Sull’utilità e il danno della storia per la vita

Considerazioni inattuali II


Il ruolo storico di Nietzsche

9.

A che scopo esiste il «mondo», a che scopo l'«umanità», non ci deve affatto preoccupare, a meno che non ci vogliamo scherzare sopra: poiché la presunzione del piccolo verme umano è veramente la cosa più spassosa e amena sulla scena terrestre; ma la ragione per cui tu, singolo individuo, esisti, questo chiedo io, e se nessuno te lo sa dire, cerca almeno una volta di giustificare a posteriori il senso della tua esistenza, proponendo a te stesso uno scopo, una mèta, un «a questo fine», un alto e nobile «a questo fine». Va pure in rovina per esso — non conosco uno scopo di vita migliore che perire animae magnae prodigus, per il grande e per l'impossibile.

L’uomo come essere naturale

1.

Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell'attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l'uomo poiché egli si vanta, di fronte all'animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello — giacché egli vuole soltanto vivere come l'animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l'animale. L'uomo chiese una volta all'animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L'animale voleva rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire — ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l'uomo se ne meravigliò.

Psicologia e vissuti

1.

Ma egli [l’uomo] si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l'attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e improvvisamente rivòla indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l'animale vive in modo non storico: é esso nel presente è come un numero, senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi essere altro che sincero.

L'uomo, invece, si oppone al peso sempre più grande del passato: questo l'opprime o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso perduto, vedere il gregge che pascola o, in più intima vicinanza, il bambino che non ha ancora niente di passato da rinnegare e gioca in beatissima cecità tra i recinti del passato e del futuro. E tuttavia gli si deve disturbare il gioco: solo troppo presto viene richiamato dal suo oblio. Impara allora a comprendere la parola «c'era», quella parola d'ordine con cui la lotta, la sofferenza e il tedio si avvicinano all'uomo per ricordargli che cos'è in fondo la sua esistenza — qualcosa di imperfetto mai perfettibile.

Quando infine la morte porta l'oblio desiderato, essa sopprime insieme il presente e l'esistenza e imprime così il sigillo su quella conoscenza — che l'esistenza, cioè, è soltanto un essere stato senza interruzioni, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddirsi.

La più piccola felicità, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non storico.

Chi non sa sedersi sulla soglia dell'attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos'è la felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri. Immaginatevi l'esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire: un tale uomo non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più a se stesso, vedrebbe scorrere ogni cosa l'una dall'altra in un movimento di punti e si perderebbe in questa fiumana del divenire: infine, come vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare un dito.

Ad ogni azione occorre l'oblio: come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anche l'oscurità. Un uomo che volesse sentire in tutto e per tutto in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse costretto ad astenersi dal sonno, o all'animale che dovesse vivere soltanto del suo ruminare e di un sempre ripetuto ruminare. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordare, anzi vivere felicemente, come mostra l'animale; ma è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare.

Per determinare questo grado e per mezzo di esso il limite in cui il passato deve essere dimenticato, se non deve divenire il becchino del presente, bisognerebbe sapere precisamente quanto sia grande la forza plastica di un uomo, di un popolo, di una civiltà: parlo di quella forza di crescere su se stessi in modo originale, di trasformare e incorporare ciò che è passato ed estraneo, di risanare le ferite, di sostituire ciò che si è perduto, di rimodellare da sé forme infrante. Vi sono uomini che possiedono così poco questa forza che per una unica esperienza, per un unico dolore, spesso specialmente per un unico lieve torto si dissanguano incurabilmente come per una piccolissima scalfittura sanguinante; d'altra parte ve ne sono tal'altri che sono toccati così poco dalle più violente e orribili sventure della vita e persino dalle azioni della loro stessa malvagità che giungono, in mezzo a tutto ciò o immediatamente dopo, ad un discreto benessere e ad una specie di tranquilla coscienza. Quanto più forti sono le radici dell'intima natura di un uomo, tanto più egli si approprierà del passato o lo sottometterà.

La serenità, la buona coscienza, l'azione felice, la fiducia nel futuro — tutto ciò dipende, nel singolo come nel volgo, dal fatto che vi è una linea che separa ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò che non si può rischiarare e che è oscuro; dal fatto che si sa dimenticare al tempo giusto tanto bene quanto si sa, al tempo giusto, ricordare; dal fatto che con forte istinto si sa avvertire quando è necessario sentire storicamente e quando non storicamente.

2.

Quando l'uomo che vuol creare qualcosa di grande, ha bisogno del passato, se ne appropria attraverso la storia monumentale; chi al contrario desidera perseverare nella consuetudine e nell’anticamente venerato, cura il passato come uno storico antiquario; e solo chi è oppresso da un'angustia presente e vuole liberarsi a ogni costo da questo peso, necessita della storia critica, che cioè esamina e condanna. Il trapiantare piante senza discernimento porta gran danno: il critico senza angustia, l'antiquario senza riverenza, il conoscitore della grandezza senza le capacità della grandezza, sono come tali piante divenute erbacce, rese estranee al loro terreno di origine e quindi imbastardite.

3.

Qui risulta chiaro come abbastanza spesso l'uomo abbia necessariamente bisogno, accanto alla maniera monumentale e antiquaria di trattare il passato, di una terza maniera, quella critica; e anche di questa a servizio della vita. Egli deve possedere e di volta in volta adoperare la forza di rompere e sciogliere un passato, per poter vivere: raggiunge tutto questo, trascinando il passato davanti ad un tribunale, interrogandolo scrupolosamente e infine giudicandolo; ma ciascun passato è degno di venir condannato — poiché così stanno le cose per le faccende umane: in esse l'umana potenza e debolezza sono sempre state dominanti. Non è la giustizia a sedere qui per giudicare; tanto meno è l'indulgenza a pronunciare qui il giudizio: bensì solo la vita, quella potenza oscura, travolgente, insaziabilmente bramosa di sé. La sua sentenza è sempre spietata, sempre ingiusta, perché non è mai emanata da una pura sorgente della conoscenza; ma la sentenza risulterebbe identica nella maggior parte delle situazioni, se la pronunciasse la giustizia stessa.

3.

È sempre un processo pericoloso, pericoloso, cioè, per la vita stessa: e uomini o tempi, che siano al servizio della vita in tal maniera, vale a dire giudicando o annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi e in pericolo. Poiché noi ora siamo i risultati di precedenti generazioni, siamo anche i risultati dei loro smarrimenti, passioni ed errori, anzi crimini; non è possibile liberarsi totalmente da questa catena. Se anche biasimiamo quegli smarrimenti e ce ne consideriamo sottratti, tuttavia non è annullato il fatto che noi proveniamo da essi. Nel migliore dei casi perveniamo ad un contrasto tra la natura ereditaria e ancestrale e la nostra conoscenza, od anche alla lotta di una nuova e severa disciplina e ciò che da tempo è acquisito e innato è conquistato e intrinseco; noi seminiamo una nuova consuetudine, un nuovo istinto, una seconda natura, così che la prima isterilisce. È un tentativo di darsi quasi a posteriori passato da cui si vorrebbe discendere, in opposizione a quello da cui si proviene — un tentativo sempre rischioso, poiché è veramente difficile trovare un termine alla negazione del passato e poiché generalmente le seconde nature sono in genere più gracili delle prime.

4.

Immaginiamoci ora il processo spirituale che con ciò si è determinato nell'anima dell'uomo moderno. Il sapere storico scaturisce sempre di nuovo in ogni direzione da fonti perenni, l'estraneo e lo smembrato fa ressa, la memoria dischiude tutte le sue porte e tuttavia non abbastanza, la natura si affatica più che può per accogliere questi ospiti stranieri, ordinarli e venerarli, ma questi stessi sono in guerra tra loro, e appare necessario domarli e sopraffarli tutti, per non soccombere nella loro lotta. L'abitudine ad un'economia domestica così sconnessa, tempestosa e battagliera si muta pian piano in una seconda natura, benché sia fuori questione che questa seconda natura sia molto più debole, molto più agitata e assolutamente più malsana della prima. Infine l'uomo moderno si trascina dietro una massa enorme di indigeribili pietre del sapere, che poi all'occasione rumoreggiano regolarmente nel corpo, come si narra nella favola. Con questo fracasso si tradisce la caratteristica più propria di quest'uomo moderno: la curiosa opposizione di un interno al quale non fa riscontro nessun esterno, e di un esterno al quale non fa riscontro nessun interno, un'opposizione che i popoli antichi non conoscono. Il sapere che viene raccolto a dismisura senza fame, anzi contro il bisogno, ora non agisce più come motivo trasformatore e incalzante verso l'esterno, ma rimane nascosto in un certo caotico mondo interno, che quell'uomo moderno, con singolare superbia, indica come l'«interiorità» a lui peculiare. Inoltre si dice che si possiede il contenuto e che manca solo la forma; cosa che, per ogni essere vivente, è una opposizione assolutamente innaturale. Per questo motivo la nostra cultura moderna manca di un contenuto vitale, perché non la si può pensare senza questa opposizione, vale a dire essa non è una vera cultura ma solo un sapere di una certa specie intorno alla cultura, essa si arresta solo al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, ma non ne scaturisce una risoluzione di cultura. Ciò che al contrario è realmente motivo e che si manifesta esternamente in forma di azione, spesso non significa molto di più che un'indifferente convenzione, una pietosa imitazione o persino una grossolana smorfia. Allora il sentimento s'acquieta nell'interiorità, simile a quel serpe che ha inghiottito interi conigli e si stende quindi quietamente al sole e si astiene da tutti i movimenti, eccetto i più necessari. Il processo interiore: questo è ora la cosa stessa, questo è la «cultura» vera e propria.

Mistificazione

5.

Colui il quale vuol comprendere, accertare, cogliere come sublime, l'incomprensibile, costui potrà essere detto razionale, ma soltanto nel senso in cui Schiller parla dell'intelletto dei razionali: costui non vede qualcosa che invece il bambino vede, non sente qualcosa che invece il bambino sente; questo qualcosa è proprio il più importante: poiché egli non lo capisce, la sua comprensione è più infantile del bambino e più ingenua della ingenuità — malgrado le molte furbe rughette dei suoi lineamenti incartapecoriti e il virtuosismo delle sue dita nel dipanare il garbuglio. Ciò vuol dire: egli ha annientato e perduto il suo istinto, egli non può più ora, fidando nel «divino animale», lasciar cadere le redini, quando la sua mente vacilla e il suo cammino conduce attraverso deserti. Così l'individuo diventa titubante e incerto e non può più confidare in se stesso: affonda dentro di sé nell'interiorità, vale a dire, in questo caso, nel caotico ammasso delle nozioni apprese che non operano all'esterno, dell'istruzione che non diventa vita. Se ci si sofferma sull'esteriore, si osserva come l'espulsione degli istituti tramite la storia abbia tramutato gli uomini quasi in puri abstracta e ombre: nessuno mette più in pericolo la propria persona, ma ognuno si maschera da persona colta, da dotto, poeta, politico. Se si afferrano tali maschere, con l'idea che si abbia a che fare con qualcosa di serio e non solo con un gioco di marionette — poiché tutti simulano serietà — ci si ritrova all'improvviso tra le mani stracci e pezze variopinte. Perciò non bisogna più lasciarsi ingannare, bisogna ordinare loro: «Toglietevi le giubbe, oppure siate ciò che sembrate!». Chiunque sia serio in modo autentico non deve più trasformarsi in un Don Chisciotte, poiché ha cose più importanti da fare che sottrarsi con simili realtà presunte. Ad ogni modo deve fare molta attenzione, gridare ad ogni maschera il suo «Alt! Chi va là?» e strapparle il travestimento.

Tipologie di carattere
forza/debolezza


5.

Così deve essere compresa e meditata la mia tesi: la storia viene sopportata solo dalle personalità forti, quelle deboli le cancella del tutto. La ragione di ciò sta nel fatto che essa confonde il sentimento e la sensazione, quando questi non sono abbastanza vigorosi da commisurare a sé il passato. Chi non ha più fiducia in sé e involontariamente, per il suo sentire, si consiglia con la storia domandando: «come devo qui sentire?», si trasforma lentamente, per paura, in attore, e recita una parte, nella maggior parte dei casi perfino più parti, rappresentandole quindi tutte male e con superficialità.

Istinto del gregge: Costume, Morale, Diritto

3.

In secondo luogo la storia appartiene a chi custodisce e venera — a chi fedele e amoroso si volge indietro per vedere il luogo dal quale viene, nel quale è divenuto; e con questa riverenza assolve verso la propria esistenza il suo debito di gratitudine. Coltivando ciò che permane delle antiche epoche con molta cura, cerca di mantenere le condizioni nelle quali è nato per coloro che dovranno nascere dopo di lui — e così serve la vita. Il possesso del patrimonio ancestrale muta di significato in una tale anima: infatti essa si lascia da quello padroneggiare. Ciò che è piccolo, limitato, fatiscente e decrepito acquista un suo proprio decoro e intangibilità quando l'anima dell'uomo antiquario, protettrice e venerante trasmigra in queste cose e vi si prepara un nido familiare. La storia della sua città diviene per lui la storia di se stesso; comprende le mura, la porta con le torri, l'ordinanza comunale, la festa popolare come un diario figurato della sua gioventù, trovando, in tutto questo, se stesso, la sua forza, la sua operosità, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e modi sgarbati. Dice a se stesso che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere poiché siamo ostinati, e non è possibile andare in pezzi nel giro d'una notte. Così con questo «noi» guarda oltre l'effimera e stravagante vita individuale e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe, della città. A volte saluta l'anima del suo popolo come la propria anima, superando secoli passati tenebrosi e sconcertanti; infiltrarsi col sentimento, presentire cose confuse, afferrare tracce quasi cancellate, comprendere con precisione e istintivamente il passato ancora tanto coperto di scritture, intendere rapidamente i palinsesti, anzi i polisesti — questi sono i suoi pregi e virtù.

Quando la sensibilità di un popolo si indurisce a tal punto, quando la storia si umilia davanti alla vita passata tanto da scalzare la sopravvivenza e persino la vita superiore, quando il senso storico non conserva più la vita, ma la mummifica, allora l'albero muore in modo innaturale, pian piano seccandosi dalla cima fino alla radice — e alla fine la radice stessa muore. La storia antiquaria degenera nel preciso momento in cui la vita fresca del presente non più la rianima e l'esalta. A questo punto la riverenza si inaridisce, ma anche senza di essa l'abitudine colta seguita ad esistere e ruota intorno al proprio centro con egoistico autocompiacimento. Si nota allora il disgustoso spettacolo di una cieca furia collezionistica, di un infaticabile accumulo di tutto ciò che è esistito una volta. L'uomo si avvolge in un'aria carica di tanfo; riesce con la maniera antiquaria a degradare anche un'attitudine più significativa, un bisogno più nobile, in un'insaziabile curiosità o meglio in una bramosia onnivora del vecchio; spesso sprofonda così in basso, che alla fine è soddisfatto di qualunque cibo e divora volentieri perfino la polvere di quisquilie bibliografiche.

4.

Si genera così l'abitudine a non considerare più seriamente le cose reali, si genera la «personalità debole», stando alla quale il reale, l'esistente procura solo una debole impressione; infine si diventa apparentemente sempre più indolenti e accomodanti e il rovinoso abisso tra contenuto e forma si allarga fino a ottundere la sensibilità per la barbarie, purché la memoria sia sempre di nuovo stimolata, purché vi confluiscano sempre nuove cose che meritino di essere conosciute, che possano essere conservate con garbo nei cassetti di quella memoria. La cultura di un popolo in quanto antitesi di quella di barbarie, una volta è stata definita, con un certo diritto, a mio avviso, come unità di stile artistico in tutte le espressioni vitali di un popolo; questa definizione non deve essere fraintesa, come se si trattasse dell'antitesi tra barbarie e bello stile; il popolo, al quale si attribuisce una cultura, deve soltanto, in ogni realtà, essere qualcosa di vivamente unico, e non scindersi in modo così miserevole in esterno e interno, in contenuto e forma. Chi vuol fondare e promuovere la cultura di un popolo, miri a fondare e a promuovere questa superiore unità e si adoperi per l'annientamento dell'erudizione moderna a vantaggio di una vera cultura, osi meditare sul modo con cui la salute di un popolo, turbata dalla storia, possa essere ristabilita, su come esso possa ritrovare i suoi istinti e con ciò la sua lealtà.

5.

Comunque si direbbe che il compito sia di controllare la storia perché non ne scaturisca nulla se non delle storie appunto, ma nessun evento! — di evitare che attraverso di essa le personalità divengano «libere», ossia veraci con se stesse, veraci verso gli altri, o per meglio dire nella parola e nell'azione. Solo con questa veracità si sveleranno le angustie, l'intima miseria dell'uomo moderno, e sostituendo quella convenzione e quella mascherata timorosamente nascoste, subentreranno, come vere ausiliatrici, arte e religione, per impiantare insieme una cultura che soddisfi vere necessità e che non insegni soltanto, come la cultura generale moderna, a mentire a se stessi su questi bisogni e a divenire menzogne ambulanti.

8.

Io direi dunque: la storia inculca sempre: «C'era una volta», e la morale: «Non dovete» oppure «non avreste dovuto». Così la storia diventa il compendio dell'effettiva immoralità. Quanto gravemente sbaglierebbe colui che vedesse la storia allo stesso tempo come giustiziera di questa effettiva immoralità! Il fatto che un Raffaello dovette morire a trentasei anni, ad esempio, offende la morale: un tale essere non dovrebbe morire. Se ora volete venire in aiuto della storia, come apologeti del dato di fatto, direte: egli ha espresso tutto ciò che era in lui; se fosse vissuto più a lungo avrebbe potuto creare il bello sempre soltanto come un bello uguale, non come un bello nuovo e così via. Così siete gli avvocati del diavolo, per il fatto cioè, che fate del successo, del fatto, il vostro idolo: mentre il fatto è sempre sciocco e in tutti i tempi è apparso più simile ad un vitello che ad un Dio. Come apologeti della storia, inoltre, siete ispirati dall'ignoranza: poiché soltanto per il fatto che ignorate cosa sia una tale natura naturans come Raffaello, non vi infervora sapere che essa fu e non sarà più. Recentemente qualcuno ci ha voluto ammaestrare su Goethe raccontandoci che a ottantadue anni la sua vita era esaurita: e tuttavia io baratterei volentieri per un paio d'anni della vita «esaurita» di Goethe interi vagoni di carriere vitali fresche e modernissime, per prendere ancora parte a conversazioni come quelle che Goethe aveva con Eckermann, e per rimanere preservato, in questo modo, da tutti gli addottrinamenti attuali impartiti dai legionari dell'istante. Quanti pochi viventi, hanno diritto a vivere di fronte a tali morti! Il fatto che i molti vivano e che quei pochi non vivano più non è altro che una brutale verità, vale a dire una incorreggibile stupidaggine, un grossolano «è proprio così» di fronte alla morale «non dovrebbe essere così».

9.

Accanto all'orgoglio dell'uomo moderno sta la sua ironia su se stesso, la sua consapevolezza di dover vivere in uno stato d'animo storicizzante e per così dire crepuscolare, la sua paura di non poter assolutamente in futuro salvare più nulla delle sue speranze e forze giovanili. Qua e là si va ancora più avanti, fino al cinismo e si giustifica il corso della storia, anzi tutto lo sviluppo del mondo, per la specifica comodità dell'uomo moderno, secondo il canone cinico: proprio così dovevano andare le cose, come vanno ora, l'uomo doveva diventare così come è ora e non diversamente e contro questo «deve» non si può ribellare nessuno. Nel benessere di un simile cinismo si rifugia colui che non può vivere nell'ironia;

Sull’educazione

10.

L'educazione tedesca della gioventù prende avvio proprio da questo falso e sterile concetto della cultura: la sua mèta, vista in modo particolarmente puro ed elevato, non è affatto il libero uomo colto, ma il dotto, l'uomo di scienza e cioè l'uomo di scienza che sia utilizzabile il più presto possibile, che si pone in disparte rispetto alla vita per riconoscerla il più chiaramente possibile; il suo risultato, visto in modo particolarmente empirico e comune, è il filisteo storico-estetico della cultura, il saccente e aggiornato chiacchierone che disquisisce sullo Stato, sulla chiesa e sull'arte, il sensorio per mille specie di sensazioni, lo stomaco insaziabile che ciononostante ignora che cosa siano una vera fame e sete. Che una educazione con quella meta e con quel risultato sia una educazione contronatura, lo sente solo colui che non si è ancora formato completamente in essa, lo sente solo l'istinto della gioventù, perché essa ha ancora l'istinto della natura, che viene spezzato solo artificialmente e violentemente da tale educazione. Chi però vuole a sua volta infrangere tale educazione, deve aiutare la gioventù a parlare, deve illuminare con la chiarezza dei concetti la sua inconscia opposizione e deve fare di questa una coscienza che sia realmente tale e che parli ad alta voce. Ma come potrà raggiungere una mèta così inconsueta? —

Prima di tutto distruggendo una superstizione, la fede nella necessità di quell'operazione educativa. Infatti si pensa che non esista alcun'altra possibilità al di fuori di questa nostra realtà di oggi sommamente meschina. Si esamini la letteratura sulla istruzione ed educazione superiore degli ultimi decenni: chi lo farà, si accorgerà con sua spiacevole sorpresa quanto uniformemente in tutte le oscillazioni delle proposte, in tutta la veemenza delle contraddizioni, venga considerata l'intenzione complessiva dell'educazione, con quanta faciloneria il risultato fino ad oggi ottenuto, l'«uomo colto» come viene oggi inteso, sia stato assunto a fondamento necessario e razionale di ogni ulteriore educazione, Quel monotono canone suonerebbe a un dipresso così: il giovane deve iniziare con un sapere sulla cultura, non con un sapere sulla vita e ancora meno con la vita e con l'esperienza stessa. E invero questo sapere sulla cultura viene riversato o inculcato nel giovane come un sapere storico; vale a dire la sua testa viene riempita di un'enorme quantità di concetti, tratti dalla conoscenza estremamente mediata, dei tempi e dei popoli passati, non già dalla intuizione immediata della vita. Il suo desiderio di sperimentare qualche cosa da se stesso e di sentire crescere in se stesso un sistema di esperienze proprie coerentemente vivo — un tale desiderio viene intorpidito e per così dire reso ebbro mediante il bel miraggio che sia possibile assommare in sé, in pochi anni, le massime e le più significative esperienze dei tempi antichi, e proprio dei tempi più importanti.

Religione

8.

Una religione che ritiene l'ultima fra tutte le ore della vita umana come la più importante, che profetizza una fine della vita sulla terra e condanna gli esseri viventi a vivere nel quinto atto della tragedia, certamente stimola le forze più profonde e nobili, ma è ostile ad ogni nuova coltivazione, a ogni ardito esperimento, a ogni libero desiderio; si oppone a qualsiasi volo nell'ignoto, perché là non esiste amore, né speranza per lei: malvolentieri essa si lascia imporre ciò che diviene, per rimuoverlo o sacrificarlo al momento giusto, questa seduzione ad esistere, questa trama di menzogne sul valore dell'esistenza.

L’uomo comune

9.

Si continui pure a preparare queste creazioni, a scrivere la storia dal punto di vista delle masse e a cercare in essa quelle leggi che si possono dedurre dai bisogni di queste masse, cioè le leggi del movimento degli strati più bassi di creta e di argilla della società. Solo per tre aspetti mi sembra che le masse meritino uno sguardo: primo, perché copie sbiadite di grandi uomini, fatte su carta cattiva e con lastre logore, secondo, come ostacolo ai grandi, e infine come strumento dei grandi; per il resto, se le prenda il diavolo e la statistica!

Individuazione

6.

Tracciate intorno a voi la siepe di una speranza grande e vasta, di una aspirazione piena di speranza. Formate in voi un'immagine alla quale deve corrispondere il futuro e dimenticate la superstizione di essere epigoni. Voi avete abbastanza da architettare e da inventare, mentre riflettete su quella vita futura; ma non chiedete alla storia che essa vi indichi il come e il mezzo. Se invece vi identificherete nella storia dei grandi uomini, imparerete da essa un supremo comandamento, quello di diventare maturi e di sfuggire al paralizzante incantesimo dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel fatto di non farvi diventare maturi, per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, non siano quelle con il ritornello «Il Signor Tal dei Tali e il suo tempo», bensì quelle sul cui frontespizio dovrebbe essere scritto «Un lottatore contro il suo tempo».

10.

Questa è una parabola per ognuno di noi: ognuno deve organizzare in sé il caos, concentrandosi sulle sue vere esigenze. La sua onestà, il suo carattere gagliardo e verace deve, un giorno o l'altro, volgersi contro il fatto che sempre e soltanto si ripeta, si impari da altri e si imiti; comincerà allora a comprendere che la cultura può essere anche qualcosa di diverso da una decorazione della vita, è, in fondo, sempre e soltanto simulazione e mascheramento; poiché ogni ornamento nasconde ciò che è ornato.

Spiriti liberi e Superuomo

6.

Quindi: l'uomo superiore e di vasta esperienza scrive la storia. Chi non ha vissuto qualcosa di più grande e di più alto di tutti non saprà neanche interpretare nulla di grande e di alto del passato. La sentenza del passato è sempre una sentenza da oracolo: la comprenderete soltanto come architetti del futuro, come sapienti del presente.

Genialità

4.

Per quanto il giudizio e il gusto dei singoli possano essere diventati qua e là più delicati e più sublimati — ciò non compensa il genio fecondo: lo tormenta il dover parlare quasi solo ad una setta e di non essere più necessario all'interno del suo popolo. Forse ora sotterra il suo tesoro più volentieri, poiché prova ripugnanza nell'essere presuntuosamente appoggiato da una setta, mentre il suo cuore è colmo di compassione verso tutti. L'istinto del popolo non lo soccorre più; è inutile stendergli le braccia nostalgicamente. Cosa gli rimane ancora se non rivolgere il suo vivo rancore contro quell'incantesimo che lo inibisce, contro gli ostacoli costruiti nella cosiddetta cultura del suo popolo, per condannare quale giudice almeno ciò che è annientamento e avvilimento per lui, vivente e generante vita: così baratta la profonda cognizione del suo destino con il divino piacere del creatore e del benefattore, e termina la sua esistenza come solitario sapiente, come disgustato saggio.

Filosofi, Filosofia e Conoscenza

1.

Come colui che opera è, secondo la definizione di Goethe, sempre privo di coscienza morale, così è sempre anche privo di sapere; dimentica la maggior parte delle cose, per fare una cosa sola, è ingiusto verso ciò che si trova dietro di lui, e conosce solo un diritto, il diritto di ciò che deve ora divenire. Perciò chiunque è attivo ama la propria azione molto più di quanto essa meriti di venir amata: e le migliori azioni avvengono in una tale esondanza d'amore, che devono comunque essere immeritevoli di tale amore, anche nel caso che il loro valore fosse per altri aspetti immensurabilmente grande.

5.

Ogni filosofare moderno è politico e poliziesco, limitato da governi, chiese, accademie, costumi e viltà degli uomini ad un'apparenza erudita; ci si ferma al sospiro: «Se invece» o alla conoscenza: «C'era una volta». La filosofia non ha diritti all'interno della cultura storica, ove voglia essere di più che un sapere senz'azione, fatto retrocedere nell'interiorità; basterebbe che l'uomo moderno fosse coraggioso e sicuro, che non fosse, anche nei suoi rancori, solo un essere interiore: la proscriverebbe; si accontenta invece di ricoprirne pudibondo le nudità. Invero si pensa, si scrive, si stampa, si parla, si insegna filosoficamente — fin qui è consentito quasi tutto; solo nell’agire, nella cosiddetta vita è diverso: qui è consentita sempre una sola cosa, e ogni altra è semplicemente impossibile: questo richiede la cultura storica. Ci si domanda, allora: sono questi ancora uomini o semplicemente macchine pensanti, scriventi, parlanti?

Storia, Politica, Economia, Classi sociali

Prefazione

Certamente noi abbiamo bisogno di storia, ma in modo diverso di come ne ha bisogno il raffinato indolente nel giardino del sapere, anche se costui potrebbe guardare dall'alto i nostri duri e rozzi bisogni e necessità. Cioè, noi ne abbiamo bisogno per la vita e per l'azione, non per un comodo voltar le spalle alla vita e all'azione, o addirittura per dare un abbellimento alla vita egoistica e all'azione vile e cattiva. Noi vogliamo servire la storia nei limiti in cui essa serve la vita: ma vi è un grado di fare storia e una valutazione della stessa, in cui la vita deperisce e degenera: un fenomeno che è oggi necessario esperire sulla base dei rimarchevoli sintomi del nostro tempo, nella stessa misura in cui può essere doloroso.

1.

La storia, intesa come pura scienza e diventata sovrana, significherebbe una specie di chiusura e di bilancio della vita per l'umanità. Invece l'educazione storica è qualcosa di benefico e che dà speranza per il futuro solo in conseguenza di un forte e nuovo flusso vitale, per esempio di una cultura in divenire, cioè solo quando viene dominata e guidata da una forza superiore, e non quando essa stessa domina e guida.
La storia, fintantoché è al servizio della vita, è al servizio di una forza non storica e così, in tale dipendenza, non potrà né dovrà mai divenire pura scienza, come per esempio è la matematica. Ma la domanda fino a che punto la vita necessiti in generale della storia, è uno dei problemi e delle apprensioni massime in ordine alla salute di un uomo, di un popolo, di una cultura. Poiché, con un certo eccesso di storia, si sfalda e degenera la vita, e, a causa di questa degenerazione, alla fine anche la storia stessa.

2.

Che la vita necessita della storia deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la tesi, che dovrà più oltre essere dimostrata — che un eccesso di storia danneggia l'essere vivente. La storia compete al vivente sotto tre aspetti: lo riguarda, quale essere attivo e che ha aspirazioni, quale essere che conserva e venera, quale sofferente e bisognoso di liberazione. A questa triplicità di rapporti corrisponde una triplicità di tipi di storia: nel senso che è permesso distinguere una specie di storia monumentale, una antiquaria ed una critica.
La storia appartiene innanzitutto all'essere attivo e possente, a colui che combatte una grande battaglia, che abbisogna di modelli, maestri e consolatori e non può trovarli tra i suoi compagni e nel tempo presente.

Quale vantaggio ricava dunque l'uomo attuale dalla monumentale considerazione del passato, dall'occuparsi delle cose classiche e non comuni dei tempi precedenti? Egli ne arguisce che la grandezza, un giorno esistente, un tempo fu comunque possibile e perciò sarà anche possibile di nuovo; egli percorre più coraggioso il suo cammino, poiché ora è sgominato il dubbio, che lo afferra nelle ore di maggior debolezza, se per caso egli non cerchi l'impossibile.

6.

Come se il compito di ogni tempo fosse quello di dover essere giusti verso tutto ciò che un tempo fu. Tempi e generazioni non hanno mai ragione di erigersi a giudici di tutti i tempi e di tutte le generazioni passate: ma sempre e solo ai singoli e per la verità ai più rari spetta una così scomoda missione. Chi vi costringe a giudicare? Esaminate solo se potreste essere giusti, nel caso voleste esserlo! Come giudici dovreste stare più in alto di colui che deve essere giudicato; mentre voi siete solo venuti più tardi. Gli ospiti che giungono a tavola per ultimi devono giustamente avere gli ultimi posti: e voi volete avere i primi? Se è così, fate per lo meno ciò che è più alto e più grande; allora forse vi si farà veramente posto, anche se arrivate per ultimi.

9.

Un gigante grida all'altro il suo richiamo attraverso le desolate distanze dei tempi e continua, indisturbato dai nani petulanti e chiassosi che strisciano sotto di loro, l'alto colloquio degli spiriti. Il compito della storia è di essere la mediatrice tra questi e di fornire sempre nuove occasioni e forza per la generazione di ciò che è grande. No, la mèta dell'umanità non può trovarsi alla fine, ma solo nei suoi più alti esemplari.
Voi potete interpretare il passato solo con la più alta forza del presente: nella più forte tensione delle vostre più nobili qualità coglierete ciò che nel passato è grande e degno di essere noto e custodito.