Istinto del gregge: Costume, Morale, Diritto


La nascita della tragedia (1872)

Tentativo di autocritica

5.

L'odio per il "mondo", la maledizione delle passioni, il timore davanti alla bellezza e alla sensualità, un al di là inventato per meglio diffamare l'al di qua, in fondo un aspirare al nulla, alla fine, al riposo, fino al "sabato dei sabati" - tutto ciò, insieme all'incondizionata volontà dei cristianesimo di far valere solo valori morali, mi sembrò sempre la forma più pericolosa e perturbante di tutte le forme possibili di una "volontà di fine", o perlomeno un segno di profondissima malattia, di stanchezza, scoraggiamento, esaurimento, immiserimento di vita; poiché a fronte della morale (specialmente cristiana, cioè la morale assoluta) la vita deve costantemente e inevitabilmente avere torto, in quanto la vita è essenzialmente qualcosa di immorale, - la vita deve infine, soffocata dal peso del disprezzo e dell'eterno "no", essere sentita come indegna di brama, come disvalore in sé.

La stessa morale - sì, la morale non sarebbe dunque una "volontà di negazione della vita", un segreto istinto di distruzione, un principio di decadenza, di denigrazione, di rinnegamento, un inizio della fine? E, di conseguenza, il pericolo dei pericoli?..

Basilea, fine dell'anno 1871

10.

Poiché la sorte di ogni mito è quella di rattrappirsi a poco a poco nell'angustia di una presunta realtà storica e di essere trattato da un'epoca posteriore come un unico factum con pretese storiche: e i Greci erano già pienamente sulla via di trasformare con sagacia e arbitrarietà tutto il loro mitico sogno giovanile in un evento giovanile storico-prammatico.

Poiché è questa la maniera in cui le religioni usano estinguersi: quando cioè, sotto gli occhi severi e razionali di un dogmatismo ortodosso, i presupposti mitici di una religione vengono sistematizzati come una somma completa di eventi storici e si comincia a difendere affannosamente la credibilità dei miti, opponendosi però a qualsiasi loro ulteriore vitae sviluppo naturali, quando cioè il sentimento del mito si estingue, sostituito dalla pretesa della religione alla fondatezza storica.

Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)

I.

Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.

Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l’impulso alla verità: giacché noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti.

Perfino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l’immagine che ne è ricavata non è necessario; quando però la stessa immagine è ricavata milioni di volte e trasmessa per molte generazioni, finendo con l’apparire sempre a tutti gli uomini come lo stesso esito d’uno stesso principio, allora finisce per acquistare per tutti lo stesso significato, quasi che fosse l’unica immagine necessaria e quasi che quel rapporto tra l’originario stimolo nervoso e l’immagine indotta sia uno stretto rapporto di causalità; così come un sogno, che si ripetesse eternamente, sarebbe senz’altro sentito e giudicato come realtà. Ma l’indurimento e l’irrigidimento di una metafora non accreditano per niente la necessarietà e l’inconfutabile giustezza di questa metafora.



David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore (Considerazioni inattuali I (1873)

2.

Si vive comunque nella fiducia di possedere una vera cultura: e l'enorme contrasto fra questa fiducia soddisfatta, anzi trionfale, e un'evidente manchevolezza sembra sia percepito solo da pochissime, rarissime persone. Infatti tutti coloro che concordano con l'opinione pubblica, si sono bendati gli occhi e tappate le orecchie quel contrasto non deve esistere. Come è possibile ciò? Quale forza è tanto potente da prescrivere un simile «non deve»?

Ora, se la vera cultura presuppone comunque un'unità di stile, e se persino una cultura cattiva e degenerata non può pensarsi senza quella molteplicità che confluisca nell'armonia di un unico stile, la confusione insita in quell'illusione del filisteo colto può ben derivare dal fatto che egli dappertutto ritrova l'uniforme impronta di se stesso, e che da questa impronta uniforme di tutte le «persone di cultura» deduce un'unità di stile nell'educazione tedesca, insomma una cultura. Attorno a sé egli scorge esigenze tutte uguali e opinioni simili; ovunque vada, subito lo avvolge il vincolo di una tacita convenzione su molte cose, specialmente in questioni di religione e d'arte: questa imponente omogeneità, questo tutti unisono non comandato eppure subito prorompente, lo induce a credere che qui operi una cultura.

Ma il filisteismo sistematico e reso dominante non è, per il fatto di avere un sistema, ancora cultura, e neppure cattiva cultura, bensì sempre e soltanto il contrario di essa, ossia barbarie durevolmente fondata. Infatti tutta quell'unità di impronta, che così regolarmente ci salta agli occhi in ogni persona colta della Germania di oggi, diviene tale solo per la consapevole o inconsapevole esclusione e negazione di tutte le forme ed esigenze artisticamente produttive di un vero stile. Nel cervello del filisteo colto dev'essersi prodotto uno sciagurato travisamento: egli considera cultura proprio ciò che ne è la negazione, e poiché procede con coerenza, ottiene alla fine un gruppo compatto di tali negazioni, un sistema di non-cultura, alla quale potrebbe concedersi persino una certa «unità di stile», se ancora avesse un senso parlare di una barbarie assunta a stile.

Se lo si lascia libero di decidere tra un'azione conforme a uno stile e una contraria, egli sceglie sempre la seconda, e poiché sceglie sempre questa, in tutte le sue azioni resta un'impronta negativamente omogenea. Proprio di qui egli riconosce il carattere di ciò che ha patentato come «cultura tedesca»: è dalla non concordanza con questa impronta che egli misura ciò che gli riesce ostile e fastidioso. In tal caso il filisteo colto si limita a respingere, negare, celare, tapparsi le orecchie, non guardare, è un essere negativo, anche nel suo odio e nella sua ostilità. Ma egli nessuno odia più di colui che lo tratta da filisteo e gli dice ciò che è: l'ostacolo di tutti i forti e i produttivi, il labirinto di tutti i dubbiosi e gli sperduti, la palude di tutti gli sfiniti, la catena al piede di tutti coloro che corrono verso alti scopi, la nebbia velenosa per tutti i nuovi germogli, l'arido deserto di sabbia per lo spirito tedesco che cerca assetato nuova vita. Infatti cerca, questo spirito tedesco, e voi lo odiate perché cerca, e non vuol credervi quando sostenete di aver già trovato ciò che esso cerca.

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

3.

In secondo luogo la storia appartiene a chi custodisce e venera — a chi fedele e amoroso si volge indietro per vedere il luogo dal quale viene, nel quale è divenuto; e con questa riverenza assolve verso la propria esistenza il suo debito di gratitudine. Coltivando ciò che permane delle antiche epoche con molta cura, cerca di mantenere le condizioni nelle quali è nato per coloro che dovranno nascere dopo di lui — e così serve la vita. Il possesso del patrimonio ancestrale muta di significato in una tale anima: infatti essa si lascia da quello padroneggiare. Ciò che è piccolo, limitato, fatiscente e decrepito acquista un suo proprio decoro e intangibilità quando l'anima dell'uomo antiquario, protettrice e venerante trasmigra in queste cose e vi si prepara un nido familiare. La storia della sua città diviene per lui la storia di se stesso; comprende le mura, la porta con le torri, l'ordinanza comunale, la festa popolare come un diario figurato della sua gioventù, trovando, in tutto questo, se stesso, la sua forza, la sua operosità, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e modi sgarbati. Dice a se stesso che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere poiché siamo ostinati, e non è possibile andare in pezzi nel giro d'una notte. Così con questo «noi» guarda oltre l'effimera e stravagante vita individuale e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe, della città. A volte saluta l'anima del suo popolo come la propria anima, superando secoli passati tenebrosi e sconcertanti; infiltrarsi col sentimento, presentire cose confuse, afferrare tracce quasi cancellate, comprendere con precisione e istintivamente il passato ancora tanto coperto di scritture, intendere rapidamente i palinsesti, anzi i polisesti — questi sono i suoi pregi e virtù.

Quando la sensibilità di un popolo si indurisce a tal punto, quando la storia si umilia davanti alla vita passata tanto da scalzare la sopravvivenza e persino la vita superiore, quando il senso storico non conserva più la vita, ma la mummifica, allora l'albero muore in modo innaturale, pian piano seccandosi dalla cima fino alla radice — e alla fine la radice stessa muore. La storia antiquaria degenera nel preciso momento in cui la vita fresca del presente non più la rianima e l'esalta. A questo punto la riverenza si inaridisce, ma anche senza di essa l'abitudine colta seguita ad esistere e ruota intorno al proprio centro con egoistico autocompiacimento. Si nota allora il disgustoso spettacolo di una cieca furia collezionistica, di un infaticabile accumulo di tutto ciò che è esistito una volta. L'uomo si avvolge in un'aria carica di tanfo; riesce con la maniera antiquaria a degradare anche un'attitudine più significativa, un bisogno più nobile, in un'insaziabile curiosità o meglio in una bramosia onnivora del vecchio; spesso sprofonda così in basso, che alla fine è soddisfatto di qualunque cibo e divora volentieri perfino la polvere di quisquilie bibliografiche.

4.

Si genera così l'abitudine a non considerare più seriamente le cose reali, si genera la «personalità debole», stando alla quale il reale, l'esistente procura solo una debole impressione; infine si diventa apparentemente sempre più indolenti e accomodanti e il rovinoso abisso tra contenuto e forma si allarga fino a ottundere la sensibilità per la barbarie, purché la memoria sia sempre di nuovo stimolata, purché vi confluiscano sempre nuove cose che meritino di essere conosciute, che possano essere conservate con garbo nei cassetti di quella memoria. La cultura di un popolo in quanto antitesi di quella di barbarie, una volta è stata definita, con un certo diritto, a mio avviso, come unità di stile artistico in tutte le espressioni vitali di un popolo; questa definizione non deve essere fraintesa, come se si trattasse dell'antitesi tra barbarie e bello stile; il popolo, al quale si attribuisce una cultura, deve soltanto, in ogni realtà, essere qualcosa di vivamente unico, e non scindersi in modo così miserevole in esterno e interno, in contenuto e forma. Chi vuol fondare e promuovere la cultura di un popolo, miri a fondare e a promuovere questa superiore unità e si adoperi per l'annientamento dell'erudizione moderna a vantaggio di una vera cultura, osi meditare sul modo con cui la salute di un popolo, turbata dalla storia, possa essere ristabilita, su come esso possa ritrovare i suoi istinti e con ciò la sua lealtà.

5.

Comunque si direbbe che il compito sia di controllare la storia perché non ne scaturisca nulla se non delle storie appunto, ma nessun evento! — di evitare che attraverso di essa le personalità divengano «libere», ossia veraci con se stesse, veraci verso gli altri, o per meglio dire nella parola e nell'azione. Solo con questa veracità si sveleranno le angustie, l'intima miseria dell'uomo moderno, e sostituendo quella convenzione e quella mascherata timorosamente nascoste, subentreranno, come vere ausiliatrici, arte e religione, per impiantare insieme una cultura che soddisfi vere necessità e che non insegni soltanto, come la cultura generale moderna, a mentire a se stessi su questi bisogni e a divenire menzogne ambulanti.

8.

Io direi dunque: la storia inculca sempre: «C'era una volta», e la morale: «Non dovete» oppure «non avreste dovuto». Così la storia diventa il compendio dell'effettiva immoralità. Quanto gravemente sbaglierebbe colui che vedesse la storia allo stesso tempo come giustiziera di questa effettiva immoralità! Il fatto che un Raffaello dovette morire a trentasei anni, ad esempio, offende la morale: un tale essere non dovrebbe morire. Se ora volete venire in aiuto della storia, come apologeti del dato di fatto, direte: egli ha espresso tutto ciò che era in lui; se fosse vissuto più a lungo avrebbe potuto creare il bello sempre soltanto come un bello uguale, non come un bello nuovo e così via. Così siete gli avvocati del diavolo, per il fatto cioè, che fate del successo, del fatto, il vostro idolo: mentre il fatto è sempre sciocco e in tutti i tempi è apparso più simile ad un vitello che ad un Dio. Come apologeti della storia, inoltre, siete ispirati dall'ignoranza: poiché soltanto per il fatto che ignorate cosa sia una tale natura naturans come Raffaello, non vi infervora sapere che essa fu e non sarà più. Recentemente qualcuno ci ha voluto ammaestrare su Goethe raccontandoci che a ottantadue anni la sua vita era esaurita: e tuttavia io baratterei volentieri per un paio d'anni della vita «esaurita» di Goethe interi vagoni di carriere vitali fresche e modernissime, per prendere ancora parte a conversazioni come quelle che Goethe aveva con Eckermann, e per rimanere preservato, in questo modo, da tutti gli addottrinamenti attuali impartiti dai legionari dell'istante. Quanti pochi viventi, hanno diritto a vivere di fronte a tali morti! Il fatto che i molti vivano e che quei pochi non vivano più non è altro che una brutale verità, vale a dire una incorreggibile stupidaggine, un grossolano «è proprio così» di fronte alla morale «non dovrebbe essere così».

9.

Accanto all'orgoglio dell'uomo moderno sta la sua ironia su se stesso, la sua consapevolezza di dover vivere in uno stato d'animo storicizzante e per così dire crepuscolare, la sua paura di non poter assolutamente in futuro salvare più nulla delle sue speranze e forze giovanili. Qua e là si va ancora più avanti, fino al cinismo e si giustifica il corso della storia, anzi tutto lo sviluppo del mondo, per la specifica comodità dell'uomo moderno, secondo il canone cinico: proprio così dovevano andare le cose, come vanno ora, l'uomo doveva diventare così come è ora e non diversamente e contro questo «deve» non si può ribellare nessuno. Nel benessere di un simile cinismo si rifugia colui che non può vivere nell'ironia;

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

1.

Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde.

Ma cosa costringe il singolo a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggioranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata.

3.

La «verità» però di cui i nostri professori tanto parlano, in realtà ci appare come un qualcosa senza grandi pretese, da cui non c'è da aspettarsi né disordini né cose straordinarie: una creatura tranquilla e benevola che si affanna a rassicurare tutti i poteri esistenti che nessuno, a causa sua, avrà dei fastidi; in fondo non è che «pura scienza».

4.

Ora quasi tutto sulla terra è determinato dalle forze più rozze e peggiori, dall'egoismo degli affaristi e dai tiranni militari. Lo Stato, nelle mani di questi ultimi così come l'egoismo degli affaristi fa certo il tentativo di riorganizzare tutto di sua iniziativa ed essere, quindi, vincolo e pressione per tutte quelle forze ostili: desidera, cioè, che gli uomini abbiano verso di lui la stessa idolatria che prima riservavano alla Chiesa. Ma con quale successo? E’ ancora da vedersi; ancora ci troviamo in ogni caso nella corrente trascinatrice di ghiacci del Medioevo; è cominciato il disgelo e un violento movimento devastatore ha avuto inizio. Lastre di ghiaccio precipitano su lastre di ghiaccio, tutte le rive sono inondate, minacciate.

Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV, 1876)

6.

Una volta si guardavano dall'alto in basso, con sincero senso di superiorità, coloro che trafficavano col denaro, anche se si aveva bisogno di loro; si ammetteva che ogni società doveva avere i suoi intestini. Oggi costoro sono la potenza dominante nell'anima dell'umanità moderna, come la parte più vorace di essa. Una volta da nulla si metteva più in guardia che dal prender troppo sul serio il giorno, l'istante, e si consigliava il nil admirari e la cura delle cose eterne: oggi nell'anima moderna è rimasta una sola specie di serietà, quella per le notizie recate dai giornali o dal telegrafo. Sfruttare l'attimo e, per ricavarne un vantaggio, giudicarlo quanto più in fretta si può!

Ma volgare quest'epoca lo è: lo si può vedere già adesso, perché onora quel che nobili epoche precedenti disprezzavano; ma se si è appropriata anche di tutto il tesoro della saggezza e dell'arte passate e incede avvolta in questo ricchissimo fra tutti i mantelli, essa mostra un inquietante orgoglio per la propria volgarità perché non usa quel mantello per riscaldarsi, ma soltanto per creare illusioni su se stessa. La necessità di simulare e di nascondersi le appare più urgente di quella di non morire assiderata.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

66.

Passibile di punizione, mai punito. - Il nostro delitto nei confronti dei delinquenti consiste nel fatto che li trattiamo da mascalzoni.

67.

Sancta simplicitas della virtù. - Ogni virtù ha i suoi privilegi: ad esempio questo, di portare al rogo di un condannato il proprio fascetto di legna.

70.

Esecuzione. - Come avviene che ogni esecuzione ci offenda più di un assassinio? E’ per la freddezza dei giudici, per i penosi preparativi, per l’idea che in essa un uomo venga usato per incuter paura agli altri. Infatti la colpa, seppure ve ne fosse una, non viene punita: essa è negli educatori, nei genitori, nell’ambiente, in noi, non nell’assassino - intendo le circostanze che lo hanno portato a uccidere.

89.

Il costume e la sua vittima. - L'origine del costume risale a due pensieri: «la comunità val più dell'individuo» e «è preferibile un vantaggio durevole a uno passeggero»; da cui si deduce che il vantaggio durevole della comunità è senz'altro da anteporre a quello del singolo, specialmente al suo benessere momentaneo, ma anche al suo vantaggio durevole e persino alla sua sopravvivenza. Ora, sia che l'individuo soffra di una istituzione che giova alla comunità, sia che, a causa di essa, intristisca e vada in rovina il costume dev'essere mantenuto e la vittima sacrificata. Ma tale intendimento nasce solo in coloro che non sono la vittima - questa infatti afferma nel suo caso che il singolo può valere più di molti, e anche che il piacere del momento, un istante di paradiso son forse da apprezzare di più che un piatto susseguirsi di stati senza dolore o di benessere. Ma la filosofia della vittima sacrificale fa sentire la sua voce sempre troppo tardi: e così si resta al costume e alla moralità: la quale è appunto solo il sentimento di tutto l'insieme dei costumi tra i quali si vive e si è stati educati - educati, invero, non come individui ma come membri di un tutto, come numeri di una maggioranza. - Così accade di continuo che il singolo per mezzo della sua moralità si metta in minoranza.

90.

Il bene e la buona coscienza. - Pensate forse che tutte le cose buone abbiano avuto in ogni tempo una buona coscienza? - La scienza, cioè, senza dubbio qualcosa di molto buono, si è affacciata nel mondo senza questa coscienza e priva affatto di ogni pathos, anzi aggirandosi segretamente per vie traverse, con il viso velato o mascherato, come una malfattrice, e sentendosi sempre come minimo una contrabbandiera. La buona coscienza ha la cattiva coscienza come avvio - non come contrario: giacché ogni cosa buona una volta è stata nuova, e di conseguenza insolita, contro il costume, immorale, e come un verme ha roso il cuore del suo fortunato scopritore.

91.

Il successo santifica le intenzioni. - Non si tema di seguire la via che conduce a una virtù, anche se ci si rende chiaramente conto che i motivi che spingono a questo non sono altro che egoismo, ossia interesse, piacere personale, timore, e considerazioni di salute, fama o gloria. Questi motivi vengono detti bassi ed egoistici: bene, ma se ci stimolano a una virtù, come per esempio alla rinuncia, alla fedeltà a un dovere, all'ordine, all'economia, alla discrezione e alla moderazione, li si ascolti, quali che siano i loro attributi! Se infatti si giunge a ciò cui essi chiamano, la virtù conquistata nobiliterà sempre i motivi lontani del nostro agire grazie all'aria pura che ci fa respirare e al benessere spirituale che comunica, e in seguito noi compiremo le stesse azioni anche senza quei grossolani motivi che prima ci indussero a compierle. - L'educazione deve pertanto costringere il più possibile alla virtù, conformemente alla natura dell'educando: la virtù stessa, come sole ed estate dell'anima, potrà poi compier la propria opera aggiungendo maturità e dolcezza.

93.

Impressione di natura del pio e dell'empio. - Un uomo assai pio deve essere per noi oggetto di venerazione: ma altrettanto deve esserlo un uomo sinceramente e totalmente empio. Se con uomini della seconda specie si è come in prossimità dell'alta montagna, dove hanno origine i fiumi più possenti, con i pii si è come tra alberi pieni di linfa, ombrosi e tranquilli.

96.

Costume e costumato. - Essere morale, costumato, etico, significa portare obbedienza a una legge o a una tradizione di antica data. Che ci si sottometta a fatica o volentieri, non importa, basta che lo si faccia. «Buono» è detto chi, come per sua natura, dopo lunga ereditaria tradizione, dunque facilmente e volentieri, fa ciò che è conforme al costume quale esso di volta in volta è (ad esempio vendette, se il compier vendetta fa parte del costume, come era presso i greci antichi). Vien detto buono perché è buono «a qualche cosa»; ma dato che, pur nel mutamento dei costumi, la benevolenza, la compassione e cose simili sono sempre state considerate come «buone a qualcosa», oggi si definisce specialmente «buono» chi è benevolo e caritatevole.

Cattivo significa essere «non costumato» (immorale), esercitare il malcostume, ribellarsi alla tradizione, sia essa ragionevole o insensata; ma in ogni legge morale di ogni tempo recar danno al prossimo è stato considerato come particolarmente dannoso, cosicché oggi, alla parola «cattivo», noi pensiamo soprattutto al volontario nocumento del prossimo.

L’«egoistico» e l’«altruistico» non sono la contrapposizione fondamentale che ha portato l’uomo a distinguere tra morale e immorale, tra bene e male, bensì l’esser legati a una tradizione, a una legge, e il liberarsene.

Come la tradizione sia nata, qui è indifferente; essa ad ogni modo è nata indipendentemente da bene e male o da qualsiasi altro imperativo categorico, soprattutto bensì allo scopo di conservare una comunità, un popolo; ogni usanza superstiziosa nata in base alla falsa interpretazione di un avvenimento genera una tradizione, seguire la quale è morale; liberarsi di essa è quindi pericoloso e dannoso per la collettività ancor più che per l’individuo (in quanto la divinità si vendica dell’empietà, e di ogni violazione ai suoi privilegi, sulla collettività, e solo in tal senso anche sull’individuo).

Ora, ogni tradizione diventa vieppiù rispettabile quanto più lontana è la sua origine, quanto più questa viene dimenticata; il rispetto tributatole si accresce di generazione in generazione, e alla fine la tradizione diventa sacra e suscita venerazione; e così in ogni caso, la morale della pietà religiosa è una morale molto più antica di quella che esige azioni altruistiche.

97.

Il piacere nel costume. - Un tipo importante di piacere, e di conseguenza di fonte di moralità, nasce dall’abitudine. Si fa quanto è abituale più facilmente, meglio, dunque più volentieri; vi si prova piacere, e si sa per esperienza che l’abituale è collaudato, dunque è utile; un costume con il quale è possibile vivere è considerato salutare, in contrapposizione a ogni esperimento nuovo e non ancora messo alla prova. Il costume è perciò l’unione del piacevole e dell’utile, e per giunta non esige riflessione. Non appena l’uomo può esercitare la costrizione, l’adopera per introdurre e imporre i suoi costumi, che per lui sono una collaudata saggezza di vita. Così pure, una comunità di individui costringe ogni singolo componente allo stesso costume.

Qui sta l’errore del sillogismo: per il fatto di trovarsi bene in un determinato costume, o almeno perché grazie ad esso si fa valere la propria esistenza, questo costume è necessario, in quanto considerato l’unica possibilità di trovarsi bene; unicamente da esso sembra scaturire il benessere della vita. Questa concezione dell’abituale come condizione dell’esistenza viene applicata sin nei più piccoli particolari del costume: poiché, nei popoli e nelle culture inferiori, la coscienza della reale causalità è molto scarsa, si guarda con paura superstiziosa a che tutto segua sempre lo stesso corso; persino laddove il costume è difficile, duro, pesante, esso viene conservato a causa della sua apparentemente altissima utilità. Si ignora che anche in costumi diversi può sussistere lo stesso grado di benessere, e che anzi se ne possono ricavare persino gradi superiori. Invece ben si nota come tutti i costumi, anche i più rigidi, col tempo diventano più gradevoli e miti, e come anche il costume di vita più severo può diventare un’abitudine, e di conseguenza un piacere.

Volume II

28.

L'arbitrio nell'assegnazione delle pene. - La maggior parte dei malfattori perviene alla punizione come le donne arrivano ad avere figli. Per decine e centinaia di volte hanno fatto la stessa cosa senza subire conseguenze negative: improvvisamente arriva una scoperta e dietro a questa la punizione. L'abitudine dovrebbe però far apparire più scusabile la colpa per la quale il reo viene punito: in effetti è nata una inclinazione alla quale è più difficile resistere. Invece se esiste il sospetto di reato abituale, egli viene punito più duramente, l'abitudine vien fatta valere come motivo contro qualsiasi attenuante. Al contrario: una vita esemplare, con la quale il reato contrasta tanto più terribilmente, dovrebbe far apparire accentuata la colpevolezza! Ma essa suole invece mitigare la pena.

Quindi tutto vien misurato non secondo il malfattore, ma secondo la società, il suo danno e il suo pericolo - la precedente utilità di un individuo viene fatta valere contro il danno da lui causato per una sola volta; danni precedenti vengono aggiunti a quelli scoperti successivamente, e a seguito di ciò viene comminata la massima pena. Ma se in tal modo si punisce o si premia il passato di un individuo (ciò nel primo caso, dove la minor punizione è un premio), allora si dovrebbe risalire ancor più nel passato e punire o premiare le cause di tale o tal altro passato, voglio dire genitori, educatori, società eccetera: in molti casi si troverebbero allora i giudici in qualche modo implicati nella colpa.

E' arbitrario attenersi solamente al malfattore, quando si punisce il passato; nel caso non si volesse ammettere l'assoluta scusabilità di ogni colpa, ci si dovrebbe attenere al singolo fatto e non guardare più indietro: ossia isolare la colpa e non collegarla affatto al passato - altrimenti si peccherebbe contro la logica. Traete piuttosto, voi della libera volontà, la necessaria conclusione dalla vostra teoria della «libertà del volere» e decretate coraggiosamente che «nessuna azione ha un passato».

81.

La giustizia del mondo. - E' possibile sconvolgere la giustizia del mondo - con la teoria della totale irresponsabilità e innocenza di ognuno: ed è già stato fatto un tentativo nella stessa direzione proprio in base alla teoria opposta, della totale responsabilità e colpevolezza di ciascuno. Fu il fondatore del cristianesimo a voler abolire la giustizia terrena e cancellare dal mondo il giudizio e la punizione. Egli infatti intendeva ogni colpa come «peccato», ossia come offesa nei confronti di Dio e non come offesa nei confronti del mondo; d'altra parte riteneva tutti in larghissima misura e quasi sotto ogni rispetto come peccatori. Ma i colpevoli non debbono essere giudici dei loro pari: così sentenziò la sua equità. Tutti i giudici della giustizia terrena erano dunque ai suoi occhi colpevoli quanto i condannati, e la loro aria di innocenza gli appariva ipocrita e farisaica. Inoltre egli guardava ai motivi delle azioni e non agli esiti, e riteneva che solo uno avesse l'acutezza necessaria per giudicare sui motivi: lui stesso (o, come si esprimeva: Dio).

89.

Il costume e la sua vittima. - L'origine del costume risale a due pensieri: «la comunità val più dell'individuo» e «è preferibile un vantaggio durevole a uno passeggero»; da cui si deduce che il vantaggio durevole della comunità è senz'altro da anteporre a quello del singolo, specialmente al suo benessere momentaneo, ma anche al suo vantaggio durevole e persino alla sua sopravvivenza. Ora, sia che l'individuo soffra di una istituzione che giova alla comunità, sia che, a causa di essa, intristisca e vada in rovina il costume dev'essere mantenuto e la vittima sacrificata. Ma tale intendimento nasce solo in coloro che non sono la vittima - questa infatti afferma nel suo caso che il singolo può valere più di molti, e anche che il piacere del momento, un istante di paradiso son forse da apprezzare di più che un piatto susseguirsi di stati senza dolore o di benessere. Ma la filosofia della vittima sacrificale fa sentire la sua voce sempre troppo tardi: e così si resta al costume e alla moralità: la quale è appunto solo il sentimento di tutto l'insieme dei costumi tra i quali si vive e si è stati educati - educati, invero, non come individui ma come membri di un tutto, come numeri di una maggioranza. - Così accade di continuo che il singolo per mezzo della sua moralità si metta in minoranza.

211.

Spiriti nomadi. - Chi di noi oserebbe definirsi uno spirito libero, se non volesse a suo modo rendere omaggio agli uomini ai quali questo nome viene affibbiato come un insulto, prendendo sulle proprie spalle parte del peso del pubblico sfavore e oltraggio? ben potremmo però in tutta serietà (e senza quella sfida superba e generosa) definirci «spiriti nomadi», giacché sentiamo lo slancio verso la libertà come l'impulso più forte del nostro spirito e, contrariamente agli intelletti vincolati e saldamente radicati, vediamo il nostro ideale quasi in un nomadismo spirituale - per far uso di un'espressione modesta e quasi dispregiativa.

233.

Per chi disprezza l'umanità-gregge». - Chi considera gli uomini come un gregge e ne fugge il più velocemente possibile, sarà certamente raggiunto e preso a cornate.

237.

Il viandante sui monti a se stesso. - Ci sono segni sicuri del fatto che sei andato più avanti e più in alto: intorno a te c'è più spazio e la prospettiva è più ampia di prima, ti investe un'aria più fresca, ma anche più mite - infatti hai disimparato la stoltezza di scambiare mitezza e calore - il tuo passo si è fatto più vivace e fermo, coraggio e avvedutezza sono cresciuti insieme: - per tutti questi motivi la tua strada potrà ora essere più solitaria, e in ogni caso più pericolosa di prima, benché, certo, non nella misura in cui credono coloro che ti vedono salire viandante dalla valle nebbiosa verso il monte.

268.

Gioia per il ribelle. - Il buon educatore conosce casi in cui è orgoglioso che il suo allievo rimanga fedele a se stesso contro di lui: quando cioè il giovane non deve capire l'uomo o lo capirebbe a proprio danno.

Aurora (1881)

3.

Sino ad oggi si è meditato in modo pessimo sul bene e sul male: è sempre stata una questione troppo pericolosa. La coscienza, la buona fama, l'inferno, in certe circostanze perfino la polizia non hanno permesso e non permettono alcuna disinvoltura; in presenza della morale appunto, come al cospetto di ogni autorità, non si deve parlare e tanto meno pensare: qui - si ubbidisce!

4.

Anche a noi ancora parla un «tu devi», che anche noi obbediamo ancora ad una severa legge posta sopra di noi, - e questa è l'ultima morale, pure per noi ancora udibile, che anche noi sappiamo ancora vivere: qui, se mai v'è un tale luogo, anche noi siamo uomini di coscienza: nel fatto cioè che non vogliamo tornare di nuovo indietro verso ciò che noi consideriamo sopravvissuto e decrepito, verso un qualche cosa di «non degno di fede», si chiami esso Dio, virtù, verità, giustizia o amore del prossimo; nel fatto cioè che non ci permettiamo alcun ponte di menzogna verso antichi ideali; e che siamo radicalmente ostili a tutto ciò che in noi vorrebbe mediare e produrre mescolanze; ostili ad ogni eventuale tipo di fede e di cristianità; ostili al mezzo e mezzo di ogni romanticismo e di ogni patriottismo; ostili anche a quella voluttuosità e mancanza di coscienza da artisti, che ci vorrebbero convincere ad adorare, quando noi non crediamo più - poiché noi siamo artisti -, ostili, infine all'intero femminismo europeo (o idealismo, se si preferisce), che eternamente «trae in alto» e eternamente proprio perciò «tira in basso»: solo come uomini di questa coscienza noi ci sentiamo ancora imparentati alla millenaria probità e religiosità tedesca, seppure come suoi ultimi e assai problematici discendenti, noi immoralisti, noi atei di oggi, anzi addirittura, in un certo senso, come suoi eredi, come esecutori della sua più intima volontà, di una volontà pessimistica, che, come si è detto, non teme di negare se stessa, perché essa nega con piacere! In noi si compie, posto che vogliate una formula - l'autoannullamento della morale. -

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9.

Concetto dell'eticità dei costumi. - In rapporto al modo di vivere dell'umanità per interi millenni, noi uomini d'oggi viviamo in un'epoca assai immorale: la potenza dei costumi si è sorprendentemente indebolita e il senso dell'eticità si è così affinato ed elevato così in alto, che può ben esser definito come volatilizzato. Perciò per noi, per i nati troppo tardi, le idee fondamentali sulla genesi della morale divengono qualcosa di difficile; anche quando le abbiamo trovate, ci rimangono attaccate alla lingua e non vogliono uscir fuori: perché suonano così grossolane! O perché sembrano diffamare l'eticità! Così, per esempio, pure il principio fondamentale: eticità non è nient'altro (e quindi niente più!), che obbedienza ai costumi, di qualunque tipo possano essere; i costumi però sono il modo tradizionale di agire e di valutare.

In cose ove non comanda alcuna tradizione, non v'è alcuna eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccola diviene la sfera dell'eticità. L'uomo libero è privo di etica, perché in tutto vuol dipendere da sé e non da una tradizione: in tutti gli stati primordiali dell'umanità il significato di «cattivo» corrisponde a quello di «individuale», «libero», «arbitrario», «insolito», «imprevisto», «incalcolabile». Sempre si misura secondo il criterio di tali stati: se viene compiuta un'azione, non perché è stata comandata dalla tradizione, ma per altri motivi (ad esempio per utilità individuale), anzi perfino per quegli stessi motivi che una volta fondarono tale tradizione, allora viene definita come immorale e come tale è avvertita perfino dal suo autore: infatti essa non è stata compiuta per obbedienza alla tradizione.

Che cos'è la tradizione? Un'autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda. - E in cosa si distingue questo sentimento di fronte alla tradizione, dal sentimento della paura in generale? Esso è la paura di un intelletto superiore che comanda, di una potenza incomprensibile e indeterminata, di qualcosa di più che personale, - v'è superstizione in questa paura.

- Originariamente l'intera educazione e cura della salute, il matrimonio, l'arte medica, l'agricoltura, la guerra, il parlare e il tacere, i rapporti tra gli uomini e quelli con gli dèi appartenevano alla sfera dell'eticità: essa pretendeva che si osservassero delle prescrizioni, senza pensare a sé come individui. In origine quindi tutto era costume, e chi intendeva elevarsi al di sopra di esso, doveva diventare legislatore e stregone, una specie di semidio: cioè doveva creare dei costumi, - cosa temibile e pericolosa per la vita!

- Chi è l'uomo più morale? In primo luogo, chi adempie la legge il più spesso possibile: chi quindi, come il brahamano, ne porta la coscienza ovunque ed in ogni piccola frazione temporale, tanto che continuamente s'ingegna di trovarsi nell'opportunità di adempiere la legge. In secondo luogo, chi la adempie anche nei casi più difficili. Il più morale è colui che sacrifica di più al costume: ma quali sono i sacrifici più grandi? Dalla risposta a questa domanda derivano molte differenti morali; ma la differenza più importante rimane certo quella che separa la morale dell'adempimento più frequente da quella dell'adempimento più difficile. Non ci si inganni sul motivo di quella morale che come segno di eticità esige la più difficile osservanza del costume! Il superamento di sé non viene richiesto per le utili conseguenze che esso ha per l'individuo, ma perché il costume, la tradizione appaiono dominanti, nonostante ogni opposta voglia e vantaggio individuali: il singolo si deve sacrificare - questo esige l'eticità del costume.

- Quei moralisti invece, che, come i seguaci delle orme socratiche, raccomandano all'individuo la morale dell'autocontrollo e della temperanza come il suo più reale vantaggio, come la sua più personale chiave della felicità, costituiscono l'eccezione - e se a noi appare diversamente, è perché siamo stati educati sotto il suo influsso: tutti questi percorrono una nuova strada nella massima disapprovazione di tutti i rappresentanti dell'eticità del costume, - essi si separano dalla comunità in quanto immorali e sono, nel senso più profondo, malvagi. Così appariva a un virtuoso romano di vecchio stampo ogni cristiano, che «per prima cosa mirava alla propria beatitudine», - come malvagio.

Ovunque ci sia una comunità e quindi un'eticità del costume, domina anche il pensiero che il castigo per la offesa al costume ricada soprattutto sulla comunità: quel castigo sovrannaturale, la cui manifestazione e i cui limiti sono così difficili da comprendere e vengono sondati con tanta superstiziosa angoscia. La comunità può obbligare il singolo a reintegrare a favore del singolo o della comunità il danno Più immediato conseguente alla sua azione; essa può prendersi anche una specie di vendetta sul singolo, per il fatto che a causa sua, come presunta conseguenza della sua azione, nubi e temporali dell'ira divina si sono addensati sulla comunità, - tuttavia essa sentirà la colpa del singolo soprattutto come propria colpa e ne porterà il castigo come il proprio castigo -: «i costumi sono divenuti più fiacchi» - così si lamenta l'anima di ciascuno - «se tali azioni sono possibili».

Ogni azione individuale, ogni individuale modo di pensare provoca un brivido; non è possibile calcolare cosa devono aver sofferto nell'intero decorso della storia gli spiriti più rari, più raffinati, più originali per il fatto di esser sentiti come malvagi e pericolosi, anzi per il fatto che essi stessi si sentirono tali.

L'originalità di ogni tipo, sotto il dominio dell'eticità dei costumi, ha acquistato una cattiva coscienza; fino a questo momento il cielo dei migliori ne è stato ancor più oscurato di quanto avrebbe dovuto essere.

11.

Morale popolare e medicina popolare. - Continuamente e da parte di ciascuno si lavora alla morale dominante in una comunità: i più aggiungono esempi sopra esempi circa il preteso rapporto di causa ed effetto, di colpa e castigo, lo confermano come ben fondato ed accrescono la credenza in esso; alcuni fanno nuove osservazioni su azioni e conseguenze e ne traggono conclusioni e leggi; i meno si urtano per questo e per quello e lasciano indebolire la credenza in questi punti. - Tutti però sono eguali fra di loro nel carattere del tutto rozzo e antiscientifico della loro attività; sia che si tratti di esempi, di osservazioni o di ripulse, sia che si tratti della dimostrazione, del rafforzamento, dell'espressione o della confutazione di una legge, - tutto ciò è materiale senza valore e forma senza valore, come il materiale e la forma di ogni medicina popolare. Medicina popolare e morale popolare appartengono allo stesso genere e non dovrebbero essere più valutate in modo differenziato, come invece tuttora accade: entrambe sono le più pericolose pseudoscienze.

14.

Significato della follia nella storia della moralità. - Se nonostante quella spaventosa oppressione dell'«eticità dei costumi», sotto la quale sono vissute tutte le comunità umane per molti millenni prima del nostro computo del tempo e ancora in essa in tutto e per tutto fino ad oggi (noi stessi abitiamo nel piccolo mondo dell'eccezione e, per così dire, nella zona cattiva): - se, dico, nonostante questo, sempre di nuovo hanno fatto irruzione pensieri, valutazioni e impulsi nuovi e devianti, questo avvenne con una compagnia da far venire i brividi: quasi ovunque è la follia che apre la strada al nuovo pensiero, che infrange il magico potere di una venerata consuetudine e superstizione.

Comprendete voi per quale motivo dovette essere la follia? Qualcosa di così terribile e imprevedibile nella voce e nei gesti come i demonici umori del tempo e del mare e perciò degno di un timore e di un'osservazione analoghi? Qualcosa che portava il segno di una completa involontarietà così visibilmente come le convulsioni e la bava dell'epilettico, qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una divinità? Qualcosa che conferiva al portatore di un nuovo pensiero persino timore e tremore di sé, senza più rimorsi di coscienza, spingendolo a divenire il profeta e il martire di quello?

- Mentre oggi ci viene sempre di nuovo fatto capire che al genio, invece di un granello di sale, è dato un granello della radice della follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque vi sia follia, c'è anche un granello di genio e di saggezza, - qualcosa di «divino», come ci si sussurrava. O piuttosto: come con abbastanza forza si andava esprimendo. «Grazie alla follia i beni più grandi sono venuti alla Grecia», diceva Platone insieme a tutta l'antica umanità.

Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori, che erano irresistibilmente attratti a spezzare il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi, non restò nient'altro, se essi non erano effettivamente folli, che diventarlo o mostrarsi tali - e ciò invero vale per gli innovatori in tutti i campi, non soltanto per quelli delle istituzioni sacerdotali o politiche: - perfino l'innovatore del metro poetico doveva accreditarsi attraverso la follia.

16.

Principio primo della civiltà. Presso i popoli primitivi esiste un genere di costumi, la cui mira pare essere il costume in generale: minuziose e in fondo superflue prescrizioni.., che però mantengono continuamente nella coscienza la persistente vicinanza del costume, l'ininterrotta costrizione a praticano; e questo per rafforzare il grande principio con cui ha inizio la civiltà: qualsiasi costume è migliore di nessun costume.

18.

La morale del soffrire volontario. - Qual è il massimo godimento per uomini che si trovano nello stato di guerra di quella piccola comunità sempre minacciata, ove domina l'eticità più rigorosa? Per anime, dunque, piene di forza, vendicative, astiose, maligne, sospettose, pronte alle cose più orribili e indurite dalla privazione e dall'eticità? Il godimento della crudeltà: così come, in tali situazioni, tra le virtù di un'anima siffatta viene anche annoverato l'essere inventiva e insaziabile nella crudeltà. Nell'agire del crudele la comunità si rallegra e per una volta allontana da sé la tetraggine della continua angoscia e cautela. La crudeltà appartiene alla più antica gioia festiva dell'umanità. Di conseguenza si pensa che anche gli dèi siano rallegrati e disposti alla festa dallo spettacolo della crudeltà che viene loro offerto, - e così nel mondo si insinua l'idea che il volontario soffrire e il martirio autonomamente scelto abbiano un senso e un valore.

A poco a poco il costume dà forma nella comunità ad una prassi commisurata a questa idea: da ora in poi si diviene diffidenti verso ogni benessere eccessivo e più fiduciosi nei confronti di ogni situazione di grave sofferenza; ci si dice: gli dèi possono ben rivolgere a noi i loro sguardi inclementi a causa della nostra felicità e clementi a cagione del nostro soffrire, - non certo, casomai, compassionevoli! Infatti la compassione è considerata spregevole e indegna per un'anima forte e temibile; - ma clementi, perché la sofferenza li diletta e li mette di buon umore: il crudele gode infatti del supremo solletico che il sentimento di potenza procura. Così la virtù del frequente soffrire, della privazione, della dura condotta di vita, della crudele mortificazione entra nel concetto di «uomo più ligio al costume» nella comunità, - non, per ripeterlo di nuovo, come strumento di disciplina, di autodominio, del desiderio di una felicità individuale, - ma come una virtù che procura alla comunità una buona fama presso gli dèi cattivi e come un continuo sacrificio di conciliazione sull'altare esala verso di essi.

Tutti quei condottieri spirituali dei popoli che potevano smuovere qualcosa in quella melma pigra e feconda dei loro costumi, oltre alla follia avevano anche bisogno del martirio volontario per trovare la fede - e perlopiù e in primo luogo la fede in se stessi! Quanto più proprio il loro spirito batteva nuovi percorsi e di conseguenza veniva tormentato da rimorsi di coscienza e angosce, tanto più crudelmente essi infuriavano contro il proprio corpo, contro le proprie voglie e la propria salute, - come per offrire alla divinità un surrogato, semmai dovesse sentirsi amareggiata a causa delle consuetudini abbandonate e combattute e delle nuove mète.

Non si creda con troppa fretta che noi adesso ci si sia completamente liberati da una tale logica del sentimento! Le anime più eroiche possono interrogarsi al riguardo.

Ogni più piccolo passo in avanti nel campo del libero pensiero, della vita plasmata in modo personale è stato da sempre ottenuto attraverso spirituali e corporali martiri: non soltanto i passi avanti, no! soprattutto il camminare, il movimento, il mutamento ha bisogno dei suoi innumerevoli màrtiri, attraverso i lunghi millenni volti alla ricerca di un sentiero e alla posizione di un fondamento, martiri cui non si pensa certo, quando, come d'abitudine, si parla di «storia universale», di questo ritaglio ridicolmente piccolo della esistenza umana; e proprio in questa cosiddetta storia universale, che in fondo è un chiasso intorno alle ultime novità, non c'è alcun tema propriamente più importante, di quello dell'antichissima tragedia dei màrtiri che vollero smuovere la palude.

Niente è stato comprato a più caro prezzo di quel poco di ragione umana e di sentimento della libertà, che oggi costituisce il nostro orgoglio. Questo orgoglio però è quello per il quale ora ci diviene quasi impossibile consentire con quegli immensi percorsi temporali dell'«eticità del costume», che precedono la «storia universale», in quanto costituiscono l'effettiva e decisiva storia principale che ha stabilito il carattere dell'umanità: quando la sofferenza era considerata virtù, la crudeltà virtù, la dissimulazione virtù, la vendetta virtù, la negazione della ragione virtù, mentre invece il benessere era considerato un pericolo, la brama di sapere un pericolo, la pace un pericolo, la compassione un pericolo, l'esser presi a compassione un insulto, il lavoro un insulto, la follia divinità, il mutamento mancanza di eticità e realtà gravida di corruzione! - Voi pensate che tutto questo sia cambiato e che l'umanità debba quindi aver mutato il suo carattere? Oh, voi conoscitori di uomini, imparate a conoscervi meglio!

19.

Eticità e instupidimento. - Il costume rappresenta le esperienze di uomini passati circa ciò che si presumeva utile e nocivo, - ma il sentimento del costume (eticità) non si riferisce a quelle esperienze come tali, bensì all'età, alla sacralità, alla indiscutibilità del costume. E con ciò questo sentimento agisce contro il fatto che si facciano nuove esperienze e si correggano i costumi: cioè l'eticità agisce contro la nascita di nuovi e migliori costumi: essa instupidisce.

20.

Uomini della libera azione e uomini del libero pensiero. - Gli uomini della libera azione sono in svantaggio rispetto ai liberi pensatori, poiché gli uomini soffrono più visibilmente per le conseguenze di azioni, che per quelle di pensieri. Si consideri però il fatto che questi come quelli cercano la loro soddisfazione e che già l'escogitare e l'esprimere cose proibite dà ai liberi pensatori questa soddisfazione, allora, riguardo alle motivazioni, non c'è differenza tra loro: e, riguardo alle conseguenze, l'esito sarà sfavorevole perfino per il libero pensatore, presupposto che non si giudichi secondo l'evidenza più immediata e più grossolana - cioè: non come giudica tutto il mondo. Ancora si deve molto di quella denigrazione con cui gli uomini hanno considerato coloro che con l'azione infransero il potere di un costume, - in generale li si è chiamati malfattori.

Chiunque abbia rovesciato la vigente norma etica è stato finora sempre considerato innanzitutto un uomo malvagio: quando però, come è accaduto, non si è potuto in seguito riportarla di nuovo in vigore e ci si è messo l'animo in pace, a poco a poco si è trasformato il predicato; - la storia tratta quasi esclusivamente di questi uomini malvagi, che più tardi sono stati detti buoni!

24.

La dimostrazione di un precetto. - In generale la bontà o meno di un precetto, per esempio quello di cuocere il pane, è dimostrato dal fatto che si verifica o non si verifica il risultato in esso promesso, ammesso che si ottemperi con precisione a tale precetto. Diversamente stanno le cose con i precetti morali: qui infatti proprio i risultati non si possono calcolare, o sono indeterminati e da interpretare. Questi precetti poggiano su ipotesi del minimo valore scientifico, la cui dimostrazione e confutazione a partire dai risultati è in fondo egualmente impossibile: - ma una volta, nella originaria rozzezza di ogni scienza e nelle esigue pretese che si avevano per considerare dimostrata una cosa, una volta, la bontà o meno di un precetto del costume veniva stabilita allo stesso modo in cui oggi si stabilisce quella di ogni altro precetto: rimandando al risultato.

26.

Gli animali e la morale. - Le pratiche che vengono pretese nella società più raffinata: evitare cioè accuratamente il ridicolo, lo stravagante, il presuntuoso; metter da parte le proprie virtù, come pure le più veementi bramosie; mostrarsi equanime, inquadrarsi, diminuirsi, - tutto questo, in quanto morale sociale, lo si può trovare grosso modo dappertutto, fin nella più bassa sfera del mondo animale, - e solo in questa profondità noi vediamo l'intenzione nascosta di tutte queste amabili disposizioni: si vuol sfuggire ai propri persecutori e essere favoriti nel ricercare la propria preda. Perciò gli animali imparano a dominarsi e a dissimularsi in tal guisa che alcuni, ad esempio, adattano i loro colori ai colori dell'ambiente (in virtù della cosiddetta «funzione cromatica»), si fingono morti oppure assumono le forme e i colori di un altro animale o della sabbia, delle foglie, dei licheni, delle spugne (quel che i ricercatori inglesi definiscono come mimicry).

Così il singolo si nasconde sotto la generalità del concetto di «uomo» o nella società, oppure si adatta a principi, classi, partiti, opinioni del tempo o dell'ambiente: e per tutti i raffinati modi di fingerci felici, grati, potenti, innamorati, si troverà facilmente una similitudine nel mondo animale.

Anche quel senso della verità, che in fondo è il senso della sicurezza, l'uomo l'ha in comune con l'animale: non ci si vuol lasciar ingannare, non si vuol esser tratti in errore da noi stessi, si presta un diffidente ascolto all'esortazione delle proprie passioni, ci si domina e si rimane in agguato contro se stessi; tutto questo l'animale lo comprende parimenti all'uomo, anche in lui il dominio di sé si sviluppa dal senso dei reale (dalla saggezza).

Parimenti l'animale osserva gli effetti che esercita sulla rappresentazione di altri animali, e da lì impara a rivolgere il suo sguardo indietro su se stesso, a considerarsi «oggettivamente»; così ha il suo grado di autocoscienza. L'animale giudica i movimenti dei suoi nemici e amici, impara a memoria le loro peculiarità, su queste si regola: verso individui di una determinata specie rinunzia una volta per tutte alla lotta e così, nell’avvicinare alcuni tipi di animali, indovina l'intenzione di pace e di accordo. Gli inizi della giustizia, come quelli della saggezza, della moderazione, del coraggio, in breve tutto ciò che noi definiamo virtù socratiche, è di carattere animale: una conseguenza di quegli istinti che insegnano a cercare il cibo e a sfuggire ai nemici. Se noi ora consideriamo che anche l'uomo più elevato si è innalzato e affinato proprio nel modo di nutrirsi e nel concetto di tutto ciò che gli è ostile, non ci sarà vietato di definire di carattere animale l'intero fenomeno morale.

27.

Il valore della fede in passioni sovrumane. - L'istituzione del matrimonio conserva ostinatamente la fede che l'amore, benché passione, sia capace come tale di durata, anzi che l'amore duraturo per tutta una vita possa venir eretto a regola. Mediante questa tenacia di una nobile fede, nonostante il fatto che assai spesso e quasi regolarmente venga confutata e dunque sia una pia fraus, l'istituzione del matrimonio ha conferito all'amore una superiore nobiltà.

Tutte le istituzioni che concedono a una passione fede nella sua durata e responsabilità della durata, contro il carattere stesso della passione, le hanno dato un nuovo rango: e colui, che d'ora in poi viene colto da una tale passione, non si crede più, come prima, abbassato o minacciato da essa, ma innalzato dinanzi a sé e ai suoi simili. Si pensi alle istituzioni e ai costumi che hanno trasformato il focoso abbandono dell'attimo in eterna fedeltà, la brama dell'ira in eterna vendetta, la disperazione in lutto eterno, la parola improvvisa e irripetibile in eterno impegno. Ogni volta attraverso una tale trasformazione è venuta al mondo molta ipocrisia e menzogna: ogni volta, e a questo prezzo, un nuovo sovrumano concetto, che innalza l'uomo.

30.

La raffinata crudeltà come virtù. - Ecco una moralità che si fonda tutta sull'impulso alla distinzione, - non pensate troppo bene di essa! Che tipo di impulso infatti è mai questo e qual è il suo fine recondito? Si vuol far sì che la nostra vista faccia male all'altro e risvegli la sua invidia, il senso di impotenza e del suo decadimento; si vuol fargli assaggiare l'amarezza del suo fato, versando sulla sua lingua una goccia del nostro miele e, in questa presunta buona azione, fissandolo negli occhi con sguardo penetrante e maligno. Questi è ora divenuto umile e perfetto nella sua umiltà, - cercate però coloro ai quali egli con essa ha voluto da tempo infliggere una tortura! Li troverete senz'altro!

34.

Sentimenti morali e concetti morali. - Evidentemente i sentimenti morali vengono trasmessi in modo che i bambini percepiscano negli adulti forti inclinazioni e avversioni verso determinate azioni e che, come fossero nati scimmie, imitino queste inclinazioni e avversioni; nell'avanzare della vita, quando si ritrovano pieni di questi affetti acquisiti con la pratica e ben esercitati, ritengono sia una questione di decenza un tardivo perché, una sorta di argomentazione, che giustifichi quelle inclinazioni e avversioni. Queste «argomentazioni» però non hanno niente a che fare, in essi, né con l'origine, né con il grado del sentimento: ci si contenta appunto solo della regola secondo cui, in quanto esseri razionali, si dovrebbero avere delle ragioni per il pro e per il contro, e in verità delle ragioni dichiarabili e accettabili.

Pertanto la storia dei sentimenti morali è del tutto diversa dalla storia dei concetti morali. I primi sono potenti prima dell'azione, gli ultimi in particolare dopo l'azione, in considerazione della necessità di esprimersi sopra di essa.

38.

Gli istinti trasformati dai giudizi morali. - Lo stesso istinto si sviluppa nel penoso sentimento della viltà, sotto l'impressione del biasimo che il costume ha lasciato cadere su questo istinto; oppure nel piacevole sentimento dell'umiltà, nel caso che un costume, come quello cristiano, lo abbia preso a cuore e lo abbia definito buono. Cioè: a questo istinto non inerisce né una buona né una cattiva coscienza. In sé, come ogni istinto, esso non ha né questo, né in generale alcun carattere e nome morale, e neanche una determinata sensazione di piacere o dispiacere che l'accompagni: tutto questo lo acquisisce, come sua seconda natura, quando entra in relazione con istinti già battezzati come buoni e cattivi o quando viene osservato come proprietà di esseri, che dal popolo sono già identificati e valutati come morali.

40.

Il rimuginare sulle usanze. - Innumerevoli prescrizioni del costume, raccolte fugacemente da un evento irripetibile e singolare, divennero ben presto incomprensibili; il loro fine si lasciava calcolare tanto poco con sicurezza, come la condanna che sarebbe seguita alla trasgressione; perfino sulla sequela degli atti cerimoniali rimase un dubbio; - ma mentre a tal proposito si tirava ad indovinare, l'oggetto di un tale lambiccarsi cresceva di valore e proprio l'aspetto più assurdo di un'usanza alla fine trapassava nella santità più sacrosanta. Non si abbia poca stima per l'energia che l'umanità per millenni ha impiegato a tal proposito e ancor meno per l'effetto di questo rimuginare sulle usanze! Qui noi siamo giunti allo sterminato luogo d'esercitazioni dell'intelletto, - non solo per il fatto che qui vengono ordite e tessute le fila delle religioni: qui è la degna, seppur raccapricciante, preistoria della scienza, qui crebbe il poeta, il pensatore, il medico, il legislatore!

L'angoscia dinanzi all'incomprensibile, che in modo ambiguo esigeva da noi dei cerimoniali, trapassò a poco a poco nel fascino del difficilmente comprensibile, e dove non si seppe scandagliare a fondo, si imparò a creare.

La gaia scienza (1882)

4. Ciò che serve alla conservazione della specie.

Sino ad oggi sono stati gli spiriti più forti e più cattivi a portare più avanti l'umanità: hanno ripetutamente acceso le passioni addormentate (in tutte le società ordinate la passione dorme), hanno ripetutamente risvegliato il senso del paragone, della contraddizione, del piacere per quanto è nuovo, osato, inesplorato, hanno costretto gli uomini a contrapporre opinioni a opinioni, modelli a modelli. Per lo più con le armi, abbattendo i confini e ferendo le pietà: ma anche con nuove religioni e morali!

In ogni maestro e predicatore del nuovo c'è la stessa cattiveria che rende malfamato ogni conquistatore, per quanto possa sembrare più raffinata, non metta subito in moto i muscoli e così, proprio per questo, non li rende altrettanto malfamati! Il nuovo è comunque in ogni caso cattivo, in quanto intende conquistare qualcosa, rovesciare i vecchi confini e le vecchie pietà; soltanto il vecchio è buono!

I buoni di ogni tempo sono coloro che seppelliscono in profondità i vecchi pensieri e li fanno fruttare, i coltivatori dello spirito. Ma ogni terreno alla fin fine si esaurisce, e deve tornare il vomere della cattiveria.

Si sta diffondendo, ai nostri giorni, una scrupolosa eresia morale, particolarmente celebrata soprattutto in Inghilterra: essa sostiene che i giudizi di «buono» e «cattivo» sono il frutto dell'accumularsi di esperienze su quanto è «adeguato» e «inadeguato»; secondo tale dottrina buono è quanto serve alla conservazione della specie e cattivo quanto danneggia la specie. In verità, però, gli istinti cattivi sono adeguati, utili alla conservazione della specie e indispensabili nella stessa misura di quelli buoni: hanno soltanto una diversa funzione.

39. Cambiamenti di gusto.

I cambiamenti del gusto comune sono più importanti di quelli delle opinioni; le opinioni, con tutte le loro dimostrazioni e le loro confutazioni e la loro mascherata intellettuale, sono soltanto sintomi del cambiamento del gusto, e quindi non le sue cause, per quanto tanto spesso siano ancora indicate come tali. Come cambia il gusto comune? Quando alcuni singoli, potenti e influenti esprimono e impongono tirannicamente il loro hoc est ridiculum, hoc est absurdum, quindi il giudizio del loro gusto: lo impongono a molti tramite coercizione, da cui gradualmente si sviluppa un'abitudine per una cerchia ancora più vasta di persone, abitudine che diventa infine un'esigenza collettiva. Il fatto che questi singoli abbiano una percezione e un gusto diversi dipende, solitamente, dalla particolarità del loro modo di vivere, mangiare, digerire, forse dalla minore o maggiore quantità di sali inorganici presenti nel loro sangue e nel loro cervello ― in breve nella physis: essi hanno però il coraggio di riconoscersi nella loro physis e di prestare ascolto alle sue esigenze anche se appena sussurrate: i loro giudizi estetici e morali non sono altro che le «esigenze appena sussurrate» della loro physis.

42. Lavoro e noia.

Cercarsi un lavoro per il salario ― nei paesi civilizzati, è un fenomeno comune a quasi tutti gli uomini; per tutti costoro il lavoro è un mezzo, e non fine a se stesso. Ecco perché sono poco raffinati nella scelta, purché tale lavoro sia sufficientemente redditizio. Ci sono però casi rari di persone che preferiscono andare in malora piuttosto che lavorare senza provare piacere per quello che fanno: si tratta di quelle persone selettive e difficili da accontentare alle quali un reddito alto non dice niente se il lavoro stesso non è il più alto di tutti i redditi.

A questa rara categoria di persone appartengono i contemplativi di ogni genere, ma anche quegli oziosi che trascorrono la vita a caccia, viaggiando o dedicandosi ad avventure amorose o no. Tutti costoro amano il lavoro e le ristrettezze, purché vi sia associato il piacere, anche il lavoro più gravoso e più duro, se così deve essere. Altrimenti sono decisamente pigri, sia soltanto perché a questa pigrizia sono invece associati impoverimento, disonore, pericoli per la salute e per la vita. Non temono tanto la noia quanto il lavoro senza piacere; hanno anzi bisogno di tanta noia, se il loro lavoro deve riuscire.

Per il pensatore e per tutti gli spiriti inventivi la noia è quella sgradevole «bonaccia» dell'anima che precede una navigazione felice e i venti favorevoli; la deve sopportare, deve attendere che cessino i suoi effetti: è esattamente quanto le nature inferiori non sono assolutamente in grado di pretendere da se stesse! Aborrire la noia è normale, come è normale lavorare senza provare piacere per quello che si fa. Probabilmente gli Asiatici si distinguono dagli Europei per il fatto che sono capaci di una quiete più lunga e più profonda: i loro stessi narcotici hanno un effetto più lento e richiedono pazienza, a differenza della ripugnante immediatezza del veleno europeo, l'alcool.

50. L'argomento dell'isolamento.

Il rimprovero della coscienza contro il sentimento è sempre lo stesso, anche in coloro che hanno la coscienza più a posto: «Questo e quest'altro vanno contro la morale della tua società». Uno sguardo freddo, una smorfia sulla bocca di coloro tra i quali e per i quali si è allevati sono temutissimi anche dai più forti. Che cosa si teme, in realtà? L'isolamento, cioè l'argomento che riesce a sconfiggere anche i migliori argomenti in favore di una persona o di una cosa. Ecco come parla, dentro di noi, l'istinto del gregge.

56. Il desiderio di soffrire.

Se penso al desiderio di darsi da fare che solletica e pungola milioni di giovani europei, i quali non riescono a sopportare la noia e se stessi, comprendo che in loro deve essere presente un desiderio di soffrire, di trarre dalle loro sofferenze un probabile motivo per fare e per agire. Pensare è necessario! Da qui il grido dei politici, da qui le molte «situazioni penose» false, fittizie, esagerate, tutte le classi possibili e la cieca disponibilità a credere in esse. Questo giovane mondo desidera che non la felicità, ma l'infelicità provengano e risultino visibili dall'esterno; e la sua fantasia si mette all'opera in precedenza per plasmare un mostro, onde essere poi in grado di lottare contro un mostro. Se questi malati avidi di pena avvertissero in sé, dall'interno, la forza di fare del bene a se stessi, di fare qualcosa per sé, saprebbero anche come crearsi dall'interno una pena propria ed esclusiva. Le loro scoperte aperte potrebbero poi essere più raffinate e le loro soddisfazioni potrebbero somigliare a una bella musica, mentre adesso riempiono il mondo con le loro grida di pena e quindi, troppo spesso, soltanto con il loro senso di pena! Così non sanno che farsene di se stessi, e così dipingono alla parete l'infelicità degli altri: hanno sempre bisogno degli altri! E sempre altri ancora! Perdono, amici miei, io ho osato dipingere alla parete la mia felicità.

110. Origine della conoscenza.

Per immensi periodi di tempo, l'intelletto non ha prodotto niente altro che errori; alcuni si sono rivelati utili e funzionali al mantenimento della specie; chi vi si imbatte o li eredita combatte con maggiore fortuna la sua battaglia per sé e per la sua prole. Tra i dogmi erronei che abbiamo continuato a ereditare e che sono quasi divenuti patrimonio basilare del genere umano ricordiamo ad esempio questi: che esistano cose durature, che esistano cose uguali, che esistano cose, materiali, corpi, che una cosa sia ciò che appare, che la nostra volontà sia libera, che quanto è buono per me sia buono anche di per sé.

Solo molto tardi sono apparsi i primi che hanno negato e messo in dubbio questi dogmi, - solo molto tardi è apparsa la verità, come la forma meno vigorosa della conoscenza. Sembrava che nessuno riuscisse a vivere con lei, il nostro organismo era orientato sul suo contrario: tutte le sue funzioni più elevate, le percezioni sensoriali e comunque le sensazioni tutte, continuavano a lavorare con quegli errori fondamentali incorporati in epoca primordiale.

Di più: quei dogmi divennero, all'interno della stessa conoscenza, le norme in base alle quali si decideva che cosa fosse «vero» e cosa «falso», fino alle più remote lande della logica pura. Quindi: la forza della conoscenza non sta nel suo grado di verità, ma nella sua antichità, nella misura in cui è incorporata, nel suo carattere di condizione vitale. Dove vita e conoscenza sembrano cadere in contraddizione, non si è mai combattuto seriamente: là menzogna e dubbio erano considerati assurdi.

116. L'istinto del gregge.

Laddove incontriamo una morale troviamo sempre una valutazione e un ordinamento gerarchico degli istinti e delle azioni umane. Queste valutazioni e ordinamenti gerarchici sono sempre espressione dei bisogni di una comunità e di un gregge: ciò che giova in primo luogo - ma anche in secondo e in terzo - alla comunità, diventa anche la suprema scala di valori di ogni singolo. Con la morale il singolo è addestrato ad essere funzione del gregge e ad attribuirsi valore soltanto in quanto funzione. Poiché le condizioni della conservazione di una comunità sono assai diverse da quelle di un'altra comunità, ci sono state morali assai diverse e, in riferimento alle sostanziali trasformazioni che ancora ci aspettano di greggi e comunità, Stati e società, si può profetizzare che ci saranno ancora morali molto differenti. La moralità è l'istinto del gregge nel singolo.

292. Ai predicatori morali.

Io non voglio fare della morale, ma a coloro che lo fanno do questo consiglio: se volete privare di ogni onore e valore le cose e gli stati migliori, continuate ad averli sempre in bocca, come finora! Poneteli al vertice della vostra morale e parlate da mane a sera della felicità della virtù, della quiete dell'anima, della giustizia e della ricompensa immanente: il modo in cui le promuovete conferisce a queste buone cose la popolarità e il chiassoso plauso delle piazze, che però le spoglieranno di tutto il loro oro, peggio ancora, trasformeranno tutto il loro oro in piombo. Siete davvero esperti nell'arte inversa all'alchimia, nella svalutazione delle cose più preziose! Tentate per una volta di ricorrere a un'altra ricetta, per non ottenere il contrario di quanto cercate: negate quelle buone cose, sottraetele al plauso delle plebe e al loro facile corso, fate sì che tornino ad essere celati pudori di anime solitarie, dite che la morale è un qualcosa di proibito! Forse attirerete così verso queste cose l'unico genere di uomini ai quali possono interessare, intendo dire quelli eroici. Ma allora deve esserci qualcosa di temibile e non, come sinora, di nauseabondo!

Non si potrebbe dire oggi, a proposito della morale, come Meister Eckhart: «Prego Dio che mi liberi di Dio!».

296. Una salda reputazione.

Una salda reputazione era un tempo una cosa estremamente utile; e laddove la società è ancora dominata dall'istinto del gregge ciascun individuo trova ancora la massima convenienza nello spacciare il suo carattere e la sua occupazione per immodificabili, - persino quando in fondo non lo sono. «Di lui ci si può fidare, rimane uguale a se stesso»; in tutte le situazioni di pericolo sociale questa è la lode più rilevante. La società avverte con soddisfazione di avere, nella virtù di questo, nell'ambizione di quello, nella riflessione e nella passione di un terzo, uno strumento fidato e sempre pronto: e a questa natura strumentale, questo rimanere fedeli a se stessi, questa immutabilità di opinioni, tendenze, degli stessi difetti, essa riserva i più alti onori. Una tale valutazione, che con l'eticità dei costumi è fiorita sempre e dappertutto, educa «caratteri» e getta discredito su ogni cambiamento, apprendimento, trasformazione.

Orbene, per quanto questo modo di pensare possa presentare ancora notevoli vantaggi, esso costituisce quanto nel giudizio comune c'è di più pericoloso per la conoscenza: perché qui è condannata e gettata in discredito proprio la buona volontà, da parte di colui che si dedica alla conoscenza, di dichiararsi intrepidamente e in ogni momento contro l'opinione che aveva nutrito sino a quel momento, e di nutrire sfiducia in particolare nei confronti di ciò che vuole consolidarsi dentro di noi.

I sentimenti dell'uomo della conoscenza, essendo in contraddizione con questa «fama consolidata», sono considerati disonorevoli, mentre la pietrificazione delle opinioni è insignita di ogni onore: - dobbiamo ancora vivere in balia d'una simile considerazione! Com'è gravoso vivere quando ci si sente contro e dintorno il giudizio di molti millenni! E probabile che per molti millenni sulla conoscenza abbia gravato la cattiva coscienza e che nella storia dei grandi spiriti ci siano stati molto disprezzo di sé e una miseria segreta.

304. Agendo, lasciamo andare.

In fondo trovo ripugnanti tutte quelle morali che dicono: «Non farlo! Rinunzia! Supera te stesso!». - Sono contrario a morali che mi spingono ad agire e agire ancora, dal mattino presto fino alla sera, e la notte a sognarne, e a non pensare a nient'altro se non ad agire bene, come appunto a me soltanto è possibile! A chi vive così vengono a cadere, l'una dopo l'altra, tutte le cose che non si addicono a una vita siffatta: senza odio o contrarietà, egli vede accomiatarsi oggi questo e domani quello, come foglie ingiallite che ogni alito di vento sottrae all'albero; oppure non si accorge neppure della loro dipartita, tant'è il rigore con cui il suo occhio guarda verso la sua meta, sempre in avanti, non dilato, all'indietro, in disparte. «Deve essere il nostro agire a determinare che cosa lasciamo andare: agendo, lasciamo andare»: così piace a me, così suona- il mio placitum. Ma io non voglio tendere ad occhi aperti verso il mio impoverimento, io non amo le virtù negative, - virtù la cui essenza sono la negazione e la rinunzia a se stessi.

326. I medici dell'anima e il dolore.

Tutti i predicatori morali, come anche tutti i teologi, hanno in comune una mancanza di garbo: cercano di convincere i loro interlocutori che starebbero molto male e avrebbero bisogno di una cura dura e radicale. E poiché gli uomini, nel loro complesso, hanno teso l'orecchio a questi maestri con troppo zelo e per secoli e secoli, a lungo andare parte della superstizione sul loro star male ha finito per trapassare davvero in loro: cosicché adesso sono anche troppo pronti a sospirare e a non trovare più niente nella vita e a metter su una faccia così afflitta da dare quasi l'impressione che la loro vita sia davvero intollerabile. In verità essi sono indomitamente sicuri della loro vita, innamorati della stessa e pieni di ineffabili astuzie e finezze per infrangerne gli elementi sgradevoli e togliere al dolore e all'infelicità le loro spine.

Mi sembra che del dolore e dell'infelicità si parli sempre in modo esagerato, come se esagerare in questo campo fosse buona creanza: si tace invece coscienziosamente del fatto che esistono innumerevoli mezzi per alleviare il dolore, come i narcotici, o il febbrile susseguirsi dei pensieri, o una situazione tranquilla, o ricordi belli e brutti, intenzioni, speranze, e molti tipi di orgoglio o di simpatia, che hanno quasi l'effetto di un anestetico; mentre ai livelli più alti di dolore insorge autonomamente la perdita della coscienza. Sappiamo benissimo stillare dolcezze sulle nostre amarezze, soprattutto sulle amarezze dell'anima; abbiamo un rimedio nella nostra prodezza e sublimità, nonché nei nobili deliri della sottomissione e della rassegnazione. Una perdita rimane una perdita sì e no per un'ora: con essa, ci è come caduto dal cielo - anche un dono, ad esempio una nuova forza, foss'anche soltanto l'opportunità di una nuova forza!

Quanto hanno fantasticato, i predicatori morali, della «miseria» interiore degli uomini malvagi! Quanto ci hanno mentito sull'infelicità degli uomini passionali! Sì, mentire è proprio la parola giusta: perché erano perfettamente a conoscenza della ricchissima felicità di questo genere di uomini, ma l'hanno taciuta fino alla morte, essendo una confutazione della loro teoria, secondo la quale la felicità può nascere soltanto quando si annulla la passione e si mette a tacere la volontà! Infine, per quel che riguarda la ricetta di tutti questi medici di anime e la loro lode di una cura dura e radicale, ci sia permesso domandare: questa nostra vita e davvero tanto dolorosa e gravosa da poter essere vantaggiosamente scambiata con una maniera di vita e una pietrificazione stoica? Non ci sentiamo abbastanza male per doverci sentire male alla maniera degli stoici!

359. La vendetta sullo spirito e altri retroscena della morale.

La morale.., dove credete che abbia i suoi avvocati più pericolosi e capaci? Ecco un uomo fallito, che non possiede abbastanza spirito per potersene compiacere, né abbastanza cultura per saperlo: annoiato, tediato, uno che disprezza se stesso; un patrimonio in qualche modo ereditato lo ha privato anche dell'ultimo conforto, la «benedizione del lavoro», l'oblio di sé nell'«opera quotidiana»; un uomo così, che in fondo si vergogna della sua esistenza - forse nasconde anche qualche vizietto - e d'altro canto non può fare a meno di assuefarsi sempre più, diventando vanitoso ed eccitabile, a libri ai quali non ha diritto o a una compagnia più spirituale di quella che è in grado di digerire; un uomo così, sempre più avvelenato, perché nei falliti come lui lo spirito si fa veleno, la cultura si fa veleno, il patrimonio si fa veleno, la solitudine si fa veleno, finisce col trovarsi abitualmente in uno stato di vendetta, di volontà di vendetta...

Di che cosa credete che abbia bisogno, assolutamente bisogno, per crearsi quella parvenza di superiorità sugli uomini più spirituali, quel piacere della vendetta portata a compimento, almeno nella sua immaginazione? Sempre della moralità, c'è da scommettere: sempre quelle grandi parole morali, sempre il tam-tam di giustizia, saggezza, santità, virtù, sempre lo stoicismo dei gesti (come nasconde bene, lo stoicismo, quel che non si ha!...), sempre il mantello dell'astuto silenzio, della socievolezza, della mitezza e come altro si chiamano i mantelli idealistici sotto i quali si aggirano coloro che inguaribilmente si disprezzano o che sono inguaribilmente vanitosi.

Non mi si fraintenda: da tali nemici congeniti dello spirito nasce ogni tanto quel raro frammento di umanità che il popolo venera col nome di santo, di saggio; da tali uomini emergono quei mostri della morale che fanno rumore, che fanno storia: sant'Agostino fu uno di questi. Il timore dello spirito, la vendetta sullo spirito: quanto spesso questi vizi vigorosi e istintivi divennero fonte di virtù! E, detto fra noi, persino quell'esigenza di saggezza che caratterizza i filosofi e che ogni tanto è comparsa qua e là sulla terra, la più pazza e immodesta di tutte le esistenze, - non è stata sempre, sinora, in India come in Grecia, soprattutto un nascondiglio? Talvolta forse dal punto di vista dell'educazione, che santifica tante menzogne, in quanto tenero riguardo per personalità in crescita e in divenire, per discepoli che spesso (erroneamente) debbono essere difesi contro se stessi tramite la fede nella persona... Nei casi più frequenti, però, un nascondiglio del filosofo, dietro il quale egli si mette in salvo da stanchezza, vecchiaia, raffreddamento, indurimento, quasi la sensazione della fine vicina, l'astuzia di quest'istinto degli animali davanti alla morte - essi si mettono in disparte, si fanno silenziosi, scelgono la solitudine, strisciano dentro le loro tane, divengono saggi... Come? La saggezza un nascondiglio del filosofo davanti - allo spirito?-

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Prefazione di Zarathustra

5.

Nessun pastore è un solo gregge. Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso, entra spontaneamente in manicomio.

«Un tempo tutto il mondo era pazzo» dicono i più sagaci, e ammiccano.

Si è intelligenti e si sa tutto quello che è accaduto: così lo scherno non ha fine. Si litiga ancora, ma ci si riconcilia presto altrimenti si guasta lo stomaco.

Si ha il proprio piacerucolo per il giorno e il proprio piacerucolo per la notte: ma si apprezza la salute.

«Noi abbiamo inventato la felicità» dicono gli ultimi uomini, e ammiccano.

9.

Eccoli i buoni e i giusti! Chi odiano più di tutti? Colui che infrange le loro tavole dei valori, il distruttore, lo sfregiatore: ma questi è il creatore.

Guarda i fedeli di tutte le fedi! Chi odiano più di tutti? Colui che infrange le loro tavole dei valori, il distruttore, lo sfregiatore: ma questi è il creatore.

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Delle mosche del mercato

Nel mondo le cose migliori non servono a nulla, se non v'è nessuno che le rappresenti: grandi uomini chiama il popolo questi rappresentatori.

Poco comprende il popolo la grandezza, cioè il creare. Ma è sensibile a tutti i rappresentatori e commedianti di grandi vicende.

Intorno agli inventori di nuovi valori ruota il mondo: ruota in modo invisibile. Ma intorno ai commedianti ruotano il popolo e la fama: questo è il «corso del mondo».

Spirito ha il commediante, ma poca coscienza dello spirito. Sempre crede in ciò con cui riesce a far credere gli altri più fortemente, far credere in lui stesso!

Domani avrà una nuova fede e dopodomani un'altra ancora. Ha i sensi pronti come il popolo e umori variabili.

Rovesciare significa per lui: dimostrare. Render folli significa per lui: convincere. E il sangue è per lui il migliore degli argomenti.

Una verità che penetra solo in orecchi fini egli la chiama menzogna e nulla. Infatti egli crede soltanto a dèi che suscitino gran frastuono nel mondo!

Pieno di solenni saltimbanchi è il mercato e il popolo si vanta dei suoi grandi uomini: questo sono per lui i padroni dell'ora.

Ma l'ora li incalza: così essi incalzano te. E anche da te vogliono un sì o un no. Ahimè, tu vuoi collocare la tua sedia fra il pro e il contro?

Del nuovo idolo

Da qualche parte ci sono ancora popoli e greggi, ma non più da noi, fratelli: da noi ci sono soltanto Stati.

Stato? Che cos'è? Orsù! Aprite gli orecchi, perché ora vi dico la mia parola sulla morte dei popoli.

Stato si chiama il più freddo di tutti i freddi mostri. Ed è freddo anche nel suo mentire; e dalla sua bocca striscia questa menzogna: «Io, lo Stato, sono il popolo».

una menzogna! Creatori erano coloro che crearono i popoli e sospesero sopra di essi una fede e un amore: e così servivano la vita.

Distruttori sono coloro che tendono trappole per molti e le chiamano Stato: essi sospendono sopra di essi una spada e cento brame.

Dove c'è ancora popolo, esso non capisce lo Stato e lo odia come malocchio e peccato contro costumi e diritto.

Questo segno vi do: ogni popolo parla la sua lingua del bene e del male: il vicino non lo capisce. Si inventò la sua lingua in costumi e diritto.

Ma lo Stato mente in tutte le lingue del bene e del male; e qualunque cosa dica, mente e qualunque cosa abbia l'ha rubata.

Tutto in esso è falso; con denti rubati morde, il mordace. False sono persino le sue viscere.

Confusione delle lingue del bene e del male: questo segno vi do come segno dello Stato. In verità, questo segno indica la volontà di morte! In verità, esso richiama i predicatori della morte!

Troppi uomini nascono: per i superflui fu inventato lo Stato!

Guardate come li attrae a sé, i troppi. Come li fagocita e mastica e rimastica!

«Sulla terra non c'è nulla di più grande di me: io sono il dito ordinatore di Dio» così strepita la bestia. E non solo gli orecchiuti e i miopi cadono in ginocchio!

Ah, anche in voi, grandi anime, sussurra le sue tetre menzogne! Ah, egli indovina i cuori ricchi che si sperperano volentieri!

Sì, anche voi indovina, vincitori del vecchio dio! Vi ha stancato la lotta o ora la vostra stanchezza serve il nuovo idolo.

Di eroi e uomini d'onore vorrebbe circondarsi il nuovo idolo! Gli piace crogiolarsi al sole delle buone coscienze, la fredda bestia!

Tutto vi darà, se voi lo adorate, il nuovo idolo: così egli si compera il fulgore della vostra virtù e lo sguardo dei vostri occhi fieri.

Adescare i troppi vuole con voi! Sì, fu inventata una macchina infernale, un cavallo della morte tintinnante sotto la bardatura di onori divini!

Sì, una morte per molti fu allora inventata, che esalta se stessa come vita: in verità, un servizio inestimabile ai predicatori della morte!

Stato io chiamo quello dove tutti sono assuefatti al veleno, buoni e cattivi: Stato, dove tutti perdono se stessi, buoni e cattivi: Stato, dove il lento suicidio di tutti si chiama «la vita».

Guardate questi superflui! Rubano per sé le opere degli inventori e i tesori dei saggi: cultura chiamano il loro furto e tutto diventa per loro malattia e molestia!

Guardate questi superflui! Sono sempre ammalati vomitano la loro bile e lo chiamano giornale. S'inghiottono a vicenda e non riescono nemmeno a digerirsi.

Guardate questi superflui! Acquistano ricchezze e con esse diventano soltanto più poveri. Potenza vogliono e innanzi tutto il grimaldello della potenza, molto denaro, questi impotenti!

Guardatele arrampicarsi, queste agili scimmie! S'arrampicano una sull'altra e così una trascina l'altra nel fango e nell'abisso.

Vogliono arrivare tutte al trono: è la loro follia, come se sul trono fosse assisa la felicità! Spesso sul trono è assiso il fango anzi, spesso anche il trono sta sul fango.

Folli sono tutti per me e scimmie che si arrampicano e maniaci. Puzza per me il loro idolo, la fredda bestia: puzzano per me tutti quanti, questi adoratori di idoli.

Fratelli miei, volete dunque soffocare nell'alito dei vostri musi e delle loro voglie? Fareste meglio a infrangere le finestre e a balzare all'aperto.

Fuggite dal cattivo odore! Allontanatevi dell'idolatria dei superflui!

Fuggite dal cattivo odore! Fuggite l'esalazione di questi sacrifici umani.

Libera è ancor oggi per le anime grandi la terra. Vuote sono ancora molte sedi per i solitari e per coloro che sono in due nella solitudine, intorno alle quali aleggia il profumo di mari tranquilli.

Libera è ancora per le grandi anime una libera vita. In verità, chi poco possiede, tanto meno è posseduto: sia lodata la piccola povertà!

Là dove lo Stato cessa, là incomincia l'uomo che non è superfluo: là incomincia il canto del necessario, la melodia unica e insostituibile.

Là dove lo Stato cessa là guardate, fratelli miei! Non li vedete l'arco baleno e i ponti del superuomo?

Così parlò Zarathustra.

Parte seconda

Dei famosi saggi

Ma chi è inviso al popolo come un lupo ai cani: è lo spirito libero, il nemico dei vincoli, il nonadorante, colui che dimora nei boschi.

Nel deserto abitarono sempre i veraci, gli spiriti liberi, come signori del deserto; nelle città abitano i ben nutriti, i famosi saggi, le bestie da tiro.

Giacché sempre tirano, come asini il carro del popolo!

Dell'autosuperamento

Gli insipienti, invero, il popolo, sono come un fiume su cui naviga una barca: e nella barca stanno, solenni e travestite, le valutazioni.

Ma dove trovai essere vivente, là udii anche il discorso dell'obbedienza. Ogni essere vivente è qualcosa che obbedisce.

E questa è la seconda cosa: riceve comandi colui che non sa obbedire a se stesso. Tale è l'essenza dell'essere vivente.

Parte terza

Del passare oltre

Così, procedendo lentamente in mezzo al popolo e a molte svariate città, tornava Zarathustra, allungando la strada, alla sua montagna e alla sua spelonca. Ed ecco che senz'accorgersene giunse alle porte della grande città: e qui si gettò su di lui a braccia aperte un folle con la schiuma alla bocca e gli sbarrò la strada. Costui era lo stesso folle che il popolo chiamava «la scimmia di Zarathustra»: perché aveva preso qualcosa del ritmo e dell'intonazione del suo discorrere e volentieri attingeva anche al tesoro della sua saggezza. E così parlò il folle a Zarathustra:

«O Zarathustra, ecco la grande città: qui non hai niente da acquistare e tutto da perdere.

Perché mai guardi questo fango? Abbi compassione del tuo piede! Sputa piuttosto sulla porta della città e torna indietro!

Qui è l'inferno per i pensieri da eremita: qui i grandi pensieri vengono lessati vivi e cotti a pezzetti.

Qui si putrefanno tutti i grandi sentimenti: qui possono far sentire i loro passi stenti solo sentimentucci stenti e ossuti!

Non lo senti già l'odore dei macelli e delle bettole dello spirito? Non esala questa città i fumi dello spirito macellato?

Non vedi penzolare le anime come flosci e luridi stracci? Dì questi stracci fanno ancora giornali!

Non senti che qui lo spirito è diventato un gioco di parole? E butta fuori una ripugnante risciacquatura di parole! E di questa risciacquatura fanno ancora giornali.

Si aizzano a vicenda e non sanno contro che cosa. Si riscaldano a vicenda e non sanno perché. Fanno chiasso con la loro latta, tintinnano col loro oro.

Sono freddi e cercano calore nell'acquavite: sono riscaldati e cercano rinfresco presso spiriti congelati; sono tutti infermi e affetti da opinioni pubbliche.

Qui sono di casa tutte le voglie e tutti i difetti; ma ci sono anche dei virtuosi, c'è molta virtù servizievole e in servizio.

Molta virtù servizievole con dita scrivane e un deretano sodo, atto alla pazienza e all'attesa, virtù benedetta da piccole stelle sul petto e da figlie imbottite e senza didietro.

Anche qui c'è molta devozione e molto credulo leccare e adulare e un continuo sfornare lusinghe davanti al dio degli eserciti.

"Dall'alto" gocciolano giù la stella e la saliva della benevolenza; all'alto aspira ogni petto sguarnito di stelle.

La luna ha il suo alone, ovvero la sua corte, e la corte ha le sue escrescenze: ma a tutto ciò che viene dalla corte rivolge le sue preghiere il popolo mendico e ogni virtù mendica e servizievole.

"Io servo, tu servi, egli serve" così prega ogni virtù servizievole rivolta al suo principe: che la stella guadagnata sia alfine appuntata sull'esile petto!

Ma la luna ruota ancora intorno a quanto vi è di terrestre: così ruota anche il principe intorno a quanto v'è di più terrestre: ed è l'oro dei mercanti.

Il dio degli eserciti non è un dio dalle barre d'oro: il principe propone e il mercante dispone!

Per tutto quanto è luminoso e forte e buono in te, o Zarathustra! Sputa su questa città di mercanti e torna indietro!

Di tavole antiche e nuove

7.

Essere veri pochi lo possono! E chi lo può, non vuole ancora! Ma meno di tutto lo possono i buoni.

Oh, questi buoni! Uomini buoni non dicono mai la verità; così per lo spirito l'essere buoni è una malattia.

Cedono, questi buoni, si arrendono, il loro cuore ripete parole, il loro fondo obbedisce: ma chi obbedisce non ascolta se stesso!

Tutto quello che il buono chiama cattivo deve congiungersi, perché sia partorita una verità: o fratelli, siete poi abbastanza cattivi per questa verità?

L'audacia spericolata, la lunga diffidenza, il no crudele, il disgusto, l'immergere il coltello

nel vivo come ciò si congiunge di rado! Ma solo da questo seme si concepisce la verità!

Accanto alla cattiva coscienza crebbe fino ad ora tutta la scienza! Rompete, rompetemi le antiche tavole, voi che avete la conoscenza!”

26.

Colui che crea odiano sopra ogni cosa: colui che infrange tavole e antichi valori, colui che infrange, lo chiamano delinquente.

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

32.

Durante il periodo più lungo della storia dell'umanità - lo si chiama epoca preistorica - il valore o l'assenza di valore di un'azione era dettato dalle sue conseguenze: in tal modo l'interesse per l'azione in se stessa era scarso come quello per la sua origine, era piuttosto la forza retroattiva del successo o dell'insuccesso che guidava l'uomo a pensare bene o male di un'azione, così come ancora oggi in Cina l'onore o la vergogna si riflette dal figlio ai genitori. Indichiamo questo periodo come il periodo premorale dell'umanità: l'imperativo «conosci te stesso» era allora ancora sconosciuto. Negli ultimi dieci millenni si è invece andati, passo passo, tanto avanti su alcune vaste pianure della terra, da lasciare che l'origine dell'azione e non più le conseguenze decida il suo valore: nell'insieme è un grande successo, un rilevante raffinamento dello sguardo e del metro di giudizio, l'inconscio effetto retroattivo del dominio di valori aristocratici e della fede nell'«origine», il segno di un periodo che si può definire in senso più stretto come morale: il primo tentativo di conoscenza di sé è con ciò compiuto. In luogo delle conseguenze, l'origine: che capovolgimento di prospettiva! E’ un capovolgimento raggiunto certamente solo dopo lunghe battaglie e tentennamenti! In verità: una nuova funesta superstizione, una singolare ristrettezza dell'interpretazione giunse appunto con ciò al predominio: si interpretò l'origine di un'azione nel senso più preciso possibile come origine derivante da un'intenzione, ci si trovò d'accordo nel credere che il valore di un'azione fosse riposto nel valore della sua intenzione. L'intenzione come origine complessiva e preistoria di un'azione: secondo questo pregiudizio, (fin quasi ai tempi più recenti) su questa terra si è sempre moralmente lodato, biasimato, giudicato, e anche filosofato.

- Ma non dovremmo oggi essere posti di fronte alla necessità di risolverci ancora una volta a un rovesciamento e una completa rimozione dei valori, grazie a una nuova riflessione su di noi e a un approfondimento dell'uomo - non dovremmo essere alle soglie di un periodo che dovrebbe essere designato negativamente, come extra-morale: oggi, dove per lo meno tra noi immoralisti si agita il sospetto che proprio in ciò che di non intenzionale vi è in un'azione, sia riposto il suo valore decisivo e che tutta la sua intenzionalità, tutto quello che di essa può essere visto, saputo, «reso cosciente», appartiene ancora alla sua superficie e alla sua epidermide - la quale, come ogni epidermide, scopre qualcosa, ma ancora di più nasconde?

In breve, noi crediamo che l'intenzione sia soltanto un segno e un sintomo che ha bisogno prima di tutto di venir interpretato e oltre a ciò un segno che significa troppe cose di vario tipo e che di conseguenza non significa, per sé solo, quasi nulla; crediamo che la morale, nella sua concezione odierna, dunque una morale di intenzioni, sia stata un pregiudizio, una premura eccessiva, una cosa forse provvisoria, un qualcosa più o meno del livello dell'astrologia e dell'alchimia, ma in ogni caso qualcosa che deve essere superato. Il superamento della morale, in un certo senso perfino l'autosuperamento della morale: possa essere questo il nome per quel lungo lavoro segreto che viene riservato alle più acute e oneste e anche alle più maligne coscienze attuali, pietre di paragone viventi dell'anima.

108.

Non esistono fenomeni morali, ma solo un'interpretazione morale dei fenomeni...

156.

La demenza è rara nei singoli, ma è la regola nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche

199.

Poiché in ogni tempo, da quando sono esistiti gli uomini, sono esistite anche greggi umane (gruppi familiari, comunità, stirpi, popoli, Stati, Chiese) e sempre molti che obbediscono in rapporto al piccolo numero di chi comanda, tenuto conto dunque che l'ubbidienza fino ad oggi è stata esercitata e insegnata tra gli uomini più di ogni altra cosa e più a lungo, possiamo giustamente supporre che oggi, in media, il bisogno di ubbidienza è innato in ognuno, come una specie di coscienza formale, che ordina: «tu devi fare qualche cosa incondizionatamente, devi lasciare qualche cosa incondizionatamente», in breve «tu devi». Questo bisogno cerca di soddisfarsi e di riempire la propria forma con un contenuto; essa afferra, secondo la sua forza, impazienza e tensione, poco schizzinosa, come un grossolano appetito e accetta ciò che le viene gridato all’orecchio da chiunque comandi genitori, maestri leggi pregiudizi di casta opinione pubblica

215.

Come nel regno delle stelle due soli determinano talvolta l'orbita di un pianeta, come in certi casi soli di diverso colore illuminano un unico pianeta, ora di luce rossa ora di luce verde, colpendolo e inondandolo poi di nuovo simultaneamente di luce variopinta: così noi uomini moderni, grazie alla complicata meccanica del nostro «firmamento» siamo determinati da morali diverse; le nostre azioni s'illuminano alternativamente con diversi colori, esse sono raramente univoche e non mancano i casi nei quali compiamo azioni variopinte.

264.

Non è affatto possibile che un uomo non abbia nel proprio corpo le qualità e le predilezioni dei suoi genitori e antenati: per quanto l'apparenza possa dire il contrario. Questo è il problema della razza. Posto che si conoscano i genitori, è permessa una deduzione a proposito del figlio: una qualche ributtante incontinenza, una qualche meschina invidia, una goffa maniera di darsi ragione e sono queste tre cose assieme che in ogni tempo hanno creato il vero e proprio tipo plebeo devono passare sicuramente al figlio come sangue marcio; e con l'aiuto della migliore educazione e cultura si otterrà appunto soltanto di ingannare a proposito di una tale ereditarietà.

285.

I maggiori avvenimenti e pensieri - ma i maggiori pensieri sono i più grandi avvenimenti -vengono compresi molto tardi: le generazioni che sono loro contemporanee non vivono tali avvenimenti, vi passano accanto. Avviene qualcosa di simile nel regno degli astri. La luce delle stelle più lontane giunge agli uomini con grande ritardo; e prima che essa sia giunta, l'uomo nega che lì vi siano stelle. «Di quanti secoli ha bisogno uno spirito per essere compreso?» Anche questa è una norma con la quale si crea una gerarchia e un'etichetta, com'è necessario: per spirito e stella.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

26.

- E colui che senza pregiudizi verifica le condizioni, sotto le quali qui sulla terra si arriva a una qualche perfezione, non si farà sfuggire quante cose singolari e penose appartengono a queste condizioni. Per ogni grande crescita sembra che ci sia bisogno di letame e concime di un qualche tipo.

75.

«Il felice»: ideale di gregge.

83.

Quello che viene definito una buona azione, è un puro malinteso; tali azioni non sono affatto possibili. «Egoismo» come «disinteresse» è una finzione popolare; allo stesso modo l'individuo, l'anima.

125.

La completa minorità dei moralisti che pretendono che il nostro sé sepolto sotto molte pelli e nascosto sia semplice; che dicono «rivelati come sei»: come se per questo non si dovesse essere prima qualcosa che è...

128.

E’ il sentimento di parentela che unisce fra loro i figli di un popolo: questa parentela è fisiologicamente mille volte più forte di quanto generalmente si pensi. Lingua, costumi, comunanza di interessi e destino tutto è poco a confronto di quel potercomprenderese stessi in virtù degli stessi antenati.

215.

Il commercio secondo la sua essenza è satanico. Le commerce, c'est le prêtérendu, c'est le prêt avec le sousentendu: Rendsmoi plus que je ne te donne.

Lo spirito di ogni commerciante è completamente vicié.

Le commerce est naturel, donc il est infâmé.

Il meno insensato fra tutti i commercianti è chi dice: siamo virtuosi per ottenere molto più denaro degli stolti che sono viziosi. Per l'uomo di commercio la stessa onestà è una speculazione per l'utile.

Le commerce est satanique, parce qu 'il est une des formes de l'égoisme.

217.

Un funzionario, un ministro possono essere gente rispettabile: mais ils ne sont jamais divins. Uomini senza personalità, persone senza originalità, nati per la funzione, cioè pour la domesticité publique.

412.

Leggere libri che potrebbero essere scritti da molti: mostrano nel modo più evidente le abitudini intellettuali del tipoerudito di un'epoca, sono «impersonali».

226.

Il fatto che l'umanità abbia da assolvere un compito totale, che in quanto totalità corra verso un qualche fine, è una rappresentazione molto oscura e arbitraria e ancora molto giovane. Probabilmente ce ne libereremo ancor prima che diventi un'«idea fissa».

235.

Lottare per un predominio all'interno di una situazione che non vale niente: questa cultura delle metropoli, dei giornali, della febbre e dell'«inutilità».

Il caso Wagner. Un problema di musicisti (1888)

Epilogo

- Nella sfera più ristretta dei cosiddetti valori morali, non si può trovare opposizione maggiore di quella esistenza fra una morale dei signori e la morale dei concetti cristiani di valore: quest'ultima cresciuta su un terreno completamente guasto ( i Vangeli ci presentano esattamente gli stessi tipi fisiologici descritti nei romanzi di Dostoevskij), la morale dei signori viceversa «romana», «pagana», «classica», «rinascimentale») come il linguaggio della buona riuscita, della vita ascendente, della volontà di potenza quale principio di vita. La morale dei signori afferma con la stessa istintività con cui la morale cristiana nega («Dio», «aldilà», «annullamento di sé», tutte negazioni). La prima trasmette la sua pienezza alle cose trasfigura, abbellisce, razionalizza il mondo -, la seconda immiserisce, sbiadisce, imbruttisce il valore delle cose, nega il mondo. «Mondo»: per i cristiani una parola insultante.

- Queste forme antitetiche nell'ottica dei valori sono ambedue necessarie: sono modi di vedere dei quali non si viene a capo con motivazioni e confutazioni. Non si confuta il cristianesimo, non si confuta una malattia dell'occhio. L'aver combattuto il pessimismo come fosse una filosofia fu il colmo dell'idiozia erudita. In ottica i concetti di «vero» e «non vero» mi sembra non abbiano alcun senso.

L’Anticristo (1888)

III

II problema che qui sollevo non è che cosa debba sostituire l'umanità nella successione delle specie (l'essere umano rappresenta un termine): piuttosto che tipo di essere umano si debba educare e auspicare, perché più valido, più degno di vivere e più sicuro del futuro.

Questo tipo di maggior valore è già esistito piuttosto spesso: ma come caso fortuito, un'eccezione, mai perché voluto. È stato invece il più temuto: finora ha costituito ciò che mette paura. E per paura è stato voluto, educato e ottenuto il tipo opposto: l'animale domestico, la bestia del gregge, l'insano animale umano, il cristiano...

VI

Davanti a me si apre uno spettacolo desolante e spaventoso: ho sollevato la cortina dalla corruzione dell'uomo. Nella mia bocca questa parola è indenne almeno da un sospetto: che contenga un'accusa morale all'uomo. Vorrei sottolinearlo ancora una volta: è scevra di ogni ipocrisia morale; e ciò fino al punto che trovo quella corruzione proprio là dove sinora si mirava più consapevolmente alla «virtù» e alla «divinità». Come si sarà già intuito, intendo la corruzione nel senso di décadence: sostengo che tutti i valori nei quali attualmente l'umanità riassume la sua più alta aspirazione sono valori della décadence.

Definisco corrotto un animale, una specie, un individuo quando perde i propri istinti, quando sceglie e preferisce ciò che gli è dannoso. Una storia dei «sentimenti più elevati», degli «ideali dell'umanità» - ed è possibile che finisca necessariamente per narrarla - quasi costituirebbe anche una spiegazione del perché l'uomo sia così corrotto. Considero la vita stessa un istinto di crescita, di durata, di accumulo di forze e di potenza: dove la volontà di potenza vien meno, là è il declino. Affermo che questa volontà manca in tutti i valori supremi dell'umanità, che sotto i nomi più santi regnano valori di declino, valori nichilistici.

LIII

La conclusione di tutti gli idioti, donne e nazioni incluse, che una causa per la quale qualcuno è disposto a morire (ovvero che, come il cristianesimo primitivo, genera addirittura un'epidemia di desiderio di morte) abbia un qualche valore, è divenuta un indicibile ostacolo per la ricerca, per lo spirito di ricerca e di prudenza. I martiri hanno nuociuto alla verità...

LVII

L'ingiustizia non si trova mai nella disuguaglianza dei diritti, ma nella pretesa di diritti uguali...

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Morale come contro natura

4.

- Formulo un principio. Ogni naturalismo nella morale, ossia ogni morale sana, è dominata da un istinto della vita, - un certo precetto della vita è adempiuto con un determinato canone di «devi» e «non devi», un certo ostacolo e una certa ostilità sulla via della vita viene in tal modo tolto di mezzo. La morale contronatura, ossia quasi ogni morale che sino ad oggi sia stata insegnata, venerata e predicata, si volge invece proprio contro gli istinti della vita, è una condanna ora nascosta, ora sfrontata e aperta, di quegli istinti. Dicendo «Dio guarda il cuore», dice no ai più bassi e ai più alti desideri della vita, e intende Dio come nemico della vita... Il santo in cui Dio si compiace è il castrato ideale... La vita finisce là dove inizia il «regno di Dio»...

6.

Consideriamo infine anche quale ingenuità sia dire: «l'uomo dovrebbe essere così e così!». La realtà ci mostra una incantevole ricchezza di tipi, il rigoglio di un dissipante gioco e mutamento di forme: e un qualche miserabile fannullone di moralista dice: «no! l'uomo dovrebbe essere diverso»! Sa persino come dovrebbe essere, questo bigotto e piagnone; dipinge se stesso sulla parete e dice «ecce homo!»... Ma persino quando il moralista si rivolge soltanto al singolo e gli dice «tu dovresti essere così e così!», non cessa di rendersi ridicolo.

L'individuo è un frammento di fato da cima a fondo, una legge in più, una necessità in più per tutto ciò che viene e che sarà. Dirgli «cambiati» significa pretendere che tutto si cambi, persino alI’indietro...

E in realtà ci furono moralisti conseguenti che volevano l'uomo diverso, ossia virtuoso, lo volevano a propria immagine, ossia bigotto: a tale scopo negarono il mondo! Una follia non da poco! Una specie di immodestia niente affatto modesta!...

La morale, nella misura in cui essa condanna, in sé, non sotto i riguardi, le considerazioni, le intenzioni della vita, è un errore specifico di cui non si deve aver pietà, una idiosincrasia di degenerati, che ha provocato danni indicibili!...

Noi altri, noi immoralisti, abbiamo invece spalancato il nostro cuore a ogni sorta di comprensione, di intendimento, di approvazione. Non neghiamo facilmente, e cerchiamo il

nostro onore nell'essere affermativi. Sempre più il nostro occhio si è aperto a quell'economia che ha ancora bisogno e sa far uso di tutto quello che la santa follia del prete, della ragione malata nel prete, respinge, a quella economia nella legge della vita che trae il suo vantaggio persino dalla ripugnante specie del bigotto, del prete, del virtuoso quale vantaggio? Ma noi stessi, noi immoralisti, qui siamo la risposta...

I «miglioratori» dell’umanità

5.

Con una formula si potrebbe dire: tutti i mezzi grazie ai quali sinora l'umanità ha dovuto esser resa morale, erano fondamentalmente immorali.-

Scorribande di un inattuale

36.

Morale per medici. II malato è un parassita della società. In certe condizioni non è decoroso vivere più a lungo. Continuare a vegetare in una imbelle dipendenza dai medici e dalle pratiche mediche, dopo che è andato perduto il senso della vita, il diritto alla vita, dovrebbe suscitare nella società un profondo disprezzo. I medici dal canto loro dovrebbero essere i portatori di questo disprezzo, non ricette, ma ogni giorno una nuova dose di disgusto per il loro paziente... Creare una nuova responsabilità, quella del medico, per tutti quei casi in cui l'interesse supremo della vita, della vita che ascende, esiga il reprimere e lo spinger da parte, senza alcun riguardo, la vita che degenera responsabilità, ad esempio, per il diritto alla procreazione, per il diritto di nascere, per il diritto di vivere...