da ultimo, il desiderio della nostra vanità di esser ritenuti in tutto e per tutto consistenti, unitari nell’essere e nel pensiero: ciò infatti procura stima, dà fiducia e potenza. Aurora (1881)115. Il cosiddetto «io». - Il linguaggio e i pregiudizi sui quali il linguaggio è costruito, sono per noi, in diversi modi, di ostacolo nello scandagliare i processi interiori e gli istinti: ad esempio per il fatto che esistono propriamente parole solo per i grandi superlativi di questi processi e istinti -; ora però noi siamo abituati, laddove ci mancano le parole, a non osservare più con precisione; anzi, una volta si concludeva istintivamente che dove cessa il regno delle parole, là cessa anche quello dell'esistenza. Ira, odio, amore, compassione, brama, cognizione, gioia, dolore, - questi sono tutti nomi per stati estremi: i gradi intermedi più attenuati e addirittura quelli inferiori, che sono continuamente in gioco, ci sfuggono, eppure sono proprio questi a intessere la tela del nostro carattere e del nostro destino. Quelle manifestazioni estreme - e perfino il più moderato piacere o dispiacere da noi conosciuto nel mangiare una vivanda, nell'udire un suono, è forse pur sempre, se rettamente valutato, una manifestazione estrema - assai spesso lacerano la tela e sono allora violente eccezioni, conseguenti, per lo più, a stati d'accumulo: - e come possono, come tali, trarre in errore l'osservatore! Non certo meno di quanto ingannino l'uomo che agisce. Noi tutti non siamo ciò che sembriamo essere, secondo gli stati per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole, - e di conseguenza lode e biasimo -; in base a queste più grossolane manifestazioni, che sono le sole a divenire a noi note, ci misconosciamo, traiamo una conclusione da un materiale in cui le eccezioni preponderano sulle regole, ci sbagliamo nel leggere in questa apparentemente assai chiara scrittura alfabetica del nostro Sé. La nostra opinione circa noi stessi, che abbiamo trovato per questa falsa strada, il cosiddetto «io», lavora però, d'ora innanzi, sul nostro carattere e sul nostro destino. - 116. Lo sconosciuto mondo del «soggetto». - Ciò che per gli uomini rimane così difficile da comprendere è l'ignoranza di se stessi, dai tempi più antichi fino ad oggi! Non solo in relazione al bene e al male, ma in relazione a qualcosa di molto più essenziale! Tuttora continua a vivere la primordiale illusione che si sappia, si sappia in maniera del tutto precisa, come, in ogni caso, giunga ad effettuarsi l'umano agire. Non solo «Dio che scruta nel cuore», non solo l'agente che riflette sulla sua azione, - no, pure qualsiasi altro non dubita di capire ciò che è essenziale nel processo dell'azione altrui. «Io so cosa voglio, che cosa ho fatto, io sono libero e responsabile di ciò, ritengo responsabili gli altri, posso chiamare per nome tutte le possibilità etiche e tutti i movimenti interiori che si danno prima di un'azione; voi potete agire come volete - io in questo comprendo me e voi tutti!»… Il fatto che ciò che si può, in generale, sapere di un'azione, non basti mai a compierla, che finora non sia stato gettato, in alcun singolo caso, il ponte che congiunge la conoscenza all'azione - non è proprio questa la «spaventosa» verità? Le azioni non sono mai quel che ci appaiono! Noi abbiamo penato tanto per imparare che le cose esteriori non sono quel che ci appaiono, - orsù dunque! Con il mondo interiore le cose stanno allo stesso modo! Le azioni morali sono in verità «qualcosa d'altro», -di più non possiamo dire: e tutte le azioni sono quanto all'essenza ignote. 117. Le abitudini dei nostri sensi ci hanno irretito nell'inganno della sensazione: questi sono di nuovo i fondamenti di tutti i nostri giudizi e «conoscenze», - non c'è assolutamente scampo, né qualche nascosto sentiero per poter sgattaiolar via nel mondo reale! Noi siamo nella nostra rete, noi ragni, e qualunque cosa acchiappiamo qui dentro, non la potremmo affatto acchiappare se non in quanto è appunto ciò che si lascia prendere nella nostra rete. 120. Per tranquillizzare gli scettici. - «Io non so assolutamente quel che faccio! Non so assolutamente quel che devo fare!» - Hai ragione, ma non dubitare: tu vieni fatto! in ogni attimo. L'umanità in tutti i tempi ha scambiato l'attivo con il passivo, è il suo eterno svarione grammaticale. 128. Il sogno e la responsabilità. - In tutto volete essere responsabili? Soltanto per i vostri sogni non lo volete essere? Che miserabile debolezza, che mancanza di conseguente coraggio! Niente vi è così proprio, più dei vostri sogni! Niente è più opera vostra! Materia, forma, durata, attori, spettatori, - in queste commedie siete tutto voi stessi! E proprio qui avete paura e vi vergognate dinanzi a voi stessi, e già Edipo, il saggio Edipo, sapeva ricavar consolazione dal pensiero che non abbiamo nessun potere su ciò che sogniamo! Io ne concludo che la grande maggioranza della gente dev'esser consapevole di alcuni orrendi sogni. Se fosse diversamente, quanto avremmo sfruttato la nostra notturna immaginazione poetica per la superbia degli uomini! - Devo aggiungere che il saggio Edipo aveva ragione, che effettivamente noi non siamo responsabili dei nostri sogni, - come tanto poco lo siamo della nostra veglia, e che la dottrina della libertà del volere ha per madre e padre l'orgoglio e il sentimento di potenza dell'uomo? Io questo lo dico forse troppo di sovente, ma, almeno, non per questo è ancora diventato un errore. 129. Il presunto conflitto dei motivi. - Si parla di «conflitto dei motivi», ma con ciò si indica un conflitto, che non è quello dei motivi. Vale a dire: alla nostra coscienza riflettente si presenta, di fronte ad un'azione, una serie di conseguenze di diverse azioni, che pensiamo di poter compiere tutte quante e, così, poniamo queste conseguenze a confronto. Crediamo di esser decisi ad un'azione, quando abbiamo stabilito che le sue conseguenze saranno prevalentemente quelle favorevoli; prima di giungere a questa conclusione del nostro ponderare, spesso ci tormentiamo, onestamente, a causa della gran difficoltà di indovinare le conseguenze, di vederle in tutta la loro forza e proprio tutte, senza alcun errore di omissione: per cui il conto deve oltracciò venire ancora diviso per il caso. Anzi, per dire la difficoltà maggiore: tutte le conseguenze che, singolarmente prese, è così difficile stabilire, debbono ora equilibrarsi reciprocamente su un'unica bilancia; e assai spesso per questa casistica del vantaggio ci manca unitamente ai pesi anche la bilancia, a causa, questo, della qualitativa diversità di tutte le possibili conseguenze. Ma posto che si venisse in chiaro anche su questo, e che il caso ci avesse posto sulla bilancia conseguenze che si possono reciprocamente bilanciare: adesso in effetti avremmo nel quadro delle conoscenze di una determinata azione un motivo per compiere proprio questa azione, - sì! un motivo! Ma nell'attimo in cui finalmente agiamo, veniamo abbastanza spesso determinati da un genere di motivi diverso da quello di cui si è qui parlato, quello cioè del «quadro delle conseguenze». Allora agisce l'abituale gioco delle nostre forze, o una piccola spinta da parte di una persona che temiamo o stimiamo o amiamo, oppure la comodità che preferisce fare quanto gli sta a portata di mano, o l'eccitazione della fantasia, provocata dal minimo occasionale evento nell'attimo decisivo; agisce qualcosa di corporeo, che appare in modo del tutto imprevedibile, agisce l'umore, il balzo di una qualche passione, che in modo del tutto casuale è pronta a scattare: in breve, agiscono dei motivi che in parte non conosciamo affatto, in parte conosciamo assai male e che mai in precedenza possiamo mettere in conto nel loro reciproco rapporto. Può darsi che anche tra di loro abbia luogo un conflitto, uno spingere avanti e indietro, un compensarsi e un tracollare dei loro pesi - e questo sarebbe il vero e proprio «conflitto dei motivi»: - qualcosa per noi di completamente invisibile e inconscio. Io ho calcolato le conseguenze e i risultati e così ho inserito un motivo del tutto essenziale nella linea di combattimento dei motivi, ma questa linea di combattimento la posso tanto poco disporre, quanto vedere: il conflitto stesso mi è nascosto ed egualmente la vittoria in quanto vittoria; ho certo esperienza di quel che alla fine faccio, - ma quale motivo, con tutto ciò, abbia propriamente vinto, questo non lo so. Noi però siamo ben abituati a non calcolare questi processi inconsci e a immaginarci la preparazione di un atto solo in quanto è cosciente: e così scambiamo il conflitto dei motivi con il confronto di possibili conseguenze di azioni differenti, - una confusione tra le più ricche di conseguenze e tra le più fatali per lo sviluppo della morale! 358. Fondamenti e loro infondatezza. - Hai un'avversione nei suoi confronti e adduci per questa anche un'abbondanza di motivazioni, - io però credo soltanto alla tua avversione, e non ai tuoi fondamenti! E’ affettazione nei confronti di te stesso, presentare a te e a me come una deduzione razionale, quanto accade istintivamente. La gaia scienza (1882)25. Non predestinato alla conoscenza. Esiste un'umiltà disdicevole e niente affatto rara per cui chi la possiede non sarà mai capace di diventare un seguace della conoscenza. Ovvero: nel preciso istante in cui una persona di questo tipo percepisce qualcosa di sorprendente, volta le spalle e si dice: «Ti sei ingannato! Dov'erano mai i tuoi sensi! Questa non può essere la verità!» e quindi, invece di guardare e ascoltare più attentamente, corre via da quella cosa sorprendente più alla svelta che può, cercando di cacciarsela di testa. Il suo canone interiore recita, infatti: «Non voglio vedere niente che contraddica l'opinione comune sulle cose! Sono forse fatto per scoprire nuove verità? Quelle vecchie sono anche troppe». 44. I motivi creduti. Per quanto possa essere importante conoscere i motivi in base ai quali l'umanità ha sinora agito, forse per chi si dedichi alla conoscenza è ancora più essenziale la fede in questi o quei motivi, cioè quello che l'umanità ha sinora considerato la vera leva del suo agire. La fortuna e la miseria interiori degli uomini sono infatti divenuti, a seconda della loro fede, parte di questi o di quei motivi: ma assolutamente non in virtù del loro vero motivo, che presenta quindi un interesse secondario. 76. Il pericolo più grande. Se non ci fosse stata, in ogni tempo, una gran maggioranza di uomini i quali identificavano nella disciplina della loro testa - la loro «ragionevolezza» - il loro orgoglio, i loro obblighi, le loro virtù, e che ogni fantasticheria ed esuberanza di pensiero offendeva o svergognava in quanto amici del «sano intelletto umano», l'umanità sarebbe andata in malora già da tempo! Il pericolo più grande che aleggiava e continua ad aleggiare su di loro era lo scoppio della pazzia: cioè lo scoppio della discrezionalità nel percepire, vedere e udire, il piacere della mancanza di disciplina in testa, la gioia per il non-intelletto umano. Non la verità e la certezza sono il contrario del mondo dei folli, ma la generalità e la obbligatorietà nei confronti di tutti imposte da una fede, ovvero la mancanza di discrezionalità nel giudizio. E il lavoro più grande sinora compiuto dagli uomini è proprio quello di trovare un accordo su tante cose e imporsi una legge di conformità, che esse siano vere o false. Questa è la disciplina della testa mantenuta dall'umanità; ma gli istinti contrari sono sempre così potenti che in fondo del futuro dell'umanità si può parlare soltanto con poca fiducia. L'immagine delle cose continua a spingersi e a spostarsi, e forse da adesso di più e più rapidamente che mai; proprio gli spiriti eletti continuano a ricalcitrare contro questa obbligatorietà nei confronti di tutti: avanti i ricercatori della verità! Quella fede che si pone come fede mondiale continua a generare una nausea e una nuova cupidigia nelle teste più raffinate; e già il ritmo lento che essa richiede per tutti i processi spirituali, quella imitazione delle tartarughe che qui è considerata la norma, rendono artisti e poeti dei transfughi: - sono questi spiriti impazienti in cui scoppia una vera e propria voglia di follia, perché la follia ha un ritmo così allegro! Occorrono quindi intelletti virtuosi, - ahimè! adopererò la parola meno equivoca - occorre stupidaggine virtuosa perché i fedeli della grande fede comune rimangano insieme e continuino a danzare la loro danza: a comandare e spingere, in questo caso, è un bisogno di prima categoria. Noialtri siamo l'eccezione e il pericolo, - abbiamo eternamente bisogno di difesa! - Orbene, si possono davvero dire molte cose in favore dell'eccezione, purché non voglia mai diventare regola. 154. Pericoli diversi della vita. Voi non sapete che cosa state vivendo, correte attraverso la vita come ebbri e, ogni tanto, cadete giù da una scala. Eppure, grazie alla vostra ebbrezza, non vi rompete le ossa: i vostri muscoli sono troppo fiacchi e la vostra testa troppo ottenebrata perché possiate trovare troppo dure le pietre di questa scala, come noialtri! Per noi la vita costituisce un pericolo maggiore: siamo fatti di vetro e, se cadiamo, guai a noi! E quando cadiamo, tutto è perduto! 327. Prendere sul serio. Nei più, l'intelletto è una macchina lenta, tenebrosa e cigolante, difficile da mettere in moto: essi dicono di «prendere la cosa sul serio» quando vogliono lavorare e pensare bene con questa macchina... oh, come deve essere loro gravoso il pensare bene! L'amabile bestia uomo pare perdere ogni volta il suo buonumore quando pensa bene; diventa «serio»! E «laddove sono riso e allegria, il pensiero non vale niente»: così suona il pregiudizio di questa bestia seria nei confronti di tutta la «gaia scienza». Ebbene! Dimostriamo loro che si tratta di un pregiudizio. 338. La volontà di soffrire e coloro che compatiscono La «religione» della compassione (o «il cuore») ordina di aiutare, e si crede che aiutare meglio significhi aiutare il più rapidamente possibile! Se voi seguaci di questa religione avete anche nei confronti di voi stessi lo stesso atteggiamento che mostrate nei confronti del prossimo, se non vi lasciate le vostre sofferenze neppure per un'ora e continuate a deviare ogni possibile infelicità già da lontano, se percepite ogni sofferenza e dispiacere come assolutamente cattivi, odiosi, degni di essere annientati, come una pecca dell'esistenza: allora avete nel cuore, oltre alla vostra religione della compassione, anche un'altra religione, che forse di quella è madre: la religione della comodità. Ah, quanto poco sapete della felicità dell'uomo, voi che amate starvene comodi e in pace! Perché felicità e infelicità sono sorelle gemelle che o crescono insieme o, come nel vostro caso, rimangono piccole! 352. In che misura la morale è pressoché indispensabile. L'uomo nudo è generalmente, per gli Europei, una vista scandalosa (e non parlo neppure delle Europee!). Supponiamo che la più gaia tavolata si vedesse improvvisamente, per la perfidia di un mago, disvelata e spogliata: io credo che non soltanto il buonumore se ne andrebbe, ma si sarebbe anche scoraggiato il più robusto appetito, - perché pare che noi Europei non riusciamo assolutamente a fare a meno di quella maschera che si chiama abbigliamento. Ma non dovrebbe avere motivi altrettanto buoni il travestimento degli «uomini morali», il loro rivestirsi di formule morali e concetti di decenza, tutto questo benevolo nascondere le nostre azioni dietro i concetti di dovere, virtù, senso comune, onorabilità, abnegazione? Non che io supponga che si debbano mascherare l'umana malvagità e infamia, in breve l'animale selvaggio e cattivo dentro di noi; penso al contrario che offriamo una vista scandalosa e abbiamo bisogno di un travestimento morale proprio in quanto animali mansueti; che l'«uomo interiore», in Europa, è lungi dall'essere abbastanza cattivo per potere «farsi vedere in giro» con questa cattiveria (ed essere bello). L'Europeo adotta un travestimento morale perché è divenuto un animale malato, morboso, storpio, che ha buoni motivi per essere «mansueto», essendo quasi un aborto, una via di mezzo, debole, sgraziato... Non è la spaventosità dell'animale feroce ad aver bisogno di un travestimento morale, ma l'animale che vive nel gregge, con la sua profonda mediocrità, la sua paura e la sua noia di se stesso. La morale ripulisce l'Europeo - ammettiamolo! - facendo di lui un qualcosa di più distinto, significativo, rispettabile, «divino». >Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)Parte terza Dello spirito di gravità 2. E in verità, non è un comandamento per oggi e domani: imparare ad amarsi. piuttosto la più sottile, la più astuta, la più paziente, l'estrema di tutte le arti. Tutto ciò che uno possiede è per lui che lo possiede ben nascosto: e di tutte le miniere preziose la propria è l'ultima ad essere scavata ed è opera dello spirito di gravità. Siamo ancora nella culla e già ci danno parole e valori pesanti: «bene» e «male» così si chiama questo viatico. Grazie ad esso ci è perdonato che viviamo. E con questo scopo si lasciano venire a sé i fanciulli, per proibir loro per tempo di amare se stessi: ed è opera dello spirito di gravità. E noi - noi, ligi, ci portiamo dietro quello che ci danno, su spalle indurite e per aspre montagne! E se sudiamo, ci dicono: «Già, la vita è un pesante fardello!». Ma soltanto l'uomo è a se stesso un pesante fardello! Perché porta sempre troppe cose estranee sulle proprie spalle. Come il cammello, s'inginocchia e si lascia caricare. Soprattutto l'uomo forte, paziente, che ha in sé reverenza: troppe parole e valori estranei carica su di sé così la vita gli appare un deserto! E in verità! Anche certe cose proprie sono pesanti da sopportare! E molto di quanto è dentro l'uomo somiglia all'ostrica, nauseabonda, viscida, e difficile da stringere in mano, - cosicché lo scusa soltanto un nobile guscio nobilmente decorato. Ma anche quest'arte si deve imparare: avere un guscio e una bella apparenza e una cecità accorta! E che il guscio sia troppo misero, o squallido o troppo guscio inganna su alcune cose dell'uomo. Molta bontà e forza nascoste non vengono scorte; i più saporiti bocconi non trovano buongustai! Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)2. Malgrado il valore che può essere attribuito al vero, al veritiero, al disinteressato, sarebbe possibile che all'apparenza, alla volontà d'illusione, all'interesse personale e all'avidità si dovesse attribuire un valore superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe perfino possibile che ciò che stabilisce il valore di quelle cose buone e venerate consistesse proprio nel fatto d'essere ingannevolmente imparentate, legate, agganciate a quelle cose cattive, in apparenza contrapposte, forse di essere loro addirittura essenzialmente simili. Forse! 9. In verità la cosa è completamente diversa: mentre voi, rapiti in estasi, date ad intendere di leggere nella natura il canone della vostra legge, volete qualcosa di opposto, voi bizzarri commedianti e autoingannatori! La vostra superbia vuole prescrivere e fare assumere alla natura, perfino alla natura, la vostra morale, il vostro ideale, e pretendete che essa sia natura «secondo la Stoa» e vorreste che ogni esistenza esistesse solo secondo la vostra propria immagine come una mostruosa, eterna esaltazione e generalizzazione dello stoicismo! Con tutto il vostro amore per la verità, vi costringete così a lungo, con tale perseveranza, con tale ipnotica fissità, a vedere la natura falsamente, cioè stoicamente, ché non siete più in grado di vederla diversamente e una qualche abissale superbia vi dà alla fine anche la folle speranza che, poiché sapete tiranneggiare voi stessi stoicismo è tirannide verso se stessi , anche la natura si lasci tiranneggiare: lo stoico non è infatti un frammento della natura?... Ma questa è una vecchia, eterna storia: ciò che accadde un tempo con gli stoici, accade ancora oggi, basta che una filosofia inizi a credere in se stessa. Essa crea sempre il mondo a propria immagine, non può fare diversamente; la filosofia è questo stesso impulso tirannico, la più spirituale volontà di potenza, di «creazione del mondo», di una causa prima. 16. Ci sono ancor sempre candidi osservatori di sé, che credono che esistano «certezze immediate», ad esempio «io penso», oppure, secondo la superstizione di Schopenhauer, «io voglio»: come se qui il conoscere fosse in grado di comprendere il suo oggetto nella sua nuda purezza, come «cosa in sé», e non si potesse avere nessuna falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell'oggetto. Ma che «certezza immediata» come anche «assoluta conoscenza» e «cosa in sé» racchiudono una contradictio in adjecto, lo ripeterò cento volte: ci si dovrebbe pur sbarazzare alla fine, della seduzione delle parole! Creda pure il popolo che conoscere sia un conoscere definitivo, il filosofo deve dirsi: se analizzo il procedimento che è espresso nella proposizione «io penso», ottengo una serie di asserzioni arrischiate, la cui giustificazione è difficile, forse impossibile, - come per esempio, che sia io colui che pensa che debba esistere generalmente un qualcosa, che pensi, che pensare sia un'attività e un effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un «io», infine, che sia accertato che cos'è definibile in termini di pensiero, - che io sappia che cos'è pensare. Poiché se io non avessi già risposto al riguardo, in base a che cosa potrei giudicare che, quanto sta appunto accadendo, non sia piuttosto un «volere» o un «sentire?» Insomma, quell'«io penso» presuppone che io metta a confronto la mia condizione attuale con altre condizioni, che conosco per la mia esperienza, per stabilire così che cosa essa sia: a causa di questo riferimento a un diverso «sapere», essa non costituisce più per me, in nessun caso, una certezza immediata. - Al posto di quella «certezza immediata», alla quale il popolo, nel caso dato, può credere, il filosofo si trova in tal modo tra le mani una serie di questioni metafisiche, veri e propri problemi di coscienza dell'intelletto, che si esprimono così: «Da dove prendo il concetto di pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare di un io e addirittura di un io come causa e infine ancora di un io come causa del pensiero?». Chi, invocando una specie di intuizione della conoscenza, si sentisse in grado di rispondere subito a queste interrogazioni metafisiche, come fa colui che dice: «io penso e so che almeno questo è vero, reale, certo» - non troverebbe oggi in un filosofo che un sorriso e due punti interrogativi. «Signor mio, gli farebbe forse capire il filosofo, è inverosimile, che lei non sbagli: ma perché poi una verità assoluta?» 17. Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò di sottolineare un piccolo, breve dato di fatto, che viene ammesso mal volentieri da questi superstiziosi, cioè che un pensiero viene quando «lui» lo vuole, e non quando «io» lo voglio; cosicché dire: il soggetto «io» è condizione del predicato «penso», è una falsificazione dello stato dei fatti, Esso pensa: ma che questo «esso» sia proprio quel vecchio famoso «io», è per dirla con indulgenza, solo una supposizione, un'affermazione, e soprattutto non è affatto una «certezza immediata». 21. La causa sui è la più bella autocontraddizione che sia stata escogitata fino ad oggi, una specie di stupro e di violenza contro natura della logica: ma lo sfrenato orgoglio dell'uomo ha portato a rimaner profondamente e orrendamente preso proprio in questa assurdità. L'esigenza di «libertà del volere», in quello spirito superlativamente metafisico, quale purtroppo domina ancora sempre nelle teste dei semicolti, la pretesa di assumere da soli la completa ed estrema responsabilità per le proprie azioni e liberarne Dio, mondo, progenitori, caso, società, non è infatti niente di meno che quella causa sui e il trarsi fuori tirandosi per i capelli, con una temerarietà maggiore di quella di Münchhausen, dalla palude del nulla all'esistenza delle cose. Posto che qualcuno giunga in tal modo a vedere la stolida dabbenaggine di questo famoso concetto di «libero volere» e lo cancelli dalla sua mente, lo prego ora di fare un altro passo avanti e di cancellare dalla sua mente anche il contrario di quel non-concetto di «libero volere»: intendo la «volontà non-libera» che deriva da un abuso di causa ed effetto. 24. O sancta simplicitas! In quale strana semplificazione e falsificazione vive l'uomo! Non si finisce mai di meravigliarsi quando si è assistito ad un tale prodigio! Come abbiamo reso chiaro e libero e facile e semplice tutto quanto ci circonda! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un lascia-passare per tutto ciò che è superficiale e al nostro pensiero una divina avidità di salti spavaldi e di paralogismi! - come abbiamo imparato fin dall'inizio a conservarci la nostra ignoranza, per godere di una libertà, una sicurezza, una imprudenza, una risolutezza, una serenità di vita appena concepibili, per godere della vita! E solo su questo fondo di ignoranza ormai saldo e granitico ha potuto erigersi finora la scienza; la volontà di sapere sulla base di una volontà molto più potente, della volontà di non- sapere, di incertezza, di non-verità! Non come suo contrario, ma - come suo perfezionamento! 31. Negli anni giovanili si venera e si disprezza ancora senza quell'arte della nuance che costituisce il miglior profitto della vita e giustamente bisogna scontare con severità l'aver aggredito in tal modo con un sì o un no uomini e cose. Tutto è disposto in modo che il peggiore dei gusti, il gusto dell'assoluto venga orribilmente ingannato e che si abusi di lui, finché l'uomo non impari a porre un po' d'arte nei suoi sentimenti e meglio ancora finché non osi tentare l'artificio: come fanno i veri artisti della vita. Il sentimento dell'iracondia e della venerazione, che sono propri della gioventù, sembrano non darsi pace se prima non hanno falsato uomini e cose tanto bene che ci si possa sfogare contro di essi: la gioventù è già in sé qualcosa di falsificante e ingannatore. Più tardi, quando la giovane anima, martoriata da acute disillusioni, si rivolta alla fine sospettosamente contro se stessa, ancor sempre ardente e selvaggia, anche nella sua diffidenza e nei rimorsi della sua coscienza: come si incollerisce ora contro se stessa, come si dilania con impazienza, come si vendica per la sua lunga cecità, come se fosse stata una cecità volontaria! In questo trapasso ci si punisce con la diffidenza verso il proprio sentimento; si tortura il proprio entusiasmo con il dubbio, si sente addirittura la buona coscienza come un pericolo, quasi come un autoffuscamento e un rilassamento della rettitudine più pura; e soprattutto si prende partito, si prende per principio partito contro la «gioventù». Un decennio più tardi: e si comprenderà, che anche tutto ciò era ancora gioventù! 34. Da qualsiasi punto di vista filosofico ci si voglia oggi porre: l'erroneità del mondo, nel quale crediamo di vivere, vista da qualsiasi punto è la cosa più sicura e più salda della quale i nostri occhi possono appropriarsi: troviamo a questo proposito mille motivi che vorrebbero adescarci a congetture su un principio ingannatore nella «essenza delle cose». Ma chi attribuisce la responsabilità della falsità del mondo al nostro stesso pensiero, dunque «allo spirito» - onorevole via d'uscita, che ogni consapevole e inconsapevole advocatus dei percorre -: chi considerasse questo mondo, e lo spazio, il tempo, la forma, il movimento, come dedotto erroneamente, avrebbe per lo meno un buon motivo per imparare finalmente a diffidare di ogni pensiero: e non ci avrebbe giocato fino ad oggi i tiri peggiori? E quale garanzia abbiamo che non continuerebbe a fare ciò che ha sempre fatto? Proprio io stesso ho imparato da molto tempo a pensare e a valutare diversamente l'ingannare e l'essere ingannato e tengo pronti almeno un paio di colpi per la cieca rabbia con la quale i filosofi si rifiutano di essere ingannati. Perché no? Non è niente di più che un pregiudizio morale, che, la verità valga più dell'apparenza; è addirittura l'opinione peggio dimostrata che ci sia al mondo. Pure si ammetta con se stessi che non ci sarebbe vita, se non sulla base di valutazioni e apparenze prospettiche; e se si volesse, con il virtuoso entusiasmo e la goffaggine di alcuni filosofi, eliminare completamente il «mondo apparente», bene, posto che voi lo possiate, - allora non rimarrebbe più nulla neppure della vostra mente ad ammettere che esista un'antitesi sostanziale di «vero» e «falso»? Non basta ammettere diversi gradi dell'apparenza e, per così dire, ombre e tonalità complessive più chiare e più scure dell'aspetto esteriore - valeurs diversi, per usare il linguaggio dei pittori? Perché non potrebbe essere una finzione, il mondo che in qualche modo ci concerne? E a chi chiede qui: «ma per la finzione non è necessario un autore?» - non si potrebbe rispondere apertamente: Perché? questo «è necessario» non rientra forse nella finzione? Non è dunque permesso essere alla fine un po' ironici verso il soggetto, come verso il predicato e l'oggetto? 40. Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde provano perfino odio per l'immagine e il simbolo. Non dovrebbe essere soprattutto l'opposto, il giusto travestimento nel quale avanza il pudore di un dio? Una domanda problematica: sarebbe strano, se un qualche mistico non avesse già osato un tentativo di questo genere. Esistono fatti così delicati che si fa bene a coprirli e a renderli irriconoscibili sotto una grossolanità; esistono atti d'amore e di traboccante generosità, in seguito ai quali non c'è nulla di più consigliabile che prendere un bastone e picchiare di santa ragione il testimone oculare: e con ciò offuscare la sua memoria. Alcuni sono disposti ad offuscare e a maltrattare la propria memoria per vendicarsi almeno di quest'unico testimone: il pudore è ingegnoso. Non sono le cose peggiori quelle di cui ci si vergogna di più: non c'è solo malignità dietro ad una maschera - c'è tanta bontà nell'astuzia. Potrei immaginare che l'uomo, che debba nascondere qualcosa di prezioso e di fragile, rotoli attraverso la vita goffo e rotondo come una vecchia botte di vino dai cerchi pesanti: lo vuole la finezza del suo pudore. Un uomo dotato di profondo pudore incontra anche il suo destino e le decisioni difficili su strade alle quali pochi giungono e la cui esistenza non è dato conoscere al più prossimo e ai più fidati: i pericoli che egli corre per la sua vita si celano ai loro occhi, come la sua riconquistata sicurezza di vivere. Un essere così riservato, che, per istinto, si serve dei discorsi per tacere e per nascondere e che è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che nei cuori e nei cervelli dei suoi amici prenda il suo posto una maschera; e posto che egli non lo voglia, un giorno gli si apriranno gli occhi sul fatto che ciò nonostante vi è lì una sua maschera, - e che è bene così. Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: ancor più, intorno a ogni spirito profondo cresce in continuazione una maschera, grazie all'interpretazione costantemente falsa, e cioè piatta, di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che da lui si esprime. 59. Chi ha guardato profondamente nel mondo indovina bene quale saggezza vi sia, nella superficialità degli uomini. L'istinto di conservazione insegna loro ad essere mutevoli, leggeri e falsi... E’ il profondo e sospettoso timore di fronte a un pessimismo insanabile che costringe interi millenni a conficcare i denti in un'interpretazione religiosa dell'esistenza; la paura di quell'istinto, che teme che si possa giungere troppo presto alla verità, prima che l'uomo sia divenuto abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista... 68. «Ho fatto questo» dice la mia memoria. «Non posso aver fatto questo» dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine - è la memoria a cedere. 207. L'uomo oggettivo è in effetti uno specchio: soprattutto abituato alla sottomissione a tutto ciò che vuole essere conosciuto, senza alcuna altra gioia che quella che gli dà il conoscere, il «rispecchiare», egli aspetta fino a che qualcosa giunga e si dispiega poi delicatamente, perché anche i passi leggeri e il lieve passaggio di esseri spettrali sulla sua superficie e la sua pelle non vadano perduti. Ciò che ancora gli resta della sua «Persona», gli appare casuale, spesso arbitrario, ancora più spesso importuno: tanto è diventato egli stesso un passaggio e un riflesso di figure e di avvenimenti sconosciuti. Egli riflette su di «sé» con fatica, non di rado in modo errato; si scambia facilmente con un altro, si sbaglia nei riguardi dei suoi propri bisogni ed è, soltanto qui, rozzo e trascurato. Forse lo tormenta la salute e la meschinità o l'aria di chiuso della donna e dell'amico, o la mancanza di compagni e di compagnia, sì, egli si costringe a riflettere sul suo tormento: invano! Già il suo pensiero vaga e si allontana verso il caso più generale e domani egli saprà tanto poco come lo sapeva ieri come si potrebbe portargli aiuto. Ha perduto la serietà per se stesso, anche il tempo: è gaio, non per assenza di pena, ma per assenza di dita e di appigli per la sua pena. 230. La forza dello spirito nell'appropriarsi di ciò che gli è estraneo si manifesta in una vigorosa tendenza a rendere il nuovo uguale al vecchio, a semplificare il molteplice, a ignorare o spingere da parte ciò che è completamente contraddittorio: esattamente come essa sottolinea arbitrariamente e con maggior forza determinati tratti e linee in ciò che le è estraneo, in ogni frammento di «mondo esterno» e li mette in evidenza e li falsifica a proprio vantaggio. Facendo ciò essa tende a incorporare nuove «esperienze», a inserire nuove cose in vecchi ordini dunque alla crescita; o più precisamente, alla sensazione della crescita, alla sensazione della forza aumentata. 291. L'uomo, un animale complesso, menzognero, artificioso e impenetrabile, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia e l'accortezza, ha inventato la buona coscienza, per godere, per una volta, la semplicità della propria anima; e l'intera morale è un'impavida, lunga falsificazione, grazie alla quale diventa possibile godere la vista dell'anima. Da questo punto di vista sono comprese forse nel concetto di «arte» molte più cose di quanto solitamente si creda. La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)3. Si è artista al prezzo di percepire come contenuto, come «la cosa stessa» quello che tutti i non-artisti chiamano «forma». Con ciò ci si trova naturalmente in un mondo alla rovescia: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di assolutamente formale, inclusa la nostra vita. 58. Non conoscere se stesso: saggezza dell'idealista. L'idealista: un essere che ha ragioni per restare all'oscuro su se stesso e che è sufficientemente intelligente da restare all'oscuro anche su queste ragioni. 125. La completa minorità dei moralisti che pretendono che il nostro sé sepolto sotto molte pelli e nascosto sia semplice; che dicono «rivelati come sei»: come se per questo non si dovesse essere prima qualcosa che è... 415. Che il carattere dell'esistenza sia misconosciuto profondissima e suprema intenzione segreta della scienza, della religiosità, dell'artisticità. Molte cose non vederle mai, molte vederle in modo falso, molte per di più vederle... Oh come si è avveduti anche in situazioni nelle quali si è ben lontani dal ritenersi avveduti! L'amore, l'entusiasmo, «Dio» tutte finezze dell'estremo autoinganno, tutte seduzioni per vivere! Negli attimi in cui l'uomo diventa l'ingannato, in cui crede di nuovo alla vita, in cui ha ingannato se stesso: oh, allora come si gonfia! Quale incanto! Quale sentimento della potenza! Quanto trionfo dell'artista nel sentimento della potenza!... L'uomo è riuscito ancora una volta a dominare la «materia» a dominare la verità!... E ogni volta che l'uomo sì rallegra, è sempre lo stesso nella sua gioia: si rallegra come artista, gode di sé come potenza. La menzogna è la potenza... L’Anticristo (1888)LV Un passo ulteriore nella psicologia della convinzione, della «fede». Molto tempo fa sottolineai che le convinzioni sono per la verità nemiche più pericolose di quanto lo siano le bugie (Umano, troppo umano, I, af. 483). Questa volta vorrei porre la domanda decisiva: esiste, in generale un'opposizione tra la menzogna e la convinzione? Il mondo intero ritiene che vi sia, ma che cosa non crede il mondo intero? Ogni convinzione ha la sua storia, le sue forme originarie, i suoi tentativi, i suoi errori: diviene convinzione dopo che non è stata tale per lungo tempo e dopo che per un periodo ancora più lungo è stata tale a stento. Come? La menzogna non potrebbe trovarsi sotto tale forma embrionale di convinzione? Talvolta è necessario solo un cambiamento di persone: per il figlio diventa convinzione ciò che per il padre era ancora menzogna. Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante. La forma più comune di menzogna è quella che si fa a sé stessi: mentire agli altri è relativamente eccezionale. Ora questo non voler vedere ciò che si vede, questo non voler vedere qualcosa così come si vede, costituisce la condizione primaria di tutti coloro che appartengono in qualche modo a questo o quel partito: l'uomo di partito è necessariamente un bugiardo. LIV Se si considera quale bisogno abbia la maggior parte della gente di una regola che la vincoli e la costringa dall'esterno, e come la coercizione o, nel significato più alto, la schiavitù, sia la sola ed estrema condizione in cui le persone dalla volontà debole, specialmente le donne, possano prosperare, allora si comprenderà anche la convinzione, la «fede». L'uomo di convinzione ha in essa la sua spina dorsale. Non vedere certe cose, non essere indipendente in alcun punto, essere sempre parziale, avere in tutti i valori un'ottica severa e necessaria: tutto questo spiega perché esista, in genere, una tale specie di uomini. Ma questo fa sì che sia il contrario, l'antagonista di ciò che è veritiero, della verità... Il credente non è libero di possedere una coscienza per la questione del «vero» e del «falso»: essere onesti su questo punto significherebbe il suo crollo immediato. La limpidezza patologica della sua prospettiva rende l'uomo convinto un fanatico. Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)La «ragione» nella filosofia 6. Favoleggiare di un mondo «altro» da questo non ha senso, presupponendo che non sia potente in noi l'istinto di diffamare, sminuire, render sospetta la vita: nel qual caso ci vendichiamo della vita con la fantasmagoria di una vita «altra», «migliore». |