estetica


Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

146.

Il senso di verità dell’artista. - In rapporto alla conoscenza della verità, l’artista ha una moralità più debole del pensatore; non vuole assolutamente che lo si privi delle profonde e brillanti interpretazioni della vita, e si ribella ai metodi e al risultati semplici e freddi. Apparentemente egli lotta per una maggiore dignità e un più alto significato dell’uomo; in effetti, non vuol rinunciare ai presupposti più efficaci della sua arte, ossia al mitico, al fantastico, all’incerto, all’estremo, al senso del simbolico, alla sopravvalutazione della persona, alla credenza nella miracolosità del genio: ritiene dunque il permanere del suo modo di creare più importante della dedizione scientifica al vero in ogni forma, per quanto semplice questa possa apparire.

148.

I poeti come alleviatori della vita. - I poeti, in quanto anch’essi vogliono alleviare la vita degli uomini, o distolgono lo sguardo dal tormentato presente oppure, con una luce che fanno promanare dal passato, danno a questo nuovi colori. Per poter far ciò, debbono essi stessi essere, per qualche verso, rivolti all’indietro: sicché li si può utilizzare come ponti gettati verso epoche e idee lontanissime, verso religioni o culture estinte o in via di estinzione. Essi sono, propriamente, sempre e necessariamente epigoni. In verità, sui loro sistemi per alleviare la vita c’è da dire qualcosa di sfavorevole: acquietano e sanano solo temporaneamente, solo per il momento, e addirittura trattengono gli uomini dal lavorare a un reale miglioramento delle loro condizioni, eliminando e scaricando con palliativi proprio la passione degli insoddisfatti, i quali sollecitano all’azione.

152.

Arte dell’anima brutta. - Si pongono all’arte barriere troppo anguste, se si pretende che in essa possa esprimersi solo l’anima ordinata, che si muove nell’equilibrio morale. Come nelle arti figurative, così anche nella musica e nella poesia esiste, accanto all’arte dell’anima bella, anche un’arte dell’anima brutta; e forse proprio ad essa sono meglio riusciti i più potenti effetti dell’arte: spezzare le anime, muovere le pietre e rendere umani gli animali.

153.

L’arte rende pesante il cuore del pensatore. - Quanto forte sia il bisogno metafisico, e quanto alla fine anche per la natura si renda difficile separarsi da esso, lo si può rilevare dal fatto che anche nello spirito libero, che si sia sbarazzato di ogni metafisica, i più alti effetti dell’arte producono facilmente una risonanza della corda metafisica, da gran tempo ammutolita e anzi spezzata, come ad esempio quando, a un determinato passaggio della nona sinfonia di Beethoven, egli si sente sospeso sopra la terra, in una cattedrale di stelle, con in cuore il sogno dell’immortalità: sembra che intorno gli brillino tutti gli astri, e che la terra sprofondi sempre più in basso. - Se diviene cosciente di questo stato, egli prova una profonda fitta al cuore, e sospira l’uomo che gli riponi l’amata perduta, si chiami essa religione o metafisica. In tali istanti vien messo alla prova il suo carattere intellettuale.

Volume II

99.

Il poeta come battistrada del futuro. - Tutta l'eccedente forza poetica che ancora esiste tra gli uomini d'oggi e non viene consumata per plasmare la vita dovrebbe, senza che nulla ne venga distolto, consacrarsi a un solo scopo, non quindi a ritrarre il presente e non a far rivivere e mettere in versi il passato, bensì ad indicare la strada del futuro: - e questo non nel senso che il poeta, simile a un fantastico economista nazionale, dovrebbe anticipare l'immagine di migliori condizioni popolari e sociali e le loro possibilità di realizzazione. Piuttosto, come in antico gli artisti sviluppavano poeticamente le immagini degli dèi, egli dovrebbe sviluppare poeticamente la bella immagine dell'uomo e intuire i casi in cui, in mezzo al nostro mondo e alla nostra realtà moderna, senza artificiosamente rifiutarli e fuggirli, sia ancora possibile l'anima grande e bella, là dove essa può ancora incarnarsi in situazioni di proporzionata armonia e da queste riceve visibilità, durata ed esemplarità e dove dunque, stimolando emulazione e invidia, essa aiuta a creare l'avvenire.

111.

Ai poeti delle grandi città. - Nei giardini della poesia d'oggi si nota che le cloache della grande città son troppo vicine: al profumo dei fiori si mescola qualcosa che tradisce nausea e putrefazione. - Con dolore io chiedo: avete tanto bisogno, voi poeti, di invitar sempre come padrini lo scherzo e la sporcizia, se dovete tenere a battesimo qualche sentimento bello e innocente? Dovete proprio imporre alla vostra nobile dea un berretto da pagliaccio e da diavolo: Ma da dove viene questa necessità, questo dovere: - Appunto dal fatto che abitate troppo vicini alla cloaca.

132.

Ai grandi dell'arte. - Quell'entusiasmo per una causa che tu, grande, porti nel mondo, rende storpio l'intelletto di molti. Sapere ciò umilia. Ma l'entusiasta porta la sua gobba con piacere e orgoglio: in tal senso hai la consolazione di aver fatto aumentare la felicità nel mondo.

142.

Libri freddi. - Il buon pensatore conta su lettori capaci di sentire anch'essi la felicità insita nel pensar bene: sicché un libro che sembra freddo e sobrio, agli occhi giusti può apparire circonfuso dal sole della serenità spirituale e come una vera consolazione dell'anima.

148.

Come un'epoca viene adescata all'arte. - Si insegni agli uomini, avvalendosi di tutte le malie degli artisti e dei pensatori, a sentir venerazione per i loro difetti, per la loro povertà spirituale, per i loro insensati accecamenti e passioni - e ciò è possibile -; del delitto e della follia si mostri solo il lato sublime, e della debolezza degli abulici e dei ciecamente devoti solo ciò che in tale stato commuove e parla al cuore - e anche questo è accaduto abbastanza spesso -: si è così usato il mezzo di ispirare anche a un'epoca affatto aliena da arte e filosofia un amore entusiastico per filosofia e arte (soprattutto per gli artisti e i pensatori come persone) e, in cattive circostanze, forse l'unico mezzo per preservare l'esistenza di prodotti così delicati e minacciati.

169.

Bisogno artistico di second'ordine. - Il popolo possiede sì qualcosa di ciò che possiamo chiamare bisogno artistico, ma esso è scarso e facile da soddisfare. In fondo per questo bastano i rifiuti dell'arte: bisogna ammetterlo sinceramente. Si pensi, per esempio, quali melodie e canzoni procurino oggi vera gioia agli strati più robusti, incorrotti e genuini della nostra popolazione, si viva tra pastori, montanari, contadini, cacciatori, soldati, marinai e si dia una risposta. E nella piccola città, proprio nelle case che sono la sede dell'antica virtù borghese, non viene forse amata, anzi vezzeggiata, la musica peggiore che oggi si produca?

Chi, riferendosi al popolo, come esso è, parla di bisogni profondi, di insoddisfatto desiderio d'arte, o vaneggia o mente. Siate sinceri! - Solo in uomini d'eccezione esiste oggi un bisogno artistico in grande stile - poiché in generale l'arte è in una nuova fase di regresso, e le forze e le speranze umane si sono temporaneamente rivolte ad altre cose. - Inoltre, al di fuori del popolo, esiste ancora un bisogno artistico più vasto ed esteso, ma di second'ordine, negli strati superiori e più elevati della società: qui è possibile qualcosa come una comunità artistica, di intenti sinceri. Ma consideriamone gli elementi! Sono in genere gli insoddisfatti un po' raffinati, che di per sé non giungono a una vera gioia: l'uomo colto che non è diventato tanto libero da fare a meno dei conforti religiosi e tuttavia trova che i loro oli non profumano abbastanza; il nobile a metà, troppo debole per infrangere con un'eroica conversione o una rinuncia l'errore fondamentale della sua vita o la perniciosa tendenza del suo carattere; l'uomo ricco di doti, che pensa troppo bene di sé per rendersi utile con una modesta attività ed è troppo pigro per un lavoro grande e pieno di sacrificio; la ragazza che non sa crearsi una sufficiente cerchia di doveri; la donna che si è legata con una matrimonio leggero o sacrilego e si sa non abbastanza legata; il dotto, il medico, il commerciante, il funzionario che si sono ritirati troppo presto nel particolare e non hanno mai concesso libero sfogo alla loro natura, ma che in compenso svolgono il loro sia pur diligente lavoro con un tarlo nel cuore; e poi tutti gli artisti non del tutto compiuti - sono essi, oggi, quelli che hanno ancora veramente bisogno dell'arte!

E che cosa propriamente desiderano dall'arte? Essa deve allontanare da loro, per qualche ora o qualche istante, il disagio, la noia, la coscienza mediocre e, possibilmente, dare al difetto della loro vita e del loro carattere il significato più alto di difetto del destino universale ben diversamente dai greci, che nella loro arte sentivano il traboccare e lo straripare del loro benessere e della loro salute e amavano vedere ancora una volta fuori di sé la loro perfezione: - li portava all'arte il godimento di sé, mentre questi nostri contemporanei vi sono portati - dal fastidio di sé.

La gaia scienza (1882)

299. Che cosa si deve imparare dagli artisti.

Quali mezzi abbiamo per renderci le cose belle, attraenti, degne di essere desiderate, qualora non lo siano? - e a mio parere non lo sono mai! Qui abbiamo qualcosa da imparare dai medici, quando ad esempio diluiscono l'amaro oppure mescolano assieme vino e zucchero: ma ancora di più dagli artisti, che a dire il vero si occupano continuamente di tali invenzioni e artifici. Allontanarsi dalle cose finché di esse non si vede più tanto e, per poterle vedere, si deve immaginare molto - oppure vedere le cose dietro l'angolo, o un particolare soltanto - oppure disporle in modo tale che parzialmente si deformino e permettano soltanto vedute prospettiche - oppure osservarle attraverso un vetro colorato o nella luce dell'aurora - oppure dare loro una superficie e una pelle che non siano completamente trasparenti: tutto questo dobbiamo impararlo dagli artisti e, per il resto, essere più saggi di loro. Perché in loro questa raffinata capacità cessa, solitamente, dove cessa l'arte e inizia la vita; noi invece vogliamo essere i poeti della nostra vita, a cominciare dalle cose più piccole e quotidiane.

339. Vita femina.

Per vedere le ultime bellezze di un lavoro non basta tutto il sapere e tutta la buona volontà: occorrono rarissimi casi fortunati perché il velo di nubi che oscura queste vette possa dissiparsi e su di esse risplenda il sole. Per vederle, non solo dobbiamo trovarci nel posto giusto al momento giusto; occorre che sia stata la nostra anima a squarciare il velo su quelle vette, perché per trovare un sostegno e rimanere padrona di se stessa aveva bisogno di un'espressione e di un simbolo esteriore. E però così raro che tutto questo si verifichi simultaneamente, che potrei credere che le più alte vette di ogni bene, sia esso opera, azione, uomo, natura, siano finora rimaste occultate e velate anche per i più: quello che ci si disvela, però, ci si disvela una volta sola! I Greci potevano anche pregare: «Che il bello sia anche una seconda e una terza volta!». Ah, essi avevano un buon motivo per invocare gli dèi, perché la non divina realtà non ce lo concede neppure una volta, il bello!

Io voglio dire che il mondo è sovraccarico di cose belle ma, nonostante ciò, è povero, poverissimo di momenti belli e di disvelamenti di queste cose. Eppure è forse proprio questo il più grande fascino della vita: su di lei aleggia un velo trapunto d'oro di belle possibilità, promettente, ritroso, pudico, beffardo, compassionevole, seducente. Sì, la vita è una donna!

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

183.

Il bello, come lo concepisce Baudelaire (anche Richard Wagner). Qualcosa di ardente e triste, un po' incerto, che offre spazio alle supposizioni.

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Scorribande di un inattuale

10.

Che cosa significano i concetti antitetici, da me introdotti nell'estetica, di apollineo e dionisiaco, ambedue intesi come specie dell'ebbrezza? L'ebbrezza apollinea tiene soprattutto eccitato l'occhio, sicché esso riceve la forza della visione. Il pittore, lo scultore, l'epico sono visionari par excellence. Nello stato dionisiaco viene invece eccitato e potenziato l'intero sistema degli affetti: sicché questo scarica in una volta tutti i suoi mezzi espressivi e allo stesso tempo fa venir fuori la forza del rappresentare, del riprodurre, del trasfigurare, del trasformare, ogni specie di mimica e di teatralità. L'essenziale rimane la facilità della metamorfosi, l'incapacità di non reagire ( come avviene per certi isterici, i quali a un cenno qualunque entrano in qualunque ruolo).

Per l'uomo dionisiaco è impossibile non capire una qualsiasi suggestione, egli non si lascia sfuggire alcun segno dell'affetto, possiede nel grado più alto l'istinto di comprendere e indovinare, così come possiede, nel grado più alto, l'arte di comunicare. Egli entra in ogni pelle, in ogni affetto: si trasforma continuamente.

La musica, così come l'intendiamo noi oggi, è ugualmente un'eccitazione e una scarica totale degli affetti, tuttavia è solo il residuo di una sfera espressiva dell'affetto molto più piena, un semplice residuum dell'istrionismo dionisiaco. Per rendere possibile la musica come arte particolare, si sono messi a tacere una quantità di sensi, soprattutto il senso muscolare (almeno relativamente: poiché in un certo grado ogni ritmo parla ancora ai nostri muscoli): sicché l'uomo non imita e non rappresenta più, subito con il proprio corpo, tutto ciò che sente. Tuttavia è questo il normale stato veramente dionisiaco, O comunque lo stato originario; la musica è la sua specificazione, lentamente raggiunta a spese delle facoltà più affini.

19.

Bello e brutto. Nulla è più condizionato, diciamo anche più limitato, del nostro senso del bello. Chi volesse pensarlo scevro del piacere che l'uomo prova per l'uomo, perderebbe subito il terreno sotto i piedi. Il «bello in sé» è soltanto una parola, non è neppure un concetto. Nel bello l'uomo si pone come misura di perfezione: in determinati casi egli vi adora se stesso. Una specie non può far altro che consentire in tal guisa soltanto a se stessa. Il suo istinto più basso, quello della conservazione e dell'accrescimento di sé, si irradia anche in queste sublimità. L'uomo crede il mondo stesso sovraccarico di bellezza, egli dimentica di esserne la causa. Lui soltanto gli ha fatto dono della bellezza, ah!, solo di una bellezza umana, troppo umana...

In fondo l'uomo si specchia nelle cose, considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine: il giudizio di «bello» è la vanità della sua specie... Un piccolo sospetto potrebbe infatti sussurrare all'orecchio dello scettico la domanda: il mondo è realmente abbellito dal fatto che l'uomo lo ritiene bello? Egli lo ha umanizzato: questo è tutto. Ma nulla, nulla affatto ci garantisce che proprio l'uomo rappresenti il modello della bellezza. Chissà che aspetto egli avrebbe agli occhi di un superiore giudice del gusto? forse temerario? forse persino divertente? forse un po' arbitrario?... «Dioniso, divino, perché mi tiri le orecchie?», chiese una volta Arianna al suo filosofico amante durante uno di quei famosi dialoghi a Nasso. «Trovo nelle tue orecchie qualcosa di spiritoso, Arianna: perché non sono ancora più lunghe?»

20.

Nulla è bello, soltanto l'uomo è bello: su questa ingenuità si basa ogni estetica, essa è la sua prima verità. Aggiungiamoci subito anche la sua seconda: nulla è brutto, tranne l'uomo che degenera, così viene circoscritto l'ambito del giudizio estetico. A una verifica fisiologica, ogni bruttezza indebolisce e affligge l'uomo. Essa gli ricorda la decadenza, il pericolo, l'impotenza; l'uomo ci perde realmente in forza. Si può misurare l'effetto del brutto con il dinamometro. Quando l'uomo in genere viene avvilito, allora fiuta la vicinanza di qualcosa di «brutto». Il suo senso di potenza, la sua volontà di potenza, il suo coraggio, il suo orgoglio questo con il brutto cade, con il bello si potenzia...

Nell'uno come nell'altro caso traiamo una conclusione: le sue premesse sono accumulate in enorme quantità nell'istinto. Il brutto viene inteso come segno e sintomo di degenerazione: quel che sia pure alla lontana ricorda la degenerazione, provoca in noi il giudizio di «brutto». Ogni segno di esaurimento, di pesantezza, di vecchiaia, di stanchezza, ogni specie di non libertà, come il crampo, la paralisi, soprattutto l'odore, il colore, la forma del disfacimento, della putrefazione, sia pure nella loro estrema rarefazione in simbolo tutto ciò provoca un'identica reazione, il giudizio di valore «brutto».

Un odio qui insorge: che cosa odia allora l'uomo? Ma non esiste dubbio: il tramonto del suo tipo. Egli qui odia dal più profondo istinto della specie; in questo odio c'è brivido, preveggenza, profondità, lungimiranza, è l'odio più profondo che esista. E a causa sua l'arte è profonda...