Coscienza e Inconscio


La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869)

1864

La volontà libera è anch'essa un'astrazione e significa la capacità di agire coscientemente, mentre con fato noi intendiamo il principio che ci guida nell'agire inconscio. L'agire in sé e per sé esprime sempre al tempo stesso un'attività dell'anima, una direzione della volontà, che noi stessi non abbiamo ancora bisogno di prendere di mira come oggetto. Nell'agire cosciente, esattamente come in quello inconscio, possiamo farci guidare, ma anche non guidare, da determinate impressioni. Di un'azione riuscita si dice spesso: per caso ho colto nel segno. Non importa affatto che ciò corrisponda sempre a verità. L'attività psichica continua con la stessa intensità, anche quando non la consideriamo con l'occhio intellettuale…

Se dunque non prendiamo il concetto dell'agire inconscio semplicemente come un lasciarsi guidare da impressioni anteriori, scompare per noi la rigorosa differenza tra fato e volontà libera e i due concetti si confondono nell'idea dell'individualità.

Quanto più le cose si allontanano dalla sfera dell'inorganico e quanto più si amplia la formazione intellettuale, tanto più acquisterà rilievo l'individualità e le sue qualità risulteranno tanto più molteplici. Una forza interna autonoma e le impressioni esterne, le leve del suo sviluppo, che cosa sono queste se non la libertà della volontà e il fato?

Nella libertà della volontà si trova per l'individuo il principio della separazione, del distacco dalla totalità, della assoluta illimitatezza; ma il fato rimette l'uomo in collegamento organico con lo sviluppo complessivo, e lo costringe, in quanto cerca di dominarlo, ad un libero sviluppo di energia che si oppone al fato; la libertà assoluta della volontà senza il fato farebbe dell'uomo Dio, il principio fatalistico lo ridurrebbe a un automa.

27 marzo 1864

- Tutto ciò che l'anima non può riflettere, non la tocca; ma poiché la volontà fa o non fa riflettere l'anima a suo talento, essa viene toccata soltanto da ciò che vuole. E ciò a molti appare contraddittorio; giacché ricordano quale resistenza oppongono a certe sensazioni.

Ma che cos'è che in ultima analisi determina la volontà? E quante volte la volontà dorme e vegliano soltanto gli istinti e le inclinazioni? E una delle più forti inclinazioni dell'anima è una certa curiosità, una predilezione per l'inconsueto, e ciò spiega perché sovente ci lasciamo indurre in stati d'animo spiacevoli.

Ma l'anima non recepisce soltanto tramite la volontà; essa è fatta della stessa materia degli eventi, o di una materia simile, e da ciò proviene che un evento che non trova una corda affine, grava tuttavia sull'anima col peso dell'umore, e può gradualmente acquistare una tale preponderanza da schiacciare e comprimere il suo restante contenuto.

Gli stati d'animo derivano dunque dai conflitti interni ovvero da una pressione esterna sul mondo interiore. Qui una guerra civile di due campi opposti, là l'oppressione del popolo da parte di un ceto, di un'esigua minoranza.

Quante volte, quando tendo l'orecchio ai miei pensieri e sentimenti e tacitamente mi sorveglio, mi è sembrato di udire il ronzio e lo strepito delle turbolente fazioni, come se qualcosa stormisse per l'aria, come quando un’aquila o un pensiero si levano incontro al sole.

La guerra è l'alimento costante dell'anima, che da essa sa trascegliere per sé quanto le basta di dolcezza e di bellezza. Ciò facendo distrugge e procrea il nuovo, lotta accanitamente, ma attrae soavemente il nemico dalla sua parte per un'intima unione. E ciò che più stupisce è che non bada mai all'esteriorità: nomi, personaggi, luoghi, belle parole, tratti di penna, tutto è per lei di valore subordinato; ed essa pregia invece ciò che è nascosto nella scorza.

Ciò che ora è forse tutta la tua felicità o tutto il tuo cruccio, probabilmente tra breve non sarà che l'involucro di un sentimento ancor più profondo e quindi si perderà in se stesso al sopravvenire di un qualcosa di Superiore. E così i nostri stati d'animo si approfondiscono sempre di più, nessuno assomiglia con precisione a un altro, bensì ciascuno è infinitamente giovane e il Parto dell'Attimo.

Penso ora a tante cose che ho amato; si sono susseguiti i nomi e le persone, e non voglio affermare che davvero le loro nature siano diventate sempre più belle e profonde; però è vero che ciascuno di questi stati d'animo consimili rappresenta per me un progresso, e che è insopportabile per lo spirito ripercorrere le stesse fasi che ha già percorso; esso vuole espandersi sempre più in alto, sempre più in profondo.

Vi saluto, o stati d’animo, mirabili alternanze di un'anima impetuosa, vari come la natura ma di essa più grandi, perché vi superate di continuo, guardate sempre in alto; mentre la pianta profuma oggi come profumava nel giorno della creazione. Io non amo più come amavo qualche settimana fa; in questo momento non sono più dello stesso umore di quando ho incominciato a scrivere.

La nascita della tragedia (1872)

Basilea, fine dell'anno 1871

13.

Una chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene offerta da quel meraviglioso fenomeno che viene designato come «demone di Socrate». In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto vacillava, egli ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina che si faceva udire in tali momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La saggezza istintiva si mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti gli uomini produttivi l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa critico, la coscienza si trasforma in creatrice — una vera mostruosità per defectum.

Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)

I.

Quella tracotanza legata alla conoscenza e alla sensibilità, nebbia accecante che sta davanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in se stessa la valutazione più piena di lusinghe circa la conoscenza. Il suo effetto più generale è l’inganno – ma anche gli effetti più particolari portano con sé qualcosa dello stesso carattere. L’intelletto, come mezzo per la conservazione dell’individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione.

2.

Quella smisurata struttura concettuale appigliandosi alla quale quel miserabile che è l’uomo si salva durante la sua vita, è per l’intelletto liberato nient’altro che un sostegno o un giocattolo per le sue temerarie attività artistiche: e quando esso distrugge queste cose, le scompagina e poi con ironia le rimette insieme, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, allora è chiaro ch'esso non ha più bisogno di quei sotterfugi della miseria e non è più guidato da concetti bensì da intuizioni.

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

1.

Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l'uomo conoscersi? E’ una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli l'uomo può toglierne sette volte settanta e neppure allora potrà dire: «questo ora sei realmente tu, non è più scorza». Inoltre, scavare se stessi in questo modo e sprofondare così per la via più diretta nel pozzo della propria esistenza, è un inizio tormentoso e azzardato. Con che facilità ci si possono produrre così delle ferite che nessun medico può sanare.

5.

Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che le più vaste imprese della nostra vita vengono realizzate solo per sfuggire al nostro vero compito, e che volentieri nasconderemmo da qualche parte la nostra testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse coglierci; che, frettolosamente, doniamo il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla socievolezza o alla scienza soltanto per non possederlo più, e che ci abbandoniamo al pesante lavoro quotidiano con più impeto e sconsideratezza di quanto non sia necessario per vivere: perché ci sembra più necessario non giungere alla riflessione. Generale è la fretta perché ciascuno è in fuga da se stesso, generale è anche il pavido nascondere questa fretta, perché si vorrebbe apparire contenti e ingannare gli osservatori più acuti circa la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole, adornata delle quali la vita dovrebbe ricevere un po' di clamore e solennità. Ognuno di noi conosce quella particolare condizione in cui, improvvisamente, ricordi spiacevoli si affollano e noi ci sforziamo, con gesti e suoni violenti, di scacciarli dalla mente: ma i gesti e i suoni della vita comune lasciano indovinare che noi tutti ci troviamo sempre in una condizione del genere, nel timore del ricordo e dell'interiorizzazione. Ma cos'è che ci aggredisce così spesso, quale zanzara non ci lascia dormire? Intorno a noi c'è un'atmosfera spettrale, ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma noi non vogliamo ascoltare queste voci di fantasmi.

Temiamo, quando siamo soli e in silenzio, che qualcosa ci venga bisbigliato all'orecchio e così odiamo il silenzio e ci stordiamo con la vita in società. Di tanto in tanto, come ho detto, capiamo tutto questo e ci meravigliamo molto di tutta la vertiginosa paura e furia, di tutta la condizione di sogno della nostra vita, che sembra aver orrore del risveglio e che sogna con tanta più vivacità e inquietudine quanto più si avvicina a questo risveglio. Ma allo stesso tempo sentiamo di essere troppo deboli per sopportare a lungo quei momenti del più profondo raccoglimento e di non essere mai quegli uomini, verso cui tutta la natura tende per la sua redenzione; già è molto se, in qualche modo, riusciamo a emergere un po' con la testa e ci accorgiamo in quale corrente siamo profondamente immersi. Ma anche questo non ci riesce con la nostra propria forza questo emergere e svegliarsi per un fugace momento dobbiamo bensì essere sollevati e chi sono coloro che ci sollevano?

Sono quei veri uomini, quei nonpiùbestie, i filosofi, gli artisti e i santi; al loro apparire e per il loro apparire, la natura, che non fa mai salti, fa il suo unico salto e cioè un salto di gioia, perché per la prima volta si sente vicina alla mèta, là dove, cioè, intende che deve disimparare ad avere mete, e che ha giocato troppo alto il gioco della vita e del divenire.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

12.

Sogno e cultura. - La funzione cerebrale più compromessa dal sonno è la memoria: non già che essa si interrompa, ma è riportata a quello stato di incompletezza nel quale, in tempi remotissimi dell’umanità, ciascun uomo doveva trovarsi di giorno e da sveglio.

Capricciosa e confusa qual è, essa scambia continuamente le cose in base alle più fuggevoli analogie: ma è lo stesso capriccio e la stessa confusione con i quali i popoli antichi inventarono le loro mitologie, e ancor oggi i viaggiatori non mancano di osservare quanto il selvaggio sia incline alla dimenticanza e come il suo spirito, dopo un breve sforzo della memoria, cominci a vacillare e, per mera stanchezza, pronunci menzogne e assurdità. Ma, nel sogno, siamo tutti come quel selvaggio; il cattivo riconoscere e l’erroneo identificare sono la causa del cattivo dedurre di cui ci rendiamo colpevoli nel sogno: sicché, se ci richiamiamo alla mente un sogno con chiarezza, ci spaventiamo di noi stessi, tanta è la pazzia che si nasconde in noi. La perfetta chiarezza di tutte le rappresentazioni oniriche, la quale ha come presupposto la fede incondizionata nella loro realtà, ci riporta ad antichi stati dell’umanità, quando l’allucinazione era oltremodo frequente e prendeva intere comunità, interi popoli. Dunque, nel sonno e nel sogno, noi eseguiamo ancora una volta il compito dell’umanità primitiva.

Ma come accade che lo spirito di chi sogna s’inganna sempre, quello stesso spirito che, durante la veglia, é così freddo, prudente e così scettico circa le ipotesi? al punto che gli basta una prima ipotesi qualsiasi capace di spiegare una sensazione, per credere subito alla sua verità? (Infatti quando sogniamo noi crediamo al sogno come fosse realtà, consideriamo cioè la nostra ipotesi come pienamente dimostrata).

- Come, ancora oggi, l’uomo deduce nel sogno, così l’umanità, molti millenni or sono, deduceva anche durante la veglia: la prima causa che si presentava allo spirito per spiegare un qualcosa, che richiedeva una spiegazione, gli bastava e aveva per esso valore di verità. (In modo simile si comportano ancor oggi, a detta dei viaggiatori, i selvaggi,) Nel sogno continua ad agire in noi questo antichissimo frammento di umanità, poiché esso è la base sulla quale si è sviluppata, e ancora si sviluppa in ogni uomo, la ragione: il sogno ci riporta a lontani stati della cultura umana e ci fornisce un mezzo per comprenderla meglio.

14.

Consonanza. - Ogni stato d’animo più intenso porta con sé una consonanza di sensazioni e stati d’animo affini; essi per così dire frugano dentro la memoria. Con essi, questa si ricorda di qualcosa dentro di noi e prende coscienza di situazioni analoghe e della loro origine. Si formulano così usuali, rapidi collegamenti di sentimenti e di pensieri i quali, se si susseguono con la rapidità del lampo, finiscono per essere percepiti non più come complessi, ma come unità. In questo senso si parla di sentimento morale, di sentimento religioso, come se fossero pure unità: in realtà sono fiumi dalle cento sorgenti e dai cento affluenti. Anche in questo caso, come accade tanto spesso, l’unità della parola non garantisce in nulla l’unità della cosa.

58.

Quel che si può promettere. - Si possono promettere azioni ma non sentimenti: questi infatti sono involontari. Chi promette a qualcuno amore eterno, odio eterno o eterna fedeltà, promette qualcosa che non è in suo potere; può invece ben promettere quelle azioni che normalmente sono la conseguenza dell’amore, dell’odio, della fedeltà, ma che possono derivare anche da altri motivi: poiché molte sono le vie e i motivi che conducono a un’azione. Promettere di amar sempre qualcuno significa dunque: finché ti amerò, compirò nei tuoi confronti le azioni dell’amore; se cesserò di amarti, tu continuerai a ricevere da me le stesse azioni, anche se, per motivi diversi, cosicché agli occhi degli altri rimane l’apparenza che l’amore sia sempre lo stesso, che non sia cambiato. Si promette dunque la durata della parvenza dell’amore, quando senza accecarsi da soli si giura a qualcuno amore eterno.

Volume II

76.

Interpretare il sogno. - Ciò che talvolta si sa e si sente oscuramente durante la veglia - se, verso una persona, si abbia una buona o una cattiva coscienza - il sogno ce lo insegna in modo affatto inequivocabile.

52.

Contenuto della coscienza. - Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell'infanzia ci veniva regolarmente richiesto senza un motivo da persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque stimolato quel senso del dovere («questo debbo fare, e non fare quello») che non chiede: perché debbo? - In tutti i casi in cui una cosa viene fatta con un «perché», l'uomo agisce senza coscienza; tuttavia non perciò contro di essa. - La fede nelle autorità è la fonte della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel cuore dell'uomo, ma la voce di alcuni uomini nell'uomo.

194.

Il sogno. - I nostri sogni, quando eccezionalmente riescono e giungono a completarsi - il sogno di solito è una abborracciatura -, sono concatenazioni simboliche di scene e immagini al posto di un linguaggio poetico narrante; essi parafrasano le nostre esperienze o aspettative o relazioni con audacia ed esattezza poetiche, sicché la mattina nel ricordare i nostri sogni ci meravigliamo sempre di noi. Nel sogno consumiamo troppa arte - ed è per questo che di giorno spesso ne siamo così poveri.

Aurora (1881)

1.

Razionalità posteriore. - Tutte le cose che vivono a lungo, a poco a poco si intridono a tal punto di ragione, che la loro provenienza dall'irrazionale diviene perciò improbabile. Non suona paradossale ed empia per il sentimento quasi ogni precisa storia di una genesi? Il buon storico, in fondo, non contraddice continuamente?

119.

Esperienza vissuta e invenzione poetica. - Per quanto uno possa spingere avanti la sua conoscenza di sé, niente certo può essere più incompleto del quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono il suo essere. E’ già difficile che egli dia un nome ai più grossolani di essi: il loro numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il loro gioco reciproco, e soprattutto le leggi del loro nutrimento rimangono per lui del tutto ignote. Questo nutrimento diviene dunque un'opera del caso: le nostre giornaliere esperienze vissute gettano una preda ora all'uno, ora all'altro istinto, che questo avidamente afferra, ma tutto l'andare e venire di questi eventi sta al di fuori di qualsiasi razionale connessione con i bisogni di nutrimento degli istinti nel loro complesso: così che si verificherà sempre un duplice fenomeno, l'essere affamati e il deperire degli uni, e l'ipernutrizione degli altri.

Ogni momento della nostra vita fa crescere alcuni tentacoli del nostro essere e lascia che alcuni altri si atrofizzino, a seconda della nutrizione che quel momento porta o non porta in se stesso. Le nostre esperienze, come già si è detto, sono tutte, in tal senso, dei mezzi adatti alla nutrizione, ma sparsi con mano cieca, senza sapere qual è quello che ha fame e quello che ne ha abbastanza. E in conseguenza di questo casuale nutrimento delle parti, il polipo completamente sviluppato sarà qualcosa di così casuale come lo è il suo divenire.

Per dirla più chiaramente: posto che un istinto si trovi al punto di bramare un appagamento - o di esercitare la sua forza, o di scaricarla in qualche modo o di colmare un vuoto - (questo è un discorso tutto metaforico): allora guarderà ad ogni avvenimento della giornata in vista di come possa utilizzarlo al suo scopo; sia che l'uomo corra, o riposi, o si adiri, o legga, o parli, o combatta, o gioisca, nella sua sete l'istinto palpa, per così dire, ogni situazione in cui l'uomo venga a trovarsi, e se nella media dei suoi casi non vi trova niente per sé, deve aspettare e continuare ad avere sete. Ancora un po' di tempo e illanguidisce, ancora un paio di giorni o di mesi di inappagamento, e si inaridisce come una pianta senza pioggia. Forse questa crudeltà del caso balzerebbe in modo ancor più stridente agli occhi, se tutti gli istinti volessero prenderla in modo così radicale come fa la fame: questa infatti non si appaga di vivande sognate; ma la maggior parte degli istinti, in particolare i cosiddetti istinti morali, fanno proprio questo, - se è lecita la mia supposizione che i nostri sogni hanno appunto il senso e il valore di compensare fino ad un certo grado quella casuale carenza di «nutrimento» durante il giorno.

La gaia scienza (1882)

Libro primo

8.

Virtù inconsapevoli.

Tutte le caratteristiche di cui un uomo è consapevole ― ovvero quelle la cui visibilità ed evidenza egli presuppone anche per il suo ambiente ― sono sottoposte a leggi di sviluppo completamente diverse rispetto a quelle caratteristiche che gli sono ignote o poco note e che per la loro finezza sono celate anche agli occhi dell'osservatore più raffinato e sanno nascondersi come dietro il niente...

Le nostre qualità morali visibili, e nella fattispecie quelle che sono credute visibili, seguono il loro corso ― e anche quelle invisibili, che non sono né ornamento né arma rispetto agli altri, seguono il loro corso: completamente diverso, con ogni probabilità, da quelle linee e finezze e sculture che forse compiacerebbero un Dio munito di microscopio divino.

9.

Le nostre eruzioni.

Noi tutti abbiamo, nascosti dentro di noi, giardini e piantagioni nascoste; oppure, per fare un altro esempio, siamo tutti vulcani in fase di crescita, che al momento dovuto avranno le loro eruzioni; quanto tempo manchi a quel momento, però, questo non lo sa nessuno, neppure il buon Dio.

11.

La coscienza.

La coscienza è l'ultimo e più tardo gradino di sviluppo dell'organico e quindi anche il meno finito e vigoroso. Dalla coscienza derivano innumerevoli errori che fanno sì che un animale, un uomo vadano in malora prima di quanto non sarebbe necessario, «al di là del destino», come dice Omero. Se non fosse tanto più potente, il vincolo conservatore degli istinti non potrebbe fungere da regolatore: i loro giudizi rovesciati, il loro fantasticare ad occhi aperti, la loro superficialità e creduloneria, in breve proprio la loro coscienza manderebbe l'umanità in malora: o meglio, senza tutto ciò essa non esisterebbe più da tempo!

Prima di formarsi e giungere a maturazione, una funzione costituisce un pericolo per l'organismo: è un bene che sia tiranneggiata così a lungo e abilmente! Così la coscienza subisce un'abile tirannia ― e nemmeno un po' per orgoglio!

Si pensa che sia questo il nucleo dell'uomo, quanto in lui c'è di duraturo, eterno, ultimo, originario? Si ritiene la coscienza una grandezza assolutamente data! Le negate ogni possibilità di crescita, di intermittenza! La considerate una «unità dell'organismo»! ―

Questa ridicola sopravvalutazione e disconoscimento della coscienza si rivela però estremamente utile, perché ha impedito una formazione troppo veloce della stessa.

Poiché credevano di avere già una coscienza, gli uomini si sono dati poca pena di acquisirla: e anche adesso le cose non stanno diversamente! Per gli occhi umani, incorporare la sapienza e renderla istintiva continua ad essere un compito sempre nuovo e appena affiorante, un compito visto soltanto da coloro che hanno compreso che finora abbiamo incorporato soltanto i nostri errori e che tutta la nostra coscienza si riferisce a errori!

Libro quarto

308.

La storia di ogni giorno.

Che effetto ti fa la storia di ogni giorno? Guarda le tue abitudini, di cui essa consiste: esse sono il prodotto di innumerevoli, piccole vigliaccherie e pigrizie o della tua prodezza, della tua ingegnosa ragione? Per quanto si tratti di due casi tanto diversi, sarebbe sempre possibile che gli uomini ti tributassero la stessa lode e che tu fossi loro ugualmente di vantaggio. Anche lode e vantaggio e rispettabilità potrebbero bastare a colui che voglia avere soltanto una buona coscienza, - non però per chi, come te che scruti nelle viscere, abbia consapevolezza della sua coscienza!

Libro quinto

354.

Sul «genio della specie».

Il problema della coscienza (più esattamente del prendere coscienza di sé) ci si presenta soltanto quando cominciamo a comprendere quanto possiamo farne a meno: a questo inizio di comprensione ci conducono oggi la fisiologia e la storia degli animali (che hanno avuto bisogno di due secoli per riafferrare il sospetto che già era balenato a Leibnitz).

Potremmo infatti pensare, sentire, volere, ricordare, potremmo persino «agire», in ogni senso della parola: eppure non c'è bisogno che tutto ciò «affiori alla coscienza», come si dice figurativamente. Tutta la vita sarebbe possibile anche se non ci si guardasse, per così dire, allo specchio: e certamente anche la nostra vita pensante, senziente, volente, per quanto ciò possa suonare offensivo per un filosofo di epoche precedenti.

A che serve, orbene, la coscienza, se per la cosa principale si rivela superflua? A me sembra, se si vuol prestare ascolto alla mia risposta a questa domanda e alla sua supposizione forse bizzarra, che la finezza e la forza della coscienza siano sempre in rapporto con l'abilità comunicativa di un uomo (o animale) e che l'abilità comunicativa a sua volta sia in rapporto col bisogno di comunicare: senza intendere quest'ultima cosa come se l'uomo, che è un maestro nel comunicare e nel rendere comprensibili i suoi bisogni, dovesse anche per i suoi bisogni fare perlopiù assegnamento sugli altri. Eppure mi pare che le cose stiano proprio così, per intere razze e catene di generazioni: laddove il bisogno e la necessità abbiano lungamente costretto gli uomini ad aprirsi, a esercitare una rapida e raffinata comprensione reciproca, l'energia e l'arte di comunicare si sono poi rivelate sovrabbondanti, come un patrimonio che sia stato accumulato gradualmente e non aspetti altro se non un erede che lo dissipi (questi eredi sono i cosiddetti artisti, e con loro gli oratori, i predicatori, gli scrittori, tutti uomini che giungono sempre alla fine di una lunga catena, ogni volta «nati in ritardo», nel senso migliore della parola, e, come abbiamo detto, dissipatori di natura).

Posto che quest'osservazione sia giusta, posso procedere alla supposizione che la coscienza si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione, - che inizialmente la sua utilità fosse limitata ai rapporti tra uomo e uomo (in particolare tra chi comandava e chi ubbidiva) e che si sia sviluppata anche in rapporto al grado di questa utilità. La coscienza è in realtà soltanto una rete di comunicazione tra uomo e uomo, e si è dovuta sviluppare soltanto in quanto tale: se fosse stato un eremita o un animale da preda, l'uomo non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, pensieri, sentimenti, movimenti - o quanto meno parte di essi - pervengano alla nostra coscienza, è la conseguenza di una terribile «necessità» che ha lungamente governato l'uomo: egli aveva bisogno, essendo l'animale più esposto ai pericoli, di aiuto e protezione; aveva bisogno dei suoi pari; doveva esprimere la sua necessità e farsi capire: per tutto questo aveva in primo luogo bisogno della «coscienza», cioè di «sapere» egli stesso che cosa gli manca, qual è il suo stato d'animo, di «sapere» che cosa pensa.

Lo ripetiamo ancora una volta: l'uomo, come ogni creatura vivente, pensa di continuo, ma non lo sa: il pensiero che diviene cosciente è soltanto una minima parte, la più superficiale, la peggiore: perché soltanto questo pensiero cosciente si realizza in parole, cioè in segni comunicativi che rivelano l'origine della stessa comunicazione. In breve, l'evoluzione della lingua e l'evoluzione della coscienza (non la ragione, ma soltanto il suo prendere coscienza di sé) vanno di pari passo.

Si aggiunga che a fungere da ponte fra uomo e uomo non c'è soltanto la lingua, ma anche lo sguardo, la pressione, i gesti: il prendere coscienza delle nostre impressioni sensoriali, la forza di poterle fissare e di collocarle, per così dire, fuori di noi, sono aumentate proporzionalmente alla necessità di trasmetterle ad altri per mezzo di segni. Il mio pensiero è quindi evidentemente questo: che la coscienza non appartiene tanto all'esistenza individuale dell'uomo quanto agli elementi di comunità e di gregge presenti nella sua natura; che, come ne consegue, essa si è sviluppata soltanto in riferimento all'utilità della comunità e del gregge e che quindi ciascuno di noi, pur con la migliore buona volontà di capirsi il più individualmente possibile, di «conoscere se stesso», porterà sempre alla propria coscienza soltanto i suoi elementi non individuali, quello che in lui c'è di «medio»; che il nostro stesso pensiero è costantemente adeguato alla maggioranza dal carattere stesso della coscienza - da quel genio della specie che in essa opera - e ritradotto nella prospettiva del gregge.

Le nostre azioni sono in fondo tutte incomparabilmente personali, uniche, illimitatamente individuali, non c'è dubbio; ma non appena le traduciamo nella coscienza, non lo sembrano più... Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io: la natura della coscienza animale comporta che il mondo di cui dobbiamo prendere coscienza sia soltanto un mondo superficiale, di segni, un mondo generalizzato e volgarizzato; - che tutto ciò di cui prendiamo coscienza divenga proprio per questo altrettanto piatto, privo di spessore, relativamente stupido, generale, segno, segno distintivo del gregge; che a ogni coscienza sia legata una grande, fondamentale corruzione, falsificazione, superficializzazione e generalizzazione.

II progredire della coscienza è inoltre un pericolo; chi viva tra gli Europei più coscienti sa persino che è una malattia. Come si può indovinare, non è la contrapposizione di soggetto e oggetto a interessarmi: questa differenziazione la lascio ai teorici della conoscenza che sono rimasti impigliati nelle maglie della grammatica (la metafisica del popolo). Non è neppure la contrapposizione di «cosa in sé» e fenomeno: poiché siamo ben lungi dal «conoscere» abbastanza per poter eseguire anche differenziazioni così semplici. Non abbiamo neppure un organo per la conoscenza, per la «verità»: noi «sappiamo» (o crediamo o immaginiamo) esattamente quel tanto che può essere utile nell'interesse del gregge degli uomini, della specie; e persino quel che andiamo definendo «utilità» è in ultima analisi soltanto un atto di fede, di immaginazione e forse proprio quella funestissima stoltezza che un giorno ci manderà in malora.

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1885)

Parte prima - I discorsi di Zarathustra

Degli spregiatori del corpo

Agli spregiatori del corpo voglio dire la mia parola. Non debbono imparare e insegnare l'opposto di quello che hanno imparato e insegnato finora, bensì dire addio al proprio corpo e quindi ammutolire.

«Io sono corpo e anima» così parla il bambino, e perché non si dovrebbe parlare come i bambini?

Ma l'uomo desto, l'uomo cosciente dice: Io sono tutto corpo e nulla fuori di questo; e anima è solo una parola per qualcosa che è nel corpo.

Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore.

Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami «spirito», un piccolo strumento e zimbello della tua grande ragione.

«Io» dici e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa più grande cui non vuoi credere è il tuo corpo e la sua grande ragione; questa non dice io, ma fa da io.

Quel che il senso percepisce, quel che lo spirito conosce, non ha mai in sé la sua fine. Ma senso e spirito vorrebbero persuaderti che essi sono la fine di tutte le cose: tanta è la loro vanità.

Strumento e zimbello sono senso e spirito: dietro di essi sta ancora il Se stesso. Il Se stesso è in cerca anche con gli occhi dei sensi ed è in ascolto anche con gli orecchi dello spirito.

Sempre è in ascolto il Se stesso e in cerca: confronta, costringe, conquista, distrugge. Domina ed è anche il dominatore dell'io.

Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un potente sovrano, un saggio sconosciuto si chiama Se stesso. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo.

C'è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza. E chissà mai perché il tuo corpo ha bisogno proprio della tua miglior saggezza?

Il tuo Se stesso ride del tuo io e dei suoi orgogliosi salti. «Che sono per me questi salti e voli del pensiero?» si dice «Un giro vizioso rispetto al mio scopo. Io tengo le fila dell'io e sono l'ispirazione dei suoi concetti.»

Il Se stesso dice all'io: «Qui prova dolore». E soffre e pensa come non soffrire più e a questo scopo deve appunto pensare.

Il Se stesso dice all'io: «Qui prova piacere». E si rallegra e pensa come rallegrarsi molte altre volte ancora e a questo scopo deve appunto pensare.

Parte quarta e ultima

Della scienza

E non sono coloro che guidano fuori dal pericolo che voi soprattutto amate, bensì quelli che vi sviano da qualunque via, i seduttori. Ma anche se una simile voglia in voi è reale, mi sembra ciononostante impossibile. La paura infatti è il sentimento ereditario e fondamentale dell'uomo; con la paura si spiega ogni cosa, il peccato originale e la virtù ereditata. Dalla paura nacque anche la mia virtù, cioè: la scienza. Infatti la paura delle bestie feroci è quella che più lungamente fu inculcata all'uomo, e comprende anche la paura della bestia che egli cela e teme dentro di sé: Zarathustra la chiama "la bestia interiore".

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

3.

Dopo aver letto abbastanza a lungo i filosofi tra le righe e averli tenuti d'occhio mi dico che dobbiamo considerare ancora come attività dell'istinto la gran parte del pensiero cosciente, persino nel caso del pensiero filosofico; dobbiamo trasformare qui il nostro modo di vedere, come si è fatto a proposito dell'ereditarietà e dell'«innatismo». Come l'atto della nascita ha poca importanza nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, altrettanto poco l'«essere cosciente» può essere contrapposto, in un qualche modo decisivo, all'elemento istintivo, la parte maggiore del pensiero cosciente di un filosofo è guidata segretamente dai suoi istinti e costretta in binari fissi. Anche dietro ogni logica e l'apparente dispotismo dei suoi movimenti stanno giudizi di valore, detto con maggiore chiarezza, esigenze fisiologiche per il mantenimento di un determinato tipo di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza abbia meno valore della «verità»: tali valutazioni, pur con tutta l'importanza normativa che hanno per noi, potrebbero essere tuttavia soltanto valutazioni pregiudiziali, un determinato tipo di niaiserie, quale può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri come noi.

Ammesso, cioè che non proprio l'uomo sia la «misura delle cose»…

6.

Poco per volta mi è venuto in chiaro che cosa è stata finora ogni grande filosofia cioè il confessarsi del suo autore; e una specie di mémoires non volute e improvvise

12.

Si deve dare il colpo di grazia anche a quell'altra e più fatale atomistica, che il cristianesimo ha tanto bene e a lungo insegnato, l'«atomistica delle anime». Con questa parola mi sia concesso di definire quella fede che considera l'anima un qualcosa di indistruttibile, di eterno, di indivisibile, una monade, un atomon; questa fede dev'essere eliminata dalla scienza! Sia detto tra noi, non è per nulla affatto necessario eliminare con ciò anche l'«anima» e rinunciare a una delle ipotesi più antiche e più degne: come suole accadere a quei naturalisti maldestri, i quali non appena giungono a sfiorarla, subito la perdono.

Ma la via verso nuove concezioni e raffinamenti dell'ipotesi-anima rimane aperta: e concetti come «anima mortale» e «anima come pluralità del soggetto» e «anima come struttura sociale degli impulsi e delle passioni» vogliono fin da ora avere diritto di cittadinanza nella scienza.

17.

Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò di sottolineare un piccolo, breve dato di fatto, che viene ammesso mal volentieri da questi superstiziosi, cioè che un pensiero viene quando «lui» lo vuole, e non quando «io» lo voglio; cosicché dire: il soggetto «io» è condizione del predicato «penso», è una falsificazione dello stato dei fatti, Esso pensa: ma che questo «esso» sia proprio quel vecchio famoso «io», è per dirla con indulgenza, solo una supposizione, un'affermazione, e soprattutto non è affatto una «certezza immediata». E infine già dicendo «esso pensa» si è detto troppo: già questo «esso» contiene una spiegazione del processo e non appartiene al processo stesso.

68.

«Ho fatto questo» dice la mia memoria. «Non posso aver fatto questo» - dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine - è la memoria a cedere.

158.

Al nostro istinto più forte, al tiranno che è in noi si sottomette non solo la nostra ragione, ma anche la nostra coscienza.

229.

Ogni volta che l'uomo si lascia convincere alla negazione di sé in senso religioso o all'automutilazione, come tra i Fenici e gli asceti, o a sublimare la propria sensualità, a disincarnarsi, a pentirsi, a soffrire i crampi della penitenza puritana, a vivisezionare la propria coscienza e a sacrificare, secondo Pascal, l'intelletto, egli viene segretamente attirato e incalzato a farlo dalla sua crudeltà, da quel brivido pericoloso della crudeltà, rivolta contro se stesso.

268.

Quali sono i gruppi di sensazioni più rapide a destarsi all'interno di un'anima, a prendere la parola, a dare ordini, questo è ciò che stabilisce la complessiva gerarchia dei suoi valori e determina infine la tavola dei suoi beni.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

83.

Nell'immane molteplicità di ciò che accade all'interno di un organismo, la parte di cui diventiamo coscienti è un semplice cantuccio; e quel poco di «virtù», di «disinteresse» e di finzioni affini viene smentito in modo del tutto radicale dal restante accadere totale.

Faremo bene a studiare il nostro organismo nella sua completa immoralità...

Le funzioni animali in linea di principio sono milioni di volte più essenziali di tutti gli stati belli e le altitudini della coscienza: questi ultimi sono un eccesso, non dovendo essere strumenti per quelle funzioni animali.

L'intera vita cosciente, lo spirito insieme con l'anima, insieme con il cuore, insieme con la bontà, insieme con la virtù: al servizio di che cosa lavora: In vista del massimo perfezionamento dei mezzi (mezzi di nutrimento-accrescimento) delle fondamentali funzioni animali: innanzitutto per l'accrescimento della vita.

Vale indicibilmente di più ciò che è stato chiamato «corpo» e «carne»: il resto è un piccolo accessorio. Il compito di continuare a filare l'intero ordito della vita e in maniera tale che il filo diventi sempre più potente questo è il compito. Ma poi vediamo come cuore, anima, virtù, spirito addirittura cospirino, per stravolgere questo compito principale: come se essi fossero il fine... La degenerazione della vita è dovuta essenzialmente alla straordinaria capacità di errore della coscienza: essa è dominata molto poco dagli istinti e per questo per molto tempo e molto profondamente prende una cosa per un'altra.

Ponderare se l'esistere ha valore in base ai sentimenti di piacere e dispiacere di questa coscienza: si può pensare una esagerazione più incontenuta della vanità: Essa è solo un mezzo: e a loro volta anche i sentimenti piacevoli e spiacevoli sono solo mezzo!

96.

Si riporti colui che fa nuovamente nel fare, dopo averlo dedotto concettualmente da questo e dopo aver in tal modo vanificato il fare; si riprenda nuovamente nel fare il farqualcosa «lo scopo l'«intenzione», il «fine», dopo averlo tratto artificialmente da esso e dopo aver in tal modo annullato il fare; tutti i «fini», gli «scopi», i «sensi» sono soltanto modalità di espressione e metamorfosi dell'unica volontà che inerisce a ogni accadere, la volontà di potenza; l'avere fini, scopi, intenzioni, volere in generale è come volerdiventarepiù forti, volere accrescersi e per questo volere anche i mezzi; l'istinto più generale e più basso in ogni fare e volere è rimasto il più sconosciuto e latente proprio dal momento che in pratica seguiamo sempre il suo comando, siamo questo comando...

Ogni valutazione è soltanto una conseguenza e una più angusta prospettiva al servizio di quest'unica volontà: il valutare stesso è soltanto questa volontà di potenza; una critica dell'essere alla luce di uno qualunque di questi valori è qualcosa di paradossale e di ambiguo; anche posto che in questo si introducesse un processo di decadenza, questo processo starebbe ancora al servizio di questa volontà...

Valutare l'essere stesso: ma il valutare stesso è ancora questo essere e dicendo no, noi facciamo sempre ancora ciò che siamo... Dobbiamo riconoscere l'assurdità di questo comportamento valutativo dell'esistenza; e poi tentare di indovinare che cosa in realtà si verifica in tal caso sintomatico.

113. Sulla psicologia e la dottrina della conoscenza

Sostengo la fenomenicità anche per il mondo interiore: tutto ciò che ci diventa cosciente è completamente costruito a bella posta, semplificato, schematizzato, spiegato il processo effettuale della «percezione» interna, l'unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti e probabilmente pura immaginazione. Questo «apparente mondo interiore» è trattato proprio con le medesime forme e procedure del mondo «esterno». Non ci scontriamo mai con «fatti»: piacere e dispiacere sono fenomeni intellettuali tardi e derivati...

La «causalità» ci sfugge; supporre un immediato collegamento causale fra pensieri, come fa la logica è frutto della più grossolana e semplicistica osservazione. Fra due pensieri giocano il loro gioco anche tutte le possibili affezioni: ma i movimenti sono troppo repentini, non li riconosciamo, li neghiamo...

Non si verifica mai un «pensare» come lo presuppongono i teorici della conoscenza: questo è una finzione affatto arbitraria, conseguita con l'isolamento dal processo di un unico elemento e con la sottrazione di tutti i rimanenti, una costruzione artificiosa volta a permettere la comprensione...

Lo «spirito», qualcosa, che pensa: possibilmente persino «lo spirito assoluto, puro, schietto» - questa concezione è una seconda conseguenza derivata da una falsa osservazione di sé, che crede nel «pensiero»: innanzitutto qui viene immaginato un atto, che non si verifica affatto, «il pensare» e in secondo luogo viene immaginato un soggettosostrato nel quale trova la propria origine ogni atto di questo pensare e nient'altro: cioè tanto l'azione quanto l'autore sono fittizi.

145. Ruolo della «coscienza»

E’ essenziale che non ci si sbagli sul ruolo della «coscienza»: è la nostra relazione con il «mondo esteriore» che l'ha sviluppata. Al contrario la direzione, cioè la cura e la previdenza per l'armonia delle funzioni corporee non fa parte della nostra coscienza; altrettanto poco l'immagazzinamento spirituale: che si dia per questo un'istanza suprema, non si può dubitare: una sorta di comitato direttivo, nel quale i vari desideri principali fanno valere la propria voce e la propria potenza. «Piacere», «dispiacere» sono cenni provenienti da questa sfera... così la volizione. Così le idee.

In summa: ciò che diventa cosciente soggiace a rapporti causali che ci sono del tutto celati il susseguirsi di pensieri, sentimenti, idee nella coscienza non dice niente sul fatto che questa sequenza sia una sequenza causale: ma in apparenza è così, al massimo grado.

Su questa apparenza abbiamo fondato tutte le nostre rappresentazioni di spirito, ragione, logica ecc. (tutto ciò non c'è: sono sintesi e unità fittizie)... E le abbiamo proiettate di nuovo nelle cose, dietro le cose!

Comunemente si pensa la coscienza stessa come sensorium generale e istanza suprema: invece è soltanto un mezzo della comunicazione: si è sviluppata nei rapporti e in riferimento a interessi di rapporto... Per «rapporti» intendiamo qui anche le azioni del mondo esterno e le nostre necessarie reazioni: così anche le nostre azioni sul mondo esterno. Essa non è una guida, ma un organo della guida.

Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888)

Perché sono così accorto

9.

- Bisogna tenere sgombra tutta intera la superficie della coscienza - la coscienza è una superficie - da qualsiasi grande imperativo. Attenzione anche alle grandi parole, ai grandi atteggiamenti! Tutti pericoli che l'istinto «si comprenda» troppo presto. Nel frattempo, nel profondo, cresce sempre di più l'«idea» organizzatrice, l'idea chiamata al dominio, essa comincia a comandare, riconduce lentamente indietro dalle deviazioni e dagli sviamenti, prepara singole qualità e capacità, che si dimostreranno un giorno indispensabili come strumento per il tutto, essa forma successivamente tutti i poteri subalterni, prima ancora di far conoscere qualcosa del compito dominante, della «meta», dello «scopo», del «senso». Considerata da questo punto di vista, la mia vita è semplicemente prodigiosa.

Per il compito di una trasvalutazione dei valori erano forse necessarie maggiori capacità di quelle che si sono trovate a coesistere in una sola persona, e soprattutto contrapposizioni di poteri cui non è dato tuttavia disturbarsi o distruggersi. Gerarchia dei poteri; distanza; l'arte di separare senza inimicare; non mescolare nulla, non «conciliare» nulla, una molteplicità enorme, che ciononostante è l'opposto del caos questo era il presupposto, il lungo lavoro segreto, la maestria del mio istinto. La sua superiore protezione si è dimostrata così forte che in nessun caso ho anche soltanto presentito ciò che cresceva in me, e tutte le mie attitudini sono balzate fuori un giorno all'improvviso, mature, in tutta la loro perfezione.

Umano, troppo umano

Con due continuazioni

3.

Allora il mio istinto si decise inesorabilmente contro ogni ulteriore cedimento, contro ogni comune procedere, ogni prendersi per un altro. Ogni genere di vita, le condizioni più sfavorevoli, malattia, povertà, tutto mi sembrò preferibile a quell'indegno «altruismo» nel quale ero incappato prima per ignoranza, per gioventù e al quale, più tardi, ero rimasto legato per pigrizia, per il cosiddetto «senso del dovere».

- A questo punto mi venne in aiuto, in un modo che non potrò mai ammirare abbastanza, e proprio al momento giusto, quella cattiva eredità paterna in fondo la predestinazione a una morte precoce. La malattia mi sciolse lentamente da tutto: mi risparmiò ogni rottura, ogni passo violento e rivoltante. Non ho perduto allora la benevolenza di nessuno e ne ho acquistata molta ancora. La malattia mi diede nel contempo il diritto a un completo rovesciamento di tutte le mie abitudini; mi permise, mi ordinò di dimenticare; mi donò la necessità del riposo, dell'ozio, dell'attesa e della pazienza...

Ma questo è appunto pensare! I miei occhi misero fine da soli ad ogni frenetico nutrirsi di libri, cioè alla filologia: ero libero dal «libro», per anni non lessi più nulla - il maggiore beneficio ch'io mi sia mai concesso!

- Quel profondo me stesso, quasi sepolto, quasi ridotto al silenzio sotto un obbligo costante di ascoltare altri sé (- e questo appunto è leggere!) si risvegliò lentamente, timidamente, dubbiosamente, - ma alla fine parlò di nuovo. Mai ho provato tanta felicità di me come nei tempi più pieni di dolore e di malattia della mia vita: basta prendere in esame Aurora oil viandante e la sua ombra per capire cosa fu questo «ritorno a me stesso»: una forma suprema di guarigione! ... L'altra ne fu semplicemente una conseguenza.

Così parlò Zarathustra

Un libro per tutti e per nessuno

3.

- C'è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un'idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così, voglio descriverla io.

Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all'improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e di irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all'interno di una tale sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell'ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione...

Tutto avviene in un modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità... L'involontarietà dell'immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende più conto di che cosa sia un'immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora (- «qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle.

Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell'essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te - »). Questa è la mia esperienza dell'ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli all'indietro per trovare qualcuno che possa dirmi «è anche la mia».-

Crepuscolo degli idoli; o come si filosofa col martello (1888)

Morale come contronatura

3.

Non diversamente ci comportiamo con il «nemico interiore»: anche qui abbiamo spiritualizzato l'inimicizia, anche qui abbiamo compreso il suo valore. Si è fertili solo a patto di esser ricchi di contrasti; si resta giovani solo a condizione che l'anima non si distenda, non desideri la pace...

I quattro grandi errori

3.

Il «mondo interiore» è pieno di chimere e fuochi fatui: la volontà è uno di questi. La volontà non muove più nulla, e di conseguenza non spiega nemmeno più nulla accompagna semplicemente gli avvenimenti, ma può anche mancare.

4.

La maggior parte dei nostri sentimenti comuni - ogni sorta di inibizione, di pressione, di tensione, di esplosione nell'alterno gioco degli organi, come pure, in particolare, lo stato del nervus sympathicus - stimolano il nostro impulso di causalità: vogliamo avere un motivo di sentirci in questo e in quel modo, - di sentirci male o di sentirci bene. Non ci è mai sufficiente constatare puramente e semplicemente il fatto di sentirci in questo e in quel modo: noi ammettiamo questo fatto - ne diventiamo consapevoli -, solo quando gli abbiamo dato una sorta di motivazione. - Il ricordo, che a nostra insaputa entra in azione in questi casi, fa emergere stati analoghi precedenti e le interpretazioni causali loro connesse - non la loro causalità. Certamente la credenza che le rappresentazioni, i processi della coscienza che le accompagnano, siano stati le cause, viene provocata anche dal ricordo. Nasce così un'abitudine a una determinata interpretazione delle cause, che in verità ostacola, e persino esclude, una ricerca della causa.

5.

Spiegazione psicologica di ciò. - Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena, -il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni. Primo principio: meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione.

Poiché in fondo si tratta solo della volontà di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene: la prima rappresentazione con la quale l'ignoto si esplica come noto, fa tanto bene che la si «tiene per vera». Prova del piacere («della forza») come criterio della verità.

- L'impulso di causalità è dunque condizionato e stimolato dal sentimento di paura. Il «perché» deve dare, se è possibile, non tanto la causa per se stessa quanto piuttosto una specie di causa una causa che tranquillizzi, liberi, rassereni. Che qualcosa di già noto, vissuto, inscritto nella memoria sia stabilito come causa è la prima conseguenza di questo bisogno. Il nuovo, il non vissuto, l'estraneo, viene escluso come causa.

- Non solo dunque si ricerca come causa una specie di spiegazioni, ma una specie scelta e privilegiata di spiegazioni, quelle grazie alle quali è stato eliminato più rapidamente e più spesso il senso dell'estraneo, del nuovo, del non vissuto, - le spiegazioni più abituali. - Conseguenza: una specie di ordinamento causale prevale sempre più, si concentra in sistema e alla fine si presenta come predominante, vale a dire escludendo semplicemente altre cause e spiegazioni. - Il banchiere pensa subito agli «affari», il cristiano al «peccato», la fanciulla al suo amore.

Nietzsche contra Wagner. Documenti di uno psicologo (1889)

Torino, Natale 1888

Come mi liberai di Wagner

2.

Quel qualcosa di nascosto e d'imperioso cui a lungo non sappiamo dare un nome, sinché alla fine non si rivela come il nostro compito questo tiranno che è in noi si prende una terribile rivalsa per ogni nostro tentativo di evitarlo o di sfuggirgli, per ogni prematuro rassegnarsi, per ogni equipararci con coloro ai quali non apparteniamo, per ogni attività, sia pur degna di stima, che ci distolga dalla nostra causa principale finanche per ogni virtù che possa preservarci dalla durezza della nostra più vera responsabilità.

Malattia è la risposta, ogni volta che vogliamo dubitare del nostro diritto al nostro compito, quando cominciamo a rendercelo più lieve in un punto qualsiasi. Strano e terribile insieme! Sono i nostri alleviamenti quelli che dobbiamo più duramente scontare! E se poi vogliamo tornar sani, non ci rimane scelta: dobbiamo addossarci un carico più pesante di quello che avevamo prima…

Lo psicologo prende la parola

3.

Esistono «uomini sereni» che si servono della serenità perché grazie a essa vengono fraintesi. Essi vogliono essere fraintesi. Esistono «spiriti scientifici» che si servono della scienza perché essa conferisce un'apparenza di serenità e perché la scientificità fa concludere che l'uomo è superficiale.Essi vogliono sedurre a una falsa conclusione...

Esistono spiriti liberi e audaci che vorrebbero nascondere e negare di essere in fondo cuori infranti e inguaribili. E' il caso di Amleto: e allora la stessa follia può essere la maschera di uno sciagurato sapere troppo certo.-