Filosofi, Filosofia e Conoscenza

La nascita della tragedia (1872)

Basilea, fine dell'anno 1871

15.

Anche l'uomo teoretico, come l'artista, trova un'infinita soddisfazione in ciò che esiste, e questa soddisfazione lo preserva, al pari dell'artista, dall'etica pratica del pessimismo, dai suoi occhi degni di Linceo che brillano solo nell'oscurità. Se infatti l'artista ad ogni disvelamento della verità rimane attaccato con sguardi rapiti sempre e solo a ciò che anche ora, dopo il disvelamento, resta velo, l'uomo teoretico gode e si appaga di levare il velo e trova il suo massimo fine e piacere nel processo di uno svelamento sempre felice, che avvenga per forza propria. Non vi sarebbe nessuna scienza se essa si occupasse solo di quell'unica dea nuda, e di nient'altro. Poiché allora i suoi seguaci dovrebbero sentirsi nella stessa condizione d'animo di coloro che volessero scavare un foro diritto attraverso la terra: ognuno di essi vedrebbe bene che, anche con il massimo sforzo protratto per l'intera vita, non riuscirebbe a scavare solo una piccola parte dell'enorme profondità, la quale verrebbe nuovamente coperta davanti ai suoi occhi dal lavoro del vicino, tanto che a un terzo sembrerebbe più opportuno scegliere per proprio conto un altro posto per i suoi tentativi di perforazione. Ma se ora uno di loro dimostrasse persuasivamente che per questa via diretta non si può raggiungere il traguardo agli antipodi, chi vorrebbe continuare ancora a scavare nei vecchi pozzi, a meno di non accontentarsi nel frattempo di trovare pietre preziose o leggi naturali? Perciò Lessing, il più onesto uomo teoretico, osò dichiarare che gli importava più la ricerca della verità che la verità stessa: con ciò è stato svelato il segreto fondamentale della scienza, con stupore, anzi a dispetto degli scienziati.

Chi ha sperimentato in sé il piacere di una conoscenza socratica e sente come essa cerchi di abbracciare, in cerchi sempre più ampi, l'intero mondo dei fenomeni, da allora in poi non avvertirà nessuno stimolo che possa spingerlo alla vita più fortemente della brama di perfezionare quella conquista e di tessere la rete in modo sicuro, impenetrabile.

Verità e menzogna in senso extramorale (1873)

Tutto ciò che separa l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di piegare ad uno schema le metafore intuitive, quindi di risolvere un’immagine in un concetto; infatti nell’ambito di tale schematismo è possibile ciò che non lo sarebbe mai con le prime impressioni intuitive: costruire un ordinamento piramidale secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, privilegi, sottodivisioni, limitazioni che stia di fronte all’altro mondo delle prime impressioni come ciò che è più solido, più generale, più conoscibile e dunque come ciò che è più perentorio e imperativo.

 

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

1.

Come colui che opera è, secondo la definizione di Goethe, sempre privo di coscienza morale, così è sempre anche privo di sapere; dimentica la maggior parte delle cose, per fare una cosa sola, è ingiusto verso ciò che si trova dietro di lui, e conosce solo un diritto, il diritto di ciò che deve ora divenire. Perciò chiunque è attivo ama la propria azione molto più di quanto essa meriti di venir amata: e le migliori azioni avvengono in una tale esondanza d'amore, che devono comunque essere immeritevoli di tale amore, anche nel caso che il loro valore fosse per altri aspetti immensurabilmente grande.

5.

Ogni filosofare moderno è politico e poliziesco, limitato da governi, chiese, accademie, costumi e viltà degli uomini ad un'apparenza erudita; ci si ferma al sospiro: «Se invece» o alla conoscenza: «C'era una volta». La filosofia non ha diritti all'interno della cultura storica, ove voglia essere di più che un sapere senz'azione, fatto retrocedere nell'interiorità; basterebbe che l'uomo moderno fosse coraggioso e sicuro, che non fosse, anche nei suoi rancori, solo un essere interiore: la proscriverebbe; si accontenta invece di ricoprirne pudibondo le nudità. Invero si pensa, si scrive, si stampa, si parla, si insegna filosoficamente — fin qui è consentito quasi tutto; solo nell’agire, nella cosiddetta vita è diverso: qui è consentita sempre una sola cosa, e ogni altra è semplicemente impossibile: questo richiede la cultura storica. Ci si domanda, allora: sono questi ancora uomini o semplicemente macchine pensanti, scriventi, parlanti?

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

3.

La mia valutazione di un filosofo dipende dalla misura in cui egli è in grado di dare un esempio. Non c'è dubbio, infatti, che con l'esempio si possa trascinare interi popoli: la storia indiana, che è quasi la storia della filosofia indiana, lo dimostra. Ma l'esempio deve esser dato dalla vita visibile e non solo dai libri, e pertanto, come insegnavano i filosofi della Grecia, più con l'impressione, il comportamento, il vestito, il cibo e i costumi che non con il parlare o addirittura con lo scrivere…

[Schopenhauer] fu in tutto e per tutto un eremita; non ebbe un solo amico che lo consolasse e veramente sentisse come lui ‑ e tra uno e nessuno, c'è veramente un infinito, come tra qualcosa e nulla. Chi ha veri amici non sa cosa sia la vera solitudine, anche se tutto il mondo intorno a lui gli fosse ostile ‑.

Oh, ben m'accorgo che voi non sapete che cosa sia l'isolamento. Dove si sono avute potenti società, governi, religioni, opinioni pubbliche, in breve, ovunque ci fu una tirannia, essa ha odiato il filosofo solitario; infatti la filosofia offre all'uomo un asilo a cui nessuna tirannide può accedere, la caverna dell'intimo, il labirinto del petto: e questo irrita i tiranni. Là i solitari si nascondono: ma là si apposta anche il maggior pericolo per loro. Questi uomini, che hanno messo in salvo nell'intimo la propria libertà, devono vivere anche esternamente, diventar visibili, farsi vedere; essi hanno infiniti legami per nascita, residenza, educazione, patria, caso, indiscrezione degli altri; e così anche infinite opinioni sono presupposte in loro, solo perché sono quelle dominanti; ogni espressione che non sia un diniego vale come approvazione; ogni movimento della mano, che non distrugge, viene interpretato come accondiscendimento.

Essi sanno, questi solitari e liberi nello spirito, ‑ di apparire continuamente e ovunque in modo diverso da come pensano e pur non volendo altro che verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi silenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcanici e minacciosi.

Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi, della riservatezza imposta. Escono dalle loro caverne con espressioni tremende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile che causino la loro stessa rovina. In tanta pericolosità visse Schopenhauer...

Schopenhauer - la guida cioè, che dalle caverne del malumore scettico e della rinuncia critica conduce in alto, verso la sommità della contemplazione tragica, il cielo notturno con le sue stelle infinitamente sopra di noi e che, per primo, ha condotto su questa strada se stesso.

Questa è la sua grandezza: nell'essersi posto di fronte al quadro della vita come di fronte ad un tutto, per interpretarlo come un tutto; mentre le teste più acute non riescono a liberarsi dall'errore che a questa interpretazione si possa giungere solo analizzando minuziosamente i colori e la materia su cui questo quadro è stato dipinto; col solo risultato, forse, che si tratta di una tela dalla tessitura intricatissima e di colori che non si possono analizzare chimicamente. Bisogna indovinare il pittore per poterne intendere il quadro, e Schopenhauer questo lo sapeva.

Ora tutta la congrega di tutte le scienze si sforza di capire quella tela e quei colori, ma non il dipinto; si può, anzi, dire che solo colui che ha compreso e fissato nei suoi occhi il quadro generale della vita e dell'esistenza, potrà servirsi, senza suo danno, delle varie scienze, giacché senza questo quadro d'insieme regolatore, esse non sono che fili che non portano mai alla fine e rendono lo svolgersi della nostra vita ancor più confuso e labirintico. Proprio in questo come ho detto Schopenhauer è grande, perché persegue quel quadro come Amleto lo spirito, senza farsi mai distrarre, come fanno gli eruditi, o senza rimanere impigliato nella scolastica concettuale, sorte questa dei dialettici sfrenati.

Lo studio di tutti i mezzi‑filosofici è attraente soltanto per conoscere che essi, nella costruzione di grandi filosofie, si fermano subito dove è accademicamente il pro e il contro, dove è permesso rimuginare, dubitare, contraddire, e, così, sfuggono all'esigenza di ogni grande filosofia che, in quanto totalità, afferma sempre e soltanto: questo è il quadro di tutta la vita, e da ciò impara il senso della tua... E per converso: leggi soltanto la tua vita e da essa comprendi i geroglifici della vita universale.

Immaginiamoci l'occhio del filosofo indugiare sull'esistenza: egli vuole stabilire di nuovo il valore. Questo è stato infatti il lavoro proprio di tutti i grandi pensatori, essere legislatori per la misura, la moneta e il peso delle cose. Come sarà imbarazzante per lui se l'umanità, che vede per prima, è un gracile frutto divorato dai vermi! Quanto dovrà aggiungere al «non valore» dell'epoca per essere comunque giusto verso l'esistenza!

Se occuparsi della storia di popoli passati o stranieri ha valore, lo ha soprattutto per il filosofo che voglia dare un giudizio equo su tutta la sorte umana, non quindi solo su quella media, ma anche e soprattutto su quella suprema, che può toccare ai singoli come a interi popoli. Ora però tutto ciò che è presente è importuno, opera e condiziona l'occhio anche quando il filosofo non vuole; e, involontariamente, nel conto complessivo sarà sopravvalutato. Perciò il filosofo deve ben valutare la sua epoca nella sua differenza rispetto alle altre e, mentre supera per sé il presente, deve superarlo anche nei quadro che dà della vita, rendendolo cioè impercettibile e ridipingendovi sopra. Compito difficile e quasi inassolvibile...

Se ogni grande uomo, di preferenza, è considerato proprio come l'autentico figlio del suo tempo ‑ e comunque soffre di tutti i suoi malanni con maggiore intensità e sensibilità di tutti gli altri uomini più piccoli ‑ la lotta di un tale grande contro la sua epoca è solo apparentemente una battaglia insensata e deleteria contro se stesso. Ma appunto solo apparentemente; poiché nel suo tempo egli combatte ciò che gli impedisce di essere grande, e ciò in lui non significa altro che essere liberamente e completamente se stesso. Ne consegue che la sua inimicizia in fondo è indirizzata contro ciò che è sì in lui stesso, ma che però non è propriamente lui stesso, cioè contro l'impuro mescolarsi e coesistere di ciò che è immescolabile e non unificabile in eterno, contro la falsa saldatura dell'attuale al suo inattuale

4.

Ogni filosofia che creda rimandato e risolto il problema dell'esistenza da un avvenimento politico è una filosofia da farsa o una pseudofilosofia. Più volte ormai, da quando il mondo esiste, si sono fondati gli Stati; questa è una vecchia storia. Come dovrebbe un rinnovamento politico essere sufficiente a rendere, una volta per tutte, gli uomini appagati abitatori della terra? Ma se qualcuno nel profondo del suo cuore crede veramente che ciò sia possibile, allora si faccia avanti: merita in verità di diventare professore di filosofia in una università tedesca…

Quindi subiamo, tuttavia, le conseguenze di quella dottrina predicata di recente da tutti i tetti, secondo cui il fine supremo dell'umanità sarebbe lo Stato e per un uomo non ci sarebbe più alto dovere del servire lo Stato: in ciò io non vedo una ricaduta nel paganesimo ma nella stupidità. Può essere che un uomo, che vede nel servizio allo Stato il suo dovere supremo, non conosca realmente altri obblighi superiori; ma proprio perciò dall'altra parte esistono altri uomini e altri doveri e uno di questi doveri, che per me almeno vale più del servire lo Stato, esige che si distrugga la stupidità in ogni sua forma, quindi anche questa stupidità.

Com'è dunque che il filosofo considera la cultura nella nostra epoca? Certo in modo diverso da quei professori di filosofia soddisfatti del loro Stato. Se considera la fretta generale, la crescente velocità di caduta, la fine di ogni contemplatività e semplicità, è quasi come se avvertisse i sintomi di una completa distruzione e sradicamento della cultura.

5.

Questo è il pensiero fondamentale della cultura in quanto sa dare a ognuno di noi un compito: favorire il formarsi del filosofo, dell'artista e del santo in noi e fuori di noi e così collaborare al perfezionamento della natura. Infatti, come la natura ha bisogno del filosofo, così ha bisogno dell'artista, per uno scopo metafisico, e cioè per la propria illuminazione su se stessa, sicché finalmente le si ponga di fronte, come immagine pura e compiuta, ciò che non riesce a vedere chiaramente nell'irrequietezza del suo divenire dunque per l'autoconoscenza.

6.

Il problema infatti è: come può la tua vita, vita di un singolo, acquistare il valore supremo e il significato più profondo? In che modo può essere meno sprecata?

Certo vivendo soltanto a vantaggio degli esemplari più rari e più preziosi e non a vantaggio dei più, degli esemplari cioè che, singolarmente presi, hanno minor valore. Proprio questa determinazione dovrebbe essere inculcata e coltivata in un giovane in modo che intenda se stesso quasi come opera mal riuscita della natura, ma allo stesso tempo come testimonianza delle maggiori e più meravigliose intenzioni di questo artista: questa volta l'opera le è riuscita male dovrebbe dirsi ma voglio far onore alla sua grande intenzione, mettendomi al suo servizio perché possa riuscire un'altra volta.

Con questo proposito egli si pone nell'ambito della cultura; essa infatti è figlia dell'autoconoscenza di ogni singolo e dell'insoddisfazione di sé. Colui che le si riconosce devoto, si esprime così: «sopra di me vedo qualcosa di più elevato e più umano di quanto io stesso sono, aiutatemi tutti a raggiungerlo, così come io voglio aiutare chiunque conosca la stessa cosa e ugualmente ne soffra: affinché finalmente risorga l'uomo, che sente se stesso pieno e infinito nel conoscere e nell'amare, nel contemplare e nel potere, e che in tutta la sua totalità si affida e confida nella natura, come giudice e misura del valore delle cose».

Solo chi con il suo cuore è attaccato a un grande uomo riceve la prima consacrazione della cultura; ne è segno il vergognarsi di sé senza malumore, l'odio verso la propria ristrettezza e miseria, la simpatia per il genio, che è riuscito sempre di nuovo a strapparsi da questa nostra tetraggine e aridità, il presentimento di tutti coloro che verranno e combatteranno, e la più profonda convinzione di incontrare quasi ovunque la natura nella sua condizione di bisogno, mentre urge verso l'uomo; mentre sente dolorosamente fallire ancora una volta la sua opera, mentre, tuttavia, ovunque le riescono gli spunti e i lineamenti e le forme più mirabili: così che gli uomini con cui viviamo sono simili a un campo di macerie dei più preziosi abbozzi figurativi, in cui tutto grida verso di noi: venite, aiutateci, completate, riunite ciò che deve stare insieme, ci struggiamo immensamente di divenire un tutto.

Chi lascia che tra se stesso e le cose si frappongano concetti, opinioni, antichità, libri, chi insomma è nato, nel senso più ampio, per la storia, non vedrà mai le cose per la prima volta, né sarà mai egli stesso una tale cosa vista per la prima volta. Tutti e due gli aspetti sono invece certamente presenti nel filosofo, poiché egli deve trarre da se stesso la maggior parte degli insegnamenti e poiché serve a se stesso come immagine e compendio di tutto il mondo. Se qualcuno si osserva servendosi di opinioni altrui, non c'è da meravigliarsi se in sé non vedrà altro che opinioni altrui! Così sono, vedono e vivono gli studiosi.

8.

Succede, infatti, che lo Stato ha comunque paura della filosofia e, se così stanno le cose, cercherà di attirare a sé quanti più filosofi gli è possibile, che gli diano la parvenza di avere la filosofia dalla sua parte perché così ha al suo fianco questi uomini che ne portano il nome e, tuttavia, non incutono alcun timore. Ma se dovesse comparire un uomo che faccia veramente atto di affrontare tutto con il coltello della verità, anche lo Stato, allora lo Stato, poiché prima di tutto afferma la propria esistenza, è in diritto di escludere da sé un tipo simile e di trattarlo come nemico; proprio allo stesso modo in cui esclude una religione e la tratta come elemento ostile, quando questa si ponga al di sopra di lui e ne voglia essere giudice.

Se qualcuno, dunque, sopporta di essere filosofo per grazia dello Stato, deve anche sopportare di essere considerato dallo Stato come se avesse rinunciato a perseguire la verità in ogni angolo più nascosto. Almeno finché è favorito e ha un posto, deve riconoscere al di sopra della verità qualcosa di più elevato, lo Stato. E non solo quello, ma tutto ciò che lo Stato richiede per il suo bene: ad esempio una determinata forma della religione, dell'ordinamento sociale, dell'organizzazione militare su tutte queste cose c'è scritto noli me tangere. E’ mai accaduto che un filosofo di università abbia compreso con chiarezza tutta l'estensione dei suoi doveri e delle sue limitazioni? Non lo so; se qualcuno l'ha fatto, rimanendo ugualmente funzionario statale, è certo come minimo un cattivo amico della verità; se non l'ha mai fatto allora, dovrei pensare, anche in questo caso non è un amico della verità.

Domanda: può veramente un filosofo impegnarsi con buona coscienza ad avere ogni giorno qualcosa da insegnare? E insegnando a chiunque voglia ascoltare? Non deve forse dare l'impressione di sapere più di quanto sa? Non deve parlare davanti a un uditorio sconosciuto, di cose di cui potrebbe parlare, senza pericolo, solo con gli amici più prossimi? E soprattutto: non si priva così della sua splendida libertà di seguire il suo genio quando questo chiama e nella direzione che indica dato che a ore stabilite è obbligato a pensare in pubblico su cose precedentemente stabilite? E tutto ciò davanti ai giovani! Un tal modo non è per così dire, a priori svirilizzato? Che succederebbe se un bel giorno egli sentisse: «oggi non posso pensare, non mi viene in mente nulla di sensato» e tuttavia dovesse mettersi in cattedra e dare l'impressione di pensare?

Ma ammesso che questa schiera di cattivi filosofi è ridicola e chi non lo ammetterebbe? fino a che punto sono anche dannosi? Per rispondere brevemente: lo sono perché rendono ridicola la filosofia. Finché durerà questo pseudo modo di pensare, riconosciuto dallo Stato, ogni grandioso effetto di una vera filosofia sarà vanificato o, almeno, ostacolato e da niente altro se non dalla maledizione del ridicolo, che i rappresentanti di quella grande cosa hanno attirato su di sé ma che colpisce la cosa stessa. Perciò io dico che è un'esigenza della cultura sottrarre alla filosofia qualsiasi riconoscimento statale o accademico e esonerare lo Stato e l'accademia da quel compito per loro inassolvibile, di distinguere tra filosofia vera e apparente.

Lasciate, comunque, che i filosofi crescano selvaggiamente, negate loro ogni prospettiva di un posto e di un inserimento nelle professioni borghesi, non sollecitateli più con stipendi, anzi ancor di più: perseguitateli, siate maldisposti nei loro confronti e vedrete cose meravigliose! Allora quei poveri filosofi apparenti si disperderanno e cercheranno qua e là un tetto: qui si apre una parrocchia, lì una scuola, questo si rifugia in una redazione di giornale, quello scrive manuali per scuole femminili superiori, il più ragionevole di loro afferra l'aratro, e il più vanesio va a corte. Improvvisamente tutto è vuoto, il nido è abbandonato: è facile infatti liberarsi dai cattivi filosofi, basta non favorirli più. E ciò è certo più consigliabile che patrocinare pubblicamente, attraverso lo Stato, una filosofia, qualunque essa sia.

Proprio così si dovrebbe scrivere sulla lapide della filosofia delle università: «Non ha turbato nessuno». Ma questa è più la lode di una anziana donna che di una dea della verità, e non c'è da stupirsi se coloro che conoscono questa dea solo come una vecchietta sono essi stessi poco uomini e perciò, a buon diritto, non vengono più tenuti in alcuna considerazione dagli uomini del potere.

Ma se questa è la situazione nel nostro tempo, allora la dignità della filosofia è calpestata nella polvere: sembra che essa stessa sia diventata qualcosa di ridicolo o indifferente: cosicché tutti i suoi veri amici sono tenuti a render testimonianza contro questo equivoco o, per lo meno, a mostrare che soltanto quei falsi servitori e quegli indegni rappresentanti della filosofia sono ridicoli e indifferenti. Meglio ancora se con l'azione dimostrano che l'amore per la verità è qualcosa di terribile e violento.

Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV, 1876)

3.

E' già molto se qualcuno dichiara di esser contento soltanto perché le cose sarebbero potute andare ancor peggio: la maggior parte di loro crede istintivamente che vadano benissimo così come sono andate. Se la storia non fosse tuttora una teodicea cristiana camuffata, se fosse scritta con maggiore giustizia e fervore di partecipazione, allora realmente essa potrebbe meno di qualsiasi altra cosa essere usata per lo scopo al quale oggi è asservita: come oppio contro ogni sovvertimento e ogni innovazione. Lo stesso accade con la filosofia: dalla quale i più non vogliono imparare altro che a capire approssimativamente molto approssimativamente! le cose, per potervisi adattare. E persino i suoi più nobili esponenti sottolineano così marcatamente il suo potere placante e consolatorio, che i pacifici e i pigri son portati a credere di cercare le stesse cose che cerca la filosofia.

A me sembra invece che la questione più importante di tutta la filosofia sia fino a che punto le cose abbiano una natura e una forma invariabile: per procedere poi, una volta risposto a questa domanda, col coraggio più spietato, al miglioramento della parte del mondo riconosciuta come mutabile. Questo insegnano i veri filosofi anche con l'azione, lavorando al miglioramento dell'assai mutabile giudizio degli uomini e non tenendo per sé la loro saggezza; questo insegnano anche i veri discepoli delle vere filosofie i quali, come Wagner, sanno suggere da esse una maggiore risolutezza e inflessibilità del volere, ma nessuna pozione soporifera. Wagner è maggiormente filosofo là dove è più energico ed eroico. E proprio come filosofo traversò senza timore non soltanto il fuoco di diversi sistemi filosofici, ma anche i vapori del sapere e dell'erudizione, e restò fedele al suo più alto se stesso, che voleva da lui azioni totali della sua natura polifona e gli imponeva di soffrire e di imparare, per poter compiere quelle azioni.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

1.

Chimica dei concetti e dei sentimenti. - I problemi filosofici assumono, oggi, quasi sotto ogni aspetto, la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo contrario, ad esempio il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, una contemplazione disinteressata da una volontà bramosa, un vivere altruistico dall’egoismo, la verità dall’errore?

La filosofia metafisica ha cercato finora di superare questa difficoltà negando che l’una cosa potesse nascere dall’altra e supponendo, per le cose considerate superiori, un’origine magica, direttamente dal nucleo essenziale della «cosa in sé». Di contro la filosofia storica, che ormai non si può più pensare separata dalla scienza naturale ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha stabilito in singoli casi (ed è da supporre che tale sarà la sua conclusione per tutti i casi) che non si tratta di opposti, se non nell’usuale esagerazione delle concezioni popolari o metafisiche, e che questa contrapposizione si fonda su un errore della ragione: stando ad essa non esiste, a rigor di termini, né un agire non egoistico, ne una contemplazione affatto disinteressata; l’uno e l’altra sono soltanto sublimazioni, nelle quali l’elemento di base appare quasi volatilizzato, e rivela la sua presenza solo ad una osservazione più sottile.”

2.

Difetti ereditari dei filosofi. - Tutti i filosofi hanno in comune il difetto di partire dall’uomo attuale e di credere di giungere allo scopo attraverso la sua analisi. «L’uomo» si delinea automaticamente ai loro occhi come una aeterna veritas, come un essere sempre uguale a se stesso in ogni vortice, come una sicura misura delle cose. Ma tutto quello che il filosofo enuncia sull’uomo non è altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo quanto mai limitato.

La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi: alcuni di essi arrivano persino a prendere di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale è venuta delineandosi sotto l’influsso di determinate religioni e di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si deve partire. Non vogliono imparare che l’uomo si è fatto, che anche la capacità di conoscere si è fatta: mentre alcuni di loro da questa capacità di conoscere si fanno addirittura inventare il mondo intero.

Ora, tutto l’essenziale del progredire umano è avvenuto in tempi remoti, molto precedenti a quei quattromila anni che noi approssimativamente conosciamo e nei quali l’uomo non può essersi cambiato di molto. Ma il filosofo vede nell’uomo attuale «istinti», e presume che questi faccian parte dei fatti immutabili dell’uomo e possano pertanto fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale; l’intera teleologia si basa sul fatto che si parla dell’uomo degli ultimi quattromila anni come di un uomo eterno, verso il quale convergono naturalmente, sin dal loro inizio, tutte le cose del mondo. Ma tutto si è fatto: non esistono fatti eterni, come non esistono verità assolute. Perciò, da ora in poi, è necessario il filosofare storico, e, con esso, la virtù della modestia.”

6.

Non c’è stato ancora filosofo nelle cui mani la filosofia non sia diventata un’apologia della conoscenza; su questo punto almeno sono tutti ottimisti, che ad essa cioè debba venir attribuita la massima utilità. Tutti loro vengono tiranneggiati dalla logica: e questa è, per sua natura, ottimismo.”

7.

I guastafeste nella scienza. - La filosofia si separò dalla scienza quando pose la domanda: qual è quella conoscenza del mondo e della vita nella quale l’uomo vive più felice? Questo accadeva nelle scuole socratiche: con il punto di vista della felicità si legarono le vene alla ricerca scientifica - e lo si fa ancor oggi.”

10.

Innocuità della metafisica nel futuro. - Una volta che religione, arte e morale saranno descritte nel loro sorgere in modo che le si possa perfettamente spiegare senza ricorrere, all’inizio e nel corso di questo processo, all’ipotesi di interventi metafisici, cesserà il fortissimo interesse per il problema puramente teoretico della «cosa in sé» e dell’«apparenza». Infatti, comunque stiano le cose, con religione, arte e morale non tocchiamo l’«essenza del mondo in sé»; noi siamo nell’ambito della rappresentazione, né alcuna «intuizione» può portarci oltre.”

16.

Proprio per il fatto che noi, da millenni, abbiamo guardato nel mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca attrazione, passione o timore, e ci siamo lasciati andare agli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così stupendamente variopinto, terribile, profondo di significato e pieno di anima, ha insomma acquistato colore - ma a colorarlo siamo stati noi: l’intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasposto nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali.

Tardi, molto tardi, esso riflette: e ora il mondo dell’esperienza e la cosa in sé gli appaiono così eccezionalmente diversi e separati, che respinge la deduzione da quello a questa - oppure esorta, in maniera tremendamente misteriosa, a rinunciare al nostro intelletto, alla nostra volontà personale: per giungere all’essenziale attraverso il farsi essenziali...

Di tutte queste concezioni si sbarazzerà definitivamente il costante e faticoso processo della scienza, che celebrerà finalmente il suo massimo trionfo in una storia genetica del pensiero, e il cui risultato potrebbe forse giungere fino a questo principio: ciò che noi ora chiamiamo mondo è il risultato di una quantità di errori e di fantasie che, sorti a poco a poco durante tutto lo sviluppo degli esseri organici, sono cresciuti, e sono stati ereditati da noi come tesoro accumulato dell’intero passato: come un tesoro, in quanto su di esso si basa il valore della nostra umanità.

Volume II

1.

L'albero della conoscenza. - Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà, ma non libertà - è per questi due frutti che l'albero della conoscenza non può venir scambiato per l'albero della vita.

2.

La ragione del mondo. - Che il mondo non sia la quintessenza di un'eterna razionalità si può dimostrare definitivamente con il fatto che quella parte di mondo che noi conosciamo - e cioè la nostra ragione umana - non è eccessivamente razionale. E se essa non è sempre e completamente saggia e razionale, allora neppure la rimanente parte del mondo lo sarà. Qui vale la deduzione a minori ad majus, a parte ad totum, e anche con forza determinante.

186.

Culto della cultura. - Ai grandi spiriti è dato in più lo spaventoso troppo umano della loro natura, dei loro accecamenti, disconoscimenti, eccessi, affinché il loro influsso potente, facilmente troppo potente, sia di continuo tenuto a freno dalla diffidenza che quelle qualità ispirano. Infatti il sistema di tutto quello di cui l'umanità ha bisogno per continuare a esistere è così ampio e richiede forze così molteplici e numerose, che per ogni preferenza unilaterale, per la scienza o lo Stato o l'arte o il commercio, a cui quegli individui spingono, l'umanità nel suo insieme deve pagare dure ammende. E sempre stata la disgrazia più grande della cultura, ogni volta che sono stati adorati degli uomini: in questo senso si può addirittura consentire con il detto della legge mosaica, il quale proibisce di avere altri dèi oltre a Dio. - Al culto del genio e della forza bisogna sempre affiancare, come integrazione e rimedio, il culto della cultura; il quale sa accordare anche a ciò che è materiale, umile, basso, misconosciuto, debole, imperfetto, unilaterale, incompleto, falso, apparente, anzi cattivo e terribile, un apprezzamento pieno di comprensione e il riconoscimento che tutto ciò è necessario; giacché il consonare e il risonare di tutto l'umano, raggiunto, grazie a sorprendenti lavori e a casi fortunati, e così l'opera di ciclopi e formiche quanto quella dei geni non debbono di nuovo andar perdute: come potremmo fare a meno del comune, profondo, spesso inquietante basso continuo, senza il quale la melodia non può, appunto, essere melodia?

201.

Errore dei filosofi. - Il filosofo crede che il valore della sua filosofia stia nell'insieme, nell'edificio: i posteri lo trovano nella pietra con la quale egli costruì e con cui, da allora in poi, si continuò a costruire spesso e meglio: dunque in questo, che quella costruzione può essere distrutta e tuttavia conservare ancora valore come materiale.

Aurora (1881)

5.

Un libro del genere, un problema del genere non ha alcuna fretta; inoltre noi due siamo amici del lento, io come il mio libro...

La filologia infatti è quell'onorevole arte che da colui che la venera esige soprattutto una cosa, trarsi in disparte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento -, in quanto è un'arte e una competenza di orafi della parola, che deve compiere soltanto lavori finissimi che richiedono cautela e non raggiunge nulla, se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo essa è oggi più necessaria che mai e proprio perciò ci attira e ci affascina assai fortemente, nel cuore di un'epoca del «Lavoro», voglio dire: della fretta, dell'indecente e sudaticcia precipitazione, che vuoi «sbrigarsela» subito con ogni cosa, anche con ogni antico e nuovo libro: - essa stessa non se la sbriga così facilmente con una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè lentamente, profondamente, con riguardo e precauzione, con pensieri reconditi, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati…

43.

II pensatore ha bisogno di fantasia, di slancio, di astrazione, di desensualizzazione, di ideazione, di presentimento, di induzione, di dialettica, di deduzione, di critica, di raccolta del materiale, di un modo di pensare impersonale, di contemplazione e di visione dell'insieme e non meno di giustizia e amore verso ciò che è, - ma tutti questi strumenti per una volta hanno avuto valore, ognuno per se stesso, nella storia della vita contemplativa in quanto fini e fini ultimi e ai loro inventori hanno dato quella beatitudine che compare nell'anima all'improvviso risplendere di un fine ultimo.

45.

Un esito tragico della conoscenza. - Di tutti i mezzi di elevazione sono stati i sacrifici umani quelli che in ogni tempo hanno più elevato e innalzato l'uomo. E forse ogni altra aspirazione potrebbe essere sopraffatta da un unico immenso pensiero, tale da ottener vittoria sul più vittorioso, - dal pensiero dell'umanità che si sacrifica. A chi però dovrebbe sacrificarsi? Si potrebbe giurare che se mai apparisse all'orizzonte la costellazione di questo pensiero, la conoscenza della verità sarebbe rimasta come l'unica immensa mèta, cui sarebbe commisurato un tale sacrificio, perché per essa nessun sacrificio è troppo grande.

Frattanto non è ancora mai stato posto il problema fino a che punto all'umanità, intesa come un tutto, siano possibili dei passi volti a promuovere la conoscenza; per tacere poi il problema di quale impulso conoscitivo possa spingere l'umanità fino al punto di offrire se stessa in sacrificio, per morire con la luce di una saggezza anticipatrice negli occhi.

Forse, se un giorno sarà posto come fine della conoscenza un affratellamento con gli abitanti di altre stelle e per alcune migliaia di anni si trasmetterà il proprio sapere da stella a stella: forse allora l'entusiasmo della conoscenza si leverà in alto come una marea.

370.

Fino a che punto il pensatore ama il suo nemico. - Mai trattenere o tacere a te stesso qualcosa che può esser pensato contro il tuo pensiero! Promettilo solennemente a te stesso! Ciò appartiene alla prima onestà del pensare. Ogni giorno devi condurre anche contro te stesso la tua campagna di guerra. Una vittoria e una trincea conquistata non sono più faccende tue, ma della verità, - ma anche la tua sconfitta non è più affar tuo!

429.

La nuova passione. - Perché temiamo e odiamo un possibile ritorno alla barbarie? Perché renderebbe gli uomini più infelici di quello che sono? Ah no! I barbari di ogni tempo avevano più felicità: non inganniamoci! Ma il nostro impulso alla conoscenza è troppo forte perché possiamo ancora apprezzare la felicità priva di conoscenza, o la felicità di una vigorosa e salda illusione; fa pena anche solo l'immaginarci simili condizioni! L'inquietudine dello scoprire e dell'indovinare è per noi divenuta così affascinante e indispensabile, come l'amore infelice per l'amante: a nessun prezzo egli lo darebbe in cambio di uno stato di indifferenza; - sì, forse anche noi siamo amanti infelici!

La conoscenza in noi si è trasformata in passione che non ha paura di nessun sacrificio e al fondo non teme niente, tranne il suo proprio estinguersi; noi sinceramente crediamo che tutta quanta l'umanità, sotto la pressione e il dolore di questa passione, dovrebbe reputarsi più elevata e più confortata di quanto non lo sia stata fino al momento in cui non aveva ancora superato l'invidia per quel rozzo benessere che la barbarie comporta. E’ possibile perfino che l'umanità perisca per questa passione della conoscenza! - ma anche questo pensiero non può niente su di noi!

450.

La seduzione della conoscenza. - Sugli spiriti pieni di passione gettare lo sguardo attraverso la porta della conoscenza ha lo stesso effetto del più affascinante degli incantesimi; e presumibilmente in tali circostanze diventano dei visionari e, nel migliore dei casi, dei poeti: così violenta è la loro brama per la felicità di chi conosce. Non vi attraversa tutti i sensi questo suono di dolce seduzione con cui la scienza ha annunciato il suo lieto messaggio, in cento parole?

La gaia scienza (1882)

Prefazione alla seconda edizione.

2.

Uno psicologo conosce pochi problemi avvincenti come quello del rapporto tra salute e filosofia; nel caso in cui sia lui ad ammalarsi, coinvolge nella sua malattia tutta la sua curiosità scientifica. Infatti, posto che si sia persone, si ha necessariamente anche una filosofia della propria persona; eppure la differenza è rilevante.

Per l’uno a filosofare sono le sue mancanze, per l’altro le sue ricchezze e le sue forze. Il primo ha bisogno della sua filosofia come sostegno, elemento tranquillizzante, medicamento, redenzione, elevazione, autoestraniamento; per l’altro è soltanto un bel lusso, nel migliore dei casi la voluttà di una gratitudine trionfante che, in ultima analisi, deve essere scritta in maiuscole cosmiche nel cielo dei concetti. Nell’altro caso tuttavia, quello più consueto, in cui la filosofia è il prodotto della necessità, come accade a tutti i pensatori malati (e forse i pensatori malati sono la maggioranza, nella storia della filosofia): che ne sarà del pensiero nato sotto la pressione della malattia?

Questo è il problema che interessa gli psicologi, e a questo proposito è possibile condurre esperimenti; non diversamente da quanto fa un viaggiatore che si proponga di svegliarsi a una determinata ora e poi si abbandona tranquillamente al sonno: così noi filosofi, posto che ci ammaliamo, ci abbandoniamo corpo e anima, per un certo tempo, alla malattia, chiudendo per così dire gli occhi a quanto ci sta davanti. E come quegli sa che qualcosa non dorme, che qualcosa conta le ore e lo sveglierà, così anche noi sappiamo che il momento decisivo ci troverà svegli, che qualcosa scatterà e coglierà lo spirito intento all’azione, intendendo con azione la debolezza o il ripensamento o la dedizione o l’indurimento o l’incupimento e tutti gli stati morbosi dello spirito, che nei giorni sani hanno contro di sé l'orgoglio dello spirito (come vuole quel vecchio detto per cui «lo spirito superbo, il pavone e il cavallo sono i tre animali più orgogliosi della terra»).

Dopo un simile autointerrogatorio, una simile autoinchiesta, ci si avvicina con occhio più raffinato a tutto quello su cui finora si è filosofato: si indovinano meglio di prima deviazioni involontarie, vicoli laterali, punti tranquilli e punti solari del pensiero, dove i pensatori sofferenti vengono condotti e sedotti proprio in quanto sofferenti, solo che adesso si sa in quale direzione il corpo malato e le sue esigenze spingono, urtano, attirano lo spirito: verso sole, silenzio, mitezza, pazienza, arte medica, conforto, in un modo o nell’altro.

Prefazione

2.

Ogni filosofia che ponga la pace più in alto rispetto alla guerra, ogni etica con una concezione negativa del concetto di felicità, ogni metafisica e fisica che conoscano un finale, un qualsivoglia stato definitivo, ogni aspirazione prevalentemente estetica o religiosa a quanto è lontano, aldilà, al di sopra, rende lecita la domanda se non sia stata la malattia a ispirare i filosofi. L’inconscio travestimento di necessità fisiologiche sotto la maschera dell’oggettività, dell’idealità, della spiritualità pura si spinge sino a limiti orripilanti, e spesso mi sono domandato se, detto grossolanamente, la filosofia fino ad ora non sia stata altro che un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i più alti giudizi di valore dai quali fino ad ora è stata guidata la storia del pensiero sono nascosti fraintendimenti della costituzione fisica, sia del singolo, sia dei ceti o addirittura delle razze.

Tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, si possono sempre considerare sintomi di determinati corpi; e se globalmente a tali affermazioni o negazioni del corpo non si può attribuire nemmeno un briciolo di significato, esse pur tuttavia forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono, come abbiamo detto, sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, autodominio nella storia, ma anche dei suoi impedimenti, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà di finire. Io continuo ad aspettarmi che un medico filosofico nel senso non comune del termine ― ovvero che si dedichi al problema della salute globale di popolo, tempo, razza, umanità ― abbia finalmente il coraggio di portare alle sue estreme conseguenze il mio dubbio e di osare questa affermazione: fino ad oggi, tutto il filosofare non è stato «verità», ma qualcos’altro, diciamo salute, futuro, crescita, potenza, vita…

Prefazione

3.

Un filosofo che abbia attraversato e continui ad attraversare molti stati di salute avrà abbracciato altrettante filosofie: non può fare a meno, infatti, di trasformare ogni volta la sua condizione nella sua forma e distanza spirituale, ― perché la filosofia è propriamente l’arte della trasfigurazione. Noi filosofi non siamo liberi di distinguere tra corpo anima come fa il popolo; siamo ancora meno liberi di distinguere tra anima e spirito. Non siamo rane pensanti, non siamo strumenti di oggettivazione e registrazione con viscere freddamente regolate, ― dobbiamo costantemente generare i nostri pensieri col nostro dolore e conferire loro, eternamente, tutto il nostro sangue, fuoco, piacere, passione, tormento, coscienza, destino, sciagura.

Vivere ― per noi significa tutto quello che siamo, trasformare costantemente in luce e fiamma anche tutto quello che ci riguarda, non possiamo farne a meno. E per quanto concerne la malattia: non avremmo quasi la tentazione di domandarci se non sia proprio indispensabile? Soltanto il grande dolore è l’ultimo liberatore dello spirito, in quanto maestro di quel grande dubbio che fa di ogni U una X, una X completamente autentica, cioè la penultima lettera dell’alfabeto... Soltanto il grande dolore, quel dolore grande e lento che si prende tempo e nel quale bruciamo come legna verde, costringe noi filosofi a scendere nei nostri abissi più profondi e a disfarci di tutta la fiducia, di tutto ciò che è bonario, dissimulante, mite, medio, in cui forse un tempo avevamo riposto la nostra umanità. Io dubito che un tale dolore possa «migliorare»; so però che ci rende più profondi.

Sia che impariamo a contrapporgli il nostro orgoglio, il nostro scherno e la nostra forza di volontà, come quell’indiano che, per quanto violentemente maltrattato, oppone al suo aguzzino la violenza della sua lingua; sia che di fronte al dolore ci ritraiamo in quel niente orientale ― lo chiamano Nirvana ― che altro non è se non un muto, rigido, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi; in ogni caso da tali lunghi e pericolosi esercizi di autodominio si esce diversi, con alcuni punti interrogativi in più, ma soprattutto con la volontà di porre più interrogativi, più profondi, più rigorosi, più duri, più cattivi, più taciti di quanto non si fosse fatto fino a quel momento.

La fiducia nella vita se n’è andata: la vita stessa è divenuta un problema. Non si creda, con ciò, di essere necessariamente divenuti dei tipi cupi! Persino l’amore per la vita è ancora possibile: soltanto che si ama diversamente. È l’amore per una donna di cui dubitiamo... Il fascino di tutto ciò che è problematico, la gioia per la X è però troppo grande, per tali uomini più spirituali e più spiritualizzati, perché non appaia sempre come una luce che arde sopra l’incertezza del problematico, sui pericoli dell’insicurezza, persino sulla gelosia dell’amante. Conosciamo una nuova gioia... […]

Prefazione

4.

E per quanto concerne il nostro futuro: sarà difficile che ci ritrovino sulle tracce di quei giovani egiziani che di notte rendono insicuri i templi, abbracciano le statue e vogliono svelare, scoprire, portare alla luce tutto ciò che a ragione è tenuto celato.

No, questo cattivo gusto, questa volontà di verità, questa «verità a ogni costo», questa follia giovanile dell’amore per la verità, tutto ciò ci disgusta: siamo troppo esperti, troppo seri, troppo vogliosi, troppo bruciati, troppo profondi... Non crediamo più che la verità rimanga tale anche quando le si toglie il suo velo; abbiamo vissuto abbastanza per poter credere a queste cose. Oggi ci sembra una questione di eleganza non vedere tutto nudo, non essere sempre pronti, non volere capire e «sapere» tutto. «È vero che il buon Dio è dappertutto?», domandò una volta una bimbetta alla sua mamma, aggiungendo: «Mi sembra indecoroso». Che suggerimento per i filosofi! Sarebbe meglio ricondurre questa vergogna nei limiti del decoro, come la natura si è nascosta dietro enigmi e una variopinta insipienza.

41. Contro il pentimento.

Il pensatore vede nelle sue azioni interrogativi e tentativi di trarre conclusioni su qualcosa: successo e insuccesso sono le sue prime risposte. Tuttavia, irritarsi o addirittura provare pentimento perché qualcosa è fallito... lascia che lo facciano coloro che agiscono perché è stato loro imposto, e che debbono aspettarsi di essere presi a botte se il loro benevolo signore non è soddisfatto del loro risultato.

48. Conoscenza della pena.

Forse nient'altro separa uomini e tempi quanto il loro diverso grado di conoscenza della pena; pena dell'anima come del corpo. Con riferimento a quest'ultima, noi contemporanei siamo forse, nonostante tutti i nostri crimini e criminalità, pasticcioni e sognatori al tempo stesso, per mancanza di un'adeguata esperienza personale: in confronto a un'epoca di terrore, la più lunga di tutte le epoche, in cui il singolo doveva proteggersi contro la violenza e, in virtù di questo scopo, doveva essere violento egli stesso. In questo modo ciascuno frequentava la sua buona scuola di tormenti e privazioni fisiche e arrivava persino a una certa atrocità nei confronti di se stesso, in un volontario esercizio del dolore, mezzo di conservazione a lui necessario; allora si educava il proprio ambiente alla sopportazione del dolore, allora infliggere dolore era attività gradita e si osservavano gli altri in preda ai dolori più atroci senza nessun altro pensiero se non quello della propria sicurezza.

Per quanto riguarda, tuttavia, la pena dell'anima, io sono giunto a osservare ogni persona domandandomi se la conosca, per esperienza o per descrizione; se ritenga necessario simularla, questa conoscenza, quasi fosse segno di un alto livello di istruzione, o se in fondo non creda alla possibilità di grandi sofferenze dell'anima e quindi, nel descriverle, sia costretta a rifarsi a quelle fisiche, ragion per cui gli vengono in mente il mal di pancia e il mal di stomaco. Eppure mi sembra che per la maggior parte delle persone le cose stiano proprio in questi termini.

L'inesperienza del dolore che caratterizza figure di ambo i sessi e il fatto che è piuttosto raro vedere qualcuno sofferente hanno però un'importante conseguenza: oggigiorno, il dolore è molto più odiato di quanto non lo odiassero gli uomini di un tempo e se ne parla molto peggio di quanto non se ne parlasse un tempo: persino il pensiero della presenza del dolore ci risulta difficilmente tollerabile e se ne fa un caso di coscienza, un rimprovero per l'esistenza tutta.

Lo spuntare di filosofie pessimiste non indica assolutamente l'incombere di grandi e terribili emergenze: anzi, queste domande sul valore della vita tutta sono poste in momenti in cui l'esistenza ha raggiunto un tale livello di raffinatezza e alleggerimento che trova già troppo cruente e malvage le inevitabili punture di zanzara dell'anima e del corpo e, in mancanza di vere esperienze di dolore, vorrebbe far sembrare una pena di altissimo livello già l'idea stessa dello strazio. Ci sarebbe un rimedio contro quelle filosofie pessimiste e quell'eccessiva sensibilità che mi sembrano la vera «pena del presente»: ma forse questo rimedio suona troppo crudele e potrebbe essere valutato a partire da quegli stessi indizi sulla base dei quali adesso si afferma che «L'esistenza è malvagia». Ebbene: il rimedio contro la pena è questo: pena.

104. Sul suono della lingua tedesca.

E’ noto donde derivi il tedesco che, da un paio di secoli, costituisce la lingua scritta comune a tutti i Tedeschi. Costoro, col loro timore reverenziale per tutto ciò che veniva da corte, hanno coscienziosamente scelto quale loro modello le cancellerie, con tutto ciò che in esse si scriveva, e cioè lettere, documenti, testamenti eccetera. Scrivere come nelle cancellerie significava scrivere come a corte e nel governo - era un segno di distinzione, in contrapposizione al tedesco della città in cui ci si trovava a vivere. Gradualmente se ne trassero le debite conclusioni e si prese anche a parlare come si scriveva - e così si divenne ancora più distinti, nelle forme lessicali, nella scelta delle parole e degli idiomi e, infine, anche nel suono: si affettava una pronunzia cortese, nel parlare, e quest'affettazione divenne poi naturale. Forse da nessuna altra parte si è verificato alcunché di simile: la prevalenza dello stile scritto su quello parlato e le smancerie e la mania di distinzione di tutto un popolo come fondamento di una lingua comune che non fosse più in insieme di dialetti.

Io credo che il suono della lingua tedesca, nel Medioevo e dopo il Medioevo, fosse profondamente contadino e volgare: negli ultimi secoli si è alquanto modificato, soprattutto perché ci si è trovati costretti a imitare tanti suoni francesi, italiani e spagnoli, soprattutto da parte di quella nobiltà tedesca (e austriaca) che non poteva assolutamente accontentarsi della sua lingua madre. Ma per Montaigne o addirittura Racine, nonostante questo esercizio, il tedesco doveva mantenere un suono insopportabilmente volgare; e tuttora esso suona, in bocca ai viaggiatori, tra cui certa plebaglia italiana, sempre assai rozzo, boschivo, roco, quasi venisse fuori da stanze fumose e lande inospitali.

- Orbene, io mi accorgo che di nuovo, tra coloro che un tempo tanto ammiravano le cancellerie, si sta diffondendo un'analoga tendenza alla purezza del suono, e che i Tedeschi cominciano a soggiacere a un singolarissimo «fascino del suono» il quale, alla lunga, potrebbe costituire un vero pericolo per la lingua tedesca, - perché invano si cercherebbero in Europa suoni più ripugnanti. Un qualcosa di beffardo, freddo, indifferente, trascurato nella voce: questo sembra «distinto» ai tedeschi di oggi; - e io odo la buona volontà di adeguarsi a questa distinzione nelle voci di giovani impiegati, insegnanti, donne, commercianti; persino le bambine imitano già questo tedesco da ufficiali. Perché è l'ufficiale, quello prussiano, l'inventore di questi suoni: quello stesso ufficiale che in quanto militare e uomo del mestiere possiede quell'ammirevole modestia da cui tutti i tedeschi avrebbero da imparare (ivi compresi professori e musicisti!). Ma non appena parla e si muove, diviene la figura più immodesta e disgustosa di tutta Europa, - indubbiamente senza esserne cosciente! E anche senza che i Tedeschi ne siano coscienti: essi ammirano in lui l'uomo della società più distinta e sono ben contenti che sia lui a «dare loro il la». Ed egli lo fa! - I primi a imitare e ingigantire la sua pronunzia sono i marescialli e i sottufficiali. Si presti attenzioni ai comandi, veri e propri muggiti che pongono sotto assedio le città tedesche, adesso che si svolgono esercitazioni per ogni dove: quale arroganza, quale furibondo senso di autorità, quale freddezza beffarda risuona da questo brulicare di grida!

Sarà vero che i Tedeschi sono un popolo musicale? - E certo che i Tedeschi stiano militarizzando il suono della loro lingua: probabilmente, una volta che si siano abituati a parlare militarmente, finiranno con lo scrivere in modo altrettanto militare. Perché l'abitudine a determinati suoni penetra profondamente nel carattere: si fa presto ad appropriarsi delle parole, degli idiomi e infine anche dei pensieri che più si adattano a questo suono! Forse si sta già scrivendo in modo militare; forse io leggo troppo poco di quanto oggigiorno si scrive in Germania. Ma una cosa so per certo: le manifestazioni tedesche ufficiali, le cui eco giungono anche all'estero, non sono ispirate dalla musica tedesca, ma proprio da questi nuovi suoni di disgustosa arroganza. Quasi in ogni discorso del primo statista tedesco, persino quando proviene dal suo imperiale portavoce, c'è un accento che ripugna all'orecchio dello straniero: ma i Tedeschi lo sopportano, - perché così sopportano se stessi.

111. Origine del logico.

Donde è nata la logica, nella testa umana? Certamente dall'illogicità, il cui regno in origine doveva essere immenso. Ma innumerevoli esseri giunti a conclusioni diverse da quelle cui giungiamo oggi noi sono andati in malora: ciò potrebbe esser stato ancora più vero! Chi ad esempio non riusciva a scoprire abbastanza spesso quanto era uguale, con riferimento al cibo o agli animali che gli erano ostili, chi cioè sussumeva troppo lentamente ed era troppo cauto nel processo di sussunzione, aveva soltanto meno probabilità di sopravvivere rispetto a chi tra le cose simili indovinava immediatamente quelle identiche.

Tuttavia soltanto la tendenza prevalente a trattare tutto ciò che è simile come uguale, una tendenza illogica - perché di per sé niente è uguale, - ha gettato tutte le fondamenta della logica. Parimenti, affinché nascesse quel concetto di sostanza che è indispensabile alla logica, per quanto nel senso più rigoroso del termine, non si dovette né vedere né percepire la mutevolezza delle cose; gli esseri che non vedevano bene ebbero così un vantaggio rispetto a coloro che vedevano tutto «in divenire». Di per sé già quell'alto grado di cautela nel giungere a conclusioni e ogni tendenza scettica costituiscono un grande pericolo per la vita.

Non sarebbero sopravvissuti esseri viventi se non fosse stata coltivata, in modo straordinariamente forte, la tendenza contraria, ad affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e fantasticare piuttosto che ad attendere, ad acconsentire piuttosto che a negare, a giudicare piuttosto che a essere giusto; e noi, di solito, sperimentiamo soltanto il risultato della battaglia, tanto rapidamente e di nascosto si svolge dentro di noi questo antichissimo meccanismo.

121. La vita non è un argomento.

Ci siamo organizzati un mondo in cui possiamo vivere - ammettendo corpi, linee, superfici, cause ed effetti, movimento e quiete, forma e contenuto: senza questi articoli di fede nessuno riuscirebbe a vivere! Ma con questo non sono certo dimostrati. La vita non è un argomento; tra le condizioni della vita potrebbe esserci l'errore.

158. Caratteristica scomoda.

Trovare profonde tutte le cose - questa è una caratteristica scomoda; fa sì che ci si sforzino costantemente gli occhi e, alla fin fine, si trovi sempre di più di quanto non si desiderasse.

248.Libri.

Che cosa può importarcene di un libro che non ci porta al di là di tutti i libri?

249. Il sospiro di chi anela alla conoscenza.

«Oh, questa mia bramosia! Nella mia anima non c'è disinteresse, - ma un io che vorrebbe avere tutto, che vorrebbe vedere e afferrare per mezzo di molti individui come fa con i suoi occhi e le sue mani, - anche un io che va a riprendersi tutto il passato, che non vuol perdere niente di quanto potrebbe accadergli! Oh, questa fiamma della mia bramosia! Oh, se potessi rinascere in cento esseri!» - Chi non conosce questo sospiro per esperienza personale, non conosce neppure la passione di chi anela alla conoscenza.

324. In media vita.

No! La vita non mi ha deluso! Di anno in anno la trovo semmai più vera, più desiderabile e più misteriosa: - dal giorno in cui venne su di me il grande liberatore, il pensiero che la vita potesse essere un esperimento di chi è dedito alla conoscenza - e non un dovere, non una fatalità, non un inganno! E la conoscenza stessa: per altri può essere anche qualcosa di diverso, ad esempio un letto su cui riposare e la strada verso un letto, o un divertimento o un ozio, - per me essa è sempre un mondo di pericoli e vittorie, in cui anche i sentimenti eroici hanno un posto ove danzare e abbandonarsi all'ebbrezza. «La vita è uno strumento di conoscenza»: con questo principio nel cuore, si può vivere non soltanto valorosamente, ma persino, allegramente, e ridere allegramente! E come si potrebbe ridere e vivere se non si sono conosciute guerra e vittoria?

355. L'origine del nostro concetto di «conoscenza».

Traggo questa spiegazione dalla strada; ho udito un uomo del popolo dire «non mi ha riconosciuto» e mi sono domandato: che cosa intende in realtà il popolo quando si parla di conoscenza? Che cosa quando dice di voler «conoscere»? Nient'altro che questo: ricondurre ogni elemento estraneo a qualcosa di noto. E noi filosofi - abbiamo mai inteso, parlando di conoscenza, qualcosa di più? Il noto, cioè qualcosa a cui siamo abituati, cosicché non ce ne meravigliamo più, il nostro quotidiano, una specie di regola in cui ci nascondiamo, ogni cosa e tutto ciò in cui ci sentiamo di casa: - come? Anche il nostro bisogno di conoscenza, non è proprio questo un bisogno di noto, la volontà di scoprire, sotto tutti gli aspetti estranei, insoliti, dubbi, qualcosa che ci tranquillizzi? Non sarà questo istinto di paura a spingerci alla conoscenza? L'esultanza di chi conosce non sarà proprio l'esultanza del ritrovato senso di sicurezza?...

Il noto è l'abituale, e l'abituale è difficilissimo da «conoscere», cioè da vedere come problema da considerare estraneo, lontano, «fuori di noi»... La grande sicurezza delle scienze naturali in rapporto alla psicologia e alla critica degli elementi della coscienza - scienze innaturali, si dovrebbe quasi dire - è fondata proprio sul fatto che scelgono quale loro oggetto l'estraneo: mentre volere scegliere quale oggetto il non-estraneo è quasi contraddittorio e assurdo...

357. Sull'annoso problema: «che cos'è tedesco»?

Schopenhauer, come filosofo, è stato il primo ateo dichiarato e inflessibile che noi tedeschi abbiamo avuto: ecco il perché della sua ostilità nei confronti di Hegel. La non divinità dell'esistenza gli pare qualcosa di dato, palpabile, indiscutibile; perdeva immancabilmente la sua assennatezza di filosofo e cadeva in preda all'ira quando vedeva qualcuno indugiare e fare giri di parole a questo proposito. Qui sta tutta la sua rettitudine: un ateismo incondizionatamente onesto è precondizione essenziale del suo modo di affrontare il problema, in quanto vittoria definitiva e assai sofferta della coscienza europea, in quanto l'atto più ricco di conseguenze di un'educazione di duemila anni alla verità la quale, alla fine, si proibisce la menzogna della fede in Dio...

Come si vede, a sconfiggere davvero il Dio cristiano è stata, in ultima analisi, la stessa morale cristiana, il concetto di veridicità inteso in modo sempre più rigoroso, la finezza da padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata in coscienza scientifica, in pulizia intellettuale ad ogni costo. Vedere la natura come se fosse una prova della bontà e della protezione di Dio; interpretare la storia in onore di una ragione divina, come costante testimonianza di un ordine morale del mondo e di finali intenzioni morali; spiegare le proprie esperienze come le hanno a lungo spiegate i devoti, come se tutto fosse disposizione, tutto cenno tutto pensato e predeterminato per amore della salvezza dell'anima: tutto ciò è ormai finito, ha contro di sé ogni coscienza, perché ogni coscienza più raffinata lo trova indecoroso, disonorevole, una menzogna, roba da donnicciole, debolezza, vigliaccheria - con questo rigore, se non altro, siamo buoni Europei ed eredi del più lungo e valoroso autosuperamento che si sia mai dato in Europa. Non appena respingiamo in tal guisa l'interpretazione cristiana e giudichiamo il suo «senso» una falsificazione, ci imbattiamo subito, spaventosamente, nella domanda di Schopenhauer: ma l'esistenza ha un senso?

- E ci vorranno almeno un paio di secoli per poter anche solo percepire completamente questa domanda, in tutta la sua profondità. La risposta data dallo stesso Schopenhauer alla sua domanda è - chiedo venia - alquanto affrettata e giovanile, un semplice accomodamento, un rimanere fermi e bloccati in quella stessa prospettiva morale ascetico-cristiana la fede nella quale era stata congedata insieme con la fede in Dio... E stato comunque lui a porre questa domanda, in quanto buon Europeo, come abbiamo detto, e non in quanto tedesco.

380. Parla «il viandante».

Per osservare ancora una volta da lontano la nostra moralità europea, per commisurarla ad altre moralità, precedenti o venture, occorre fare come un viandante che voglia sapere quanto sono alte le torri di una città: deve abbandonare la città. I «pensieri sui pregiudizi morali», per non essere pregiudizi su pregiudizi, presuppongono una collocazione al di fuori della morale, un punto al di là del bene e del male verso il quale occorre salire, arrampicarsi, volare - e, in certi casi, un punto anche al di là del nostro bene e male, una libertà da «tutta l'Europa», quest'ultima intesa come una somma di tutti i pregiudizi prevalenti che ci sono passati nella carne e nel sangue. Il fatto che si voglia arrivare fuori e sopra è forse una piccola follia, un «tu devi» - stravagante e irragionevole, perché anche noi uomini della conoscenza abbiamo le nostre idiosincrasie della «volontà non libera»: il problema è se sia davvero possibile arrivare là sopra. Può dipendere da molte condizioni ma, principalmente, da quanto siamo leggeri o pesanti: il problema è cioè il nostro «peso specifico». Si deve essere molto leggeri per spingere la propria volontà di conoscenza a tale distanza e, per così dire, sopra il proprio tempo, per crearsi occhi con cui abbracciare i millenni e anche un cielo puro in questi occhi! Ci si deve essere svincolati da molto di quello che per l'appunto opprime, impedisce, trattiene, appesantisce noi Europei di oggi. L'uomo di un tale aldilà, che vuole vedere con i suoi occhi le supreme misure di valore del suo tempo, ha bisogno in primo luogo di «superare» questo tempo in se stesso - è una prova della sua forza - e, quindi, non solo il suo tempo, ma anche la ripugnanza e la contraddizione che ha avvertito sinora contro questo tempo, il suo patire per questo tempo, la sua inadeguatezza ad esso, il suo romanticismo...

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Della virtù che dona

3.

Si ripaga male un maestro se si rimane sempre soltanto discepolo.

Parte terza

Della virtù che rimpicciolisce

2.

Io vado in mezzo a questo popolo e tengo gli occhi aperti: sono diventati più piccini e diventano sempre più piccini: ma questo è dovuto alla loro dottrina di felicità e di virtù.

Essi infatti sono modesti anche nella virtù perché vogliono il benessere. Ma col benessere si accorda solo una virtù modesta.

Essi imparano, sì, a modo loro, a camminare e ad avanzare: questo io lo chiamo il loro zoppicare . Così sono di intralcio a chiunque abbia fretta.

E qualcuno di loro avanza, ma avanzando si guarda indietro, con la nuca irrigidita: e uno così mi piace investirlo.

Piede ed occhio non devono mentire né smentirsi a vicenda. Ma c'è molta menzogna presso la gente piccina.

Alcuni di loro vogliono, ma i più sono soltanto voluti. Alcuni di loro sono autentici, ma i più sono soltanto cattivi attori.

Ci sono tra loro attori incoscienti e attori involontari , gli autentici sono sempre rari, e rari sono soprattutto gli attori autentici.

C'è poca virilità: per questo si virilizzano le loro donne. Giacché soltanto chi è uomo abbastanza redimerà la donna nella donna.

E questa simulazione trovai la peggiore di tutte: che anche quelli che comandano simulano le virtù di quelli che servono.

«Io servo, tu servi, noi serviamo» così prega anche la simulazione di quelli che dominano,.e guai, quando il primo signore è soltanto il primo servitore!

Ah, anche nelle loro simulazioni si smarrì la curiosità del mio occhio; e io indovinai bene tutta la loro felicità di mosche e il loro ronzare su vetri caldi di finestre soleggiate.

Tanta bontà, altrettanta debolezza vedo. Tanta giustizia e compassione, altrettanta debolezza.

Rotondi, giusti e benevoli sono l'uno con l'altro, come i granelli di sabbia sono rotondi, giusti e benevoli con i granelli di sabbia.

Abbracciare umilmente una piccola felicità questa essi la chiamano «rassegnazione»! E intanto sbirciano già umilmente verso una nuova piccola felicità.

In fondo essi vogliono ingenuamente una cosa soprattutto: che nessuno faccia loro male. Così prevengono ognuno e gli fanno del bene.

Ma questa è viltà: sebbene si chiami «virtù».

E anche se capita che parli rudemente, questa piccola gente: io non odo in ciò che la loro afonia, giacché ogni corrente d'aria li rende afoni.

Sono accorti, le loro virtù hanno dita accorte. Ma mancano loro i pugni, le loro dita non sanno nascondersi dentro il pugno.

Virtù è per loro ciò che rende umili e miti: così fecero del lupo un cane e dell'uomo stesso il miglior animale domestico dell'uomo.

«Noi collochiamo la nostra sedia nel mezzo mi dice il loro sorriso soddisfatto a uguale distanza da gladiatori morenti e da scrofe appagate.»

Ma questa è mediocrità: sebbene sia chiamata misura.

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

Prefazione

Ci sono buoni motivi per sperare che in filosofia ogni dogmatizzare, per quanto abbia assunto forme solenni, definitive e decisive, possa essere stato soltanto una nobile fanciullaggine e una cosa da principianti; e forse è molto vicino il tempo in cui si comprenderà sempre meglio che cosa veramente è bastato per porre le basi di tali sublimi e assolute costruzioni dei filosofi, quali i dogmatici le hanno edificate fino ad oggi, ‑ una qualche superstizione popolare di tempi immemorabili (come la superstizione dell'anima, che ancor oggi, come superstizione del soggetto e dell'io, non ha cessato di creare disordini), un qualche gioco di parole forse, una seduzione da parte della grammatica o una temeraria generalizzazione di fatti molto limitati, molto personali, molto umani ‑ troppo umani.

La filosofia dei dogmatici è stata, vogliamo sperare, solo una promessa per i secoli futuri: come in tempi ancora più lontani lo è stata l'astrologia, al servizio della quale forse è stato impiegato più lavoro, denaro, acume, pazienza di quanto non si sia fatto finora per qualsiasi vera scienza: ‑ si deve ad essa e alle sue pretese «ultraterrene» in Asia e in Egitto lo stile grandioso dell'architettura.

Sembra che tutte le cose grandi, per iscriversi nel cuore dell'umanità con le loro eterne esigenze, debbano prima percorrere la terra come terrificanti e mostruose caricature: una simile caricatura è stata la filosofia dogmatica, per esempio la dottrina dei Vedanta in Asia, il platonismo in Europa. Non siamole ingrati, per quanto si debba senz'altro ammettere che il peggiore, il più durevole e il più pericoloso di tutti gli errori sia stato fino ad oggi un errore da dogmatici, cioè l'invenzione platonica dello spirito puro e del bene in sé.

1.

La volontà di verità, che ci sedurrà ancora a molte imprese arrischiate, quella famosa veridicità di cui fino ad oggi tutti i filosofi hanno parlato con venerazione: quali domande ci ha già proposto, questa volontà di verità! Quali strane, maligne, problematiche domande! E’ già una lunga storia, e tuttavia non sembra che sia appena iniziata? Ci si può meravigliare se finalmente, per una volta, diventiamo diffidenti, perdiamo la pazienza, ci rivoltiamo con impazienza? che noi, a nostra volta, impariamo da questa sfinge a porre delle domande? Chi è propriamente che ora ci pone domande? Che cosa in noi tende propriamente «alla verità»? In realtà, ci siamo fermati a lungo di fronte al problema della causa di questa volontà, ‑ fino a che, alla fine, ci siamo fermati completamente di fronte a un problema ancora più fondamentale. Abbiamo posto il problema del valore di questa volontà. Posto che vogliamo la verità: perché non piuttosto la non verità? E l'incertezza? E addirittura l'ignoranza?

‑ Il problema del valore della verità ci è comparso dinnanzi, ‑ oppure siamo stati noi a porci di fronte a questo problema? Chi di noi è qui Edipo? Chi la Sfinge? E’ un incontrarsi, come pare, di problemi e di punti interrogativi. E si potrebbe credere che alla fine ciò comincia a darci l'impressione che il problema non sia stato finora mai posto ‑ che sia stato scorto, preso di mira, osato per la prima volta da noi? Poiché esso comporta un rischio, e forse non ce n'è uno maggiore.

3.

Dopo aver letto abbastanza a lungo i filosofi tra le righe e averli tenuti d'occhio mi dico che dobbiamo considerare ancora come attività dell'istinto la gran parte del pensiero cosciente, persino nel caso del pensiero filosofico; dobbiamo trasformare qui il nostro modo di vedere, come si è fatto a proposito dell'ereditarietà e dell'«innatismo». Come l'atto della nascita ha poca importanza nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, altrettanto poco l'«essere cosciente» può essere contrapposto, in un qualche modo decisivo, all'elemento istintivo, ‑ la parte maggiore del pensiero cosciente di un filosofo è guidata segretamente dai suoi istinti e costretta in binari fissi. Anche dietro ogni logica e l'apparente dispotismo dei suoi movimenti stanno giudizi di valore, detto con maggiore chiarezza, esigenze fisiologiche per il mantenimento di un determinato tipo di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza abbia meno valore della «verità»: tali valutazioni, pur con tutta l'importanza normativa che hanno per noi, potrebbero essere tuttavia soltanto valutazioni pregiudiziali, un determinato tipo di niaiserie, quale può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri come noi. Ammesso, cioè che non proprio l'uomo sia la «misura delle cose»…

4.

Quel che ci stimola a guardare tutti i filosofi un po' con diffidenza e un po' con sarcasmo, non sta nel fatto che si viene continuamente in chiaro di quanto essi siano innocenti ‑ di quanto spesso e con quanta facilità errino e si confondano, insomma del loro infantilismo e della loro ingenuità ma del fatto che essi non sono abbastanza onesti: anche tutti insieme mandano alte e virtuose grida non appena il problema della veracità viene sfiorato, sia pur da lontano. Essi si presentano tutti come se avessero scoperto e raggiunto le proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente indifferente (a differenza dei mistici di ogni rango, che sono più onesti e più sciocchi di loro ‑ parlano d'«ispirazione»): mentre, in fondo, una tesi enunciata anticipatamente, una trovata, una «suggestione», per lo più un desiderio intimo reso astratto e filtrato vengono da essi difesi con ragioni cercate a posteriori ‑ sono tutti quanti avvocati che non vogliono essere chiamati tali, e invero per lo più addirittura astuti patrocinatori dei propri pregiudizi, battezzati come «verità» e molto lontani, inoltre, dal coraggio della coscienza che questo, proprio questo, confessa a se stessa, molto lontani dal buon gusto del coraggio, che fa comprendere anche ciò, sia per mettere sull'avviso un amico o un nemico, sia per tracotanza e per farsi gioco di se stesso.

6.

Poco per volta mi è venuto in chiaro che cosa è stata finora ogni grande filosofia cioè il confessarsi del suo autore; e una specie di mémoires non volute e improvvise…

Nel filosofo non c'è assolutamente nulla d'impersonale; e in particolare la sua morale offre una testimonianza decisa e decisiva di chi egli è ‑ e cioè in quale ordine gerarchico si collocano gli uni rispetto agli altri gli impulsi più profondi della sua natura.

9.

[La filosofia] crea sempre il mondo a propria immagine, non può fare diversamente; la filosofia è questo stesso impulso tirannico, la più spirituale volontà di potenza, di «creazione del mondo», di una causa prima.

16.

Ci sono ancor sempre candidi osservatori di sé, che credono che esistano «certezze immediate», ad esempio «io penso», oppure, secondo la superstizione di Schopenhauer, «io voglio»: come se qui il conoscere fosse in grado di comprendere il suo oggetto nella sua nuda purezza, come «cosa in sé», e non si potesse avere nessuna falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell'oggetto. Ma che «certezza immediata» come anche «assoluta conoscenza» e «cosa in sé» racchiudono una contradictio in adjecto, lo ripeterò cento volte: ci si dovrebbe pur sbarazzare alla fine, della seduzione delle parole! Creda pure il popolo che conoscere sia un conoscere definitivo, il filosofo deve dirsi: se analizzo il procedimento che è espresso nella proposizione «io penso», ottengo una serie di asserzioni arrischiate, la cui giustificazione è difficile, forse impossibile, ‑ come per esempio, che sia io colui che pensa che debba esistere generalmente un qualcosa, che pensi, che pensare sia un'attività e un effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un «io», infine, che sia accertato che cos'è definibile in termini di pensiero, ‑ che io sappia che cos'è pensare. Poiché se io non avessi già risposto al riguardo, in base a che cosa potrei giudicare che, quanto sta appunto accadendo, non sia piuttosto un «volere» o un «sentire?»

Insomma, quell'«io penso» presuppone che io metta a confronto la mia condizione attuale con altre condizioni, che conosco per la mia esperienza, per stabilire così che cosa essa sia: a causa di questo riferimento a un diverso «sapere», essa non costituisce più per me, in nessun caso, una certezza immediata.

‑ Al posto di quella «certezza immediata», alla quale il popolo, nel caso dato, può credere, il filosofo si trova in tal modo tra le mani una serie di questioni metafisiche, veri e propri problemi di coscienza dell'intelletto, che si esprimono così: «Da dove prendo il concetto di pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare di un io e addirittura di un io come causa e infine ancora di un io come causa del pensiero?». Chi, invocando una specie di intuizione della conoscenza, si sentisse in grado di rispondere subito a queste interrogazioni metafisiche, come fa colui che dice: «io penso e so che almeno questo è vero, reale, certo» ‑ non troverebbe oggi in un filosofo che un sorriso e due punti interrogativi. «Signor mio, gli farebbe forse capire il filosofo, è inverosimile, che lei non sbagli: ma perché poi una verità assoluta?»

20.

Che i singoli concetti filosofici non abbiano nulla di arbitrario, nulla che si sviluppi autonomamente, ma crescano in relazione e affinità reciproca, e per quanto in apparenza facciano la loro comparsa nella storia del pensiero improvvisamente e arbitrariamente, appartengano tuttavia a un sistema, allo stesso modo di tutte le specie della fauna di una parte della terra: ciò si svela infine anche nella sicurezza con la quale i più diversi filosofi riempiono sempre di nuovo un determinato schema fondamentale di possibili filosofie. Sempre di nuovo, in balia di un invisibile incantesimo, essi percorrono ancora una volta lo stesso circuito: per quanto possano sentirsi così indipendenti l'uno dall'altro, con la loro volontà critica o sistematica, un qualcosa in loro li guida, qualcosa li incalza, in un ordine determinato, l’uno dopo l'altro: appunto quella innata e sistematica affinità concettuale. Il loro pensare è di fatto molto meno una scoperta che un riconoscere, un ricordare di nuovo, un retrocedere e un ritornare a casa in una lontana, antichissima comune dimora dell'anima, dalla quale quei concetti sono nati una volta: ‑ in quanto a questo, filosofare è una specie di atavismo di primissimo ordine.

23.

Tutta quanta la psicologia è rimasta impigliata fino ad oggi in pregiudizi e timori morali; essa non ha osato scendere nel profondo. Considerarla, come io la considero, quale morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: ‑ è un punto che finora nessuno ha neppure sfiorato con il pensiero: per quanto almeno è consentito riconoscere, in ciò che è stato scritto fino ad ora, un sintomo di ciò che fino ad ora è stato taciuto. La forza dei pregiudizi morali è penetrata profondamente nel mondo più intellettuale, in apparenza più freddo e spregiudicato ‑ e, come è ovvio, in modo dannoso, limitante, accecante, falsante.

25.

Non vorrei che rimanesse inascoltata una parola seria: essa si rivolge ai più seri. State in guardia voi filosofi e amici della conoscenza; e guardatevi dal martirio! Dalla sofferenza «per amore della verità»! E addirittura dalla difesa di voi stessi! Si guasta nella vostra coscienza ogni innocenza e ogni sottile neutralità, diventate ostinati contro le obiezioni e i drappi rossi, diventate stupidi, bestiali, vi trasformate in tori, quando nella lotta contro il pericolo, la diffamazione, il sospetto, il rifiuto, e le conseguenze ancora più rozze dell'ostilità dovete ricoprire alla fine persino il ruolo di difensori della verità sulla terra: ‑ come se «la verità» fosse una persona così indifesa e goffa, da aver bisogno di difensori!…

Il martirio del filosofo, il suo «sacrificio per la verità», porta alla luce ciò che v'è in lui dell'agitatore e dell'istrione; e posto che sino ad oggi si sia guardato a lui solo con curiosità artistica, è certo comprensibile, in relazione a molti filosofi, il pericoloso desiderio dì vederli, per una volta, anche nella loro degenerazione (degenerati in «martiri», in strilloni da teatro e da tribuna). Ma chi prova un tale desiderio, deve aver chiaro ciò che vedrà: ‑ solo una satira, solo una farsa finale, solo la continua dimostrazione che la lunga vera tragedia è alla fine: ammesso che ogni filosofia sia stata, al suo nascere, una lunga tragedia.

34.

Da qualsiasi punto di vista filosofico ci si voglia oggi porre: l'erroneità del mondo, nel quale crediamo di vivere, vista da qualsiasi punto è la cosa più sicura e più salda della quale i nostri occhi possono appropriarsi: troviamo a questo proposito mille motivi che vorrebbero adescarci a congetture su un principio ingannatore nella «essenza delle cose». Ma chi attribuisce la responsabilità della falsità del mondo al nostro stesso pensiero, dunque «allo spirito» ‑ onorevole via d'uscita, che ogni consapevole e inconsapevole advocatus dei percorre ‑: chi considerasse questo mondo, e lo spazio, il tempo, la forma, il movimento, come dedotto erroneamente, avrebbe per lo meno un buon motivo per imparare finalmente a diffidare di ogni pensiero: e non ci avrebbe giocato fino ad oggi i tiri peggiori? E quale garanzia abbiamo che non continuerebbe a fare ciò che ha sempre fatto?

In tutta serietà: l'innocenza dei pensatori ha qualcosa che commuove e incute rispetto, è questo che permette loro di porsi ancor oggi di fronte alla coscienza, con la preghiera che essa dia loro delle risposte oneste: per esempio se essa sia «reale», e perché mai essa tenga lontano da sé con tale decisione il mondo esterno, e altri problemi simili. La fede nelle «certezze immediate» è un'ingenuità morale che fa onore a noi filosofi: ma ‑ noi non dobbiamo ormai essere uomini «soltanto morali»! A prescindere dalla morale, quella fede è una stupidaggine che ci fa poco onore! Nella vita civile la diffidenza sempre vigile venga pure considerata come segno di «cattivo carattere» e appartenga pure di conseguenza alle sconsideratezze: qui tra noi, al di qua del mondo borghese e del suo sì o no, ‑ cosa potrebbe impedirci di essere sconsiderati e di dire: dopo tutto il filosofo ha diritto al «cattivo carattere», in quanto è l'essere che più di ogni altro è stato finora beffeggiato sulla terra, ‑ egli ha oggi il dovere di essere diffidente, di lanciare dagli abissi del suo sospetto gli sguardi più malevoli.

42.

Si sta formando un nuovo genere di filosofi: oso battezzarli con un nome non privo di pericoli. Così come io li intuisco, così come essi si lasciano intuire ‑ poiché è nella loro natura il voler restare in qualche modo degli enigmi ‑ questi filosofi del futuro potrebbero avere il diritto, forse anche il torto, di essere definiti tentatori. Questo nome stesso non è infine che un tentativo, e, se si vuole, una tentazione.

43.

Sono nuovi amici della «verità», questi filosofi che stanno giungendo? Probabilmente lo saranno: poiché tutti i filosofi hanno amato finora le proprie verità. Ma sicuramente non saranno dogmatici. Dovrebbe essere contrario alloro orgoglio e al loro gusto, che la loro verità debba essere ancora una verità per tutti: ciò che è stato finora il desiderio segreto e il senso nascosto di ogni aspirazione dogmatica. «Il mio giudizio è il mio giudizio: non sarà facile che su di esso anche un altro possa vantare un diritto» ‑ dirà forse un tale filosofo dell'avvenire. Bisogna tener lontano da sé il cattivo gusto di voler essere d'accordo con molti. «Bene» non è più bene, se è pronunciato dalla bocca del vicino. E come potrebbe esserci addirittura un «bene comune»! La parola contraddice se stessa: ciò che può essere comune, ha sempre solo uno scarso valore.

Alla fine tutto deve essere come è sempre stato; le cose grandi restano riservate ai grandi, gli abissi ai profondi, le cose delicate e i brividi alle anime delicate, e in parole brevi e sintetiche, le cose rare agli spiriti rari.

44.

Dopo tutto ciò devo dire ancora, appositamente, che anch'essi saranno spiriti liberi, molto liberi, questi filosofi dell'avvenire, ‑ per quanto sia certo che non saranno solamente spiriti liberi, ma qualcosa di più, di più elevato, di più grande e fondamentalmente diverso, che non vuol essere disconosciuto e confuso? Ma mentre dico questo, sento verso di loro quasi come verso di noi, noi che siamo loro araldi e precursori, noi spiriti liberi! ‑ l'obbligo di soffiar via da noi, insieme, un vecchio sciocco pregiudizio e malinteso, che per troppo tempo, come una nebbia, ha reso «opaco» il concetto di «spirito libero».

In tutti i paesi d'Europa e anche in America, si abusa oggi da parte di qualcuno di questo nome, una sorta di spiriti molto limitati, prigionieri, in catene, che vogliono pressappoco il contrario di quanto è nelle nostre intenzioni e nei nostri istinti ‑ per non parlare poi del fatto che riguardo a quei nuovi filosofi che stanno sopraggiungendo essi non devono essere che finestre ben chiuse e porte sbarrate. Essi appartengono, per dirla in poche parole, ai livellatori, che falsamente vengono chiamati «spiriti liberi» ‑ in quanto schiavi, eloquenti e abili nell'usare la penna, del gusto democratico e delle sue «idee moderne»: tutti quanti uomini senza solitudine, senza una propria solitudine, goffi onesti ragazzotti ai quali non dobbiamo negare il coraggio né onesti costumi, ma solo il fatto appunto di non essere liberi e di essere superficiali tanto da muovere al riso, soprattutto con la loro tendenza di fondo a vedere nelle forme della vecchia società esistita sino ad oggi, la causa di ogni miseria e faIlimento umano: e così la verità viene ad essere felicemente capovolta!

Ciò cui essi tenderebbero con ogni loro forza è la universale verde felicità campestre delle greggi, sicura, priva di pericoli, comoda e facile per tutti; le due canzoni e le due dottrine, che essi cantano con maggior frequenza si chiamano «parità dei diritti» e «compassione per chiunque soffra», ‑ e la sofferenza spesso viene presa da essi come qualcosa che deve essere eliminato.

Noi, fatti a rovescio, noi che abbiamo aperti gli occhi e la coscienza al problema del dove e come sia cresciuta fino ad oggi con maggior vigore la pianta «uomo», crediamo che ciò sia accaduto ogni volta in condizioni opposte, che inoltre il pericolo della sua situazione fu costretto ad aumentare in modo semplicemente portentoso, la sua forza inventiva e dissimulatrice (il suo «spirito») dovette svilupparsi in sottigliezza e audacia sotto una lunga coercizione e costrizione, e la sua volontà di vita dovette essere potenziata fino all'illimitata volontà di potenza ‑ noi crediamo che durezza, prepotenza, schiavitù, pericoli nelle strade e nel cuore, segretezza, stoicismo, tentazioni e diavolerie di ogni tipo, che ogni malvagità, mostruosità, tirannia, tutto quanto vi è di rapace e di viscido nell'uomo, serva alla sua elevazione quanto il suo contrario ‑ e addirittura non diciamo abbastanza, quando diciamo solo questo, e in ogni caso, con le nostre parole e i nostri silenzi su questo punto, ci ritroviamo all'altro capo di ogni ideologia moderna e dei desideri del gregge: come i suoi antipodi forse? Perché stupirsi, che noi «spiriti liberi» non siamo proprio gli spiriti più comunicativi? Che non abbiamo il desiderio di svelare, sotto ogni riguardo, da che cosa uno spirito possa liberarsi, e verso cosa egli verrà poi sospinto?

E per quanto riguarda la pericolosa formula «al di là del bene e del male» con la quale per lo meno ci difendiamo dall'essere scambiati con altri: noi siamo diversi dai «libres‑penseurs, «liberi pensatori», «Freidenker» o come vogliono chiamarsi tutti questi onesti intercessori delle «idee moderne». Siamo stati di casa, o perlomeno siamo stati ospiti in molte regioni dello spirito; siamo sempre nuovamente sfuggiti dagli oscuri piacevoli cantucci nei quali parevano confinarci predilezioni e odi pregiudiziali, giovinezza, origine, il caso di uomini e libri, o addirittura le fatiche del vagabondaggio; pieni di cattiveria contro gli allettanti strumenti della dipendenza, che sono nascosti negli onori, nel denaro, o negli impieghi, o nell'esaltazione dei sensi; grati addirittura alla miseria e alla mutevole malattia, poiché sempre ci hanno liberato da qualsiasi regola e dal suo «pregiudizio», grati a Dio, al diavolo, alla pecora e al verme che sono in noi, curiosi fino al vizio, indagatori fino alla crudeltà, con dita pronte all'inafferrabile, con denti e stomaco per l'indigeribile, pronti a ogni mestiere che pretenda acutezza e sensi pronti, pronti a osare tutto, grazie a un'eccedenza di «libero volere», con anime manifeste e segrete, di cui nessuno può scorgere facilmente le ultime intenzioni, con primi piani e retroscena che nessuno potrebbe percorrere fino alla fine, nascosti sotto il manto della luce, conquistatori, anche se siamo simili agli eredi e ai dissipatori, ordinatori e collezionatori da mattina a sera, avari della nostra ricchezza e dei nostri cassetti stipati, parsimoniosi nell'apprendere e nel dimenticare, ingegnosi negli schemi, di quando in quando fieri delle1nostre tavole di categorie, a volte pedanti, a volte gufi del lavoro anche in pieno giorno; e, quando è necessario anche spauracchi ‑ e oggi è necessario: in quanto siamo sin dalla nascita amici giurati e gelosi della solitudine, la più notturna e la più meridiana: ‑ un tal genere di uomini siamo noi, noi liberi spiriti! e forse ci assomigliate, voi che state giungendo? voi nuovi filosofi? ‑

192.

Chi ha seguito la storia di una singola scienza troverà nella sua evoluzione un filo conduttore per la comprensione dei più antichi e comuni procedimenti di ogni «sapere e conoscere»: lì come qui sono le ipotesi affrettate le invenzioni, la buona stupida volontà di «credere», la mancanza di diffidenza e di pazienza che si sono sviluppate per prime ‑ i nostri sensi imparano tardi e mai completamente ad essere organi sottili, fedeli, attenti del conoscere. Per il nostro occhio è più comodo riprodurre in una data occasione un'immagine prodotta già molte volte, che ritenere in sé ciò che vi è di diverso e di nuovo in un'impressione: questo esige più forza, più «moralità». Udire suoni nuovi è penoso e difficile all'orecchio: ascoltiamo mal volentieri una musica sconosciuta. Involontariamente tentiamo, ascoltando un'altra lingua, di formare i suoni uditi in parole che risuonino più familiari e più consuete...

Il nuovo trova ostili e contrari anche i nostri sensi e soprattutto anche nei «più semplici» processi della sensibilità dominano passioni come paura, amore, odio, comprese le passioni passive della pigrizia.

210.

Posto che nell'immagine dei filosofi del futuro un qualche tratto ci faccia capire che dovranno forse essere, nel senso indicato per ultimo, degli scettici, si sarebbe indicato in tal modo soltanto un qualche loro lato, ‑ e non loro stessi. Con ugual diritto potrebbero farsi chiamare critici; e senza dubbio saranno degli sperimentatori. Con il nome con cui ho osato battezzarli, ho già sottolineato esplicitamente lo sperimentare e il piacere dello sperimentare: ciò è avvenuto perché costoro, in quanto critici del corpo e dell'anima amano far uso dell'esperimento in un senso nuovo, forse più vasto, forse più pericoloso?

Debbono procedere, nella loro passione per la conoscenza, con esperimenti audaci e dolorosi, al di là di quanto possa ammettere il gusto morbido e infiacchito di un secolo democratico?

‑ Non c'è dubbio: per lo meno questi che verranno non potranno fare a meno di quelle qualità serie e non innocenti che differenziano il critico dallo scettico; voglio dire la sicurezza della misura di valore, la cosciente utilizzazione di un'unità di metodo, l'astuto coraggio, lo stare da soli e il sapersi assumere una responsabilità; sì, essi ammettono in sé un piacere nel dire di no e nel sezionare, e una certa avveduta crudeltà che sa guidare il coltello con sicurezza e finezza anche quando il cuore sanguina.

211.

Insisto perché si smetta finalmente di confondere gli operai della filosofia e in generale gli uomini di scienza con i filosofi ‑ si dia appunto qui, con rigore, «ad ognuno il suo» e non troppo a quelli e troppo poco a questi. Può essere che sia necessario per l'educazione del vero filosofo che lui pure si sia soffermato una volta su tutti i gradini sui quali i suoi servitori, gli operai scientifici della filosofia, si fermano ‑ devono fermarsi; egli stesso dev'essere stato forse critico e scettico e dogmatico e storico e inoltre poeta e raccoglitore e viaggiatore e scioglitore di enigmi e moralista e profeta e «libero spirito» insomma tutto, per percorrere l'ambito dei valori umani e dei sentimenti di valore umani e per poter guardare, con molteplici sguardi e coscienze, dall'alto verso ogni lontananza, dalla profondità verso ogni altezza, dall'angolo verso ogni ampiezza. Ma tutte queste cose non sono altro che condizioni preliminari del suo compito: questo stesso compito esige qualcosa di diverso, ‑ esso pretende che egli crei dei valori.

Quegli operai filosofici secondo il nobile modello di Kant e di Hegel hanno il compito di determinare e costringere in formule ogni vasta fattispecie di stima di valore ‑cioè di antiche definizioni, di creazioni di valori, che sono diventate predominanti e per un certo periodo sono state chiamate «verità» ‑ sia nell'ambito della logica che della politica (morale) o dell'arte. Spetta a questi ricercatori il compito di rendere chiari, intellegibili, afferrabili, maneggevoli tutti gli avvenimenti e le valutazioni che si sono avute sino ad oggi, abbreviare ogni lunghezza, il «tempo» stesso, e vincere l'intero passato: un compito immenso e splendido in grado di appagare sicuramente ogni sottile ambizione, ogni ostinata volontà.

Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e dettano legge: essi dicono «così dev'essere!» essi determinano per prima cosa la direzione e lo scopo dell'uomo e dispongono con ciò del lavoro preliminare di tutti gli operai filosofici, di tutti i dominatori del passato ‑ essi tendono verso il futuro la loro mano creatrice e tutto ciò che è e fu diventa con ciò per essi mezzo, strumento, maglio. Il loro «conoscere» è creare, il loro creare è dettar leggi, la loro volontà di verità è ‑ volontà di potenza. Ci sono oggi tali filosofi? Vi furono mai tali filosofi? Dovranno essercene?…

212.

Sono portato sempre di più a credere che il filosofo in quanto uomo necessario del domani o del dopodomani si sia trovato e abbia dovuto trovarsi in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: per lui il nemico fu ogni volta l'ideale dell'oggi. Finora tutti questi straordinari promotori dell'uomo, che vengono chiamati filosofi e che di rado si sentirono amici della saggezza; ma piuttosto sgradevoli buffoni e pericolosi punti interrogativi ‑ hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, infine però anche la sua grandezza nell'essere la cattiva coscienza del loro tempo. Mentre immergevano il coltello, proprio nel petto delle virtù del tempo, essi tradivano ciò che era il loro proprio segreto: conoscere una nuova grandezza dell'uomo, una nuova via, mai percorsa, per la sua elevazione. Ogni volta scoprirono quanta falsità, indolenza, quanto lasciarsi andare e lasciarsi cadere, quante menzogne fossero nascoste sotto il tipo maggiormente onorato della moralità contemporanea, quanta virtù fosse sopravvissuta; ogni volta essi dissero: «dobbiamo andare là, uscire di là, dove voi oggi vi sentite maggiormente estranei».

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

107.

L'ozio è il padre della filosofia. Di conseguenza la filosofia è un vizio?...

108.

Un filosofo si riposa in altro modo e in altro: per esempio si riposa nel nichilismo. La fede che non si dia alcuna verità, la fede nichilista, è un eccellente stirarsi le membra per chi, come uomo di guerra della conoscenza, sta eternamente in lotta con verità tutte brutte. Poiché la verità è brutta.

Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888)

Prologo

3.

Chi sa respirare l'aria dei miei scritti, sa che è un'aria delle altitudini, un'aria forte. Bisogna essere fatti per quell’aria, altrimenti non è piccolo il rischio di raffreddarvisi. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa ma come giacciono tranquille nella luce tutte le cose! come si respira liberamente! Quante cose sentiamo sotto di noi! La filosofia, come l'ho compresa e vissuta fino ad oggi, è la vita volontaria tra i ghiacci e le cime la ricerca di tutto ciò che di estraneo e di problematico vi è nell'esistenza, di tutto ciò che finora era posto al bando dalla morale. Dalla lunga esperienza che mi ha dato tale peregrinazione nel proibito, ho imparato a considerare le cause, in modo molto diverso da quanto può essere auspicabile, in base alle quali fino ad oggi si è moralizzato e idealizzato: è venuta alla luce, per me, la storia segreta dei filosofi, la psicologia dei loro grandi nomi.

Quanta verità sopporta, quanta verità osa uno spirito? Questo è diventato per me, sempre più, il vero criterio di valutazione. Errore ( la fede nell'ideale ) non è cecità, errore è vigliaccheria... Ogni acquisizione, ogni passo avanti nella conoscenza consegue dal coraggio, dalla durezza verso se stessi, dalla pulizia verso se stessi... Io non confuto gli ideali, mi infilo semplicemente i guanti di fronte a loro... Nitimur in vetitum: in questo regno vincerà un giorno la mia filosofia, poiché finora è stata impedita, per principio, sempre e soltanto la verità.

Il caso Wagner. Un problema di musicisti (1888)

Lettera da Torino del maggio 1888

1.

Si è notato che la musica rende libero lo spirito? che si diventa tanto più filosofi, quanto più si diventa musicisti? Il grigio cielo dell'astrazione come solcato da lampi; la luce forte abbastanza per tutta la filigrana delle cose; i grandi problemi tanto vicini da poterli toccare; il mondo visto come dall'alto di una montagna. Ho appunto definito il pathos filosofico.

L’Anticristo (1888)

XII

Escludo pochi scettici che rappresentano il tipo onesto nella storia della filosofia: ma il resto ignora i primi requisiti dell'integrità intellettuale. Questi grandi visionali ed esseri prodigiosi si comportano tutti come donnicciole: prendono «i buoni sentimenti» già per argomenti, il «petto in fuori» per mantice della divinità, la convinzione per un criterio di verità. Alla fine Kant, nella sua innocenza «tedesca», tentò di conferire a questa forma di corruzione, a questa mancanza di coscienza intellettuale, una facciata scientifica sotto il concetto della «ragion pratica»: inventò una ragione specifica per cui non si dovrebbe badare alla ragione quando la morale, la sublime pretesa «tu devi», si fa sentire. Se si considera che, presso quasi tutti i popoli, il filosofo è solo un ulteriore sviluppo del tipo sacerdotale, non sorprenderà più scoprire questa eredità del sacerdote, questa falsificazione davanti a sé stessi. Quando si hanno compiti sacri, come quello di migliorare, salvare e redimere gli uomini, quando si portarla divinità nel petto, quando si è i portavoce dell'imperativo ultraterreno, si è già, con tale missione, al di sopra di ogni valutazione puramente razionale, si è già santificati da un compito simile, sì è già modelli di un ordine superiore!... Che importa a un sacerdote della scienza! È troppo al di sopra di essa! E il sacerdote ha dominato fino a oggi! Ha fissato i concetti di «vero» e di «falso»!...

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

La «ragione» nella filosofia

1.

Mi chiedete tutto quel che è idiosincrasia nei filosofi... Per esempio la loro mancanza di senso storico, il loro odio per l'idea stessa del divenire, il loro egizianesimo. Credono di rendere onore a una cosa destoricizzandola, sub specie aeterni, facendo di essa una mummia. Tutto quello che i filosofi hanno avuto tra le mani per millenni, erano mummie di concetti; nulla di reale uscì vivo dalle loro mani. Questi signori idolatri del concetto, quando adorano, uccidono, imbalsamano diventano un pericolo mortale per ogni cosa, quando adorano. La morte, il mutamento, la vecchiaia, così come la procreazione e la crescita, per loro sono obiezioni addirittura confutazioni. Ciò che è, non diviene; ciò che diviene, non è... allora credono tutti, addirittura con disperazione, a ciò che è. Ma giacché non arrivano a possederlo, cercano le ragioni per cui ne vengono privati. «Dev'esserci una finzione, un inganno, nel fatto che non percepiamo ciò che è; dove si nasconde l'ingannatore?» «Lo abbiamo», gridano beati, «è la sensibilità! Questi sensi, per altro sempre così immorali, ci ingannano sul vero mondo. Morale: liberarsi dall'inganno dei sensi, dal divenire, dalla storia, dalla menzogna, la storia non è altro che fede nei sensi, fede nella menzogna. Morale: dire no a tutto ciò che presta fede ai sensi, a tutto il resto dell'umanità: questo è tutto "popolo". Essere filosofi, essere mummie, rappresentare il monotonoteismo con mimica da becchini! E soprattutto basta con il corpo, questa miserevole idée fixe dei sensi! affetto da tutti gli errori della logica che esistano, confutato, persino impossibile, eppure tanto impudente da atteggiarsi a reale!...»

Detti e frecce

3.

Per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio dice Aristotele. Manca il terzo caso: bisogna essere l'uno e l'altro un filosofo...

5.

Voglio, una volta per tutte, non sapere molto. La saggezza pone dei limiti anche alla conoscenza.

11.

Può un asino essere tragico? Perire sotto un peso che non si può né portare né gettar via?... Il caso del filosofo.