Introversione

La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869)

1844-1858

Alla mia giovane età avevo già sperimentato molto dolore e tanti affanni, e non ero vivace e sfrenato come sono di solito i ragazzi. I miei compagni solevano canzonarmi per questa mia gravità.

Ma ciò non accadde soltanto alla scuola elementare, no, anche in seguito, all'istituto e perfino al liceo. Fin da bambino io ricercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso. E ciò avveniva di solito nell'aperto tempio della natura, dove gustavo le gioie più vere. Così, un temporale mi dava sempre la più piacevole delle sensazioni; il tuono lontano, il vivo guizzare dei lampi non facevano che aumentare la mia venerazione per il Signore.

A quest'epoca risalgono anche le mie prime poesie. Di solito in questi primi tentativi si descrivono scene naturali. Ogni giovane cuore non si sente stimolato dalle scene grandiose, non sente l'impulso di mettere queste parole in versi? I primi argomenti di queste mie poesie erano le paurose avventure marine, le tempeste, il fuoco delle folgori. Non seguivo modelli, non avevo idea di come si imiti un poeta, e le scrivevo così come me le dettava il cuore.

1844-1858

Il giorno dell'Ascensione ero entrato nel Duomo e avevo ascoltato il sublime coro del Messiah: l'Alleluia! Mi sentivo spinto a unirmi al canto, che mi sembrava il coro di giubilo degli angeli accompagnanti con la loro voce l'ascesa di Gesù Cristo in cielo. Presi subito la ferma decisione di comporre qualche cosa di simile. E al ritorno dalla chiesa mi misi subito al lavoro, e a ogni nuovo accordo che risuonava provavo una gioia infantile. Poiché continuai questo lavoro per anni, ne trassi notevole vantaggio, perché lo studio delle leggi dell'armonia mi insegnò anche a suonare a prima vista. Per questo non rimpiango i tanti fogli di carta da musica consumati. Me ne derivò anche un odio inestinguibile per tutta la musica moderna e per tutto quanto non era classico. Mozart e Haydn, Schubert e Mendelssohn, Beethoven e Bach: ecco le uniche colonne sulle quali la musica tedesca e io ci fondavamo. In quel tempo ascoltai anche parecchi oratorii. Il primo di essi fu il toccante Requiem; come mi penetrarono le più intime fibre le parole Dies irae, Dies illa! Ma il celestiale Benedictus!-

1844-1858

Che delizia abbandonarsi alla tiepida acqua estiva! Provai questo piacere soprattutto in seguito, quando imparai a nuotare. Lasciarsi andare con la corrente, scivolare senza fatica sull'onda carezzevole, si può immaginare qualcosa di più bello? E poi, io considero il nuoto non soltanto un piacere, ma anche un esercizio assai utile nei pericoli e corroborante e rinfrescante per il corpo. Non lo si raccomanderà mai abbastanza ai giovani. Il posto del nuoto era preso d'inverno dal pattinaggio. Ha un che di soprannaturale scivolare con le ali ai piedi sulla superficie cristallina. Se poi la luna fa piovere sulla terra i suoi raggi d'argento, queste serate sul ghiaccio assumono l'aspetto di notti incantate. L'immoto silenzio tutt'intorno, interrotto soltanto dallo scricchiolio del ghiaccio e dall'incedere sonoro dei pattinatori, ha in sé qualcosa di solenne, che invano cercheremmo nelle notti d'estate.

Ottobre 1858

La mia prima fanciullezza trascorse tranquilla e serena, aleggiandomi intorno leggera, simile a un sogno soave. La pace e la quiete che spirano nella dimora di un sacerdote impressero le loro tracce profonde e indelebili sul mio animo, così come per esperienza vediamo che le prime impressioni del cuore sono le più durature.

10 agosto 1859

Il cielo è piovoso; sono di nuovo un po' depresso; penso con gioia alla domenica, ma la settimana trascorre con insolita lentezza. E’ vero, il cattivo tempo sveglia i cattivi pensieri; il cielo tetro rende tetra anche l'anima, e se piange il cielo, sgorgano lacrime anche dal mio ciglio. Ahimè, mi si ridesta in cuore l'amaro senso dell'autunno. Ricordo un giorno dell'anno passato, quando ero ancora a Naumburg. Ero andato a passeggio da solo davanti alla Porta S. Maria; il vento soffiava sui brulli campi di stoppie, le foglie ingiallite cadevano a terra e un acuto dolore mi trafiggeva: la primavera in fiore, l'estate ardente erano svanite! Svanite per sempre! Ben presto la neve candida seppellirà la moribonda natura!

Cadon le foglie a terra

In preda alla tormenta,

E polvere la vita

Coi suoi sogni diventa!

16 agosto 1859

Io contemplo sempre in spirito l'infinito Tutto; quant'è mirabile e sublime la terra, quant'è grande, tanto che nessun uomo può conoscerla per intero; ma che cosa provo quando vedo le innumerevoli stelle e il sole, e chi mi garantisce che questa immensa volta celeste con tutte le sue costellazioni non sia che una piccola parte dell'universo, e dove ha fine quest'universo? E noi, uomini miserevoli, vogliamo comprenderne il creatore, noi che non riusciamo nemmeno a concepire le sue opere!

17 agosto 1859

Addio, addio! Vuoi scoppiare, cuor mio? - Signore, perché mi hai dato un cuore siffatto, che mi fa gioire e giubilare insieme con la natura? Non riesco a sopportarlo; già i raggi del sole non riscaldano più; i campi sono vuoti e desolati e gli uccelli affamati raccolgono le provviste per l'inverno. Per l'inverno! - Così stretto è il confine tra la gioia e il dolore, ma il passaggio mi sconvolge. Addio, addio! - Gli uccelli sfrecciano nel cielo azzurro verso una terra lontana, e io li seguo tristemente, col cuore in pianto. Non sei, mondo, alfine stanco, nulla crei che può durare; quanto sboccia e in fiore splende dovrà presto dileguare. Tra il danzar dei mai tu cogli rose d'ostro circonfuse; cogli adesso la mia vita che pur ora si dischiuse. Con qua! ferrea catena ahimè, tu mi tieni avvinto. D'amarissimo cordoglio, o Natura, il cuor m'hai cinto. Vedo in pianto, ultima rosa, il tuo sbocciare ed appassire, con te io vivo ed appassisco, con te un dì vo' rifiorire! Ché per sempre il vago sogno della vita non scompare: tornerò di primavera il bel fiore un dì a gustare!

estate 1859

Ogni volta che mi inoltro nel santuario della natura mi coglie un pensiero: tutti questi splendori sono creati per noi, per noi si ergono queste auguste volte ombrose, per noi risplende il sole e brilla la luna; sotto questa luce il mondo intero mi appare un caro compagno, col quale posso scambiare i miei pensieri, e che rimpiango amaramente quando mi abbandona; ma senza separazione non c'è gioioso rivedersi; il sole deve sprofondare nel mare se il giorno seguente deve tornare a effondere nuova vita; la nostra esistenza deve sfiorire, se dovrà suscitarci una più alta resurrezione spirituale.

Quando primavera sorridente spande per i campi la sua doviziosa cornucopia, quando il sole abbraccia la terra con maggior fuoco, i figli del maggio sbocciano, scuotono nella vampa mattutina l'aureo capo tempestato di diamanti e si dischiudono, tremanti di voluttà, gioiosamente trasfigurati. E guarda! Sorge la nera notte e abbraccia la terra sospirosa con la sua buia volta. Possenti tempeste, tuoni che si appressano rimbombando scivolano giù dalle cupe pareti e si affannano per spezzarne i cardini. Lampi infuocati guizzano intorno alle colonne della volta e si levano in alto serpeggiando - e allora Helios sale sul suo trono purpureo e - le potenze delle tenebre si ritirano - la dea della luce avanza nel suo variopinto bagliore sopra il ponte rugiadoso di diamanti e al di sopra di lei si chiude la porta trionfale adorna di folgori - ma i soavi figli della primavera son caduti in deliquio a quella vista sconvolgente, e sopra i fiori dispersi incede il dio trionfatore.

Addio, addio! Vuoi scoppiare, cuor mio? - Signore, perché mi hai dato un cuore siffatto, che mi fa gioire e giubilare insieme con la natura? Non riesco a sopportarlo; già i raggi del sole non riscaldano più; i campi sono vuoti e desolati e gli uccelli affamati raccolgono le provviste per l'inverno. Per l'inverno! - Così stretto è il confine tra la gioia e il dolore, ma il passaggio mi sconvolge. Addio, addio! - Gli uccelli sfrecciano nel cielo azzurro verso una terra lontana, e io li seguo tristemente, col cuore in pianto. Non sei, mondo, alfine stanco, nulla crei che può durare; quanto sboccia e in fiore splende dovrà presto dileguare. Tra il danzar dei mai tu cogli rose d'ostro circonfuse; cogli adesso la mia vita che pur ora si dischiuse. Con qua! ferrea catena ahimè, tu mi tieni avvinto. D'amarissimo cordoglio, o Natura, il cuor m'hai cinto. Vedo in pianto, ultima rosa, il tuo sbocciare ed appassire, con te io vivo ed appassisco, con te un dì vo' rifiorire! Ché per sempre il vago sogno della vita non scompare: tornerò di primavera il bel fiore un dì a gustare!

E io lo invoco, un temporale; il suono delle campane non attira forse i fulmini? Allora vieni, tempesta, netta e purifica, soffia un fresco sentore di pioggia nella mia fiacca natura, sii la benvenuta, benvenuta finalmente!

Guarda! Eccoti guizzare, prima folgore, nel bel mezzo del mio cuore - e da esso si leva in alto un lungo nastro di pallida nebbia. La conosci, la tetra e maligna? Già il mio sguardo si fa più sereno e tendo la mano verso di lei per maledirla. E il tuono brontola; e una voce risuona: “Purificati”.

Afa pesante; il mio cuore trabocca. Non trema una foglia. Ma ecco un lieve alito, sulla terra l'erba rabbrividisce - sii benvenuta, o pioggia, mitigatrice, redentrice! Qui tutto è desolato, vuoto, morto; semina nuove piante!

Guarda: un'altra folgore! Biforcuta e accecante nel bel mezzo del cuore! E una voce risuona: «Spera».

Un soave profumo sorge dalla terra, un vento prende ad aleggiare, e gli tien dietro la tempesta che insegue ululando la sua preda. Essa incalza davanti a sé fiori spezzati. Dietro le scroscia la pioggia gagliarda.

E mi trapassa il cuore. Pioggia e tempesta! Folgori e tuoni! Nel bel mezzo del cuore! E una voce risuona: Rinnòvati!

Storia e scienza, mirabile retaggio di tutto quanto il nostro passato e preannuncio del nostro avvenire, esse sole sono le fondamenta sicure su cui possiamo edificare la torre della nostra speculazione.

Quante volte tutta la nostra filosofia passata mi è sembrata una torre di Babele; attingere al cielo è la meta di tutte le grandi aspirazioni; il regno dei cieli in terra significa quasi la stessa cosa.

Una sconfinata confusione intellettuale nel popolo è il desolante risultato; grandi sconvolgimenti sono imminenti, una volta che la massa abbia capito che l'intero cristianesimo si fonda su ipotesi; l'esistenza di Dio, l'immortalità, l'autorità della Bibbia, l'ispirazione e altre cose ancora rimarranno sempre problematiche. Io ho cercato di negare tutto: ahimè, abbattere è facile, ma costruire! E persino l'abbattere sembra più facile di quanto non sia; noi siamo talmente determinati nel nostro intimo dalle impressioni dell'infanzia, dagli influssi dei genitori, dall'educazione, che quei pregiudizi così profondamente radicati non si lasciano facilmente estirpare con argomenti razionali o con la mera volontà. La forza dell'abitudine, il bisogno di qualcosa di superiore, la rottura con tutto l'esistente, la dissoluzione di tutte le forme della società, il dubbio che l'umanità per duemila anni si sia lasciata indurre in errore da una chimera, il senso della propria presunzione e temerarietà: tutto ciò determina un conflitto senza esito, finché da ultimo esperienze dolorose e tristi eventi riconducono il cuor nostro all'antica fede dell'infanzia.

Non sappiamo affatto se l'umanità stessa non sia altro che un gradino, un periodo nell'universale, nel divenire, se essa non sia una manifestazione volontaria di Dio. E forse l'uomo non è altro che lo sviluppo della pietra fino all'animale, attraverso il termine medio della pianta? Forse già qui è stato raggiunto il suo compimento e anche qui è storia? Non ha fine questo divenire eterno? Quali sono le molle di questa immensa orologeria? Esse sono celate, ma sono le stesse che nel grande orologio che noi chiamiamo storia. Il quadrante sono gli eventi. Di ora in ora procede la lancetta, per ricominciare da capo, dopo le dodici, il suo corso; un nuovo periodo del mondo ha inizio.

E non si potrebbe assumere l'essenza umana stessa come l'insieme di quelle molle? In tal caso le due concezioni sarebbero mediate). Oppure il tutto è guidato da mire e da piani superiori? E l'uomo solo un mezzo oppure è scopo?

1868-1869

Fin dall'età di nove anni avevo sentito la più forte attrazione per la musica; in quella felice condizione in cui non si conoscono ancora i limiti delle proprie facoltà e si considera raggiungibile tutto quanto si ama, avevo scritto innumerevoli composizioni, e avevo approfondito in maniera non dilettantesca la teoria musicale. Fu solo nell'ultimo periodo della mia vita a Pforta che rinunciai, conoscendomi ormai a fondo, a qualunque progetto di vita artistica; da allora in poi nel vuoto così creato venne a inserirsi la filologia.

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

2.

Era, quindi, proprio un cullarsi nei miei desideri, quando mi immaginavo di poter trovare come educatore un vero filosofo, che fosse capace di sollevare una persona al di sopra dell'insoddisfazione insita nell'epoca e che di nuovo insegnasse a pensare e a vivere con semplicità e sincerità, ad essere cioè inattuale, nel significato più profondo della parola; oggi infatti gli uomini sono diventati così molteplici e complicati che devono essere insinceri quando parlano, sostengono delle opinioni e vogliono agire in conseguenza ad esse.

In questo stato di angustie, bisogni e desideri conobbi Schopenhauer.

Faccio parte di quei lettori di Schopenhauer che, dopo averne letto la prima pagina, sanno con sicurezza che leggeranno e ascolteranno ogni parola da lui comunque detta. Subito si determinò in me fiducia in lui, fiducia che a tutt'oggi è la stessa di nove anni fa. Lo intendevo come se avesse scritto per me: per esprimermi in modo chiaro anche se non privo di immodestia e di follia. Da ciò deriva il fatto che non ho mai trovato in lui un paradosso, anche se qua e là qualche piccolo errore; infatti che cosa sono i paradossi se non affermazioni che non ispirano fiducia, fatte senza fiducia dallo stesso autore, per poter, grazie a loro, essere brillante, sedurre o comunque far bella figura?

Scrittori simili ci mancano. Il vigoroso senso di benessere di colui che parla ci afferra al primo risuonare della sua voce: è una sensazione simile a quella che si prova entrando in un bosco di alberi ad alto fusto; respiriamo profondamente e ci sentiamo tutto a un tratto di nuovo bene. Qui c'è sempre un'aria egualmente corroborante, così sentiamo; qui c'è una certa inimitabile libertà e naturalezza, propria di quegli uomini che dentro di sé si sentono a casa, e in una casa molto ricca: al contrario di quegli scrittori che ammirano soprattutto se stessi per essere stati, una volta, geniali e la loro esposizione, proprio per questo, ha un che di inquieto e innaturale.

Per quanto il contenuto sia terribile e serio, come lo è appunto il problema dell'esistenza: l'opera avrà un effetto opprimente e tormentoso soltanto se il mezzo pensatore o il mezzo artista vi avrà effuso i vapori della propria insoddisfazione; mentre per l'uomo non vi sarà nulla di più gaio e di più bello che poter stare vicino ad uno di quei vittoriosi, che, proprio per aver pensato le cose più profonde, devono appunto amare ciò che è più vivo e, come saggi, infine, aver predisposizione al bello. Essi parlano veramente, non balbettano né chiacchierano a vanvera; essi si muovono e vivono realmente, non certo al modo di sinistre maschere, come sono soliti vivere gli uomini: perciò, nella loro vicinanza, ci sentiamo davvero umani e naturali e vorremmo esclamare come Goethe «che cosa meravigliosa e preziosa è un vivente! quanto adeguato alla sua condizione, quanto vero, quanto esistente!»

Io non descrivo altro che la prima e quasi fisiologica impressione suscitata in me da Schopenhauer, quel magico irradiare della più profonda forza di un frutto della natura su di un altro, che si ha al primo e più lieve contatto; e, se analizzo ulteriormente quell'impressione, trovo che è formata da tre elementi, dall'impressione della sua sincerità, della sua serenità e della sua fermezza. E’ sincero perché parla e scrive a se stesso e per se stesso, e fermo perché così deve essere.

La sua forza si innalza come fiamma, quando l'aria è ferma, diritta e leggera in alto, sicura, senza tremolii e incertezze. Trova la sua strada in ogni caso, senza che noi neppure ci accorgiamo che l'ha cercata; ma, come costretto da una legge della gravità, vi accorre così fermo e agile, così inevitabile. E se qualcuno ha mai inteso che cosa significhi, nella nostra attuale umanità di ircocervi, trovare una natura tutta intera, univoca, ben salda nei propri cardini e tuttavia in movimento, disinvolta e senza impacci, comprenderà la mia felicità e la mia meraviglia, allorché trovai Schopenhauer: sentivo di aver trovato in lui quell'educatore e filosofo da tanto tempo cercato. E tutto ciò soltanto sotto forma di libro: il che fu certo una grande privazione.

Tanto più mi affannai di vedere attraverso il libro e di immaginarmi l'uomo vivente, di cui dovevo leggere il grande testamento in cui prometteva di fare suoi eredi solo coloro che volessero e potessero essere più che suoi semplici lettori: cioè suoi figli e discepoli.

3.

Oh, ben m'accorgo che voi non sapete che cosa sia l'isolamento. Dove si sono avute potenti società, governi, religioni, opinioni pubbliche, in breve, ovunque ci fu una tirannia, essa ha odiato il filosofo solitario; infatti la filosofia offre all'uomo un asilo a cui nessuna tirannide può accedere, la caverna dell'intimo, il labirinto del petto: e questo irrita i tiranni. Là i solitari si nascondono: ma là si apposta anche il maggior pericolo per loro. Questi uomini, che hanno messo in salvo nell'intimo la propria libertà, devono vivere anche esternamente, diventar visibili, farsi vedere; essi hanno infiniti legami per nascita, residenza, educazione, patria, caso, indiscrezione degli altri; e così anche infinite opinioni sono presupposte in loro, solo perché sono quelle dominanti; ogni espressione che non sia un diniego vale come approvazione; ogni movimento della mano, che non distrugge, viene interpretato come accondiscendimento.

Essi sanno, questi solitari e liberi nello spirito, di apparire continuamente e ovunque in modo diverso da come pensano e pur non volendo altro che verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi silenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcanici e minacciosi.

Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi, della riservatezza imposta. Escono dalle loro caverne con espressioni tremende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile che causino la loro stessa rovina. In tanta pericolosità visse Schopenhauer.

Proprio questi solitari hanno bisogno di amore, di compagni con cui poter essere aperti e semplici come con se stessi, alla cui presenza lo spasimo del silenzio e della finzione abbia tregua. Se togliete loro tali compagni, aumenterete il pericolo. Heinrich von Kleist perì per non essere amato; il più terribile antidoto contro uomini straordinari è infatti respingerli nel profondo di se stessi in modo tale che ogni nuova sortita debba avvenire come un'esplosione vulcanica. Tuttavia c'è sempre un semidio che sopporta di vivere a queste tremende condizioni e di vivere vittoriosamente; e se volete ascoltare i suoi canti solitari, ascoltate la musica di Beethoven.

Il primo pericolo all'ombra del quale Schopenhauer crebbe fu dunque l'isolamento. Il secondo è il disperare della verità. Questo pericolo accompagna ogni pensatore che, partendo dalla filosofia kantiana, percorra una strada propria, premesso che sia un uomo possente e completo, nel dolore come nelle aspirazioni, e non soltanto una strepitante macchina per pensare e calcolare. Ora noi tutti sappiamo bene in che stato vergognoso ci si trovi con questa premessa.

4.

Ma ricevere un dono o essere costretto sono espressioni disprezzabili, con cui si vuole sfuggire a un avvertimento interiore, insulti per coloro che hanno prestato ascolto a questo avvenimento, quindi per il grande uomo: proprio lui, infatti, meno di tutti, permette che gli si faccia un dono o una costrizione sa bene, quanto un piccolo uomo, come si possa prendere la vita alla leggera, e quanto morbido sia il letto in cui potrebbe distendersi se si comportasse con se stesso e con i suoi simili con garbo e secondo le consuetudini: e tutti gli ordinamenti dell'uomo tendono proprio a questo, a far sì che la vita, in una continua distrazione dei pensieri, non venga avvertita. Perché egli allora vuole con tanta forza il contrario, sentire cioè proprio la vita, vale a dire soffrire della vita?

Perché egli si accorge che lo si vuole defraudare di se stesso, e che c'è una specie di accordo per strapparlo alla sua caverna. Allora recalcitra, drizza le orecchie e decide: «voglio rimanere mio!». una decisione terribile; e solo poco alla volta se ne accorge. Ora infatti deve tuffarsi nel profondo dell'esistenza con una serie di domande insolite sulle labbra: perché vivo? Quale lezione devo apprendere dalla vita? Come sono diventato così come sono, e perché soffro di questo essercosì? Si tormenta: e vede che nessuno si tormenta così, che le mani dei suoi simili sono appassionatamente tese ai fantastici avvenimenti che il teatro politico mostra; oppure che essi stessi vanno girando tronfi in cento maschere, come adolescenti, uomini, vecchi, padri, cittadini, preti, impiegati, commercianti assiduamente preoccupati della loro comune commedia e niente affatto di se stessi. Alla domanda «a che scopo vivi?» tutti risponderanno senza esitare e con orgoglio: «per diventare un buon cittadino o un buono studioso o un buono statista», eppure essi sono qualcosa che non può diventare nulla di diverso; e perché sono proprio questo? E, purtroppo, niente di meglio?

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

625.

Uomini solitari. - Alcuni uomini sono tanto abituati a viver soli con se stessi, che non si paragonano affatto con gli altri, ma con animo ilare e tranquillo, tra buoni colloqui con se stessi, e persino con riso, continuano a intessere il monologo della loro vita. Ma se li si porta a confrontarsi con gli altri, essi tendono a sottovalutare ossessivamente se stessi, tanto che debbono esser costretti a imparare nuovamente solo dagli altri una buona e giusta opinione di sé: e anche da questa opinione appresa vorranno sempre detrarre e togliere qualcosa. - Pertanto a certi uomini bisogna concedere la loro solitudine e non essere così sciocchi, come tanto spesso accade, da compiangerli per questo.

Volume II

200.

Parla il solitario. - A compenso del molto tedio, malumore, noia - cose, tutte, che necessariamente conseguono a una solitudine senza amici, libri, doveri, passioni - si mietono quei quarti d'ora di profondissimo raccoglimento in sé e nella natura. Chi si trincera totalmente contro la noia, si trincera anche contro se stesso: né potrà mai bere la bevanda energetica e ristoratrice che scaturisce dalla propria fonte interiore.

232.

I profondi. - Uomini dal pensiero profondo si sentono, nel rapporto con gli altri, dei commedianti, giacché qui, per essere compresi, debbono sempre fingere una superficie.

237.

Il viandante sui monti a se stesso. - Ci sono segni sicuri del fatto che sei andato più avanti e più in alto: intorno a te c'è più spazio e la prospettiva è più ampia di prima, ti investe un'aria più fresca, ma anche più mite - infatti hai disimparato la stoltezza di scambiare mitezza e calore - il tuo passo si è fatto più vivace e fermo, coraggio e avvedutezza sono cresciuti insieme: - per tutti questi motivi la tua strada potrà ora essere più solitaria, e in ogni caso più pericolosa di prima, benché, certo, non nella misura in cui credono coloro che ti vedono salire viandante dalla valle nebbiosa verso il monte.

333.

Rapporti come godimento. - Se uno, con senso di rinuncia, si mantiene in volontaria solitudine, può in tal modo rendere una leccornia i rapporti con gli uomini, raramente goduti.

348.

Dal paese degli antropofagi. - Nella solitudine l'individuo si divora da solo, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli.

368.

Oscurarsi. - Occorre sapersi oscurare per liberarsi degli sciami di zanzare degli ammiratori troppo molesti.

375.

Vicinanza della mendicità. - Anche lo spirito più ricco può talvolta perdere la chiave della stanza in cui giacciono accumulati i suoi tesori, e allora è simile al più povero, che deve mendicare per vivere.

386.

L'orecchio mancante. - «Si appartiene ancora al volgo sinché si addossa la colpa agli altri; si è sulla via della saggezza quando si rende responsabili solo e sempre se stessi; ma il saggio non ritiene colpevole nessuno, né sé né gli altri.» - Chi dice questo? - Epitteto, milleottocento anni fa. - Lo si è ascoltato, ma dimenticato. - No, non lo si è né ascoltato né dimenticato: non ogni cosa si dimentica. Ma non si ebbe l'orecchio adatto, l'orecchio di Epitteto. - Allora se lo è detto all'orecchio da solo? - Così è: la saggezza è il bisbiglio del solitario a se stesso in pieno mercato.

397.

Segni di un'anima nobile. Un'anima nobile non è quella capace dei voli più alti, bensì quella che si innalza poco e cade poco, ma dimora sempre in un'aria e a un'altezza più libere e luminose.

Aurora (1881)

5.

Un libro del genere, un problema del genere non ha alcuna fretta; inoltre noi due siamo amici del lento, io come il mio libro...

La filologia infatti è quell'onorevole arte che da colui che la venera esige soprattutto una cosa, trarsi in disparte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento -, in quanto è un'arte e una competenza di orafi della parola, che deve compiere soltanto lavori finissimi che richiedono cautela e non raggiunge nulla, se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo essa è oggi più necessaria che mai e proprio perciò ci attira e ci affascina assai fortemente, nel cuore di un'epoca del «Lavoro», voglio dire: della fretta, dell'indecente e sudaticcia precipitazione, che vuoi «sbrigarsela» subito con ogni cosa, anche con ogni antico e nuovo libro: - essa stessa non se la sbriga così facilmente con una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè lentamente, profondamente, con riguardo e precauzione, con pensieri reconditi, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati…

471.

Un diverso amore per il prossimo. - L'indole eccitata, rumorosa, instabile, nervosa costituisce l'opposto della grande passione: questa, come una tacita e cupa fiamma che abita nell'intimo e là raccoglie tutto quanto, brucia e arde, fa che l'uomo guardi fuori di sé con freddezza e indifferenza e imprime ai suoi lineamenti una certa impassibilità. Tali uomini all'occasione sono certo capaci di amore per il prossimo - ma questo amore è di una specie diversa da quella dei socievoli e dei civettuoli: è una gentilezza mite, contemplativa, serena; essi guardano, per così dire, dalle finestre della loro rocca, che è la loro fortezza e appunto perciò la loro prigione: lo sguardo in ciò che è estraneo, libero, lo sguardo nell'altro fa loro così bene!

473.

Dove si deve costruire la propria casa. - Se ti senti grande e fecondo nella solitudine, lo stare in società ti renderà piccolo e sterile: e viceversa. Una possente mitezza, come quella di un padre: - laddove sarai colto da questo stato d'animo, getta le fondamenta della tua casa, sia nella confusione, che nel silenzio. Ubi pater sum, ibi patria.

485.

Prospettive lontane. - A: Ma perché questa solitudine? - B: Io non sono in collera con nessuno. Ma da solo mi sembra di vedere i miei amici in modo più chiaro e migliore che stando insieme a loro; anche quando amavo e sentivo la musica più di qualsiasi cosa vivevo lontano da essa. Sembra che io abbia bisogno di prospettive lontane per pensare bene delle cose.

491.

Anche per questo, solitudine! - A: Così vuoi far ritorno nel tuo deserto? - B: Io non sono veloce, devo aspettarmi, - si fa tardi prima che, ogni volta, giunga alla luce l'acqua che sgorga dalla fontana del mio io, e spesso devo patire la sete più a lungo di quanto abbia pazienza. Per questo me ne vado nella solitudine, - per non bere dalle cisterne di tutti. Tra molti io vivo come molti e non penso secondo il mio io; dopo un po' di tempo mi succede sempre come se mi si volesse esiliare da me stesso e rubarmi l'anima - ed io mi arrabbio con tutti e temo tutti. Il deserto mi è allora necessario per ridiventare buono.

524.

Gelosia dei solitari. - Fra nature socievoli e nature solitarie (ammesso che entrambe abbiano dello spirito) c'è questa differenza: le prime divengono contente o quasi contente di una cosa, qualunque sia, dal momento in cui abbiano trovato nel loro spirito una felice espressione per comunicarla, - questo fatto le concilia anche con il diavolo! I solitari invece trovano in una cosa la loro silenziosa beatitudine, il loro silenzioso tormento, odiano l'esposizione brillante e ricca di spirito dei loro più intimi problemi, così come odiano un modo di vestire troppo ricercato nella loro amata: allora la guardano melanconicamente, come se fosse insorto in loro il sospetto che volesse piacere ad altri! Questa è la gelosia per l'esprit propria di tutti i pensatori solitari e gli appassionati sognatori.

La gaia scienza (1882)

Prefazione

3.

Vivere ― per noi significa tutto quello che siamo, trasformare costantemente in luce e fiamma anche tutto quello che ci riguarda, non possiamo farne a meno. E per quanto concerne la malattia: non avremmo quasi la tentazione di domandarci se non sia proprio indispensabile? Soltanto il grande dolore è l’ultimo liberatore dello spirito, in quanto maestro di quel grande dubbio che fa di ogni U una X, una X completamente autentica, cioè la penultima lettera dell’alfabeto... Soltanto il grande dolore, quel dolore grande e lento che si prende tempo e nel quale bruciamo come legna verde, costringe noi filosofi a scendere nei nostri abissi più profondi e a disfarci di tutta la fiducia, di tutto ciò che è bonario, dissimulante, mite, medio, in cui forse un tempo avevamo riposto la nostra umanità. Io dubito che un tale dolore possa «migliorare»; so però che ci rende più profondi.

33. Il solo

Odioso mi è il seguire e anche il condurre.

Obbedire? No! Ma neppure... governare!

Chi non fa paura a se stesso, non fa paura a nessuno:

e solo chi fa paura può guidare gli altri.

A me è odioso già il guidare me stesso!

Io amo, come gli animali del bosco e del mare,

smarrirmi per un bel po’,

accovacciarmi almanaccando in un soave garbuglio

e infine, da lontano, adescarmi a casa mia,

essere il seduttore di me stesso.

2. La coscienza intellettuale.

Io faccio ripetutamente la stessa esperienza e, ogni volta, ad essa mi oppongo con tutte le mie forze, non ci credo se non tocco con mano: alla maggioranza degli uomini manca la coscienza intellettuale; anzi mi è spesso parso che chi ne senta l'esigenza si trovi, anche nelle città più popolose, solo come nel deserto. Ti guardano tutti con occhi estranei e continuano a usare la loro bilancia, definendo questo buono e quello cattivo; nessuno arrossisce minimamente quando fai loro notare che questi pesi non sono assoluti, né se la prendono con te: forse ridono dei tuoi dubbi.

Voglio dire: la maggioranza degli uomini non trova niente da ridire nel credere a questo o a quello e nel vivere di conseguenza, senza prima aver preso coscienza dei motivi ultimi e più sicuri pro e contro, e senza essersi neppure dati pena di cercarli, questi motivi: anche gli uomini più dotati e le donne più nobili appartengono sempre a questa «maggioranza». Ma cosa sono buon cuore, finezza e genio se l'uomo dotato di queste virtù tollera accanto a sé, nel credere e giudicare, sentimenti pigri, se il desiderio di certezza non è per lui la brama più intima e la necessità più profonda, in quanto elemento di separazione tra gli uomini più elevati e quelli più bassi!

Ho rivenuto in alcuni uomini pii un certo odio nei confronti della ragione, e questo mi ha bendisposto nei loro confronti: tradiva infatti, quanto meno, il permanere di una malvagia coscienza intellettuale! Ma stare nel bel mezzo di questa rerum concordia discors e di tutta la meravigliosa insipienza e molteplicità dell'esistenza, senza domandare, senza tremare per la brama e il piacere del domandare, senza neppure odiare chi domanda, fors'anche trovandolo appena divertente: è questo che io trovo riprovevole, ed è questa percezione che io cerco per prima cosa in chiunque incontri; una specie di follia mi convince sempre che ogni uomo ha questa percezione. È la mia personale ingiustizia. (LGS pp. 65-66)

Il gusto della natura più elevata si orienta verso eccezioni, verso cose che normalmente lasciano freddi e non sembrano avere dolcezza alcuna; la natura più elevata pare avere una singolare scala di valori. In realtà essa è per lo più dell'idea di non avere, nella sua idiosincrasia del gusto, una scala di valori singolare; essa considera semmai i suoi valori e disvalori come valori e disvalori assolutamente validi, incappando così in quanto è incomprensibile e privo di praticità. È molto raro che a una tale natura più elevata rimanga tanta ragione da capire e trattare le persone quotidiane come tali: generalmente essa considera la propria passione come passione di tutti, per quanto tenuta nascosta, e proprio in questa convinzione essa è traboccante di ardore e retorica. Se però tali persone eccezionali non si percepiscono quali eccezioni, come potranno mai capire la natura volgare e disprezzare la regola! ―

E così parlano anch'essi di follia, di inadeguatezza allo scopo e di fantasticherie dell'umanità, colmi di meraviglia per le stranezze del mondo e sul perché esso non voglia convertirsi a ciò «di cui ha bisogno». Questa è l'eterna ingiustizia dei nobili.

182. In solitudine.

Se si vive soli, non si parla troppo forte né si scrive troppo forte, perché si teme la vuota eco - la critica della ninfa Eco. E tutte le voci hanno un suono diverso, in solitudine!

218. La mia antipatia.

Non amo le persone che, per sortire un effetto, debbono scoppiare come bombe, e vicino alle quali si corre sempre il pericolo di perdere l'udito - o qualcosa di più.

244. Pensieri e parole.

Non si possono mettere compiutamente sotto forma di parole neppure i propri pensieri.

295. Abitudini brevi.

Io amo le abitudini brevi e le ritengo uno strumento inestimabile per conoscere molte cose e circostanze, fino al fondo delle loro dolcezze e amarezze; la mia natura è completamente orientata verso le abitudini brevi, persino nei bisogni della sua salute fisica e comunque, per quanto mi è dato di vedere, dalle cose più infime a quelle più elevate. Credo sempre che la tal cosa mi soddisferà in modo duraturo - anche la breve abitudine conosce quella fede della passione, la fede nell'eternità - e che mi si possa invidiare per averla trovata e riconosciuta: così essa mi nutre i meriggi e le sere e diffonde intorno a sé e in me un profondo appagamento, cosicché non desidero altro da confrontare o disprezzare od odiare. E un giorno il suo tempo finisce: quella buona cosa si allontana da me, non perché mi dia nausea, ma serenamente, sazia di me come io lo sono di lei, e come se dovessimo esserci reciprocamente grati e, nel prendere commiato, stringerci la mano. E già sulla soglia aspetta qualcosa di nuovo e così la mia fede - questa indistruttibile follia e saggezza - che questa novità sarà quella giusta, giusta e definitiva. Mi succede così con vivande, pensieri, uomini, musiche, teorie, ordini del giorno, modi di vita.

Per contro odio le abitudini durature e, qualora gli eventi prendano una forma tale da sembrare destinati a favorire l'allignamento di abitudini durature, ho l'impressione che mi si avvicini un tiranno e che l'aria della mia vita si faccia più pesante; ad esempio per via di un incarico, della compagnia costante di una certa persona, di una residenza fissa, di un unico stato di salute. Sì, nel più profondo della mia anima provo un sentimento di riconoscenza per tutte le mie miserie e malattie, per tutto quello che in me è imperfetto, perché mi lasciano cento porte posteriori per sfuggire alle abitudini durature. La cosa più intollerabile, tuttavia, di cui avrei davvero terrore, sarebbe una vita completamente senza abitudini, una vita che richieda continue improvvisazioni: sarebbe il mio esilio e la mia Siberia.

331. Meglio sordo che assordato.

Una volta si aspirava a far parlare di sé: oggi questa non basta più, perché il mercato si è allargato troppo, - e si aspira a far urlare. Ne consegue che anche le buone gole gridano troppo e le merci migliori sono offerte da voci roche: senza schiamazzi da mercato e raucedine non si dà più genio alcuno. Questa è davvero un'epoca malvagia per il pensatore: egli deve imparare a trovare ancora il suo silenzio tra due chiassi e a fingersi sordo finché non lo diventa. Finché non lo ha imparato, però, corre sicuramente il pericolo di morire di impazienza e di mal di testa.

364. Parla l'eremita.

L'arte di trattare con gli uomini consiste soprattutto nell'abilità (che presuppone un lungo esercizio) di accettare e assumere un pasto preparato da una cucina in cui non si ha fiducia alcuna. Posto che si giunga a tavola con una fame da lupi, tutto va per il meglio («la pessima compagnia si fa sentire», come dice Mefistofele); ma non c'è mai, questa fame da lupi, quando se ne avrebbe bisogno! Oh, quant'è difficile digerire il prossimo! Regola prima: farsi coraggio come in una disgrazia, intervenire valorosamente, provare ammirazione per se stessi, tenere fra i denti la propria ripugnanza e ingoiare la nausea. Regola seconda: «migliorare» il prossimo, ad esempio con una lode, dimodoché egli cominci a trasudare felicità, oppure afferrare un lembo delle sue qualità buone o «interessanti» e tirarlo finché tutta la virtù non ne è venuta fuori e si può nascondere il prossimo sotto le sue pieghe. Regola terza: autoipnotizzazione. Fissare l'oggetto del rapporto come se fosse una sfera di cristallo finché non si cessa di provare qualsiasi sensazione di piacere o dispiacere e, inavvertitamente, ci si addormenta, ci si irrigidisce, si acquisisce un contegno: un rimedio casalingo tratto dal matrimonio e dall'amicizia, abbondantemente sperimentato, lodato come indispensabile ma non ancora formulato scientificamente. Il suo nome popolare è - pazienza.

365. Parla di nuovo l'eremita.

Anche noi trattiamo con gli «uomini», anche noi indossiamo modestamente l'abito nel quale (per il quale) gli altri ci conoscono, rispettano, cercano, e con esso ci rechiamo in società, cioè fra travestiti che non vogliono chiamarsi così; anche noi ci comportiamo alla maniera di tutte le maschere astute e mettiamo cortesemente alla porta ogni curiosità che non riguardi il nostro «abito». Esistono anche altri modi ed espedienti per «aggirarsi» tra gli uomini e con essi trattare, ad esempio quello del fantasma, - assai consigliabile se ci si vuoi liberare di loro alla svelta e farli spaventare. La prova: tendono la mano verso di noi e non riescono ad afferrarci. Questo spaventa. Oppure: passiamo attraverso una porta chiusa. Oppure: quando tutte le luci sono spente. Oppure: dopo la nostra morte. Quest'ultimo è il gioco di prestigio degli uomini postumi par excellence. («Che ne pensate?», disse una volta impazientemente uno di costoro, «Riusciremmo a sopportare questa estraneità, freddezza, silenzio di morte intorno a noi, tutta questa solitudine sotterranea, nascosta, muta e inesplorata che da noi si chiama vita e potrebbe benissimo chiamarsi anche morte, se non sapessimo che cosa sarà di noi, - e che soltanto dopo la morte avremo la vita e saremo vivi, ah! Molto vivi! Noi uomini postumi!»)

371. Noi incomprensibili.

Ci siamo mai lamentati di essere incompresi, misconosciuti, scambiati con altri, calunniati, trascurati e inascoltati? Eppure è questa la nostra sorte, e lo sarà ancora a lungo! Diciamo, per essere modesti, fino al 1901 - è anche il nostro segno distintivo -; non ci terremmo abbastanza in onore, se ci augurassimo qualcosa di diverso. Ci scambiano con altri: ciò significa che noi cresciamo, ci trasformiamo di continuo, ci scrolliamo di dosso le vecchie scorze, cambiamo pelle a ogni primavera, diventiamo sempre più giovani, futuri, alti, forti, spingiamo le nostre radici in profondità - nel male - con sempre maggiore potenza, mentre al contempo abbracciamo il cielo con amore sempre più grande, sempre più vasto, suggendo sempre più assetati la sua luce, con tutti i nostri rami e le nostre foglie. Cresciamo come alberi - è difficile da comprendere, come ogni vita! - non in un punto, ma dappertutto, non in una direzione, ma verso l'alto, verso l'interno e verso il basso; la nostra forza spinge allo stesso tempo nel tronco, nei rami e nelle radici, non abbiamo più la libertà di fare qualcosa d'individuale, di essere qualcosa d'individuale... E’ questa la nostra sorte, come abbiamo detto; noi cresciamo in altezza; e posto che ciò ci divenga fatale - abitiamo sempre più vicini ai fulmini - ebbene, non per questo lo teniamo meno in onore, rimane quello che non vogliamo condividere né comunicare, la fatalità dell'altezza, la nostra fatalità...

376. I nostri tempi lenti.

Così tutti gli artisti e gli uomini delle «opere» percepiscono gli uomini di tipo materno: essi credono sempre, in ogni epoca della loro vita - cui corrisponde ogni volta un'opera - di essere arrivati alla meta, per cui accoglierebbero pazientemente la morte, con questo sentimento: «siamo maturi». Non si tratta di un'espressione di stanchezza, semmai di una certa solarità e mitezza autunnale, e ogni volta è l'opera stessa, il fatto che un'opera è giunta a maturazione, a lasciare queste tracce nel suo creatore. Allora il ritmo della vita rallenta e si fa denso e stillante come il miele - fino a conoscere lunghe pause, e la fede nella lunga pausa...

378. «E torniamo ad essere limpidi.»

Noi generosi e ricchi dello spirito, che stiamo sulla strada come fontane aperte e non impediamo a nessuno di attingere dalle nostre acque: purtroppo non sappiamo difenderci, anche se lo volessimo, non possiamo impedire a nessuno di renderci torbidi e cupi; - non possiamo impedire che il tempo in cui viviamo getti in noi la sua «ultima attualità», i suoi sudici uccelli la loro immondizia, i fanciulli i loro pasticci e i viandanti miseri ed esausti che accanto a noi riposano le loro miserie grandi e piccine. Ma faremo come abbiamo sempre fatto: lasciamo che quanto ci gettano giunga in profondità - perché noi siamo profondi, non dimentichiamo niente - e torniamo ad essere limpidi...

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte prima

Delle mosche del mercato

Fuggi, amico mio, nella mia solitudine! Io ti vedo stordito dal rumore dei grandi uomini e trafitto dai pungiglioni dei piccoli.

Con dignità sanno tacere con te bosco e rupe. Assomiglia di nuovo all'albero che ami, dalle ampie fronde: silenzioso e in ascolto si protende sul mare.

Dove cessa la solitudine, là incomincia il mercato e dove incomincia il mercato, là incomincia anche il rumore dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche velenose.

Nel mondo le cose migliori non servono a nulla, se non v'è nessuno che le rappresenti: grandi uomini chiama il popolo questi rappresentatori.

Poco comprende il popolo la grandezza, cioè il creare. Ma è sensibile a tutti i rappresentatori e commedianti di grandi vicende.

Intorno agli inventori di nuovi valori ruota il mondo: ruota in modo invisibile. Ma intorno ai commedianti ruotano il popolo e la fama: questo è il «corso del mondo».

Spirito ha il commediante, ma poca coscienza dello spirito. Sempre crede in ciò con cui riesce a far credere gli altri più fortemente, far credere in lui stesso!

Domani avrà una nuova fede e dopodomani un'altra ancora. Ha i sensi pronti come il popolo e umori variabili.

Rovesciare significa per lui: dimostrare. Render folli significa per lui: convincere. E il sangue è per lui il migliore degli argomenti.

Una verità che penetra solo in orecchi fini egli la chiama menzogna e nulla. Infatti egli crede soltanto a dèi che suscitino gran frastuono nel mondo!

Pieno di solenni saltimbanchi è il mercato e il popolo si vanta dei suoi grandi uomini: questo sono per lui i padroni dell'ora.

Ma l'ora li incalza: così essi incalzano te. E anche da te vogliono un sì o un no. Ahimè, tu vuoi collocare la tua sedia fra il pro e il contro?

Lenta è l'esperienza per le fontane profonde: a lungo debbono aspettare prima di sapere che cosa è caduto nel profondo.

Parte seconda

II canto notturno

E’ notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. E anche la mia anima è una fontana zampillante.

E’ notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche la mia anima è il canto di un amante.

In me è qualcosa d'inappagato e d'inappagabile: vuole prender voce. Una brama d'amore è in me che parla la lingua dell'amore.

Luce io sono: ah, fossi notte! Ma questa è la mia solitudine, essere cinto di luce.

Ah, fossi scuro e notturno! Come succhierei i semi della luce!

E benedirei anche voi, piccole stelle sfavillanti e lucciole lassù! e sarei beato dei vostri doni di luce.

Ma io vivo nella mia propria luce, ringhiotto le fiamme che da me si sprigionano.

Non conosco la felicità di chi prende; e spesso sognai che rubare dev'essere ancor più beato che prendere.

Questa è la mia povertà, che la mia mano non riposi mai dal donare; questa è la mia invidia, vedere occhi in attesa e le illuminate notti del desiderio.

O infelicità di tutti coloro che donano! O eclissi del mio sole! O brama di bramare! O fame nella sazietà!

Essi prendono da me: ma tocco io ancora la loro anima? C'è un abisso fra il dare e il prendere; e il più piccolo abisso è l'ultimo ad essere superato.

Fame nasce dalla mia bellezza; vorrei far male a quelli cui faccio luce, derubare, quelli cui donai: tanta fame ho di cattiveria.

La mia pienezza escogita tale vendetta: dalla mia solitudine sgorga questa malizia.

La mia felicità di donare morì nel donare, la mia virtù si stancò di se stessa per la propria sovrabbondanza!

Il pericolo di chi sempre dona è che perda il pudore; la mano di chi sempre distribuisce ha i calli per il troppo distribuire.

Il mio occhio non si riempie più di lacrime davanti alla vergogna di chi chiede; la mia mano diventò troppo dura per il tremito di mani colme.

Dov'è andata la lacrima del mio occhio e la tenera piuma del mio cuore? O solitudine di tutti quelli che danno! O muto silenzio di tutti quelli che fanno luce!

Molti soli ruotano nello spazio vuoto: a tutto quello che è scuro parlano con la loro luce, con me tacciono.

Ingiusto nel profondo del cuore contro ogni cosa che fa luce, freddo verso i soli così cammina ogni sole.

Come tempeste volano i soli per le loro strade, questo è il loro camminare. Seguono la propria volontà inesorabile: questa è la loro freddezza.

Oh, siete solo voi, voi scuri, voi notturni che create calore da ciò che fa luce! Voi soli a bere latte e refrigerio dalle mammelle della luce!

Ah, ghiaccio è intorno a me, la mia mano si brucia su cose di ghiaccio! Ah, sete è in me, che langue e brama la vostra sete!

E’ notte: ah, dover essere luce! E sete di cose notturne! E solitudine!

E’ notte: come una sorgente ora sgorga da me il mio desiderio, desiderio di parlare.

E’ notte: ora parlano forte tutte le fontane zampillanti. E anche la mia anima è una fontana zampillante.

E’ notte: solo ora si destano tutti i canti degli amanti. E anche la mia anima è il canto di un amante.

Così cantò Zarathustra.

Dei dotti

Sono troppo caldo e arso dai miei pensieri: spesso mi tolgono il respiro. Allora devo uscire all'aperto e allontanarmi da tutte le stanze polverose

Dei grandi eventi

Libertà è il vostro strepito preferito: ma io disimparai la fede nei grandi avvenimenti non appena intorno a loro si leva strepitio e fumo.

Ma credimi, amico Frastuono Infernale! I massimi avvenimenti non sono le nostre ore più rumorose, ma le nostre ore più silenziose.

Non intorno agli inventori di nuovo frastuono: intorno agli inventori di nuovi valori ruota il mondo; e ruota inudibile.

Della redenzione

Questo è il meno che mi sia capitato da quando sono tra gli uomini: vedere che: "A costui manca un occhio e a quello un orecchio e a un terzo la gamba, e ci sono altri che perdettero la lingua o il naso o la testa".

Vedo e vidi di peggio e certe cose così orripilanti che non posso parlare di ognuna e non voglio nemmeno tacere di alcune: e cioè uomini a cui manca tutto tranne una sola cosa che hanno invece in sovrabbondanza, uomini che non sono null'altro che un grande occhio e una grande bocca o un grande ventre o qualcosa di grande, disgraziati alla rovescia io li chiamo.

E quando io uscii dalla mia solitudine e percorsi per la prima volta questo ponte, non credevo ai miei occhi, e guardavo e guardavo, e alla fine dissi: "Questo è un orecchio! Un orecchio grande come un uomo!". Guardai meglio: e in realtà sotto l'orecchio si muoveva ancora qualcosa, piccolo e misero e macilento da far pietà. In verità, l'enorme orecchio posava su esilissimo gambo, ma il gambo era un uomo! Chi si fosse messo una lente davanti all'occhio avrebbe potuto riconoscere anche un visetto invidioso; e che sul gambo penzolava anche un'animuccia enfiata. Ma il popolo mi disse che il grande orecchio non era soltanto un uomo, bensì un grand'uomo, un genio. Ma io non credetti mai al popolo, quando parlava di grandi uomini e continuai a credere che si trattasse di un disgraziato alla rovescia, che aveva troppo poco di tutto e troppo di una sola cosa».

Quando Zarathustra ebbe così parlato al gobbo e a quelli di cui questi era lingua e portavoce si volse con profondo scontento ai suoi discepoli e disse:

«In verità, amici miei, io vado tra gli uomini come tra frammenti e membra di uomini

Questo è spaventoso per il mio occhio: trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di battaglia o in un macello.

E se il mio occhio fugge dall'oggi a un tempo trova sempre lo stesso: frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!

Io vado tra gli uomini come tra frammenti del futuro: quel futuro che io vedo.

Questo è tutto il mio fare e bramare; poter riunire e ricomporre in unità ciò che è frammento ed enigma e atroce caso.

E come sopporterei di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta e scioglitore di enigmi e redentore del caso!

Redimere i passati e trasformare tutto il "fu" in un "così l'ho voluto" questa sola per me si chiamerebbe redenzione!

Dei sublimi

Calmo è il fondo del mio mare: chi immaginerebbe che nascondesse mostri faceti!

Imperturbabile è la mia profondità: ma vi nuotano luccicanti enigmi e risate.

Dell'accortezza verso gli uomini

Non l'altezza: la china è terribile!

La china dove lo sguardo precipita in basso e la mano si aggrappa in alto. Allora il cuore prova le vertigini davanti alla sua doppia volontà.

Ah, amici, indovinate anche la doppia volontà del mio cuore?

Questa è la mia china e il mio pericolo, che il mio sguardo precipiti e che la mia mano si tenga e voglia appoggiarsi all'abisso!

Agli uomini si aggrappa la mia volontà, con catene mi lego all'uomo, perché sono trascinato in alto verso il superuomo: perché là tende l'altra mia volontà.

E perciò vivo cieco tra gli uomini: come se non li conoscessi: perché la mia mano non perda del tutto la sua fede in qualcosa di saldo.

Io non vi conosco, uomini: questa tenebra e consolazione calano spesso su di me.

Seggo presso la porta principale, esposto ad ogni briccone e chiedo: chi mi vuole ingannare?

Questa è la mia prima accortezza verso gli uomini, farmi ingannare per non dovermi guardare dagli ingannatori.

Ah, se mi guardassi dall'uomo: come potrebbe l'uomo essere un'ancora per il mio pallone? Troppo facilmente sarei rapito in aria e lontano!

Questa provvidenza domina il mio destino: dover vivere senza prudenza.

E chi non vuole morire di sete fra gli uomini, deve imparare a bere in tutti i bicchieri; e chi vuole rimanere puro fra gli uomini deve saper lavarsi anche con l'acqua sporca.

E così spesso parlai a me stesso per conforto: «Orsù! Avanti! Vecchio cuore! Una sfortuna ti è fallita: godi di ciò come della tua fortuna!».

Ma questa è l'altra mia accortezza verso gli uomini: risparmio i vanitosi più degli orgogliosi.

La vanità offesa non è forse la madre di tutte le tragedie? Ma dove è ferito l'orgoglio, cresce qualcosa di ancor migliore dell'orgoglio.

Perché la vita sia gradevole a vedersi, il suo gioco dev'essere giocato bene: ma per questo ci vogliono buoni commedianti.

Buoni commedianti mi apparvero tutti i vanitosi: recitano e vogliono che si stia volentieri a guardarli, tutto il loro spirito è in questa volontà.

Essi rappresentano se stessi, si inventano; vicino a loro amo stare a guardare la vita, ciò guarisce dalla malinconia.

Perciò risparmio i vanitosi, perché sono medici alla mia malinconia e mi tengono stretto all'uomo come a uno spettacolo.

E poi: chi misura nel vanitoso tutta la profondità della sua modestia! Provo benevolenza e compassione per la sua modestia.

Da voi egli vuole imparare la sua fede in se stesso; si nutre dei vostri sguardi, viene a mangiare la lode nelle vostre mani.

Alle vostre menzogne crede ancora se voi mentite bene su di lui: poiché nel profondo il suo cuore sospira: «Che cosa sono io!».

E se la giusta virtù è quella che non sa di se stessa: ebbene, il vanitoso non sa della propria modestia!

Ma questa è la mia terza accortezza verso gli uomini, non lasciarmi avvelenare la vista dei malvagi dalla vostra pavidità.

Sono beato al vedere i miracoli che il sole ardente matura: tigri e palme e serpenti a sonagli.

Anche tra gli uomini c'è una bella prole maturata dal sole ardente e molte cose strabilianti nei malvagi.

Davvero, come i più saggi tra voi non apparvero poi così saggi: così trovai la malvagità umana inferiore alla sua fama.

E spesso chiesi scuotendo il capo: perché suonare ancora, serpenti a sonagli?

In verità, anche per il male c'è un futuro! E il più caldo meridione non è stato ancora scoperto per l'uomo.

Ora si chiama già estrema perfidia ciò che è largo solo dodici piedi e lungo tre mesi! Ma verranno al mondo draghi ben più grandi.

Infatti perché al superuomo non manchi il suo drago, il superdrago che sia degno di lui: per questo deve splendere ancora molto sole ardente sulle umide foreste vergini!

I vostri gatti selvatici devono prima diventare tigri e i vostri rospi velenosi diventare coccodrilli: perché il buon cacciatore deve fare una buona caccia!

E davvero, voi buoni e giusti! Molto è ridicolo in voi, soprattutto la vostra paura di ciò che finora si chiamò «demonio»!

Nell'anima vostra siete così estranei alla grandezza che il superuomo sarebbe per voi terribile nella sua bontà!

E voi, saggi e sapienti, fuggireste dall'ardore solare della saggezza in cui il superuomo bagna con voluttà la sua nudità!

Voi, uomini più grandi che il mio occhio mai incontrò! Questo è il mio dubbio verso di voi e il mio riso nascosto: io sospetto che chiamereste il mio superuomo demonio.

Ah, io mi stancai di questi uomini migliori e superiori: lontano dalla loro «altezza» mi sentii attratto, in alto, fuori via, verso il superuomo!

Ebbi un brivido d'orrore quando vidi nudi questi migliori: allora mi spuntarono le ali per volare via verso lontani futuri.

In più lontani futuri, in più meridionali meridioni che mai artista abbia sognato: laggiù, dove gli dèi si vergognano di tutti gli abiti!

Ma voi voglio vedervi travestiti, voi prossimi e vicini, e ben lustrati, e vanitosi e dignitosi, come i «buoni e giusti».

E travestito voglio sedere io stesso tra voi, che mi sconosca me e voi: questa è infatti la mia ultima accortezza verso gli uomini.

Così parlò Zarathustra.

L'ora più silenziosa

Che mi accade, amici? Mi vedete smarrito, scacciato, docile controvoglia, pronto ad andare, ah, ad andare via da voi!

Sì, ancora una volta Zarathustra deve tornare alla sua solitudine: ma questa volta malvolentieri rientra l'orso nella sua spelonca!

Che mi accade! Chi me lo ordina? Ah, la mia adirata signora vuole così, me lo ha detto; vi ho mai fatto il suo nome?

Ieri verso sera mi parlò la mia ora più silenziosa: ecco il nome della mia terribile signora.

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importi tu? Non sei ancora abbastanza umile. L'umiltà ha la pelle più dura di tutto».

E io risposi: «Che cosa non sopportò già la pelle della mia umiltà! Abito ai piedi della mia altezza: come sono alte le mie cime? Nessuno ancora me lo disse. Ma conosco bene le mie valli».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «O Zarathustra, chi ha da spostare montagne sposta anche valli e bassure».

E io risposi: «La mia parola non spostò ancora nessuna montagna e quel che dissi non giunse fino agli uomini. Andai sì dagli uomini, ma non giunsi ancora a loro».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che sai tu di questo! La rugiada piove sull'erba proprio quando la notte è più taciturna».

E io risposi: «Essi mi schernirono quando trovai e presi la mia strada; e in verità allora mi tremarono le gambe.

E così mi parlarono: disimparasti la via, ora disimpari anche a camminare!».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Che importa il loro scherno! Tu sei uno che ha disimparato ad obbedire: ora devi comandare!

Non sai chi è il più necessario di tutti? Chi comanda cose grandi.

Compiere cose grandi è difficile: ma più difficile è comandare cose grandi.

Questo è quel che meno di tutto si può perdonarti: tu hai il potere e non vuoi dominare».

E io risposi: «Mi manca la voce del leone per comandare».

Allora di nuovo sentii parlarmi con un bisbiglio: «Le parole più silenziose sono quelle che suscitano la tempesta. Pensieri che vengono su piedi di colomba, dirigono il mondo.

O Zarathustra, tu devi andare come un'ombra di ciò che ha a venire: così comanderai e comandando precederai gli altri».

E io risposi: «Mi vergogno».

Allora di nuovo sentii parlarmi senza voce: «Devi tornare bambino e senza vergogna.

L'orgoglio della gioventù grava ancora su dite, sei entrato tardi nella giovinezza: ma chi vuole diventare bambino, deve superare ancora la sua giovinezza».

E io meditai a lungo e tremai. Ma alla fine dissi quel che avevo detto all'inizio: «Non voglio».

Allora sentii ridere intorno a me. Ahimè, come mi straziò le viscere e mi spaccò il cuore questo riso!

E per l'ultima volta sentii parlarmi: «O Zarathustra, i tuoi frutti sono maturi, ma tu non sei maturo per i tuoi frutti!

Così devi tornare alla solitudine: perché devi ancora ammorbidirti».

Parte terza

Il viandante

lo sono un viandante e uno scalatore, disse egli al proprio cuore; io non amo le pianure e, a quanto pare, non posso starmene a lungo tranquillo.

E qualunque destino o esperienza mi tocchi, in essi sarà sempre un peregrinare e un salire sulle montagne: alla fine non si esperimenta che se stessi.

E ancora una cosa so: ora mi trovo davanti alla mia ultima vetta e davanti a ciò che più a lungo mi fu risparmiato. Ah, debbo salire la più dura delle mie vette! Ah, ho incominciato la più solitaria delle mie peregrinazioni! Chi però è della mia specie non sfugge a tale ora: all'ora che gli dice: «Solo adesso vai per la tua strada di grandezza! Vetta e abisso sono compresi in uno.

Prima del levar del sole

O cielo sopra di me, tu puro! Tu profondo! Tu abisso di luce! Contemplando rabbrividisco di divine brame.

Precipitami nella tua altezza questa è la mia profondità! Celarmi nella tua purezza questa è la mia innocenza!

Il dio si ammanta della sua bellezza: così tu celi le tue stelle. Tu non parli: così mi manifesti la tua saggezza.

Muto sul mare spumeggiante oggi ti sei levato, il tuo amore e il tuo pudore parlano rivelazione alla mia anima spumeggiante.

Che tu venisti a me così bello, ammantato nella tua bellezza, che tu mi parli tacendo, manifesto nella tua saggezza.

Oh, come potrei non indovinare tutto il pudore della tua anima! Prima del sole venisti a me, al più solitario fra tutti.

Noi siamo amici da sempre: abbiamo in comune mestizia e orrore e fondo: anche il sole abbiamo in comune.

Non parliamo fra noi, perché sappiamo troppo : ci scambiamo silenzio, ci comunichiamo sorridendo il nostro sapere.

Non sei tu la luce per il mio fuoco? Non hai tu l'animasorella della mia contemplazione?

Insieme apprendemmo ogni cosa; insieme apprendemmo a salire al di sopra di noi verso di noi e a sorridere senza nubi:

a guardar in basso sorridendo senza nubi, con occhi luminosi e da lontananze di miglia, quando sotto di noi come pioggia fumante sono costrizione e scopo e colpa.

E solo peregrinai: di che era affamata la mia anima nelle notti e sulle strade sbagliate? E quando salivo per i monti, chi cercavo mai, se non te, sui monti?

E tutto il mio peregrinare e scalare: era solo una necessità e un aiuto provvisorio per lo sprovvisto di aiuto: volare soltanto era tutta la mia volontà, volare dentro di te!

E chi odiavo più delle nuvole che passano e di tutto ciò che ti contamina? E poi odiavo il mio stesso odio perché esso ti contaminava!

Con le nuvole che passano sono adirato, con questi indolenti rapaci felini: sottraggono a te e a me ciò che abbiamo in comune, l'immane smisurato «dire sì e amen».

Con questi mediatori e rimescolatori siamo adirati, con le nuvole che passano: con questi mezzoemezzi che non imparano a benedire, ma nemmeno a maledire dal profondo.

Meglio per me stare sotto un cielo sbarrato, nella botte, meglio per me stare senza cielo, nell'abisso, che vedere te, cielo di luce, contaminato da nuvole che passano!

E spesso provai la voglia di infilzarle con gli aurei fili seghettati della folgore e, come il tuono, di suonare il tamburo sulla pentola del loro ventre:

un furibondo suonatore di tamburo, perché essi mi rubano il tuo «sì! e amen!», tu cielo, sopra di me, tu puro! Luminoso! Abisso di luce! perché ti rubano il mio «sì! e amen!».

Giacché io preferisco rumore e tuono e le maledizioni del temporale a questa circospetta e dubbiosa quiete felina: e anche fra gli uomini odio soprattutto quelli che camminano senza rumore e i mezzoemezzi e le dubbiose e titubanti nuvole che passano.

Della beatitudine non voluta

Ah, pensiero abissale, che sei il mio pensiero! Quando troverò la forza di sentirti scavare, senza più tremare? In gola mi balza il cuore, quando ti sento scavare! Il tuo silenzio mi vuole soffocare, tu abisso taciturno!

Della virtù che rimpicciolisce

2.

Questo è il nuovo silenzio che appresi: il loro rumore intorno a me stende un mantello sui miei pensieri.

3.

Io sono Zarathustra, il senza dio: ancora mi cuocio qualsiasi caso fortuito nella mia pentola. E solo quando è giunto a cottura, gli do il benvenuto come mio cibo.

II ritorno in patria

O solitudine! Tu patria mia, solitudine! Troppo a lungo vissi selvaggio in selvaggi paesi stranieri, per non tornare a te con le lacrime!

Ora minacciami solo col dito, come minacciano le madri, ora sorridimi, come sorridono le madri, ora dimmi: «Chi fu che come un vento impetuoso se ne andò da me?

che partendo gridò: troppo a lungo rimasi con la mia solitudine, e disimparai il silenzio! Questo ora l'hai imparato?

O Zarathustra, io so tutto: anche che tra i molti tu, l'uno, eri più abbandonato di quanto fossi mai stato insieme con me!

Una cosa è l'abbandono, altra è la solitudine: questo ora l'hai imparato? E che tra gli uomini sarai sempre selvaggio e straniero:

selvaggio e straniero anche quando essi ti amano: giacché come prima cosa essi vogliono essere risparmiati da ognuno!

Ma qui sei in casa tua; qui puoi manifestare tutto e sfogare tutti i motivi, nulla si vergogna di sentimenti nascosti e ostinati.

O solitudine! Tu patria mia, solitudine! Come mi parla tenera e beata la tua voce!

Non ci interroghiamo l'un l'altro, non ci accusiamo, passiamo insieme, aperti, per porte aperte.

Giacché con te tutto è aperto e chiaro; e anche le ore camminano su piedi più leggeri. Nell'oscurità il tempo pesa infatti più che alla luce.

Qui mi si dischiudono le parole e gli scrigni di parole di tutto l'essere: qui tutto l'essere vuole diventare parola, qui tutto il divenire vuole imparare a parlare da me.

Laggiù invece tutto il parlare è invano! Laggiù, dimenticare e passare oltre è la miglior saggezza: questo ho imparato adesso!

Chi volesse capire tutto fra gli uomini, dovrebbe toccare tutto. Ma a ciò sono troppo pure le mie mani.

Non posso nemmeno respirare il loro alito: ah, aver vissuto così a lungo nel loro frastuono e nei loro alito cattivo!

O beato silenzio intorno a me! Come puro respira dal profondo petto questo silenzio!

Ma laggiù tutto parla e tutto resta inudito. Si può diffondere la propria sapienza con il frastuono delle campane: i mercanti sul mercato lo copriranno con tintinnio di spiccioli.

Tutto fra loro parla, nessuno sa più intendere. Tutto è un buco nell'acqua, nulla cade più in profonde sorgenti.

Tutto fra loro parla, nulla riesce più a giungere al fine. Tutto starnazza: chi vuole più starsene in silenzio nel suo nido a covare uova?

Tutto fra loro parla, tutto viene sbriciolato a forza di parole. E quel che ieri era ancora troppo duro per il tempo e per il suo dente: ecco, penzola rosicchiato e scarnificato dalle bocche degli odierni.

Tutto fra loro parla, tutto viene rivelato. E quel che si chiamava segreto e intimità di anime profonde oggi appartiene agli strombazzatori di strada e ad altre farfalle.

O natura umana, o stupefacente! Tu, frastuono per vie buie! Ora ti ho lasciata di nuovo alle mie spalle: mi sono lasciato alle spalle il mio maggior pericolo!

Nel risparmiare e compassionare consistette sempre il mio più grande pericolo; e ogni natura umana vuoi essere risparmiata e sopportata.

Con verità trattenute, con mano di folle e cuore infatuato e ripieno delle piccole bugie della compassione: così vissi sempre fra gli uomini.

Travestito stavo tra loro, pronto a misconoscere me stesso, per sopportare loro, e cercando spesso di convincermi: «Tu stolto, tu non conosci gli uomini! ».

Si disimparano gli uomini, quando si vive tra gli uomini: c'è troppa superficie in tutti gli uomini a che servono occhi che vedono lontano, che cercano lontano!

E quando mi disconoscevano: io, folle, proprio per questo lì risparmiavo più di me stesso: abituato alla durezza verso me stesso e spesso vendicandomi di questa clemenza.

Dello spirito di gravità

1.

Nutrito di cose innocenti e di poco, pronto e impaziente di volare, di volare via ecco il mio essere: come potrebbe non aver qualcosa dell'uccello!

Tanto più che sono nemico dello spirito di gravità: questo è l'essere dell'uccello: davvero, nemico mortale, nemico giurato, nemico primordiale! Oh, dove non volò, dove non si smarrì volando la mia inimicizia!

Potrei cantarne già una canzone e voglio cantarla: sebbene io sia solo in una casa vuota e debba cantarla alle mie proprie orecchie.

Ci sono, è vero, altri cantori a cui solo la casa piena ammorbidisce l'ugola, rende la mano feconda, l'occhio espressivo, e vivo il cuore: ma io non somiglio a loro.

Delle tre cose cattive

1.

In sogno, nell'ultimo sogno del mattino, mi trovavo oggi su un promontorio, al di là del mondo, e reggevo una bilancia e pesavo il mondo.

Oh, troppo presto venne per me l'aurora: col suo ardore mi svegliò, la gelosa! E sempre gelosa degli ardori dei miei sogni del mattino.

Misurabile per chi ha tempo, pesabile per un buon pesatore, raggiungibile in volo da robuste ali, indovinabile da divini solutori di enigmi: così il mio sogno trovava il mondo:

Il mio sogno, audace veleggiatore, metà nave, metà turbine, muto come farfalle, impaziente come girifalco: come poteva avere oggi pazienza e tempo di pesare il mondo!

Forse gli parlò di nascosto la mia saggezza, la mia desta e ridente saggezza diurna, che schernisce tutti i «mondi infiniti»? Poiché essa dice: «Dov'è forza, là anche il numero è padrone: esso ha più forza».

Con quanta sicurezza guardava il mio sogno questo mondo finito, non curioso del nuovo, non amante del vecchio, senza timore, senza preghiera:

come se si fosse offerta alla mia mano una mela rotonda, una mela matura, dorata, dalla fresca tenera buccia di velluto: così mi si offerse il mondo:

come se un albero mi avesse chiamato, un albero dalle lunghe fronde, dalla forte volontà curvata a spalliera e a pedana per lo stanco viandante: così stava il mondo sul mio promontorio:

come se leggiadre mani mi avessero teso uno scrigno, uno scrigno aperto per la delizia di occhi pudichi e adoranti: così oggi mi si offerse il mondo:

non abbastanza enigma per respingere l'amore per gli uomini, non abbastanza soluzione per addormentare la saggezza umana: una cosa umanamente buona mi apparve oggi il mondo di cui si dice tanto male!

Come ringrazio il mio sogno del mattino di avermi fatto, oggi all'alba, pesare il mondo! Venne a me come una cosa umanamente buona questo sogno e questo consolatore del cuore!

Il convalescente

2.

Com'è bello che esistano parole e suoni: parole e suoni non sono forse arcobaleni e ponti apparenti tra cose eternamente disgiunte?

Ad ogni anima appartiene un mondo diverso; per ogni anima l'altra anima è un mondo dietro il mondo.

E’ tra le cose più simili fra loro che l'apparenza tesse gli inganni più belli; poiché la più piccola lacuna è anche la più difficile a varcarsi.

Per me come potrebbe esserci un fuoridime? Non c'è nessun fuori! Ma ad ogni suono ce ne dimentichiamo; com'è dolce che dimentichiamo!

Non sono dati alle cose nomi e suoni perché l'uomo trovi ristoro nelle cose? E una bella follia il parlare: con essa l'uomo danza su tutte le cose.

Com'è dolce tutto il discorrere e tutto il mentire dei suoni! Con suoni il nostro amore danza su variopinti arcobaleni.»

Parte quarta e ultima

L'uomo più brutto

«Che strani interlocutori trovai! Voglio masticare a lungo le loro parole come dei buoni semi; il mio dente deve triturarle e ridurle in poltiglia, finché esse mi fluiscano nell'anima come un latte! »

Meriggio

Silenzio! Silenzio! Non divenne or ora perfetto il mondo? Che mi succede?

Come un leggiadro soffio di vento, non veduto, danza sul mare liscio, spianato, lieve come una piuma: così danza il sonno su di me.

Non mi chiude gli occhi, mi lascia l'anima desta. leggero, in verità! Lieve come una piuma.

Mi persuade, non so come, mi tocca dentro, qua e là, con mano carezzevole, mi costringe. Sì, mi costringe a distendere la mia anima:

come mi diventa lunga e stanca, la mia anima strana! Forse la sorprese la sera di un settimo giorno proprio nel meriggio? Errò già troppo a lungo beata fra cose buone e mature?

Si distende per lungo, lungo, più lungo! Giace silenziosa la mia anima strana. Troppe cose buone ha già gustato, questa è la dorata tristezza che la opprime, ed essa storce la bocca.

Come una nave rientrata nella sua placida baia: così essa si abbandona per terra, stanca dei lunghi viaggi e dei mari malsicuri. La terra non è più fedele?

Come si accosta alla terra, come si stringe ad essa una simile nave: basta che un ragno dalla terra tessa un filo sino a lei. Non le occorrono più robusti cavi.

Come una nave stanca nella più placida baia: così io mi riposo, vicino alla terra, fedele, fiducioso, in attesa, legato a lei dai più sottili fili.

O felicità! O felicità! Vuoi cantare forse, o anima mia? Sei sdraiata nell'erba. Ma questa è l'ora segreta, solenne, in cui nessun pastore tocca il suo flauto.

Guardatene! L'ardente meriggio dorme nella campagna. Non cantare! Taci! Il mondo è perfetto.

Non cantare, uccello di prato, anima mia! Non bisbigliare! Guarda silenziosa! Il vecchio meriggio dorme, muove la bocca: sta bevendo una goccia di felicità

una vecchia goccia bruna di felicità d'oro, di vino d'oro? Qualcosa fruscia sopra di lui, la sua felicità ride. Così ride un dio. Silenzio!

«Alla felicità, basta così poco alla felicità!» Così dicevo una volta e mi credevo accorto. Ma era una bestemmia: l'ho imparato ora. Accorti pazzi parlano meglio.

Proprio la cosa più piccola, più sommessa, più lieve, il fruscio di una lucertola, un soffio, un guizzo, uno sbatter di occhi. Di poco è fatta la miglior felicità. Silenzio!

Che mi è accaduto: ascolta! E volato via il tempo? Non cado? Non sono caduto ascolta! Nella fontana dell'eternità?

Che mi accade? Silenzio! Mi trafigge ahi il cuore? Il cuore! Oh, spezzati, spezzati, cuore, dopo tale felicità, dopo tale trafittura.

Come? Non divenne or ora perfetto il mondo? Rotondo e maturo? Oh, il rotondo anello d'oro dove sta volando? Gli corro dietro! Svelto!

Silenzio

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

26.

Ogni persona eletta tende istintivamente al suo rifugio e alla sua intimità, dove poter essere libera dalla massa, dai molti, dai troppi, dove poter dimenticare la regola «uomo», in quanto sua eccezione: escluso l'unico caso, che egli venga spinto da un istinto ancora più forte direttamente su questa regola, come uomo della conoscenza in senso sublime ed eccezionale.

Chi nel rapporto con gli uomini non ha assunto, secondo le circostanze, tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, pietà, tetraggine, abbandono, non è certo un uomo di gusto superiore; ma se egli non si assume volontariamente tutti questi pesi e questo fastidio, se li elude sempre e rimane, come si è detto, silenzioso e superbo, rinchiuso nella sua torre, allora una cosa è certa: egli non è fatto, non è predestinato alla conoscenza. Perché, se lo fosse, dovrebbe dirsi un giorno «al diavolo il mio buon gusto! la regola è più interessante dell'eccezione, di me, che sono l'eccezione!» e scenderebbe in basso, soprattutto «dentro».

44.

Siamo sin dalla nascita amici giurati e gelosi della solitudine, la più notturna e la più meridiana.

282.

«Ma cosa ti è accaduto?» «Non lo so», disse esitando; «forse le arpie sono volate sulla mia tavola.» Accade oggi, a volte che un uomo mite, misurato, riservato, improvvisamente impazzisca, faccia a pezzi i piatti, rovesci la tavola, urli, smanii, ingiuri tutti e infine si faccia da parte, vergognoso, furioso con se stesso, dove? a che scopo? Per morire di fame in disparte? Per soffocare tra i propri ricordi? Chi ha i desideri di un'anima nobile e raffinata e soltanto di rado trova apparecchiata la propria tavola e pronto il cibo, correrà sempre un grande pericolo: ma oggi è enorme. Scagliato in un secolo chiassoso e plebeo, con il quale egli non ama mangiare in una sola scodella egli può facilmente perire per la fame e la sete, oppure, nel caso che tuttavia, alla fine egli «afferri» per un improvviso disgusto. Probabilmente noi tutti ci siamo già seduti a tavole a cui non appartenevamo; e proprio i più spirituali tra noi, quelli che è più difficile nutrire, conoscono quella pericolosa dyspepsia, che proviene da un'improvvisa visione e disillusione sul nostro cibo e i nostri vicini di tavola, il disgusto di fine pranzo!

284.

Vivere con un'immensa e orgogliosa serenità; sempre al di là avere o non avere, secondo il proprio arbitrio, le proprie passioni, il proprio pro e contro, abbandonarsi ad esse, per ore; sedersi su di esse come su cavalli o su asini bisogna infatti saper trarre un utile dalla loro stupidità come dal loro fuoco. Mantenere i propri trecento sipari e anche gli occhiali neri: poiché ci sono casi nei quali nessuno deve guardarci negli occhi, e ancor meno nelle nostre «profondità». E scegliere per compagno quel vizio birbone e allegro che è la cortesia. E restar padrone delle proprie 4 virtù, del coraggio, della sagacia, della simpatia, della solitudine. Poiché la solitudine in noi è una virtù; in quanto sublime tendenza e impulso alla pulizia, la quale indovina come dal contatto tra uomo e uomo «dalla società» debba inevitabilmente conseguire la sporcizia. Ogni comunità rende, in qualche modo, in qualche luogo, in qualche momento «comuni».

289.

Si riconosce negli scritti di un eremita ancor sempre qualcosa dell'eco del deserto, qualcosa dei bisbigli e dello spaurito guardarsi intorno della solitudine; dalle sue parole più forti, dal suo grido stesso risuona ancora un nuovo e più pericoloso genere di silenzio, di occultamento. Chi per anni e anni, di giorno e di notte si è intrattenuto, in solitudine, con la sua anima, in confidente disputa e colloquio, chi nella sua caverna ‑ che può essere un labirinto, ma anche un pozzo d'oro ‑ è diventato un orso delle caverne o uno scopritore o custode di tesori e un drago: le sue stesse idee ricevono alla fine di una singolare luce crepuscolare, un sentore sia di abisso che di muffa, un che di non comunicabile e di ripugnante che alita gelidamente su chiunque gli passi vicino. L'eremita non crede che un filosofo ‑ posto che un filosofo sia stato sempre, anzitutto, un eremita ‑ abbia espresso nei libri le sue reali e definitive opinioni: i libri non si scrivono proprio per nascondere ciò che si custodisce in sé? Anzi egli dubiterà che un filosofo possa, in generale, avere opinioni «definitive e reali», che non vi debba essere in lui, dietro ogni caverna, una caverna ancora più profonda, un mondo più vasto, più estraneo, più ricco al di sopra di una superficie, un abisso sotto ogni fondamenta, sotto ogni «fondazione». Ogni filosofia è una filosofia dell'apparenza ‑ questo è un giudizio da eremita: «c'è qualcosa di arbitrario nel fatto che egli si sia fermato qui, abbia guardato indietro, si sia guardato attorno, che non abbia qui scavato più a fondo e abbia messo da parte la vanga, c'è anche qualcosa di sospetto in questo». Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

Prefazione

3.

Chi prende qui la parola, invece, finora non ha fatto altro che meditare: come un filosofo e solitario per istinto, che trova il suo tornaconto nel restare appartato, nel rimanere estraneo, nella pazienza, nell'indugio, nel rimanere indietro; come uno spirito che rischia e che sperimenta, che già una volta si è perduto in ogni labirinto del futuro; come uno spirito di uccello profetico, che guarda all'indietro, quando racconta quello che avverrà; come il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in se stesso fino alla fine il nichilismo che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé…

2.

Accontentarsi degli uomini e aprire ospitalmente il proprio cuore: questo è liberale, ma non è raffinato. I cuori che sono capaci di raffinata ospitalità si riconoscono dalle molte finestre coperte di tende e dalle imposte chiuse: mantengono libere per lo meno le loro stanze migliori, attendono ospiti, di cui non ci si vuole solo accontentare...

78.

Gli uomini più spirituali, presupponendo che siano i più coraggiosi, vivono anche le tragedie di gran lunga più dolorose: ma per questo onorano la vita, poiché essa gli oppone la più grande avversione...

80.

Attenzione alla morale: ci svaluta di fronte a noi stessi

Attenzione alla compassione: ci sovraccarica dell'indigenza altrui

Attenzione alla «spiritualità»: ci corrompe il carattere, rendendo estremamente solitari: solitari, cioè non vincolati, disancorati...

94.

Quell'imperatore teneva costantemente presente la caducità di tutte le cose, per non prenderle sul serio e mantenersi sereno fra esse. Invece mi sembra che ogni cosa abbia troppo valore perché possa essere così fuggevole: io vado alla ricerca di un'eternità per ogni cosa: si potrebbero mai versare nel mare i più preziosi unguenti e vini: e il mio conforto è che tutto ciò che è stato è eterno: il mare lo riporta di nuovo.

193.

il y a des gens, qui ne peuvent s'amuser qu'en troupe. Le vrai héros s'amuse tout seul.

194.

Dobbiamo lavorare se non per gusto, almeno per disperazione, poiché, tutto sommato,

lavorare è meno noioso che divertirsi.

195.

Ancora fanciullo sentii nel mio cuore 2 sentimenti contraddittori: l'horreur de la vie et l'extase de la vie. C'est bien le fait d'un paresseux nerveux.

218.

Ogni giornale dà i segni della più terrificante perversità umana: un tissu d'horreurs. Con tale dégoûtant apéritif l'uomo civilizzato accompagna la colazione. Tout, en ce monde, sue le crime: le journal, la muraille et le visage de l'homme. Come si può prendere in mano un giornale senza un senso di schifo?...

296.

Il tipo del 1830: tratti forti, un'espressione mite, un sorriso dolce che vi accarezza; uno che è abituato alla lotta, alle nobili battaglie, ad ardenti simpatie, all'approvazione ad alta voce di un pubblico giovane, tuttavia uno che nel fondo reca la tristezza e il rimorso, che non sa consolarsi, con il cuore infranto; le idee politiche del 1848 all'istante lo hanno nuovamente infiammato. Da allora nei suoi pensieri e aspirazioni solo noia e inoperosità. Uno spirito distinto, che soffre di una calma nostalgia per un ideale in politica, letteratura, arte; che si lamenta a mezza voce e si vendica solo contro se stesso per la visione dell'imperfezione delle cose terrene.

Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888)

Perché sono così saggio

6.

Chi conosce la serietà con la quale la mia filosofia ha intrapreso la lotta contro i sentimenti di vendetta e il risentimento, fino a giungere alla dottrina del «libero arbitrio» la lotta contro il cristianesimo ne è solo un particolare comprenderà perché io metta qui direttamente in luce il mio comportamento personale, la sicurezza del mio istinto nella prassi. Nei momenti di décadence io li proibii a me stesso perché dannosi; non appena la vita fu di nuovo ricca e orgogliosa a sufficienza per questo, me li proibii in quanto al disotto di me. Quel «fatalismo russo» del quale ho parlato emergeva in me con il fatto che io mantenevo tenacemente per anni, dopo che si erano dati una volta per caso, situazioni, luoghi, abitazioni, compagnie quasi insopportabili, era meglio che cambiarli, che sentirli modificabili, che rivoltarsi contro di loro.., che mi si disturbasse in questo fatalismo, che mi si svegliasse con violenza, era un fatto per il quale mi offendevo a morte: in verità era anche, ogni volta, mortalmente pericoloso. Prendere se stessi come un fato, non volersi «diversamente» in tali circostanze questa è la grande ragione stessa.

8.

Posso osare accennare ancora ad un ultimo tratto della mia natura, che nel mio rapporto con gli uomini mi pone non poche difficoltà? Mi è propria un'eccitabilità, assolutamente inquietante, dell'istinto di pulizia, di modo che percepisco fisiologicamente odoro, la vicinanza o che dico? l'interiorità più profonda, le «viscere» di ogni anima... Possiedo, in questa eccitabilità, antenne psicologiche con le quali palpo e afferro ogni segreto: la molta sozzura nascosta nel fondo di certe nature, determinata forse da un sangue cattivo, ma verniciata dall'educazione, mi si palesa già dal primo contatto. Se ho osservato bene, anche queste nature, intollerabili per la mia pulizia, avvertono, dal canto loro, la circospezione del mio disgusto: non per questo diventano più profumate...

Così come sono sempre stato abituato un'estrema onestà nei miei confronti è la condizione per la mia esistenza, morirei in situazioni contaminate nuoto, faccio il bagno e sguazzo continuamente, per così dire, nell'acqua, in un qualche elemento perfettamente trasparente e scintillante. Ciò fa sì che il mio rapporto con gli uomini sia una non piccola prova di pazienza; la mia umanità non consiste nel partecipare al sentimento dell'uomo qual egli è, ma nel reggere a tale partecipazione…

La mia umanità è un costante superamento di me stesso. Ma io ho bisogno di solitudine, voglio dire di guarigione, di ritorno a me, di respirare un'aria libera, lieve, giocosa...

Perché sono così accorto

2.

Se generalmente non ho ricordi piacevoli di tutta la mia infanzia e la mia giovinezza, sarebbe una pazzia attribuirne la responsabilità alle cosiddette cause «morali», ad esempio alla indiscutibile assenza di una compagnia conveniente: poiché questa assenza sussiste oggi come sempre, senza impedirmi di essere sereno e coraggioso. Ma l'ignoranza in physiologicis il maledetto «idealismo» è la vera sciagura della mia vita, quanto vi è in essa di superfluo e di stupido, qualcosa da cui non è venuto niente di buono, per cui non vi è compenso né contropartita. Dalle conseguenze di questo «idealismo» mi spiego tutti i passi falsi, tutte le grandi aberrazioni dell'istinto e le «modestie» estranee al compito della mia vita, ad esempio il fatto che io sia diventato filologo perché non medico almeno, o qua!cos'altro che facesse aprire gli occhi? Al tempo di Basilea il mio intero regime spirituale, compresa la divisione della giornata, era uno spreco assolutamente insensato di forze straordinarie, senza un afflusso di energie che coprisse in qualche modo il consumo, senza neppure una riflessione sul consumo e il ricambio. Mancava ogni più raffinato egoismo, ogni protezione dell'istinto di comando, era un porsi al livello di chicchessia, un «altruismo», un dimenticare le distanze, qualcosa che non mi perdonerò mai. Quando fui quasi alla fine, proprio perché ero quasi alla fine, cominciai a riflettere su questa fondamentale insensatezza della mia vita l’«idealismo». Solo la malattia mi ha portato alla ragione.-

3.

La scelta dell'alimentazione; la scelta del clima e del luogo; la terza cosa sulla quale a nessun costo si può fare un passo falso è la scelta del proprio modo di riposarsi. Anche qui, a seconda del grado in cui uno spirito è sui generis, i limiti di ciò che gli è permesso, cioè di ciò che gli è utile, si restringono sempre più. Nel mio caso ogni lettura appartiene alla categoria di ciò che mi riposa: di ciò che mi stacca, cioè, da me stesso, che mi permette di vagare in scienze e in anime sconosciute, di ciò che non prendo più sul serio. La lettura mi riposa proprio della mia serietà. Nei periodi di grande lavoro non si vedono libri intorno a me: mi guarderei dal lasciare che qualcuno parlasse, o perfino pensasse la mia presenza. E leggere significherebbe proprio questo...

Si è veramente osservato che in quella profonda tensione alla quale la gestazione condanna lo spirito e in fondo l'intero organismo, il caso, ogni sorta di eccitamento esterno ha un effetto troppo violento, «sferza» troppo in profondità? Per quanto è possibile, bisogna evitare il caso, l'eccitamento esterno; qualcosa come un murarsi dentro di sé è una delle principali istintive astuzie della gestazione spirituale. Permetterò che un pensiero estraneo scali di nascosto questo muro? Leggere significherebbe proprio questo...

7.

Aggiungerò ancora una parola per le orecchie più sottili: ciò che io voglio esattamente dalla musica. Che essa sia gaia e profonda, come un meriggio d'ottobre. Che sia strana, sfrenata, tenera, una piccola donna dolce, piena di malizia e di grazia...

Se cerco un'altra parola per la musica, trovo sempre e soltanto la parola Venezia. Non esiste per me differenza tra musica e lacrime non posso immaginare la felicità, il Sud, senza un brivido di sgomento.

9.

Anche soffrire di solitudine è un'obiezione, io ho sempre sofferto soltanto di «moltitudine»... In un'età assurdamente prematura, a sette anni, sapevo già che mai parola umana mi avrebbe raggiunto: mi si è mai visto turbato per questo?

Perché scrivo libri così buoni

3.

Ma chi mi è affine per l'altezza della volontà, vivrà qui vere estasi dell'apprendere: poiché io vengo da altezze dove nessun uccello ha mai volato, conosco abissi nei quali nessun piede si è ancora perso.

Così parlò Zarathustra

Un libro per tutti e per nessuno

5.

Se si prescinde da queste opere create in dieci giorni, gli anni coevi e soprattutto posteriori allo Zarathustra furono di una difficoltà senza pari. Si paga a caro prezzo l'essere immortali: per questo si muore, da vivi, parecchie volte. C'è qualcosa che io chiamo la rancune della grandezza: ogni cosa grande, un'opera, un'azione, una volta portata a termine, si rivolta senza indugio contro il suo autore. Proprio per questo, per averla compiuta, egli si ritrova ora indebolito, non la sopporta più, non la guarda più in faccia. Avere dietro a sé qualcosa che non sarebbe stato lecito volere, qualcosa cui è annodato il destino dell'umanità e averlo ormai su di sé!... è un fatto quasi schiacciante... La rancune della grandezza!

Un'altra cosa ancora è il terribile silenzio che si sente intorno a sé. La solitudine ha sette pelli; nulla può attraversarla. Si avvicina la gente, si salutano gli amici: nuovo deserto, nessuno sguardo più ci saluta. Nel migliore dei casi, una specie di rivolta. Ho conosciuto una tale rivolta, in gradi molto diversi, ma quasi in ognuno di quelli che mi stavano vicini; pare che nulla ferisca di più del far sentire all'improvviso una distanza, le nature aristocratiche, che non sanno vivere senza venerare, sono rare.

6.

l'anima, che ha la scala più alta e che può scendere più nel profondo,

l'anima più vasta, che può correre e perdersi e vagare con la maggiore ampiezza dentro di sé,

la più necessaria, che si precipita con gioia nel caso

l'anima che è, che vuole perdersi nel divenire, l'anima che ha, che vuole beffarsi nel volere e nel desiderare

che fugge se stessa, che si raggiunge nei cerchi più ampi,

l'anima più saggia, alla quale la follia parla nel modo più dolce

l'anima che più ama se stessa, nella quale tutte le cose hanno le loro correnti e controcorrenti, flusso e riflusso.-

L’Anticristo (1888)

XXXVIII

A questo punto non posso fare a meno di esalare un sospiro. Vi sono giorni in cui sono ossessionato da un sentimento più tetro della più nera malinconia: il disprezzo per gli uomini. E per non lasciare alcun dubbio su ciò che disprezzo e su chi disprezzo, dirò che si tratta dell'uomo di oggi, del quale sono fatalmente contemporaneo. L'uomo di oggi: soffoco a causa del suo alito impuro…

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Quel che manca ai Tedeschi

6.

Imparare a vedere abituare l'occhio alla calma, alla pazienza, al lasciar giungere a sé le cose; rimandare il giudizio, imparare a rigirare e ad abbracciare il singolo caso da ogni lato. questa la prima introduzione alla spiritualità: non reagire subito a uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono, che isolano. Imparare a vedere, così come l'intendo io, è all'incirca ciò che il linguaggio non filosofico chiama forte volontà: l'essenziale in esso è appunto non «volere», saper sospendere il giudizio. Ogni mancanza di spiritualità, ogni bassezza poggiano sulla incapacità di resistere a uno stimolo si deve reagire, si segue ogni impulso. In molti casi un tale «dovere» è già uno stato di malattia, è già decadenza, sintomo di esaurimento, quasi tutto quello che la rozzezza non filosofica indica con il nome di «vizio», è soltanto quella incapacità fisiologica di non reagire.

Un'applicazione pratica dell'aver imparato a vedere: come allievi si sarà diventati lenti, diffidenti, riluttanti. Si lascerà dapprima avvicinare a noi l'estraneo, il nuovo di ogni specie in silenzio ostile se ne ritrarrà la mano. Lo stare con tutte le porte aperte, il deferente chinar la schiena di fronte a ogni piccolo fatto, l'esser sempre pronti a balzare, a precipitarsi dentro questa e quella cosa, insomma la famosa «obiettività» moderna è cattivo gusto, è non nobile par excellence. –

Scorribande di un inattuale

17.

Gli uomini più spirituali, premesso che siano i più coraggiosi, vivono anche le tragedie di gran lunga più dolorose: ma onorano la vita, appunto perché essa oppone loro la sua più forte ostilità.

45.

Il delinquente e ciò che gli è affine. Il tipo del delinquente è il tipo dell'uomo forte in condizioni avverse, un uomo forte reso malato. Gli mancano i luoghi selvaggi, una certa natura e una forma di esistenza più libera e pericolosa, in cui sia legittimo tutto ciò che nell'istinto dell'uomo forte è arma e difesa. Le sue virtù sono messe al bando dalla società; gli impulsi più vivi che egli ha ancora con sé, presto si deformano a contatto di affetti deprimenti, del sospetto, del timore, del disonore. Ma questa è press'a poco la ricetta della degenerazione fisiologica. Chi deve fare di nascosto, con lunga tensione, cautela, astuzia, le cose che sa far meglio, le cose che farebbe più volentieri, diventa anemico; e poiché dai suoi istinti egli miete solo pericolo, persecuzione, sciagura, anche il suo sentimento verso questi istinti si stravolge li sente come una fatalità.

E’ la società, la nostra società mansuefatta, mediocre, castrata, il luogo in cui un uomo genuino, che proviene dai monti o dalle avventure sul mare, necessariamente degenera in criminale. O quasi necessariamente, perché ci sono casi in cui un uomo simile si dimostra più forte della società: il corso Napoleone è il caso più famoso. Per il problema che qui si presenta, è significativa la testimonianza di Dostoevskij Dostoevskij, l'unico psicologo, tra l'altro, dal quale ho imparato qualcosa: lo annovero tra i più bei casi fortunati della mia vita, ancor più della scoperta di Stendhal. Quest'uomo profondo, che ebbe dieci volte ragione a disprezzare la superficialità dei Tedeschi, ha percepito in modo assai diverso da quanto egli stesso si aspettava i deportati siberiani, in mezzo ai quali visse a lungo, tutti criminali incalliti per i quali non esisteva più alcuna via di ritorno nella società li ha percepiti quasi fossero intagliati nel legno, nel legno migliore, più duro e pregiato che cresca in terra russa.

Generalizziamo il caso del delinquente: immaginiamo nature alle quali, per un qualche motivo, manchi il comune consenso, le quali sappiano di non esser ritenute benefiche, utili, quel sentimentociandala di non esser considerate come uguali, ma come reiette, indegne, contaminatrici. Tutte le nature di questo genere hanno nei loro pensieri e nelle loro azioni il colore del sottosuolo; in esse tutto diventa più smorto che in coloro sulla cui esistenza si posa la luce del giorno. Ma quasi tutte le forme di esistenza che noi oggi elogiamo hanno vissuto una volta in questa aria semisepolcrale: lo scienziato, l'artista, il genio, lo spirito libero, l'attore, il commerciante, il grande scopritore...

Quel che debbo agli antichi

1.

Per finire, una parola su quel mondo per il quale ho cercato accessi, per il quale ho forse trovato un nuovo accesso il mondo antico. Il mio gusto, che forse è l'opposto di un gusto tollerante, anche in questo caso è lontano dal dire sì in blocco: in genere non dice volentieri sì, preferisce dir no, e più ancora non dir nulla... Ciò vale per intere culture, ciò vale per i libri, ciò vale anche per luoghi e paesaggi. In fondo, il numero di libri antichi che contano nella mia vita è assai limitato; e i più famosi non sono tra essi. Il mio senso per lo stile, per l'epigramma come stile si destò quasi all'improvviso nell'accostarmi a Sallustio. Non ho dimenticato lo stupore del mio venerato maestro Corssen quando dovette dare il voto più alto al suo peggior latinista , avevo finito in un lampo. Conciso, rigoroso, con il massimo possibile di sostanza alla base, con una fredda cattiveria verso la «bella parola», e anche verso il «bel sentimento» in questo io indovinai me stesso. Si riconoscerà in me, sin dentro il mio Zarathustra, una ambizione assai seria di stile romano, per ciò che nello stile è «aere perennius».

Non altrimenti mi successe al mio primo contatto con Orazio. Sino ad ora non ho provato con nessun altro poeta lo stesso rapimento artistico che mi diede sin dall'inizio un'ode di Orazio. Ciò che essa raggiunge, in certe lingue non lo si può nemmeno volere. Questo mosaico di parole, in cui ogni parola espande la sua forza come suono, come posizione, come concetto, a destra e a sinistra e sopra il tutto, questo minimum nell'estensione e nel numero dei segni e questo maximum così ottenuto nell'energia dei segni tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, aristocratico par excellence. Al suo confronto tutta l'altra poesia diventa qualcosa di troppo popolare, una mera loquacità del sentimento...

Nietzsche contra Wagner. Documenti di uno psicologo (1889)

Torino, Natale 1888

Dove faccio obiezioni

E così mi chiedo: che cosa vuole effettivamente tutto il mio corpo dalla musica in genere? Giacché l'anima non esiste... Credo che voglia un alleggerimento: come se tutte le funzioni animali dovessero venir accelerate da ritmi lievi, arditi, distesi, sicuri di sé; come se la vita ferrea, la vita plumbea dovesse perdere la sua pesantezza ad opera di melodie dorate, delicate, simili a olio. La mia malinconia vuoi riposare negli anfratti e negli abissi della perfezione: per questo ho bisogno di musica. Ma Wagner fa ammalare.

Intermezzo

Dico ancora una parola per le orecchie più raffinate: quel che io propriamente voglio dalla musica. Che sia serena e profonda come un pomeriggio d'ottobre. Che sia bizzarra, sfrenata, delicata, una piccola femmina dolce di abiezione e di grazia.

Come mi liberai di Wagner

Fui io il solo a soffrirne? Basta, questo inaspettato evento mi diede come un lampo di chiarezza sul luogo che avevo abbandonato e anche quell'orrore tardivo che prova chiunque abbia corso inconsapevolmente un rischio mostruoso. Quando ripresi a camminare da solo, tremavo: non passò molto tempo che mi ammalai, ed ero più che malato, ero stanco, stanco per l'irrefrenabile delusione su tutto quello che a noi uomini moderni restava per entusiasmarci, per la generale dissipazione di forza, di lavoro, di speranza, di gioventù, di amore, stanco per il disgusto di fronte a tutta la menzogna e il rammollimento di coscienza idealistici, che qui avevano ancora una volta trionfato su uno dei più valorosi, stanco infine, e non in misura minore, per il tormento di un sospetto inesorabile che ormai io fossi condannato a diffidare più profondamente, a disprezzare più profondamente, a esser solo più profondamente di quanto mai fossi stato prima.

Lo psicologo prende la parola

3. II disgusto e l'orgoglio spirituali di chiunque abbia profondamente sofferto la profondità di sofferenza di cui uno è capace determina quasi una gerarchia , la sua rabbrividente certezza, di cui è tutto impregnato e di cui ha assunto il colore, di sapere, in virtù del suo dolore, più di quanto possano sapere i più intelligenti e i più saggi, di essere stato una volta conosciuto e aver dimorato in molti mondi lontani e spaventosi, di cui «voi non sapete nulla»..., questo tacito orgoglio spirituale, questa alterigia dell'eletto della conoscenza, del «consacrato», di chi fu quasi vittima sacrificale, trova necessaria ogni sorta di travestimenti, per preservarsi dal contatto con mani indiscrete e compassionevoli e in genere da tutto ciò che non è pari a lui nel dolore.

Il profondo soffrire rende aristocratici; separa.

Epilogo

1. Mi sono chiesto spesso se agli anni più difficili della mia vita io non debba più che a qualsiasi altro periodo. Così come mi insegna la mia più intima natura, tutto ciò che è necessario, visto dall'alto e nel senso di una grande economia, è anche l'utile in sé non soltanto lo si deve sopportare, lo si deve amare...

Amor fati: è questa la mia più intima natura.

E per quanto concerne la mia lunga malattia, non le debbo forse indicibilmente più che alla mia salute? Le debbo una salute superiore, una salute che è resa più forte da tutto quel che non la uccide! Le debbo anche la mia filosofia...

Soltanto il grande dolore è l'ultimo liberatore dello spirito, in quanto maestro del grande sospetto che di ogni U fa un X, una vera e propria X, vale a dire la penultima lettera prima dell'ultima... Soltanto il grande dolore, quel lungo lento dolore nel quale per così dire veniamo come arsi con legna verde, che si prende tempo , costringe noi filosofi a scendere nell'estremo profondo di noi stessi e a spogliarci di ogni fiducia, di ogni benevolenza, di ogni velo, di ogni dolcezza, di ogni mediocrità, nei quali forse avevamo riposto prima la nostra umanità. Dubito che un tale dolore «renda migliori»: non so che ci rende profondi...

Sia che impariamo a contrapporgli il nostro orgoglio, il nostro scherno, la nostra forza di volontà e ci comportiamo come quell'Indiano che, per quanto crudelmente torturato, con la malvagità della lingua si prende una rivalsa sul suo torturatore; sia che dinnanzi al dolore ci ritraiamo in quel nulla, nel muto, rigido, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi: da siffatti lunghi e rischiosi esercizi del dominio su se stessi si torna come uomini diversi, con alcuni interrogativi in più, soprattutto con la volontà di porre, da allora in poi, più domande, domande più profonde, più severe, più dure, più cattive, più silenziose di quante finora siano mai state poste sulla terra...

La fiducia nella vita è scomparsa; la vita stessa è diventata un problema. Ma non si creda che perciò si sia diventati dei tetri, dei barbagianni! Persino l'amore per la vita è ancora possibile solo che si ama diversamente... E l'amore per una donna della quale dubitiamo...

2. La cosa più strana è questa: si ha, in seguito a ciò, un altro gusto un secondo gusto. Da siffatti abissi, anche dall'abisso del grande sospetto si torna rinati, mutati di pelle, più sensibili, più cattivi, con un più sottile gusto per la gioia, con una lingua più delicata per tutte le buone cose, con sensi più gai, con una seconda pericolosa innocenza della gioia, più infantili allo stesso tempo e cento volte più raffinati di quanto si fosse mai stati prima. Morale: non si è impunemente lo spirito più profondo di tutti i millenni non lo si è nemmeno senza remunerazione...