Eticità |
Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)Volume I 28. A prescindere da ogni teologia e da ogni confutazione di essa, è evidente che il mondo non è né buono né cattivo, e tanto meno il migliore o il peggiore, e che questi concetti di «buono» e «cattivo» hanno senso solo in rapporto agli uomini, e forse neanche qui, nel modo in cui vengono usati, essi hanno una giustificazione: della visione del mondo denigratoria o esaltatrice dobbiamo in ogni caso sbarazzarci. 34. Un uomo che si sia scrollato di dosso le catene della vita al punto da continuare a vivere soltanto per sempre meglio conoscere, deve poter rinunciare, senza rimpianto e fastidio, a molto, anzi quasi a tutto ciò che presso gli altri uomini ha valore; a lui deve bastare, come lo stato più desiderabile, quel sollevarsi libero e senza paura al di sopra di uomini, costumi, leggi e tradizionali valutazioni delle cose. Egli comunica volentieri la gioia che questo stato gli procura, e forse non ha altro da comunicare - il che implica certamente una privazione, una rinuncia. Se ciononostante gli si chiederà di più, egli additerà, scuotendo benevolmente il capo, il suo fratello, il libero uomo d’azione, e forse non nasconderà una certa qual derisione: poiché la «libertà» di quello è di un genere affatto particolare. 39. La favola della libertà intelligibile. - La storia dei sentimenti in base ai quali noi chiamiamo qualcuno responsabile, la storia dunque dei sentimenti morali, si svolge secondo le seguenti fasi principali. Dapprima si definiscono buone o cattive determinate azioni senza considerarne i motivi, ma unicamente in base alla bontà o al danno dei loro effetti. Presto però si dimentica l’origine di tali definizioni e ci si illude che la qualità di «buono» o di «cattivo» sia inerente alle azioni in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze: con lo stesso errore per cui la lingua definisce la pietra come dura, e l’albero come verde - quindi considerando come causa ciò che invece è effetto. Poi si ripone l’esser buono o cattivo nei motivi, e si considerano le azioni in sé come moralmente ambigue. Andando avanti, si attribuisce il predicato di buono o di cattivo non più al motivo singolo, bensì all’intero essere di un uomo, dal quale il motivo sorge come la pianta dal terreno. Così si considera l’uomo responsabile, nell’ordine, per i suoi effetti, poi per le sue azioni, poi per i suoi motivi e infine per il suo essere. Da ultimo si scopre che nemmeno questo essere può dirsi responsabile, in quanto è in tutto e per tutto una conseguenza necessaria, e concresce dagli elementi e influssi di cose passate e presenti: quindi l’uomo non può essere considerato responsabile per nulla, né per il suo essere né per i suoi motivi né per le sue azioni ne per i suoi effetti. Si è con ciò arrivati a riconoscere che la storia dei sentimenti morali è la storia di un errore, dell’errore della responsabilità - che, come tale, poggia su quello della libertà del volere.” 42. La gerarchia dei beni non è però sempre la stessa in ogni tempo; un uomo che preferisca la vendetta alla giustizia è morale secondo il criterio di una cultura più antica, e immorale secondo la cultura di oggi. «Immorale» significa dunque che uno non è ancora sensibile, o non lo è abbastanza, ai motivi superiori, più sottili e spirituali, che ogni nuova cultura porta di volta in volta con sé: indica chi è rimasto indietro, ma sempre solo in base a una differenza di grado. La stessa gerarchia dei beni non viene istituita, e riorganizzata, secondo punti di vista morali; tuttavia, dal modo in cui essa è di volta in volta determinata, si stabilisce se un’azione sia morale o no. 45. Duplice preistoria del bene e del male. - Il concetto di bene e di male ha una duplice preistoria: da un lato, nell’animo delle stirpi e caste dominanti. Chi ha il potere di contraccambiare, bene con bene, male con male, ed esercita anche realmente questo contraccambio, ovverossia la vendetta e la riconoscenza, viene detto buono; chi non è potente e non può ricambiare, passa per cattivo. Come buono si appartiene ai «buoni», a una comunità che possiede il sentimento di essere tale in quanto gli individui sono reciprocamente collegati dal senso del contraccambio. Come cattivi si appartiene ai «cattivi», una massa di uomini subordinati, impotenti, che non possiedono alcun sentimento di essere una comunità. I buoni sono una casta, i cattivi una massa, come polvere. Per un certo periodo buono e cattivo equivalgono a nobile e umile, a signore e schiavo.” 56. Vittoria della conoscenza sul male radicale. - A chi vuol diventare saggio, arreca un notevole guadagno l’aver contemplato una volta, per un certo periodo, l’idea dell’uomo radicalmente malvagio e corrotto: tale idea è falsa, come pure il suo contrario; ma per interi periodi è stata l’idea dominante, e le sue radici si sono diramate fin dentro di noi e il nostro mondo. Per comprendere noi stessi, dobbiamo comprendere quella; ma poi, per salire più in alto, dobbiamo superarla. Allora riconosceremo che non esistono peccati in senso metafisico, ma nemmeno virtù; che tutta questa sfera di rappresentazioni morali oscilla di continuo, e che esistono idee più elevate e profonde di bene e male, di morale e immorale. Chi alle cose non chiede molto di più se non di conoscerle, raggiunge facilmente la tranquillità d’animo e sbaglierà (o, come dice il mondo, peccherà) tutt’al più per ignoranza, ma difficilmente per avidità. Egli non vorrà più condannare ed estirpare i desideri, ma la sua unica meta, quella che lo domina completamente: conoscere in ogni tempo nel miglior modo possibile, lo renderà freddo e addolcirà quanto c’è di selvaggio nella sua costituzione. Inoltre si sarà liberato da una quantità di idee tormentose, e non proverà più nulla alle parole: pene infernali, peccaminosità, incapacità di fare il bene, nelle quali riconoscerà solo le ombre evanescenti di errate concezioni del mondo e della vita.” 80. II vecchio e la morte. - A parte ciò che la religione esige, ci si può ben chiedere: perché per un uomo invecchiato, che si sente venir meno le forze, dovrebbe esser più lodevole attendere di esaurirsi e dissolversi lentamente anziché por fine, in piena consapevolezza, a questo processo? In questo caso il suicidio è un atto perfettamente ovvio e naturale, che dovrebbe suscitare il dovuto rispetto, in quanto vittoria della ragione: e lo ha anche suscitato, nei tempi in cui i capi della filosofia greca e i più ardenti patrioti romani solevano morire suicidi. Il desiderio invece di prolungare giorno per giorno la propria esistenza, consultando angosciosamente i medici e conducendo una vita penosissima, l’ansia di giungere, senza forza, ancor più vicini al termine vero e proprio della vita, è molto meno rispettabile. Di fronte alla sfida del suicidio le religioni offrono una qualità di scappatoie: per questo ottengono il favore di coloro che sono innamorati della vita. 88. Impedire il suicidio. - Esiste un diritto per il quale noi togliamo la vita a un uomo, ma non ne esiste nessuno per il quale gli togliamo la morte: è pura crudeltà. Aurora (1881)2. Pregiudizio dei dotti. - E’ un giusto giudizio dei dotti che gli uomini di tutti i tempi abbiano creduto di sapere che cosa sia bene e male, degno di lode e di biasimo. Ma è un pregiudizio dei dotti che noi adesso lo sappiamo meglio di qualsiasi altro tempo. 3. Tutto ha il suo tempo. - Quando l'uomo conferì un genere a tutte le cose, non credeva di giocare, ma di aver acquisito una profonda conoscenza: assai tardi e forse ancora adesso non ha del tutto riconosciuto l'enorme entità di questo errore. - Allo stesso modo l'uomo ha conferito a tutto ciò che esiste una relazione con la morale e ha posto sulle spalle del mondo un significato etico. Questo un giorno avrà altrettanto valore, e non di più, di quanto oggi ce l'abbia la credenza nel genere maschile o femminile del sole. 9. Concetto dell'eticità dei costumi. - In rapporto al modo di vivere dell'umanità per interi millenni, noi uomini d'oggi viviamo in un'epoca assai immorale: la potenza dei costumi si è sorprendentemente indebolita e il senso dell'eticità si è così affinato ed elevato così in alto, che può ben esser definito come volatilizzato. Perciò per noi, per i nati troppo tardi, le idee fondamentali sulla genesi della morale divengono qualcosa di difficile; anche quando le abbiamo trovate, ci rimangono attaccate alla lingua e non vogliono uscir fuori: perché suonano così grossolane! O perché sembrano diffamare l'eticità! Così, per esempio, pure il principio fondamentale: eticità non è nient'altro (e quindi niente più!), che obbedienza ai costumi, di qualunque tipo possano essere; i costumi però sono il modo tradizionale di agire e di valutare. In cose ove non comanda alcuna tradizione, non v'è alcuna eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccola diviene la sfera dell'eticità. L'uomo libero è privo di etica, perché in tutto vuol dipendere da sé e non da una tradizione: in tutti gli stati primordiali dell'umanità il significato di «cattivo» corrisponde a quello di «individuale», «libero», «arbitrario», «insolito», «imprevisto», «incalcolabile». Sempre si misura secondo il criterio di tali stati: se viene compiuta un'azione, non perché è stata comandata dalla tradizione, ma per altri motivi (ad esempio per utilità individuale), anzi perfino per quegli stessi motivi che una volta fondarono tale tradizione, allora viene definita come immorale e come tale è avvertita perfino dal suo autore: infatti essa non è stata compiuta per obbedienza alla tradizione. Che cos'è la tradizione? Un'autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda. - E in cosa si distingue questo sentimento di fronte alla tradizione, dal sentimento della paura in generale? Esso è la paura di un intelletto superiore che comanda, di una potenza incomprensibile e indeterminata, di qualcosa di più che personale, - v'è superstizione in questa paura... Ovunque ci sia una comunità e quindi un'eticità del costume, domina anche il pensiero che il castigo per la offesa al costume ricada soprattutto sulla comunità: quel castigo sovrannaturale, la cui manifestazione e i cui limiti sono così difficili da comprendere e vengono sondati con tanta superstiziosa angoscia. La comunità può obbligare il singolo a reintegrare a favore del singolo o della comunità il danno Più immediato conseguente alla sua azione; essa può prendersi anche una specie di vendetta sul singolo, per il fatto che a causa sua, come presunta conseguenza della sua azione, nubi e temporali dell'ira divina si sono addensati sulla comunità, - tuttavia essa sentirà la colpa del singolo soprattutto come propria colpa e ne porterà il castigo come il proprio castigo -: «i costumi sono divenuti più fiacchi» - così si lamenta l'anima di ciascuno - «se tali azioni sono possibili». 10. Movimento contrario tra senso dell'eticità e senso della causalità. - Nella misura in cui aumenta il senso della causalità, diminuisce l'estensione del regno dell'eticità: ogni volta infatti che si sono compresi gli effetti necessari e che si è saputo pensarli separati da ogni caso, da ogni occasionale seguito (post hoc), si è distrutta una miriade di causalità fantastiche, cui sino allora si era pensato come a fondamenti di costumi - il mondo reale è molto più piccolo di quello fantastico - e ogni volta sono scomparsi dal mondo un po' di angoscioso timore e di costrizione ed anche un po' di rispetto per l'autorità del costume; ci ha rimesso l'eticità nel suo insieme. Chi invece la vuole aumentare, deve saper impedire che i risultati divengano controllabili. 24. La dimostrazione di un precetto. - In generale la bontà o meno di un precetto, per esempio quello di cuocere il pane, è dimostrato dal fatto che si verifica o non si verifica il risultato in esso promesso, ammesso che si ottemperi con precisione a tale precetto. Diversamente stanno le cose con i precetti morali: qui infatti proprio i risultati non si possono calcolare, o sono indeterminati e da interpretare. Questi precetti poggiano su ipotesi del minimo valore scientifico, la cui dimostrazione e confutazione a partire dai risultati è in fondo egualmente impossibile: - ma una volta, nella originaria rozzezza di ogni scienza e nelle esigue pretese che si avevano per considerare dimostrata una cosa, una volta, la bontà o meno di un precetto del costume veniva stabilita allo stesso modo in cui oggi si stabilisce quella di ogni altro precetto: rimandando al risultato. 33. L'uomo in balia dell'eticità del costume disprezza in primo luogo le cause, in secondo le conseguenze, in terzo la realtà, e intesse tutti i suoi sentimenti più alti (di venerazione, di sublimità, d'orgoglio, di gratitudine, d'amore) in un mondo immaginario: il cosiddetto mondo superiore. E ancora adesso noi vediamo le conseguenze di ciò: dove il sentimento di un uomo si eleva, è in qualche modo in gioco quel mondo immaginario. E’ triste: ma talvolta per l'uomo di scienza tutti i sentimenti superiori debbono esser sospetti, tanto sono amalgamati con la follia e il non senso. Non che essi lo debbano essere in sé o per sempre: ma certamente, di tutte le progressive purificazioni che stanno dinanzi all'umanità, quella dei sentimenti più elevati sarà una delle più graduali. 35. Sentimenti e loro derivazione da giudizi. - «Confida nel tuo sentimento!» - Ma i sentimenti non sono niente di ultimo, di originario, dietro ai sentimenti stanno giudizi e valutazioni, che sono stati da noi ereditati nella forma di sentimenti (inclinazioni, avversioni). L'ispirazione che deriva dal sentimento, è il nipote di un giudizio - e spesso di un falso giudizio! - e in ogni caso non del proprio! Confidare nel proprio sentimento - ciò significa più obbedire al proprio nonno e alla propria nonna e ai loro progenitori, che agli dèi che sono in noi: la nostra ragione e la nostra esperienza. 50. La fede nell'ebbrezza. - Gli uomini dagli attimi sublimi e estatici, per i quali è abituale, per amor del contrasto e a causa del dissipante logoramento della loro energia nervosa, sentirsi miseri e sconsolati, considerano quegli attimi come il proprio autentico sé, il senso di miseria e di sconsolatezza come l'effetto del «fuori-di-sé»; e perciò pensano al loro ambiente, al loro tempo, al mondo intero con sentimenti avidi di vendetta. L'ebbrezza è da loro considerata come la vera vita, come il vero e proprio io: in tutti gli altri essi vedono gli avversari e gli ostacolatori dell'ebbrezza, sia questa di natura spirituale, etica, religiosa o artistica. A questi invasati ubriaconi l'umanità deve molte delle sue disgrazie: essi sono infatti gli instancabili seminatori della malapianta della scontentezza di sé e del prossimo, del disprezzo del proprio tempo e del mondo e specialmente della stanchezza del mondo. Forse un intero inferno di malfattori non potrebbe avere, fin nella più lontana delle distanze, questo oppressivo, sinistro effetto postumo, che guasta la terra e l'aria, come quella piccola nobile comunità di indomabili, di fantasticoni, di semifolli, di geni che non sono capaci di dominarsi e trovano ogni possibile godimento in se stessi soltanto se si perdono del tutto: mentre il malfattore, invece, assai spesso dà ancora prova di un eccellente autocontrollo, di abnegazione e di saggezza e mantiene deste queste qualità in coloro che lo temono. A causa sua il cielo sopra la vita diviene forse pericoloso e cupo, ma l'aria rimane vigorosa e severa. -Inoltre quegli invasati cercano con tutta la loro forza di piantare nella vita quella fede nell'ebbrezza, come fosse la fede nella vita stessa: una fede spaventosa! Come i selvaggi adesso vengono velocemente corrotti dall'«acqua di fuoco» e si rovinano, così l'umanità in tutto e per tutto è stata corrotta lentamente e a fondo dalle acquaviti spirituali di sentimenti inebrianti e da coloro che ne mantengono viva la brama: forse anch'essa andrà in rovina per questo. 556. Le buone quattro virtù. - Onesti verso noi stessi e verso ciò che di solito ci è amico; valorosi contro il nemico; generosi verso il vinto; cortesi - sempre: così ci vogliono le quattro virtù cardinali. La gaia scienza (1882)6. Saggezza del mondo Non rimanere in piano! Non salire troppo in alto! Il mondo è più bello se visto da mezza altezza. >43. Incoraggiamento Il tuo animo tende alla gloria? Allora rispetta questo insegnamento: rinunzia subito, liberamente, all'onore! 13. Sulla dottrina della sensazione di potenza. Facendo agli altri del bene o del male, si esercita semplicemente il nostro potere su di loro; non si vuole nient'altro! Facendo del male a coloro ai quali vogliamo far sentire per primi il nostro potere, perché a tal fine il dolore è un mezzo assai più sensibile che il piacere: il dolore si interroga sempre sulla sua causa, mentre il piacere è incline a rimanere in se stesso e a non guardare all'indietro. Facendo del bene e volendo bene a coloro che in qualche modo dipendono già da noi (cioè sono già inclini a vedere in noi la loro causa), noi vogliamo accrescere il loro potere ― perché così accresciamo il nostro, oppure vogliamo mostrare loro il vantaggio insito nell'essere in nostro potere: così saranno più contenti della loro condizione e ostili ai nemici del nostro potere, per cui anche pronti a combatterli. Che il fare del bene o del male comporti per noi dei sacrifici, non modifica il valore ultimo delle nostre azioni: persino se mettiamo in gioco la nostra vita, come il martire per la sua chiesa, è un sacrificio offerto alla nostra brama di potere o al fine di conservare la nostra sensazione di potenza. Chi sente di «essere in possesso della verità» a quanti altri possedimenti rinunzierà pur di salvare questa sensazione! Quante mai cose non getterà a mare per mantenersi «a galla» ― cioè sopra gli altri, che mancano della «verità»! Certamente la situazione in cui noi facciamo del male è raramente così gradevole, così puramente gradevole come quella in cui facciamo del bene ― è un segno che manchiamo ancora di potenza, oppure tradisce il fastidio per questa mancanza, comporta nuovi pericoli e insicurezze per il nostro presente patrimonio di potenza e annuvola il nostro orizzonte con la prospettiva di vendetta, scherno, punizione, fallimento. Soltanto gli uomini più eccitabili e più bramosi di potenza possono trovare più gradevole imporre su colui che ricalcitra il sigillo di tale potenza; coloro cioè per i quali la vista di coloro che sono già sottomessi (perché tali sono i destinatari della benevolenza) è gravosa e noiosa. Dipende da come si è soliti condire la propria vita; è una questione di gusto, se si preferisce che il proprio potere cresca lentamente o all'improvviso, in modo sicuro oppure pericoloso e temerario ― a seconda del proprio temperamento, si cercano spezie dell'uno o dell'altro genere. Un bottino leggero è ripugnante per le nature superbe, esse avvertono un certo benessere soltanto alla vista di uomini indomiti che avrebbero potuto trasformarsi in un nemico, e lo stesso alla vista di ogni possedimento difficilmente accessibile; contro i sofferenti sono spesso duri, perché non sono degni dei loro sforzi e del loro orgoglio, ― ma ancora più compiacenti si mostrano verso i loro pari, con cui sarebbe altrettanto onorevole ingaggiare una lotta, se solo se ne presentasse l'occasione. La sensazione di benessere suscitata da questa prospettiva nei membri delle caste cavalleresche li ha portati a usarsi reciprocamente una cortesia davvero ricercata. La compassione è il sentimento più gradevole in coloro che sono poco orgogliosi e non hanno la prospettiva di grandi conquiste: per loro un bottino leggero ― e tale è ogni sofferente ― è un qualcosa di affascinante. La compassione è famosa per essere la virtù delle donne di piacere. 26. Che cosa significa vivere? Vivere ― significa: scrollarsi continuamente di dosso qualcosa che vuole morire; vivere ― significa: essere crudeli e inesorabili contro tutto ciò che invecchia, in noi e non solo in noi. Vivere ― significa anche: essere spietati contro moribondi, miseri e vecchi? Essere assassini? Eppure il vecchio Mosè aveva detto: «Non uccidere!». 289. A bordo! Se si pensa al modo in cui su ogni singolo agisce una giustificazione filosofica complessiva del suo modo di vivere e di pensare - quasi un sole che scalda, benedice, feconda, risplende soltanto per lui, - rendendolo indipendente da lodi e biasimo, autosufficiente, ricco, pronto a donare felicità e benevolenza, trasformando incessantemente il male in bene, portando a fioritura e maturazione tutte le sue forze e impedendo che allignino la piccola e grande malerba dell'afflizione e del tedio, allora si esclama, in preda al desiderio: che possano essere creati molti altri di questi soli! Anche il malvagio, anche l'infelice, anche l'uomo dell'eccezione deve avere la sua filosofia, il suo buon diritto, il suo sole! Non di compassione c'è bisogno, nei loro confronti! - Questo atteggiamento altezzoso va disimparato, per quanto l'umanità l'abbia imparato e vi si eserciti da tempi immemorabili - per costoro non dobbiamo escogitare confessori, esorcisti e rimettitori di peccati! di una nuova giustizia che c'è bisogno! E di una nuova formula! E di nuovi filosofi! Anche la terra morale è tonda! Anche la terra morale ha i suoi antipodi! Anche gli antipodi hanno diritto di esistere! C'è un altro mondo da scoprire, e più di uno! A bordo, voi filosofi! Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)198. Tutte queste morali che si rivolgono alla persona singola, come si usa dire, per la sua «felicità», - cosa sono d'altro se non proposte sulla condotta da tenere in rapporto al grado del pericolo nel quale la singola persona vive con se stessa; ricette contro le sue passioni, le sue buone e cattive tendenze, in quanto esse hanno la volontà di potenza e vorrebbero avere il ruolo del dominatore; piccole e grandi astuzie e artifici saturi dell'odore muffoso di vecchi rimedi casalinghi e di una saggezza da vecchie donnette; tutte quante barocche e irrazionali nella forma - poiché esse si rivolgono a tutti, poiché esse generalizzano dove non è ammesso generalizzare - parlando tutte in termini di assoluto, avendo atteggiamenti assoluti, tutte quante condite non solo con un unico grano di sale, ma piuttosto appena sopportabili e a volte perfino seducenti quando imparano ad emanare un profumo troppo carico e pericoloso, soprattutto quello dell'«al di là»: tutto ciò, misurato con l'intelletto, è di poco valore e bel lontano dall'essere «Scienza» e tantomeno «saggezza», ma, detto ancora una seconda volta e una terza, solo sagacia, sagacia, sagacia, commista a stupidità, stupidità, stupidità 202. La morale è oggi in Europa una morale di gregge: - dunque, secondo il nostro modo di intendere le cose, solo una specie di morale umana, accanto alla quale, davanti alla quale, dopo la quale sono o dovrebbero essere possibili molte altre e soprattutto più elevate morali. Contro una tale «possibilità», contro un tale «dovrebbe» questa morale si difende però con tutte le sue forze: essa afferma, ostinata e implacabile «io sono la morale stessa, e nulla oltre a me è morale!» 215. Come nel regno delle stelle due soli determinano talvolta l'orbita di un pianeta, come in certi casi soli di diverso colore illuminano un unico pianeta, ora di luce rossa ora di luce verde, colpendolo e inondandolo poi di nuovo simultaneamente di luce variopinta: così noi uomini moderni, grazie alla complicata meccanica del nostro «firmamento» - siamo determinati da morali diverse; le nostre azioni s'illuminano alternativamente con diversi colori, esse sono raramente univoche - e non mancano i casi nei quali compiamo azioni variopinte. 225. La disciplina del dolore, del grande dolore - non sapete voi che solo questa disciplina ha portato finora ad ogni elevatezza dell'uomo? Quella tensione dell'anima nell'infelicità che educa la sua forza, il suo orrore dello spettacolo della grande rovina, il suo ingegno e il suo valore nel sopportare, nel perseverare, nell'interpretare e usare l'infelicità e tutto ciò che essa ebbe in dono di profondità, segreto, maschera, prontezza, astuzia, grandezza: non lo ebbe forse in dono tra le sofferenze e la disciplina di un grande dolore? 286. In ogni «scienza della morale» finora esistita è mancato per quanto strano possa suonare anche il problema stesso della morale. E’ mancato il sospetto che si celasse qui qualcosa di problematico. Ciò che i filosofi chiamavano «fondamento della morale» e che pretendevano da se stessi, era, visto nella sua giusta luce, solo una forma dotta della buonafede nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua espressione, dunque uno stato di fatto all'interno di una determinata moralità, addirittura, in definitiva, una sorta di negazione che questa morale potesse essere considerata come problema: - e in ogni caso il contrario di una verifica, di una dissezione, di una messa in dubbio, di una vivisezione, appunto, di questa fede. |