La dimensione tragica. Apollineo e dionisiaco |
La nascita della tragediaTentativo di autocritica 1. E’ il pessimismo necessariamente un segno di regresso, di decadenza, di fallimento, di istinti stanchi e infiacchiti? - come lo fu per gli indiani, come lo è, secondo ogni apparenza, per noi, uomini "moderni" ed europei? C'è un pessimismo della forza? Una propensione intellettuale per il duro, l'orrendo, il malvagio, il problematico dell'esistenza, come conseguenza di un benessere, di una salute traboccante, di una pienezza dell'esistenza? C'è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza? Uno sperimentante coraggio dello sguardo più acuto, che anela al terribile come al nemico, al degno nemico sul quale può provare la propria forza? dal quale vuol imparare cosa sia "la paura"? Cosa significa il mito tragico proprio presso i Greci dell'epoca migliore, più vigorosa, più valorosa? E l'enorme fenomeno dei dionisiaco? Cosa significa la tragedia, nata da esso? - E d'altra parte: ciò di cui perì la tragedia, ossia il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell'uomo teoretico ebbene, proprio questo socratismo non potrebbe essere un segno di regresso, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente? E la "serenità greca" della tarda grecità non potrebbe essere solo un tramonto? 4. Un problema fondamentale è il rapporto del Greco con il dolore, il suo grado di sensibilità, - rapporto che rimase uguale a se stesso? oppure si rovesciò? - il problema, se effettivamente il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di nuovi culti non sia sorto dalla mancanza, dalla rinuncia, dalla melanconia e dal dolore. Posto che proprio ciò fosse vero - e Pericle (o Tucidide) ce lo fa capire nel grande discorso funebre -: da cosa deriverebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò in un tempo anteriore, il desiderio del brutto, la buona e austera volontà di pessimismo degli antichi Elleni, di mito tragico, dell'immagine di tutto il terribile, il malvagio, l'enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all'esistenza - da cosa deriverebbe allora la tragedia? Forse dal piacere, dalla forza, da una traboccante salute, da un'esuberante pienezza? E poi quale significato ha, sotto l'aspetto fisiologico, quella follia da cui sorse sia l'arte tragica che comica, la follia dionisiaca? Come? Forse la follia non è necessariamente il sintomo della degenerazione, del tramonto, della civiltà troppo tarda? Ci sono forse - un problema per psichiatri,-., nevrosi della salute? della giovinezza del popolo e del suo animo giovanile?... - E come? se i Greci ebbero proprio nella ricchezza della loro gioventù la volontà del tragico e furono pessimisti; se fu proprio la follia, per servirci di un'espressione di Platone, a portare sull'Ellade le maggiori benedizioni; e se d'altra parte e al contrario, proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero sempre più ottimisti, superficiali, istrionici, e anche sempre più smaniosi per la logica e la logicizzazione del mondo, cioè "più sereni" e "più scientifici" insieme, non potrebbe forse essere, nonostante tutte le "idee moderne” e tutti i pregiudizi del gusto democratico, la vittoria dell'ottimismo, il prevalere della razionalità, l'utilitarismo pratico e teorico, come la stessa democrazia, di cui è contemporaneo, - un sintomo di forza in declino, di vecchiaia che si avvicina, di indebolimento fisiologico? E per l'appunto non - il pessimismo? Basilea, fine dell'anno 1871 1. Avremo ottenuto molto per la scienza estetica quando saremo giunti non solo alla comprensione logica, ma anche all'immediata sicurezza dell'intuizione del fatto che lo sviluppo dell'arte è legato alla duplicità dell'apollineo e del dionisiaco: in modo simile a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che si manifesta solo periodicamente. Questi nomi li prendiamo a prestito dai Greci, che rendono percepibili a chi è avveduto le profonde e occulte dottrine della loro visione dell'arte non mediante concetti, bensì nelle forme incisivamente limpide del loro mondo di dèi. Ad entrambe le divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si collega la nostra conoscenza che nel mondo greco esiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l'arte plastica, l'apollineo, e l'arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: questi impulsi così diversi procedono l'uno accanto all'altro, per lo più in aperto dissidio fra loro ed eccitandosi reciprocamente a sempre nuove e potenti creazioni per perpetuare in queste quell'antagonismo che il comune termine “arte" supera solo apparentemente; sinché infine, per un miracoloso atto metafisico della "volontà" ellenica, appaiono accoppiati l'uno con l'altro, e in questo accoppiamento generano finalmente l'opera d'arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica. Con l'incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata, celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto, l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente si avvicinano i feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande è coperto il carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la tigre. Si trasformi l'inno alla "gioia" di Beethoven in un quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a milioni si prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la "moda sfacciata" hanno posto fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell'universale armonia, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma una sola cosa con esso, come se il velo di Maya fosse stato strappato e soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l'uomo si mostra come membro di una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla l'incantesimo. Come ora gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche in lui risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato, come in sogno vide camminare gli dèi. L'uomo non è più un artista, è divenuto opera d'arte: la potenza artistica dell'intera natura, con il massimo appagamento estatico dell'unità originaria, si rivela qui fra i brividi dell'ebbrezza. Qui s'impasta e si leviga l'argilla più nobile, il marmo più prezioso, l'uomo, e ai colpi di scalpello del cosmico artista dionisiaco risuona la voce dei misteri eleusini: "Vi prosternate, milioni? Senti il creatore, mondo?.- 10. In verità però quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che prova su di sé i dolori dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse venerato come Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come la fonte e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole. Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In quell'esistenza come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli epopti andava però ad una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli epopti. E solo in questa speranza appare un raggio di gioia sul volto del mondo disgregato, spezzettato in individui: ciò è simboleggiato dal mito mediante Demetra, immersa in eterna tristezza, che per la prima volta si rallegra di nuovo allorché le è detto che può ancora una volta generare Dioniso. Nelle considerazioni addotte abbiamo già raccolto tutti i componenti di una visione del mondo profonda e pessimistica e insieme con essi la dottrina misterica della tragedia: la conoscenza fondamentale dell'unità di tutto ciò che è, la considerazione dell'individuazione come causa prima del male, l'arte come gioiosa speranza che l'ordine dell'individuazione possa essere infranto, come presentimento di una ristabilita unità. 11. La tragedia greca si spense diversamente da tutti gli antichi generi artistici affini: morì suicida in seguito ad un irrisolvibile conflitto, dunque tragicamente, mentre tutti quegli altri perirono in età avanzata della morte più bella e più tranquilla. Se infatti è proprio di un felice stato naturale separarsi dalla vita senza spasimi e con una bella posterità, la fine di quegli antichi generi artistici ci mostra appunto un tale felice stato di natura: essi scompaiono lentamente, e davanti ai loro sguardi morenti sta già la loro discendenza più bella e impazientemente alza il capo con animoso gesto. Con la morte della tragedia greca si aprì al contrario un enorme vuoto, dappertutto sentito profondamente; come una volta ai tempi di Tiberio i naviganti greci udirono in prossimità di un'isola solitaria l'impressionante grido: «il grande Pan è morto», così risuonò ora per il mondo ellenico come un doloroso lamento: «la tragedia è morta! La stessa poesia è perduta con essa! Via, via voi intristiti e smilzi epigoni! Via nell'Ade, affinché possiate là ancora una volta saziarvi delle briciole degli antichi maestri!». Ma quando poi fiorì un nuovo genere artistico, che onorava la tragedia come sua precorritrice e maestra, si constatò con orrore che esso aveva sì i lineamenti della madre, ma proprio quelli che essa mostrò nella sua lunga lotta con la morte. 16. Nell'arte dionisiaca e nel suo simbolismo tragico ci parla la stessa natura, con la sua vera e schietta voce: «Siate come sono io! Nel continuo mutare delle apparenze, la madre primigenia, eternamente creatrice, che eternamente costringe all'esistenza, che eternamente si appaga di questo mutare dell'apparenza!». 17. Anche l'arte dionisiaca vuole persuaderci dell'eterno piacere dell'esistenza: solo che dobbiamo cercare questo piacere non nelle apparenze, bensì dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto ad un trapasso colmo di dolore, siamo costretti a guardare in faccia gli orrori dell'esistenza individuale — eppure non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal meccanismo delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo realmente l'essere primigenio stesso e ne sentiamo l'indomita brama e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l'annientamento delle apparenze ci appaiono ora necessari per la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si accavallano nella vita, per l'eccedente fecondità della volontà del mondo; noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso momento in cui siamo per così dire divenuti una sola cosa con l'incommensurabile piacere originario dell'esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l'indistruttibilità e l'eternità di questo piacere. Nonostante la paura e la compassione noi viviamo felicemente, non come individui, ma come quell'unico vivente, col cui piacere generativo siamo fusi. 20. Ma come cambia repentinamente il desolato luogo or ora così cupamente descritto della nostra stanca cultura, quando è toccato dalla magia dionisiaca! Una bufera afferra tutto ciò che è consunto, putrido, rotto, appassito, lo avvolge vorticosamente in una rossa nuvola di polvere e lo porta come un avvoltoio in cielo. Confusi, i nostri sguardi cercano ciò che è scomparso: poiché ciò che vedono è come salito alla luce dorata da uno sprofondamento, così pieno e verde, così rigogliosamente vivo, così appassionatamente smisurato. La tragedia sta in mezzo a questo eccesso di vita, di dolore e di piacere, in sublime estasi, ascolta un lontano e melanconico canto — esso narra delle Madri dell'essere, i cui nomi suonano: follia, volontà, dolore — Sì, amici miei, credete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell'uomo socratico è passato: coronatevi di edera, prendete nelle mani il tirso e non stupitevi che la tigre e la pantera si accovaccino affettuosamente ai vostri ginocchi. Adesso soltanto osate essere uomini tragici: poiché sarete liberati. Accompagnerete il corteo dionisiaco dall'India alla Grecia! Armatevi per dure lotte, ma credete ai portenti del vostro dio! 21. Così l'apollineo ci strappa all'universalità dionisiaca e ci incanta per gli individui; a questi incatena la nostra compassione, con questi soddisfa il senso della bellezza anelante a grandi e sublimi forme; ci fa scorrere davanti immagini di vita e ci stimola ad afferrare concettualmente il nucleo vitale in esse compreso. Con l'enorme veemenza dell'immagine, del concetto, della dottrina etica e della eccitazione simpatetica, l'apollineo solleva l'uomo dall'orgiastico annullamento di sé e lo inganna circa l'universalità del processo dionisiaco per dargli l'illusione di vedere una singola immagine del mondo, per esempio Tristano e Isotta, e di doverla vedere, per effetto della musica, ancor meglio e più intimamente. Che cosa non può fare la magia risanatrice di Apollo, se può suscitare in noi l'illusione che il dionisiaco, al servizio dell'apollineo, possa effettivamente accrescerne gli effetti, anzi che perfino la musica sia essenzialmente un'arte rappresentativa per un contenuto apollineo? Il dramma che, con l'aiuto della musica, si amplia davanti a noi nella trasparenza così interiormente luminosa di ogni movimento e figura, come se vedessimo nascere il tessuto sul telaio nei suoi movimenti in su e in giù — raggiunge complessivamente un effetto che è al di là di tutti gli effetti artistici apollinei. Nell'effetto complessivo della tragedia il dionisiaco riprende il sopravvento; essa si chiude con un accento che non potrebbe mai risuonare dal regno dell'arte apollinea. E con ciò l'inganno apollineo si mostra per quello che è, cioè come il velo che per tutta la durata della tragedia copre il vero e proprio effetto dionisiaco: che è tuttavia così potente, da spingere alla fine lo stesso dramma apollineo in una sfera dove esso comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e dove nega se stesso insieme alla sua visibilità apollinea. Così si potrebbe effettivamente simboleggiare il complesso rapporto tra l'apollineo e il dionisiaco nella tragedia con un vincolo di fratellanza fra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con ciò è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell'arte in generale. 22. Il mito tragico può essere compreso solo come una simbolizzazione della sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei; esso conduce il mondo dell'apparenza ai limiti, dove esso nega se stesso e cerca nuovamente di rifugiarsi nel grembo dell'unica e vera realtà; dove poi sembra che così intoni, con Isotta, il suo metafisico canto del cigno: Del mar di delizie nel flutto ondeggiante, d'onde vaporose nell'echeggiante suono, del respiro universale nell'alitante tutto — annegare — sprofondare — inconsapevole — gioia suprema! Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV)4. L'individuo dev'esser consacrato a qualcosa di sovrapersonale questo vuole la tragedia; egli deve disimparare la terribile angoscia che la morte e il tempo suscitano nell'individuo: perché già nell'attimo più breve, nel più minuscolo atomo della sua vita può farglisi incontro qualcosa di santo che ripaghi a usura ogni lotta e ogni sofferenza questo significa avere sentimento tragico. E se l'intera umanità dovrà un giorno morire chi potrebbe dubitarne? - ad essa è assegnato, come compito supremo per tutti i tempi avvenire, il fine di concrescere ad unità e comunanza, in modo da andare incontro come un tutto, con sentimento tragico, alla rovina che l'attende; in questo compito supremo è racchiusa ogni possibilità di nobilitazione degli umani; se venisse definitivamente rifiutato, ne risulterebbe il quadro più fosco che un amico degli uomini potrebbe concepire. La gaia scienzaLibro secondo 89. Ora e allora. Che importa tutta la nostra arte, quella che produce le opere d'arte, se abbiamo perduto quell'arte più elevata, l'arte di far festa! Un tempo tutte le opere d'arte erano collocate sulla grande strada della festa dell'umanità, quali monumenti eretti in memoria di momenti elevati e beati. Adesso invece con le opere d'arte si vogliono allettare, tirandole da una parte, le povere creature esaurite e malate sulla grande strada della sofferenza dell'umanità, per un istante di piacere: si offre loro un po' di ebbrezza e di follia. Libro quinto 370. Che cos'è il romanticismo? Ogni arte, ogni filosofia possono essere considerate uno strumento di cura e di aiuto al servizio della vita che cresce e lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma ci sono due specie di sofferenti, quelli che soffrono per la sovrabbondanza della vita, che vogliono un'arte dionisiaca e quindi una visione e una percezione tragica della vita, e quelli che soffrono per l'impoverimento della vita, che con l'arte e la conoscenza cercano la tranquillità, il silenzio, il mare in bonaccia, la liberazione da se stessi, o anche l'ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la follia. Alla doppia esigenza di questi ultimi corrisponde tutto il romanticismo nelle arti e nelle conoscenze... Il più ricco di pienezza vitale, il dio e uomo dionisiaco, può concedersi non solo la vista di quanto incute terrore e dubbi, ma la stessa azione terribile e ogni lusso di distruzione, dissolvimento, annientamento; sembra che il male, l'insensato e il brutto gli siano per così dire permessi, in virtù di una sovrabbondanza di energie creative e feconde in grado di ricavare da ogni deserto una terra fertile. Per contro la persona più sofferente e più povera di vita avrà massimamente bisogno di mitezza, soavità, bontà, nel pensiero e nell'azione, e se possibile di un Dio, che sarebbe davvero un Dio per malati, un «salvatore»; lo stesso dicasi della logica, la comprensione concettuale dell'esistenza - perché la logica tranquillizza, infonde fiducia -, in breve di una certa ristrettezza calda e rassicurante, di un rinchiudersi entro orizzonti ottimistici. Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire295. Il genio del cuore, quale lo ha quel grande occulto, il dio tentatore e l'innato accalappiatore delle coscienze, la cui voce sa scendere fino agli inferi di ogni anima, che non dice una parola, non lancia uno sguardo nel quale non ci sia una considerazione o una piega di seduzione, della cui maestria fa parte il fatto di saper apparire, e non come egli è, ma come un legame in più per coloro che lo seguono, perché si stringano sempre più vicini a lui, per seguirlo sempre più intimamente e interamente: il genio del cuore, che zittisce ogni voce acuta e ogni compiacimento di sé e insegna ad ascoltare, che spiana le anime aspre e fa loro gustare un nuovo desiderio, - di giacere in silenzio, come uno specchio perché si rispecchi in essi il cielo profondo; il genio del cuore, che insegna alla mano goffa e frettolosa ad esitare e ad afferrare delicatamente; che indovina il tesoro nascosto e dimenticato, la goccia di bontà e di dolce spiritualità sotto il ghiaccio opaco e spesso, ed è una verga da rabdomante per ogni granello d'oro che sia rimasto a lungo sepolto nel carcere di molto fango e molta sabbia; il genio del cuore, dal cui contatto ognuno se ne parte più ricco, non graziato e non sorpreso, non come reso felice e oppresso da un bene estraneo, ma più ricco in se stesso, più nuovo di prima, forzato, spiato e sfiorato da un vento del disgelo, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più spezzato, ma pieno di speranze che non hanno ancora nome, pieno di nuova volontà e di un nuovo fluire, pieno di un nuovo risentimento e di un nuovo riflusso... ma cosa dico, amici miei? di chi vi parlo? Ho dimenticato me stesso al punto da non nominarvi neppure il suo nome? a meno che voi non abbiate già indovinato da soli, chi è questo spirito problematico e questo dio, che vuol essere lodato in tal modo. Come succede infatti a chiunque, fin dall'infanzia, sia stato sempre in viaggio e in paesi stranieri, così anch'io ho incontrato molti spiriti singolari e pericolosi durante il cammino, ma soprattutto quello di cui appunto parlavo, sempre ancora lui, niente meno che il dio Dionysos, quel gran dio bivalente e tentatore a cui un tempo, come sapete, ho offerto le mie primizie in gran segreto e con rispetto - l'ultimo, come mi sembra, che gli ha offerto un sacrificio: poiché non ho trovato nessuno che avesse capito ciò che facevo allora. Nel frattempo ho imparato molto, troppo sulla filosofia di questo dio, e come si dice, da bocca a bocca, - io, l'ultimo discepolo e consacrato del dio Dionysos: e potrò pure, alla fine, cominciare una buona volta a farvi assaporare, amici miei, per quanto mi è permesso, un poco di questa filosofia? A mezza voce, naturalmente: poiché si tratta qui di molte cose misteriose, nuove, sconosciute, meravigliose, inquietanti. |