L’uomo come essere naturale
6.
Il procedimento della natura ha l'aspetto di uno spreco; tuttavia non è lo spreco di una oltraggiosa abbondanza, ma dell'inesperienza; si deve ammettere che se essa fosse un uomo non riuscirebbe a superare la stizza per sé e per la propria inettitudine. La natura scaglia il filosofo tra gli uomini come una freccia, non prende la mira, ma spera che la freccia rimanga infissa da qualche parte. Moltissime volte però si sbaglia e se ne indispettisce. Con lo stesso spreco si comporta nel campo della cultura, come nel piantare e seminare. Adempie ai suoi scopi in un modo generico e goffo, sacrificando in ciò troppe energie.
Coscienza e inconscio
1.
Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l'uomo conoscersi? E’ una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli l'uomo può toglierne sette volte settanta e neppure allora potrà dire: «questo ora sei realmente tu, non è più scorza». Inoltre, scavare se stessi in questo modo e sprofondare così per la via più diretta nel pozzo della propria esistenza, è un inizio tormentoso e azzardato. Con che facilità ci si possono produrre così delle ferite che nessun medico può sanare.
5.
Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che le più vaste imprese della nostra vita vengono realizzate solo per sfuggire al nostro vero compito, e che volentieri nasconderemmo da qualche parte la nostra testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse coglierci; che, frettolosamente, doniamo il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla socievolezza o alla scienza soltanto per non possederlo più, e che ci abbandoniamo al pesante lavoro quotidiano con più impeto e sconsideratezza di quanto non sia necessario per vivere: perché ci sembra più necessario non giungere alla riflessione. Generale è la fretta perché ciascuno è in fuga da se stesso, generale è anche il pavido nascondere questa fretta, perché si vorrebbe apparire contenti e ingannare gli osservatori più acuti circa la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole, adornata delle quali la vita dovrebbe ricevere un po' di clamore e solennità. Ognuno di noi conosce quella particolare condizione in cui, improvvisamente, ricordi spiacevoli si affollano e noi ci sforziamo, con gesti e suoni violenti, di scacciarli dalla mente: ma i gesti e i suoni della vita comune lasciano indovinare che noi tutti ci troviamo sempre in una condizione del genere, nel timore del ricordo e dell'interiorizzazione. Ma cos'è che ci aggredisce così spesso, quale zanzara non ci lascia dormire? Intorno a noi c'è un'atmosfera spettrale, ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma noi non vogliamo ascoltare queste voci di fantasmi.
Temiamo, quando siamo soli e in silenzio, che qualcosa ci venga bisbigliato all'orecchio e così odiamo il silenzio e ci stordiamo con la vita in società. Di tanto in tanto, come ho detto, capiamo tutto questo e ci meravigliamo molto di tutta la vertiginosa paura e furia, di tutta la condizione di sogno della nostra vita, che sembra aver orrore del risveglio e che sogna con tanta più vivacità e inquietudine quanto più si avvicina a questo risveglio. Ma allo stesso tempo sentiamo di essere troppo deboli per sopportare a lungo quei momenti del più profondo raccoglimento e di non essere mai quegli uomini, verso cui tutta la natura tende per la sua redenzione; già è molto se, in qualche modo, riusciamo a emergere un po' con la testa e ci accorgiamo in quale corrente siamo profondamente immersi. Ma anche questo non ci riesce con la nostra propria forza questo emergere e svegliarsi per un fugace momento dobbiamo bensì essere sollevati e chi sono coloro che ci sollevano?
Sono quei veri uomini, quei non-più-bestie, i filosofi, gli artisti e i santi; al loro apparire e per il loro apparire, la natura, che non fa mai salti, fa il suo unico salto e cioè un salto di gioia, perché per la prima volta si sente vicina alla mèta, là dove, cioè, intende che deve disimparare ad avere mete, e che ha giocato troppo alto il gioco della vita e del divenire.
Psicologia e vissuti
2.
Un'atmosfera scura e tetra aleggia anche intorno alle personalità migliori della nostra epoca, un'eterna scontentezza per la lotta tra ipocrisia e lealtà che si combatte nel loro petto, una irrequietezza nel confidare in se stessi per tutto questo non possono assolutamente più essere guide e allo stesso tempo maestri severi per gli altri.
3.
Così un inglese moderno descrive il pericolo più comune per uomini, straordinari, che vivano in una società legata a ciò che è banale: «Questi strani caratteri dapprima si piegano, poi si immalinconiscono, quindi si ammalano e, infine, muoiono. Uno Shelley non avrebbe potuto vivere in Inghilterra, e una razza di Shelley non sarebbe stata possibile». I nostri Hölderlin e Kleist e tanti altri, perirono per la loro straordinarietà e non sopportarono il clima della cosiddetta cultura tedesca; solo nature di ferro come Beethoven, Goethe, Schopenhauer e Wagner sono capaci di non cedere. Ma anche in loro, si mostra l'effetto della lotta e dello spasimo più defatigante in molti tratti e rughe: il loro respiro si appesantisce, e il tono della voce diventa con facilità troppo violento. Un esperto diplomatico, che aveva visto Goethe e parlato con lui solo di sfuggita, disse: « Voilà un homme, qui a eu des grands chagrins!» tradotto da Goethe con la frase: «ecco qua un altro che si è reso la vita dura! ». «Se nei tratti del nostro viso egli aggiunge non si può cancellare il segno della sofferenza superata, dell'attività svolta, non c'è da meravigliarsi se tutto ciò che rimane di noi e delle nostre aspirazioni porta la stessa traccia.» E questo è Goethe, che i nostri filistei della cultura indicano come il più felice dei Tedeschi, per provare, così, che doveva pur essere possibile una vita felice tra loro con il pensiero recondito che non si deve perdonare a nessuno che, tra loro, si senta infelice e solo. Pertanto, con massima crudeltà, hanno posto e spiegato praticamente l'assioma, secondo cui, in ogni isolamento, ci sarebbe sempre una colpa segreta.
Egli [Schopenhauer] ci insegna a distinguere tra le fonti reali e quelle illusorie della felicità umana: come né l'arricchirsi, né l'essere onorati, né l'essere dotti possa sollevare il singolo dalla amarezza per la mancanza di valore della propria esistenza, e come, invece, l'aspirazione a questi beni abbia senso solo se inserita in uno scopo globale superiore e trasfigurante: conquistare potere per aiutare con esso la physis, correggendone un po' le follie e goffaggini. Dapprima certo ancora per se stessi soltanto; ma attraverso se stessi, infine, per tutti. E un'aspirazione questa che certo porta, nel profondo del cuore, alla rassegnazione: che cosa, infatti, e di quanto, può ancora esser migliorato sia nel singolo che nel generale!
Qua e là si incontra qualcuno dotato per natura di sguardo acuto, i suoi pensieri seguono volentieri il doppio andamento dialettico: quanto è facile allora, se abbandona imprudentemente le redini al proprio talento, che come uomo vada in rovina e conduca una vita quasi da fantasma nella «pura scienza»; o che, abituato a ricercare nelle cose il pro e il contro, si smarrisca completamente di fronte alla verità e debba, quindi, vivere senza coraggio e senza fiducia, nella negazione e nel dubbio, in uno stato d'animo corrosivo, scontento, in una mezza speranza, e nell'attesa della delusione: «neanche un cane potrebbe vivere a lungo così!». Il terzo pericolo è l'irrigidimento nella morale e nell'intelletto: l'uomo lacera il vincolo che lo legava al suo ideale, smette di essere fecondo in questo o in quel campo, smette di trapiantarsi; diventa, ai fini della cultura, gracile e inutile. L'unicità del suo essere è divenuto atomo indivisibile, incomunicabile, fredda pietra.
E così è possibile andare in rovina per la propria unicità come per la paura di essa, per se stesso o per la rinuncia a se stesso, per l'anelito e per l'irrigidimento: e vivere, in generale, significa essere in pericolo.
Se ogni grande uomo, di preferenza, è considerato proprio come l'autentico figlio del suo tempo e comunque soffre di tutti i suoi malanni con maggiore intensità e sensibilità di tutti gli altri uomini più piccoli la lotta di un tale grande contro la sua epoca è solo apparentemente una battaglia insensata e deleteria contro se stesso. Ma appunto solo apparentemente; poiché nel suo tempo egli combatte ciò che gli impedisce di essere grande, e ciò in lui non significa altro che essere liberamente e completamente se stesso.
Ne consegue che la sua inimicizia in fondo è indirizzata contro ciò che è sì in lui stesso, ma che però non è propriamente lui stesso, cioè contro l'impuro mescolarsi e coesistere di ciò che è immescolabile e non unificabile in eterno, contro la falsa saldatura dell'attuale al suo inattuale; e alla fine il presunto figlio si rivela figliastro del suo tempo.
3.
Su questa terra si può trovare e raggiungere qualcosa di più alto e più puro di una simile vita attuale e che chiunque giudichi e conosca l'esistenza solo sulla base di questa odiosa forma, le fa una amara ingiustizia.
4.
Da un secolo siamo preparati a vere e proprie scosse dalle fondamenta; e se di recente si è cercato di contrapporre a questa profondissima tendenza moderna a rovinare o a esplodere, la forza costitutiva del cosiddetto Stato nazionale, anche questo, per molto tempo ancora, non sarà altro che un incremento alla insicurezza e alla minaccia generale.
Che i singoli si comportino come se non sapessero nulla di queste angosce, non ci induce in errore: la loro inquietudine è testimonianza di quanto invece ne siano pienamente consapevoli; essi pensano a se stessi con una furia ed una esclusività con cui mai degli uomini hanno pensato a se stessi. essi costruiscono e piantano per il loro giorno, e la caccia alla felicità non potrà mai essere più grande di quando dev'essere afferrata tra l'oggi e il domani: perché dopo domani, forse, la stagione della caccia sarà definitivamente chiusa. Noi viviamo l'epoca degli atomi, del caos atomistico.
4.
Chi intende la propria vita solo come un punto nello sviluppo di una generazione o di uno Stato o di una scienza e vuole, quindi, appartenere completamente al racconto del divenire, alla storia, non ha compreso la lezione impartitagli dell'esistenza e deve impararla un'altra volta. Questo eterno divenire è un ingannevole teatrino di marionette, per il quale l'uomo dimentica se stesso; è la vera e propria distrazione che disperde l'individuo a tutti i venti, l'infinito e sciocco gioco che il tempo, grande fanciullo, gioca davanti a noi e con noi. L'eroismo della veridicità consiste dunque nello smettere un giorno di essere il giocattolo del tempo. Nel divenire tutto è vuoto, ingannevole, piatto e degno del nostro disprezzo; l'enigma che l'uomo deve sciogliere, lo può risolvere solo partendo dall'essere, nell'essere così e non in altro modo, in ciò che non è soggetto al trapasso. Ora egli comincia a esaminare in quale misura sia concresciuto con il divenire, e in quale misura con l'essere un compito immane si erge davanti alla sua anima: distruggere tutto ciò che diviene, portare alla luce tutto ciò che vi è di falso nelle cose.
L'uomo eroico disprezza il suo benessere o il suo malessere, le sue virtù e i suoi vizi e comunque il misurare le cose su se stesso; da se stesso non si aspetta più nulla e in tutte le cose vuole penetrare con lo sguardo fino a raggiungere questo fondo privo di speranza.
La sua forza è nel dimenticare se stesso; e se si ricorda di sé, misura la distanza tra il suo sommo fine e se stesso, ed è come se vedesse dietro e sotto di sé un meschino ammasso di scorie. Gli antichi pensatori cercarono con tutte le loro forze la felicità e la verità ma mai l'uomo troverà ciò che è costretto a cercare, così suona il malvagio principio della natura.
Ma per chi cerca in tutte le cose la non verità e volontariamente si fa compagno dell'infelicità, si prepara forse un altro miracolo della delusione: qualcosa di indicibile, di cui felicità e verità non sono che idolatriche imitazioni, gli si avvicina, la terra perde la sua gravità, gli eventi e le forze della terra diventano elementi di un sogno come nelle sere di estate, intorno a lui tutto si trasfigura. Per chi sta a osservare è come se proprio allora cominciasse a svegliarsi, come se ancora le nubi di un sogno che si dilegua giocassero intorno a lui. Ma anche queste saranno dissipate: e allora sarà giorno.-
5.
Gli uomini più profondi hanno sempre provato compassione per gli animali, perché essi soffrono della vita e tuttavia non possiedono la forza di volgere contro se stessi l'aculeo della sofferenza e intendere la propria esistenza metafisicamente.
Essere così ciecamente e stoltamente attaccati alla vita, senza alcuna prospettiva di un premio superiore, ben lontani dal sapere che così si è puniti e perché, bensì anelare a questa pena, come a una felicità con la stoltezza di una orribile brama questo significa essere una bestia; e se è vero che tutta la natura tende all'uomo, essa così ci fa capire che l'uomo è necessario alla sua liberazione dalla condanna della vita bestiale e che, infine, l'esistenza in lui ha dinanzi a sé uno specchio, sul cui fondo la vita non appare più senza senso, ma in tutto il suo significato metafisico. Riflettiamo dunque: dove finisce la bestia e dove comincia l'uomo? Quell'uomo che solo importa alla natura! Finché si aspira alla vita come a una felicità, non si è ancora sollevato lo sguardo al di sopra dell'orizzonte della bestia, si vuole soltanto con maggiore consapevolezza ciò che la bestia cerca spinta da cieco istinto. Ma così succede a noi tutti per la maggior parte della vita: in genere non usciamo dalla bestialità, noi stessi siamo le bestie che sembrano soffrire senza senso. Ci sono momenti, però, in cui ce ne rendiamo conto: allora le nuvole si squarciano e vediamo come, insieme con la natura, tendiamo verso l'uomo, come verso qualcosa che è al di sopra di noi. Rabbrividendo, in quell'improvviso chiarore ci guardiamo indietro e intorno: là corrono le raffinate bestie da preda e noi in mezzo a loro. L'immenso agitarsi degli uomini sul grande deserto della terra, il loro fondare città e Stati, il loro guerreggiare, il loro instancabile adunarsi e disperdersi, il loro correre confusamente, il loro apprendere l'uno dall'altro, il loro reciproco ingannarsi e calpestarsi, il loro gridare nella disgrazia e il loro ululare di gioia nella vittoria tutto è continuazione della bestialità: come se l'uomo dovesse intenzionalmente essere educato alla rovescia ed essere defraudato della sua disposizione metafisica, come se anzi la natura, dopo aver desiderato e lavorato tanto a lungo per l'uomo, adesso si ritiri tremante da lui e preferisca ritornare all’inconsapevolezza dell’istinto.
Sapersi come un frutto sull'albero che per la troppa ombra non potrà mai maturare e vedere davanti a sé, vicinissimo, il raggio del sole, di cui si ha bisogno!
E così, infine, la natura ha bisogno del santo, in cui l'io è completamente fuso e la cui vita sofferente non è più, o non è quasi più avvertita individualmente, bensì come un profondo sentimento di eguaglianza, partecipazione e unità con tutto ciò che è vivente: del santo nel quale si manifesta quel miracolo della metamorfosi, che il gioco del divenire non coglie mai, quel finale, supremo processo di umanizzazione a cui tutta la natura tende e incalza, per la sua redenzione da se stessa. Non c'è dubbio, tutti noi siamo affini e legati col santo così come lo siamo col filosofo e coll'artista; vi sono momenti e quasi scintille del più limpido amoroso fuoco, alla cui luce non intendiamo più la parola «io»; al di là del nostro essere c’è qualcosa che in quei momenti diventa un al di qua e perciò dal più profondo del cuore noi bramiamo il ponte tra qui e là.
Mistificazione
4.
L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità, e questo soffrire gli serve a uccidere la sua propria volontà e preparare così quel completo capovolgimento e rovesciamento del suo essere, il cui raggiungimento è il senso vero e proprio della vita. Questo affermare francamente la verità appare agli altri uomini come un effetto della malvagità, poiché essi considerano un dovere dell'umanità conservare le loro sciocchezze e le loro bubbole e pensano che si debba essere malvagi per distruggere così i loro giocattoli. A un tale uomo essi sono tentati di gridare ciò che Faust dice a Mefistofele: «Ecco tu opponi il freddo pugno del diavolo alla potenza sempre viva e salutarmente creatrice»; e chi invece volesse vivere schopenhauerianamente, somiglierebbe forse di più a un Mefistofele che a un Faust proprio per i più deboli occhi moderni, che nella negazione vedono sempre il marchio del maligno.
Istinto del gregge: Costume, Morale, Diritto
1.
Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde.
Ma cosa costringe il singolo a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggioranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata.
3.
La «verità» però di cui i nostri professori tanto parlano, in realtà ci appare come un qualcosa senza grandi pretese, da cui non c'è da aspettarsi né disordini né cose straordinarie: una creatura tranquilla e benevola che si affanna a rassicurare tutti i poteri esistenti che nessuno, a causa sua, avrà dei fastidi; in fondo non è che «pura scienza».
4.
Ora quasi tutto sulla terra è determinato dalle forze più rozze e peggiori, dall'egoismo degli affaristi e dai tiranni militari. Lo Stato, nelle mani di questi ultimi così come l'egoismo degli affaristi fa certo il tentativo di riorganizzare tutto di sua iniziativa ed essere, quindi, vincolo e pressione per tutte quelle forze ostili: desidera, cioè, che gli uomini abbiano verso di lui la stessa idolatria che prima riservavano alla Chiesa. Ma con quale successo? E’ ancora da vedersi; ancora ci troviamo in ogni caso nella corrente trascinatrice di ghiacci del Medioevo; è cominciato il disgelo e un violento movimento devastatore ha avuto inizio.
Lastre di ghiaccio precipitano su lastre di ghiaccio, tutte le rive sono inondate, minacciate.
Socialità
(amore, amicizia, compassione, ostilità, volontà di potenza)
3.
Chi ha veri amici non sa cosa sia la vera solitudine, anche se tutto il mondo intorno a lui gli fosse ostile -.
6.
E' difficile porre qualcuno in questa condizione di intrepida autoconoscenza, perché è impossibile insegnare l'amore: solo nell'amore infatti l'anima acquista, non solo quello sguardo chiaro, analizzatore e sprezzante per se stessa, ma anche quella brama di guardare oltre sé e cercare con tutte le energie un se stesso superiore, ancora nascosto da qualche parte.
Sull’educazione
1.
I tuoi veri educatori e formatori ti svelano il senso originario e la materia fondamentale del tuo essere, qualcosa che non si può assolutamente educare né formare, ma in ogni caso di difficile accesso, perché legato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere nient'altro che i tuoi liberatori. E questo è il segreto di ogni formazione: essa non dà membra artificiali, nasi di cera, occhi occhialuti doni che solo la falsa immagine dell'educazione può dare. Essa è vera liberazione, rimozione di tutte le erbacce, rifiuti e parassiti che minacciano i delicati semi delle piante, è emanazione di luce e di calore, tenero scroscio di pioggia notturna, essa è imitazione e venerazione della natura, quando questa si mostra materna e misericordiosa, e ne è perfezionamento, quando ne previene gli attacchi terribili e spietati volgendoli al bene, quando stende un velo sulle manifestazioni del suo animo matrigno e della sua triste follia.
Certo esistono altri mezzi per ritrovarsi, per rinvenire dall'intontimento in cui, come in una fosca nube, si vive normalmente: io però non conosco nulla di meglio che ricordarsi dei propri educatori e formatori.
2.
Quando un tempo mi abbandonavo, a mio piacimento, ai desideri, pensavo che il destino mi avrebbe esonerato dalla tremenda fatica e dal dovere di autoeducarmi purché trovassi, al momento giusto, un filosofo come educatore, un vero filosofo, a cui si potesse ubbidire senza ulteriori ripensamenti, perché si sarebbe riposta in lui una fiducia più grande di quella in se stessi. Così mi chiedevo: quali saranno mai i principi secondo cui ti educherà? e riflettevo su che cosa avrebbe detto circa le due massime dell'educazione che sono in voga nel nostro tempo.
La prima richiede che l'educatore riconosca subito la forza precipua dei suoi allievi e, quindi, indirizzi tutte le energie e tutte le linfe, e ogni raggio di sole proprio in quella direzione, per aiutare quell'unica virtù a raggiungere la giusta maturazione e fecondità. La seconda massima, invece, richiede che l'educatore faccia crescere tutte le forze a disposizione, le curi e le porti a un rapporto armonico tra loro. Ma per questo si dovrebbe forse costringere alla musica chi ha una spiccata attitudine all'arte dell'orafo? Si deve dunque dare ragione al padre di Benvenuto Cellini che affliggeva di continuo il figlio con il «lascivissimo cornetto» che il figlio chiamava «quel maledetto suonare»?
Nulla rivela in modo tanto chiaro e allo stesso tempo tanto umiliante il presuntuoso autocompiacimento dei contemporanei come la meschinità, per metà taccagna e per metà priva di pensiero, delle loro pretese verso educatori e maestri. Di che cosa non ci si contenta, persino tra la nostra gente più nobile e meglio istruita, sotto il nome di precettori: quale guazzabuglio di teste stravaganti e di istituzioni invecchiate viene spesso indicato come ginnasio ed è considerato buono; di che cosa non ci accontentiamo noi tutti, come supremo istituto di istruzione, come università: quali guide, quali istituzioni, paragonati alla difficoltà del compito di educare un uomo ad essere un uomo!
6.
Formare il maggior numero possibile di uomini courant, nel senso in cui diciamo courant di una moneta, sarebbe dunque lo scopo, e un popolo, stando a questa concezione, sarà tanto più felice quanti più uomini courant possiede. Perciò l'intento dei moderni istituti di istruzione deve senz'altro consistere nell'incoraggiare ognuno, per quello che è nella sua natura, a divenire courant, nell'educare ognuno in maniera tale che abbia dal proprio grado di conoscenza e sapere la massima misura possibile di felicità e di guadagno. Il singolo dovrebbe, così si pretende, con l'aiuto di una tale istruzione generale, saper valutare esattamente se stesso, per sapere ciò che deve esigere dalla vita; e infine si afferma che esiste un'alleanza naturale e necessaria tra «intelligenza e possesso» tra «ricchezza e cultura», anzi, ancor di più, che questa alleanza è una necessità morale.
Così ogni educazione che isoli, che ponga dei fini al di là del denaro e del profitto, che consumi molto tempo, è esecrata; si è soliti, anzi, vituperare questi più seri tipi di educazione come «un più sottile egoismo», come «un immorale epicureismo educativo».
Certo, secondo la moralità attualmente in vigore, è apprezzato proprio il contrario, cioè una istruzione rapida per diventare presto un essere che guadagna denaro, e tuttavia un'educazione approfondita quel tanto sufficiente a diventare un essere che guadagna moltissimo denaro. All'uomo si concede quel tanto di cultura quanto è nell'interesse del profitto generale e del commercio mondiale, ma altrettanto se ne pretende da lui. In breve «l'uomo possiede una aspirazione necessaria alla felicità terrena, perciò l'educazione è necessaria, ma soltanto perciò»!
Tutto il nostro mondo moderno ha un'apparenza nient'affatto solida e duratura tanto che si possa profetizzare al suo concetto di cultura una esistenza eterna. Si deve addirittura ritener verosimile che il prossimo millennio avrà un paio di nuove idee, per le quali a ogni vivente di oggi gli si rizzerebbero i capelli in testa. La fede in un significato metafisico della cultura alla fine non sarebbe poi tanto terrificante: ma certo alcune conseguenze si potrebbero trarre per l'educazione e l'istituzione scolastica. E' necessario compiere uno straordinario sforzo di riflessione, distogliendo una buona volta lo sguardo dalle attuali istituzioni educative e guardare oltre, verso istituzioni di genere del tutto diverso ed estraneo, quali forse appariranno necessarie a una seconda o terza generazione. Mentre infatti con gli sforzi degli attuali educatori accademici si produce o lo scienziato o il funzionario statale, o l'affarista, o il filisteo della cultura o infine e di solito una mescolanza di tutti questi, quelle istituzioni, ancora da scoprire, avrebbero certo un compito più difficile in verità non più difficile in sé, poiché sarebbe comunque il compito più naturale e in quanto tale anche più semplice; e per esempio può qualcosa essere più difficile dell'ammaestrare contro natura, come accade oggi, un giovane per farne un erudito? Ma per gli uomini la difficoltà consiste nell'imparare daccapo e porsi un nuovo fine; e costerà fatica indicibile cambiare con una nuova idea fondamentale i principi del nostro attuale sistema educativo, che ha le sue radici nel medioevo e che vede, come scopo della perfetta educazione, proprio il dotto medioevale. Già ora è tempo di porsi davanti agli occhi questi contrasti; infatti una generazione dovrà pure cominciare la lotta nella quale una generazione successiva vincerà.
8.
E, infine, per tutti i diavoli: che cosa gliene importa ai nostri giovani della storia della filosofia? Forse la confusione delle opinioni deve scoraggiarli dall'avere opinioni proprie? Debbono imparare a unire la propria voce al giubilo per i nostri magnifici progressi? O devono forse addirittura imparare a odiare la filosofia e a disprezzarla? Si sarebbe indotti a pensare a quest'ultima possibilità, considerando quale martirio è per gli studenti, nei loro esami di filosofia, imprimere nel loro povero cervello le idee più sottili e più folli dello spirito umano, accanto a quelle più grandi e più difficili da comprendere.
L'unica critica di una filosofia, che è possibile e che dimostra anche qualcosa, cioè il tentare se si possa vivere secondo essa, non è stata insegnata nelle università: ma, sempre, la critica delle parole alle parole. Ed ora si pensi ad una giovane mente con poca esperienza nella vita, in cui vengono immagazzinati cinquanta sistemi ridotti a parole e cinquanta critiche dei medesimi, l'uno accanto all'altro e l'uno confuso con l'altro che desolazione, che imbarbarimento, quale sprezzo per una educazione alla filosofia! In effetti il giovane, come pure si ammette, non è affatto educato alla filosofia, bensì ad un esame filosofico: il cui esito di solito è, com'è noto, che l'esaminato anche troppo esaminato! confessa a se stesso con un sospiro di sollievo: «Dio sia lodato, non sono un filosofo, ma un cristiano e un cittadino del mio Stato!».
L’uomo comune
1.
Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza - perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde.
Ma cosa costringe il singolo a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggioranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata.
1.
Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita.
Con l'esteriorità, la parola, il gesto, la raffinatezza, il lusso, la manieratezza, l'osservatore dovrebbe essere indotto ad una conclusione sbagliata sul contenuto: nel presupposto che si sia abituati a giudicare l'interno dall'esterno. Mi sembra, talvolta, che gli uomini moderni si annoino smisuratamente l'un l'altro e che alla fine trovino necessario rendersi interessanti con l'aiuto di tutte le arti. Allora si fanno servire dai loro artisti cibi stuzzicanti e forti, si cospargono con tutte le droghe dell'Oriente e dell'Occidente, e, certo, ora emanano un odore molto interessante, l'odore appunto di tutto l'Oriente e l'Occidente. Si preparano allora a soddisfare tutti i gusti; e ognuno deve essere servito, sia che desideri un qualcosa di profumato o di maleolente, di sublime o di contadinescamente grossolano, di greco e di cinese, sia che ami le tragedie o le sconcezze messe in dramma.
Introversione
2.
Era, quindi, proprio un cullarsi nei miei desideri, quando mi immaginavo di poter trovare come educatore un vero filosofo, che fosse capace di sollevare una persona al di sopra dell'insoddisfazione insita nell'epoca e che di nuovo insegnasse a pensare e a vivere con semplicità e sincerità, ad essere cioè inattuale, nel significato più profondo della parola; oggi infatti gli uomini sono diventati così molteplici e complicati che devono essere insinceri quando parlano, sostengono delle opinioni e vogliono agire in conseguenza ad esse.
In questo stato di angustie, bisogni e desideri conobbi Schopenhauer.
Faccio parte di quei lettori di Schopenhauer che, dopo averne letto la prima pagina, sanno con sicurezza che leggeranno e ascolteranno ogni parola da lui comunque detta. Subito si determinò in me fiducia in lui, fiducia che a tutt'oggi è la stessa di nove anni fa. Lo intendevo come se avesse scritto per me: per esprimermi in modo chiaro anche se non privo di immodestia e di follia. Da ciò deriva il fatto che non ho mai trovato in lui un paradosso, anche se qua e là qualche piccolo errore; infatti che cosa sono i paradossi se non affermazioni che non ispirano fiducia, fatte senza fiducia dallo stesso autore, per poter, grazie a loro, essere brillante, sedurre o comunque far bella figura?
Scrittori simili ci mancano. Il vigoroso senso di benessere di colui che parla ci afferra al primo risuonare della sua voce: è una sensazione simile a quella che si prova entrando in un bosco di alberi ad alto fusto; respiriamo profondamente e ci sentiamo tutto a un tratto di nuovo bene. Qui c'è sempre un'aria egualmente corroborante, così sentiamo; qui c'è una certa inimitabile libertà e naturalezza, propria di quegli uomini che dentro di sé si sentono a casa, e in una casa molto ricca: al contrario di quegli scrittori che ammirano soprattutto se stessi per essere stati, una volta, geniali e la loro esposizione, proprio per questo, ha un che di inquieto e innaturale.
Per quanto il contenuto sia terribile e serio, come lo è appunto il problema dell'esistenza: l'opera avrà un effetto opprimente e tormentoso soltanto se il mezzo pensatore o il mezzo artista vi avrà effuso i vapori della propria insoddisfazione; mentre per l'uomo non vi sarà nulla di più gaio e di più bello che poter stare vicino ad uno di quei vittoriosi, che, proprio per aver pensato le cose più profonde, devono appunto amare ciò che è più vivo e, come saggi, infine, aver predisposizione al bello. Essi parlano veramente, non balbettano né chiacchierano a vanvera; essi si muovono e vivono realmente, non certo al modo di sinistre maschere, come sono soliti vivere gli uomini: perciò, nella loro vicinanza, ci sentiamo davvero umani e naturali e vorremmo esclamare come Goethe «che cosa meravigliosa e preziosa è un vivente! quanto adeguato alla sua condizione, quanto vero, quanto esistente!»
Io non descrivo altro che la prima e quasi fisiologica impressione suscitata in me da Schopenhauer, quel magico irradiare della più profonda forza di un frutto della natura su di un altro, che si ha al primo e più lieve contatto; e, se analizzo ulteriormente quell'impressione, trovo che è formata da tre elementi, dall'impressione della sua sincerità, della sua serenità e della sua fermezza. E’ sincero perché parla e scrive a se stesso e per se stesso, e fermo perché così deve essere.
La sua forza si innalza come fiamma, quando l'aria è ferma, diritta e leggera in alto, sicura, senza tremolii e incertezze. Trova la sua strada in ogni caso, senza che noi neppure ci accorgiamo che l'ha cercata; ma, come costretto da una legge della gravità, vi accorre così fermo e agile, così inevitabile. E se qualcuno ha mai inteso che cosa significhi, nella nostra attuale umanità di ircocervi, trovare una natura tutta intera, univoca, ben salda nei propri cardini e tuttavia in movimento, disinvolta e senza impacci, comprenderà la mia felicità e la mia meraviglia, allorché trovai Schopenhauer: sentivo di aver trovato in lui quell'educatore e filosofo da tanto tempo cercato. E tutto ciò soltanto sotto forma di libro: il che fu certo una grande privazione.
Tanto più mi affannai di vedere attraverso il libro e di immaginarmi l'uomo vivente, di cui dovevo leggere il grande testamento in cui prometteva di fare suoi eredi solo coloro che volessero e potessero essere più che suoi semplici lettori: cioè suoi figli e discepoli.
3.
Oh, ben m'accorgo che voi non sapete che cosa sia l'isolamento. Dove si sono avute potenti società, governi, religioni, opinioni pubbliche, in breve, ovunque ci fu una tirannia, essa ha odiato il filosofo solitario; infatti la filosofia offre all'uomo un asilo a cui nessuna tirannide può accedere, la caverna dell'intimo, il labirinto del petto: e questo irrita i tiranni.
Là i solitari si nascondono: ma là si apposta anche il maggior pericolo per loro. Questi uomini, che hanno messo in salvo nell'intimo la propria libertà, devono vivere anche esternamente, diventar visibili, farsi vedere; essi hanno infiniti legami per nascita, residenza, educazione, patria, caso, indiscrezione degli altri; e così anche infinite opinioni sono presupposte in loro, solo perché sono quelle dominanti; ogni espressione che non sia un diniego vale come approvazione; ogni movimento della mano, che non distrugge, viene interpretato come accondiscendimento.
Essi sanno, questi solitari e liberi nello spirito, di apparire continuamente e ovunque in modo diverso da come pensano e pur non volendo altro che verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi silenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcanici e minacciosi.
Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi, della riservatezza imposta.
Escono dalle loro caverne con espressioni tremende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile che causino la loro stessa rovina. In tanta pericolosità visse Schopenhauer.
Proprio questi solitari hanno bisogno di amore, di compagni con cui poter essere aperti e semplici come con se stessi, alla cui presenza lo spasimo del silenzio e della finzione abbia tregua. Se togliete loro tali compagni, aumenterete il pericolo. Heinrich von Kleist perì per non essere amato; il più terribile antidoto contro uomini straordinari è infatti respingerli nel profondo di se stessi in modo tale che ogni nuova sortita debba avvenire come un'esplosione vulcanica. Tuttavia c'è sempre un semidio che sopporta di vivere a queste tremende condizioni e di vivere vittoriosamente; e se volete ascoltare i suoi canti solitari, ascoltate la musica di Beethoven.
Il primo pericolo all'ombra del quale Schopenhauer crebbe fu dunque l'isolamento. Il secondo è il disperare della verità. Questo pericolo accompagna ogni pensatore che, partendo dalla filosofia kantiana, percorra una strada propria, premesso che sia un uomo possente e completo, nel dolore come nelle aspirazioni, e non soltanto una strepitante macchina per pensare e calcolare. Ora noi tutti sappiamo bene in che stato vergognoso ci si trovi con questa premessa.
4.
Ma ricevere un dono o essere costretto sono espressioni disprezzabili, con cui si vuole sfuggire a un avvertimento interiore, insulti per coloro che hanno prestato ascolto a questo avvenimento, quindi per il grande uomo: proprio lui, infatti, meno di tutti, permette che gli si faccia un dono o una costrizione sa bene, quanto un piccolo uomo, come si possa prendere la vita alla leggera, e quanto morbido sia il letto in cui potrebbe distendersi se si comportasse con se stesso e con i suoi simili con garbo e secondo le consuetudini: e tutti gli ordinamenti dell'uomo tendono proprio a questo, a far sì che la vita, in una continua distrazione dei pensieri, non venga avvertita. Perché egli allora vuole con tanta forza il contrario, sentire cioè proprio la vita, vale a dire soffrire della vita?
Perché egli si accorge che lo si vuole defraudare di se stesso, e che c'è una specie di accordo per strapparlo alla sua caverna. Allora recalcitra, drizza le orecchie e decide: «voglio rimanere mio!». una decisione terribile; e solo poco alla volta se ne accorge. Ora infatti deve tuffarsi nel profondo dell'esistenza con una serie di domande insolite sulle labbra: perché vivo? Quale lezione devo apprendere dalla vita? Come sono diventato così come sono, e perché soffro di questo essercosì? Si tormenta: e vede che nessuno si tormenta così, che le mani dei suoi simili sono appassionatamente tese ai fantastici avvenimenti che il teatro politico mostra; oppure che essi stessi vanno girando tronfi in cento maschere, come adolescenti, uomini, vecchi, padri, cittadini, preti, impiegati, commercianti assiduamente preoccupati della loro comune commedia e niente affatto di se stessi. Alla domanda «a che scopo vivi?» tutti risponderanno senza esitare e con orgoglio: «per diventare un buon cittadino o un buono studioso o un buono statista», eppure essi sono qualcosa che non può diventare nulla di diverso; e perché sono proprio questo? E, purtroppo, niente di meglio?
Individuazione
1.
Il grande pensatore che disprezza gli uomini, ne disprezza la pigrizia: poiché a causa di questa essi appaiono simili a prodotti di fabbrica, indifferenti, indegni di contatti e di ammaestramenti. L'uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: «sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora».
Ogni giovane anima sente giorno e notte questo appello e ne trema; infatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura di felicità destinatale dall'eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiungere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata può divenire l'esistenza senza questa liberazione!...
Anche se il futuro non ci lasciasse speranze - la nostra straordinaria esistenza proprio nel suo ora ci dà forza più di ogni altra cosa a vivere secondo una legge e una misura nostra: quel qualcosa d'inesplicabile per cui noi viviamo, proprio oggi, pur avendo avuto il tempo infinito per nascere, per cui null'altro possediamo se non un oggi brevissimo e in esso dobbiamo mostrare perché e a che scopo siamo nati proprio ora.
Noi siamo responsabili davanti a noi stessi della nostra esistenza; quindi vogliamo essere i veri timonieri di questa esistenza e non permettere che assomigli a pura accidentalità senza pensiero. Con essa bisogna saper trattare con audacia, esponendosi al rischio: tanto più che, sia nel migliore che nel peggiore dei casi, la perderemo. Perché allora essere attaccati a questa zolla, a questo mestiere, perché drizzare le orecchie per sentire ciò che dice il prossimo?
Nessuno può costruirti il ponte sul quale tu [giovane anima] devi attraversare il fiume della vita, nessuno se non tu stessa. Ci sono sì infiniti sentieri e ponti e semidei pronti a portarti oltre il fiume; ma solo al prezzo di te stessa: tu daresti in pegno te stessa e ti perderesti. Nel mondo esiste una sola strada che nessuno, se non tu, può percorrere: dove conduce? Non domandare, ma seguila! Di chi era la frase «Mai uomo si innalza tanto come quando non sa dove può condurlo la sua strada»?...
Guardi la giovane anima indietro nella propria vita, e si chieda: che cosa hai veramente amato finora, che cosa ha attratto la tua anima, che cosa l'ha dominata e allo stesso tempo resa felice? Allinea davanti a te questi venerati oggetti ed essi, forse, con il loro essere e la loro successione, ti daranno una legge, la legge fondamentale di te stesso. Confronta questi oggetti e osserva come l'uno completi l'altro, lo ampli, lo superi e lo trasfiguri fino a formare una scala su cui tu finora ti sei arrampicato alla conquista di te stesso; la tua vera essenza infatti non sta profondamente celata dentro di te, ma smisuratamente al di sopra di te o, almeno, al di sopra di ciò che tu sei solito considerare il tuo io.
3.
Schopenhauer ebbe poco a che fare con le caste dei dotti, se ne separò, mirò all'indipendenza dallo Stato e dalla società ecco il suo esempio, il suo modello per prendere qui le mosse dagli elementi più esteriori.
Ognuno ha in sé una unicità produttiva, che costituisce il nucleo del suo essere; quando, però, diventa consapevole di questa unicità, intorno a lui appare uno splendore insolito, tipico di ciò che è straordinario. Per i più ciò è qualcosa di insopportabile: perché, come ho detto, sono pigri e perché a quella unicità è legata una catena di affanni e di pesi. Non c'è dubbio che, per chi è straordinario e sgrava di questa catena, la vita deve perdere quasi tutto ciò che ci si aspetta da lei nella gioventù: serenità, sicurezza, leggerezza, onore; la sorte dell'isolamento è il regalo che gli fanno gli altri uomini; deserto e caverna gli si offrono ovunque voglia vivere. Allora stia ben attento a non farsi soggiogare, a non deprimersi o immalinconirsi. Perciò si circondi delle immagini di bravi e valorosi combattenti, quale fu lo stesso Schopenhauer.
4.
Ogni esistenza che può essere negata, merita anche di esserlo; e essere veritiero significa credere ad un'esistenza che non potrebbe essere assolutamente negata e che è essa stessa vera e senza menzogna. Perciò colui che è veritiero avverte nella sua attività un significato metafisico, spiegabile secondo le leggi di una vita diversa e superiore, e, nel senso più profondo, affermativo: anche se tutto ciò che fa appare come un distruggere e un infrangere le leggi di questa vita. In ciò il suo agire deve diventare una continua sofferenza, ma egli sa ciò che anche Meister Eckhart ben sapeva: «l'animale più veloce che ci porta alla perfezione è la sofferenza».
Dovrei pensare che a chiunque si ponga davanti all'anima una tale direzione di vita, si allarghi il cuore e nasca in lui un desiderio ardente di essere un tale uomo schopenhaueriano: cioè pure per sé e per il suo personale benessere, di una tranquillità meravigliosa, nella sua conoscenza pieno di fuoco vigoroso e divoratore e molto lontano dalla fredda e sprezzante neutralità del cosiddetto uomo di scienza, molto al di sopra di una contemplazione tetra e annoiata, pronto sempre a offrire se stesso come prima vittima della verità riconosciuta, e compenetrato nel profondo della consapevolezza di quali dolori e sofferenze debbano nascere dalla sua veridicità.
Certo egli distrugge la sua felicità terrena con il suo eroismo, deve essere ostile anche verso gli uomini che ama, verso le istituzioni dal cui grembo è uscito; non può risparmiare né uomini né cose, anche se, nel ferirle, soffre con loro; sarà misconosciuto e considerato a lungo alleato di quelle forze che egli più disprezza, dovrà, secondo una misura umana della sua visione, essere ingiusto, con tutta la sua aspirazione alla giustizia: tuttavia potrà prendere coraggio e consolazione dalle parole che Schopenhauer, suo grande educatore, una volta ha usato: «Una vita felice è impossibile, il massimo che l'uomo può raggiungere è una vita eroica. Questa è la vita che conduce colui che, per un motivo qualsiasi, combatte tra difficoltà enormi per tutto ciò che, in un modo qualsiasi, sia un bene per gli altri, e alla fine vince, ma in questo è male o per niente ricompensato. Alla fine rimane come il principe del Re corvo di Gozzi: pietrificato, ma in nobile atteggiamento e magnanimo aspetto. La sua memoria rimane ed è celebrata come quella di un eroe; la sua volontà, mortificata durante tutta la vita da fatica e lavoro, dall'insuccesso e dall'ingratitudine del mondo, si dissolve nel Nirvana».
6.
Già oggi il singolo che ha inteso quella nuova idea fondamentale della cultura, è posto di fronte ad un bivio: percorrendo una strada è ben accetto alla sua epoca, non gli mancheranno corone e ricompense, potenti partiti lo sosterranno e alle sue spalle, come davanti a sé, vi saranno tanti che la pensano allo stesso modo, e quando il capofila pronuncia la parola d'ordine, essa riecheggia in tutte le file. Il primo dovere qui è: «combattere allineati», il secondo, trattare come nemici coloro che non vogliono allinearsi.
L'altra strada gli offre più rari compagni di viaggio, è più ardua, contorta, ripida: coloro che percorrono la prima lo deridono perché là avanza con più fatica e spesso si trova in pericolo, e tentano di attirano sul loro cammino. Se le due strade si incrociano, egli viene maltrattato, gettato da parte, oppure isolato con un timoroso trarsi da parte.
Spiriti liberi e Superuomo
4.
L'uomo schopenhaueriano assume su di sé il volontario soffrire della veridicità, e questo soffrire gli serve a uccidere la sua propria volontà e preparare così quel completo capovolgimento e rovesciamento del suo essere, il cui raggiungimento è il senso vero e proprio della vita. Questo affermare francamente la verità appare agli altri uomini come un effetto della malvagità, poiché essi considerano un dovere dell'umanità conservare le loro sciocchezze e le loro bubbole e pensano che si debba essere malvagi per distruggere così i loro giocattoli. A un tale uomo essi sono tentati di gridare ciò che Faust dice a Mefistofele: «Ecco tu opponi il freddo pugno del diavolo alla potenza sempre viva e salutarmente creatrice»; e chi invece volesse vivere schopenhauerianamente, somiglierebbe forse di più a un Mefistofele che a un Faust - proprio per i più deboli occhi moderni, che nella negazione vedono sempre il marchio del maligno.
Ma c'è una modo di negare e di distruggere che è invece proprio l'emanazione di quel potente anelito alla santificazione e alla salvezza di cui Schopenhauer fu il primo filosofico maestro, tra noi uomini dissacrati e secolarizzati. Ogni esistenza che può essere negata, merita anche di esserlo; e essere veritiero significa credere ad un'esistenza che non potrebbe essere assolutamente negata e che è essa stessa vera e senza menzogna. Perciò colui che è veritiero avverte nella sua attività un significato metafisico, spiegabile secondo le leggi di una vita diversa e superiore, e, nel senso più profondo, affermativo: anche se tutto ciò che fa appare come un distruggere e un infrangere le leggi di questa vita…
Certo egli distrugge la sua felicità terrena con il suo eroismo, deve essere ostile anche verso gli uomini che ama, verso le istituzioni dal cui grembo è uscito; non può risparmiare né uomini né cose, anche se, nel ferirle, soffre con loro; sarà misconosciuto e considerato a lungo alleato di quelle forze che egli più disprezza, dovrà, secondo una misura umana della sua visione, essere ingiusto, con tutta la sua aspirazione alla giustizia: tuttavia potrà prendere coraggio e consolazione dalle parole che Schopenhauer, suo grande educatore, una volta ha usato: «Una vita felice è impossibile, il massimo che l'uomo può raggiungere è una vita eroica…
Chi intende la propria vita solo come un punto nello sviluppo di una generazione o di uno Stato o di una scienza e vuole, quindi, appartenere completamente al racconto del divenire, alla storia, non ha compreso la lezione impartitagli dell'esistenza e deve impararla un'altra volta. Questo eterno divenire è un ingannevole teatrino di marionette, per il quale l'uomo dimentica se stesso; è la vera e propria distrazione che disperde l'individuo a tutti i venti, l'infinito e sciocco gioco che il tempo, grande fanciullo, gioca davanti a noi e con noi. L'eroismo della veridicità consiste dunque nello smettere un giorno di essere il giocattolo del tempo.
Nel divenire tutto è vuoto, ingannevole, piatto e degno del nostro disprezzo; l'enigma che l'uomo deve sciogliere, lo può risolvere solo partendo dall'essere, nell'essere così e non in altro modo, in ciò che non è soggetto al trapasso. Ora egli comincia a esaminare in quale misura sia concresciuto con il divenire, e in quale misura con l'essere - un compito immane si erge davanti alla sua anima: distruggere tutto ciò che diviene, portare alla luce tutto ciò che vi è di falso nelle cose…
L'uomo eroico disprezza il suo benessere o il suo malessere, le sue virtù e i suoi vizi e comunque il misurare le cose su se stesso; da se stesso non si aspetta più nulla e in tutte le cose vuole penetrare con lo sguardo fino a raggiungere questo fondo privo di speranza. La sua forza è nel dimenticare se stesso; e se si ricorda di sé, misura la distanza tra il suo sommo fine e se stesso, ed è come se vedesse dietro e sotto di sé un meschino ammasso di scorie.
6.
Talvolta è più difficile ammettere un fatto che comprenderlo; ed è appunto quanto può accadere a molti che riflettono sulla frase: «l'umanità deve adoperarsi di continuo per generare singoli grandi uomini - questo e nessun altro è il suo compito». Quanto volentieri si vorrebbe applicare alla società e ai suoi scopi un insegnamento, che si può ricavare dall'osservazione di una qualsiasi specie del regno animale o vegetale, che, cioè, in questa specie ciò che importa è soltanto il singolo esemplare superiore, più straordinario, potente, complicato e fecondo - quanto sarebbe bello tutto ciò, se illusorie idee, inculcate con l'educazione, sulle finalità della società, non vi si opponessero con tenacia!
In verità è facile comprendere che là, dove una specie giunge ai suoi confini e al suo trapassare in una specie superiore, c'è lo scopo del suo sviluppo, non però nella massa degli esemplari e del loro benessere, o addirittura negli esemplari che, in ordine di tempo, sono gli ultimi, bensì, proprio in quelle esistenze apparentemente disperse e casuali che, talvolta, in condizioni favorevoli si realizzano qua e là: e altrettanto di facile comprensione dovrebbe essere anche l'esigenza che l'umanità, per giungere a essere consapevole del proprio fine, deve ricercare e produrre quelle condizioni propizie, in cui possono nascere quei grandi uomini redentori.
Genialità
2.
V'è serenità solo dove c'è vittoria, e ciò vale sia per le opere dei veri pensatori che per ogni opera d'arte.
Per quanto il contenuto sia terribile e serio, come lo è appunto il problema dell'esistenza, l'opera avrà un effetto opprimente e tormentoso soltanto se il mezzo pensatore o il mezzo artista vi avrà effuso i vapori della propria insoddisfazione; mentre per l'uomo non vi sarà nulla di più gaio e di più bello che poter stare vicino ad uno di quei vittoriosi, che, proprio per aver pensato le cose più profonde, devono appunto amare ciò che è più vivo e, come saggi, infine, aver predisposizione al bello. Essi parlano veramente, non balbettano né chiacchierano a vanvera; essi si muovono e vivono realmente, non certo al modo di sinistre maschere, come sono soliti vivere gli uomini: perciò, nella loro vicinanza, ci sentiamo davvero umani e naturali e vorremmo esclamare come Goethe «che cosa meravigliosa e preziosa è un vivente! quanto adeguato alla sua condizione, quanto vero, quanto esistente!»…
Il genio non [deve] temere di entrare nella contraddizione più ostile con gli ordinamenti e le forme esistenti, se vuole mettere in piena luce l'ordine superiore e la verità che vivono in lui.
3.
Ogni uomo è solito trovare in se stesso una limitazione sia della sua attitudine che della sua volontà morale, che lo riempie di struggente desiderio e di malinconia; e, come dal sentimento della propria inclinazione al peccato aspira al Santo, così in quanto essere intellettuale, ha in sé un profondo anelito al Genio. Ecco la radice di ogni vera cultura; e intendendo con questo l'anelito degli uomini a rinascere come Santi o come Geni, so perfettamente che non c'è bisogno di essere buddisti per intendere questo mito. Quando troviamo il talento senza quell'anelito, nella cerchia degli scienziati o semplicemente nelle persone istruite, proviamo una certa avversione e ripugnanza; infatti presagiamo che tali uomini, con tutto il loro spirito, non favoriscono una cultura in divenire o la creazione del Genio che è lo scopo di ogni cultura ma anzi la ostacolano. E’ una condizione di indurimento, uguale per valore a quella virtuosità abitudinaria, fredda e orgogliosa di se stessa, che è la cosa che più di tutto è lontana e allontana dalla vera santità.
Il Genio, infatti, anela più profondamente alla santità, perché egli, dal suo osservatorio, ha visto più lontano e più chiaramente di ogni altro uomo, fino alla conciliazione dell'essere con il conoscere, fino al regno della pace e della volontà negata, e, oltre ancora, verso l'altra riva, di cui parlano gli indù. Ma proprio qui è il miracolo: quanto incomprensibilmente integra e infrangibile doveva essere la natura di Schopenhauer, se neppure da questo anelito poté essere distrutta e neppure indurita. Che cosa ciò significhi ognuno lo capirà secondo la misura di ciò che egli stesso è, ma nessuno di noi potrà capirla in tutta la sua gravità…
Ognuno ha in sé una unicità produttiva, che costituisce il nucleo del suo essere; quando, però, diventa consapevole di questa unicità, intorno a lui appare uno splendore insolito, tipico di ciò che è straordinario. Per i più ciò è qualcosa di insopportabile: perché, come ho detto, sono pigri e perché a quella unicità è legata una catena di affanni e di pesi. Non c'è dubbio che, per chi è straordinario e sgrava di questa catena, la vita deve perdere quasi tutto ciò che ci si aspetta da lei nella gioventù: serenità, sicurezza, leggerezza, onore; la sorte dell'isolamento è il regalo che gli fanno gli altri uomini; deserto e caverna gli si offrono ovunque voglia vivere. Allora stia ben attento a non farsi soggiogare, a non deprimersi o immalinconirsi.
6.
Il singolo deve utilizzare le sue lotte e il suo anelito come l'alfabeto con cui egli può ora decifrare le aspirazioni degli uomini. Ma anche qui non gli è lecito fermarsi, da questo gradino deve salire a quello superiore, la cultura pretende da lui non solo quell'esperienza intima, non solo il giudizio sul mondo esterno che scorre intorno a lui, ma, infine e soprattutto, l'azione, cioè la lotta per la cultura e una presa di posizione ostile verso influenze, abitudini, leggi, istituzioni in cui non riconosce la sua mèta: la generazione del genio.
Esiste infatti un tipo di cultura abusata e asservita basta guardarsi intorno! E proprio le potenze che, con maggior zelo, ora favoriscono la cultura, lo fanno con secondi fini e non la praticano con sentimenti puri e disinteressati.
Vi è in primo luogo l'egoismo degli affaristi che ha bisogno del sostegno della cultura e che, per ringraziamento, a sua volta l'aiuta ma in pari tempo vorrebbe, in ciò, prescriverle sia lo scopo che la misura. Da questa parte deriva quell'affermazione e quella concatenazione di concetti, oggi molto in voga, che più o meno dice così: quanta più conoscenza e istruzione possibili, e quindi quanto più bisogno possibile, e quindi quanta più produzione possibile, e quindi quanto più guadagno e felicità possibili così suona la formuletta tentatrice. L'educazione verrebbe definita dai suoi stessi sostenitori come quel discernimento per cui si diventa completamente attuali, nei bisogni e nella loro soddisfazione, con cui, però allo stesso tempo, si può disporre di tutti i mezzi e di tutte le vie per guadagnare denaro nel modo più facile possibile.
Ancora non sono state elencate tutte quelle potenze, dalle quali viene certo favorita la cultura, senza che tuttavia se ne riconosca il fine, e cioè la generazione del genio; tre le abbiamo dette: l'egoismo degli affaristi, l'egoismo dello Stato e l'egoismo di tutti coloro che hanno motivo di fingere e di nascondersi mediante la forma. In quarto luogo indico l'egoismo della scienza e la natura tutta particolare dei suoi servitori, gli scienziati.
Chi al giorno nostro, come maestro, è in grado di schiudere un campo in cui anche le teste più limitate possono lavorare con un certo successo, diventa in brevissimo tempo un uomo famoso: tanto è grande la folla che subito si accalca intorno a lui. Certo chiunque tra questi fedeli e riconoscenti è una calamità per il maestro, perché tutti costoro lo imitano, e proprio le sue magagne appaiono ora smisuratamente grandi ed esagerate, perché spiccano in individui così limitati, mentre, al contrario, le virtù del maestro appaiono rimpicciolite, nella stessa proporzione, nello stesso individuo.
Si serve la verità se essa è in condizione di favorire direttamente stipendi o posizioni più elevate, o almeno di assicurarsi i favori di coloro che debbono elargire pane e onori. Ma si serve solo questa verità; perciò si traccia un confine tra le verità vantaggiose, a cui molti servono, e le verità non vantaggiose: a queste ultime solo pochissimi si dedicano perché per esse non vale il principio «ingenii largitor venter».
Per quanto lo Stato faccia valere ad alta voce i suoi meriti verso la cultura, la promuove per promuovere se stesso e non comprende un fine che sia superiore al suo benessere e alla sua esistenza. Ciò che gli affaristi vogliono quando incessantemente chiedono istruzione e cultura, è alla fin fine proprio un affare. Se coloro che hanno bisogno delle forme si ascrivono il vero e proprio lavoro per la cultura e, per esempio, credono che tutta l'arte sia cosa loro e debba servire alle loro esigenze, è chiaro allora che essi, nel momento in cui affermano la cultura, affermano solo se stessi: e cioè neppure loro sono usciti da un equivoco.
Ma ciò che fin dal principio si oppose all'effetto e alla diffusione della sua dottrina, ciò che infine con tutti mezzi tenta di rendere vana anche una tale rinascita del filosofo è, per dirla in breve, la stortura della natura umana attuale: perciò tutti coloro che diventano grandi uomini debbono sprecare un'energia incredibile solo per salvare se stessi da questastortura. Il mondo, in cui oggi fanno il loro ingresso, è avvolto nelle fandonie: non necessariamente dogmi religiosi, ma anche concetti bubboleschi come «progresso», «educazione universale», «nazionale», «Stato moderno», «Kulturkampf»: si può dire anzi che tutte le parole generali oggi portano in sé un addobbo artificioso e innaturale; pertanto una posterità più illuminata rimprovererà al nostro tempo soprattutto di essere contorto e deforme per quanto andiamo così superbi della nostra «salute».
8.
Lo Stato non si è mai preoccupato della verità, ma solo di quella verità che gli è utile, o, per essere più esatti, di tutto ciò che gli è utile, sia esso verità, mezza verità o errore. Un'alleanza tra filosofia e Stato ha, dunque, senso solo se la filosofia può impegnarsi ad essere incondizionatamente utile allo Stato, il che significa stimare l'utilità dello Stato più importante della verità. Certo, per lo Stato sarebbe magnifico avere al suo servizio e al suo stipendio anche la verità; ma sa molto bene che è proprio dell'essenza della verità non essere mai a servizio, e non prendere mai mercede. Quindi in ciò che ha, lo Stato possiede solo la falsa «verità», una persona con una maschera; ma questa, purtroppo, non può certo fornirgli ciò che tanto anela dalla autentica verità: la sua legittimazione e santificazione.
Filosofi, Filosofia e Conoscenza
3.
La mia valutazione di un filosofo dipende dalla misura in cui egli è in grado di dare un esempio. Non c'è dubbio, infatti, che con l'esempio si possa trascinare interi popoli: la storia indiana, che è quasi la storia della filosofia indiana, lo dimostra. Ma l'esempio deve esser dato dalla vita visibile e non solo dai libri, e pertanto, come insegnavano i filosofi della Grecia, più con l'impressione, il comportamento, il vestito, il cibo e i costumi che non con il parlare o addirittura con lo scrivere…
[Schopenhauer] fu in tutto e per tutto un eremita; non ebbe un solo amico che lo consolasse e veramente sentisse come lui - e tra uno e nessuno, c'è veramente un infinito, come tra qualcosa e nulla. Chi ha veri amici non sa cosa sia la vera solitudine, anche se tutto il mondo intorno a lui gli fosse ostile -.
Oh, ben m'accorgo che voi non sapete che cosa sia l'isolamento. Dove si sono avute potenti società, governi, religioni, opinioni pubbliche, in breve, ovunque ci fu una tirannia, essa ha odiato il filosofo solitario; infatti la filosofia offre all'uomo un asilo a cui nessuna tirannide può accedere, la caverna dell'intimo, il labirinto del petto: e questo irrita i tiranni. Là i solitari si nascondono: ma là si apposta anche il maggior pericolo per loro. Questi uomini, che hanno messo in salvo nell'intimo la propria libertà, devono vivere anche esternamente, diventar visibili, farsi vedere; essi hanno infiniti legami per nascita, residenza, educazione, patria, caso, indiscrezione degli altri; e così anche infinite opinioni sono presupposte in loro, solo perché sono quelle dominanti; ogni espressione che non sia un diniego vale come approvazione; ogni movimento della mano, che non distrugge, viene interpretato come accondiscendimento.
Essi sanno, questi solitari e liberi nello spirito, - di apparire continuamente e ovunque in modo diverso da come pensano e pur non volendo altro che verità e sincerità, intorno a loro s'intreccia una rete di malintesi; e la loro veemente aspirazione non può impedire che sulle loro azioni permanga una nube di false opinioni, di adeguamento, di mezze ammissioni, di pietosi silenzi e di interpretazioni errate. Tutto ciò addensa una nube di malinconia sulla loro fronte: tali nature infatti più che la morte odiano l'apparenza che diventa necessità; e l'amarezza continua che ne deriva li rende vulcanici e minacciosi.
Di tanto in tanto si vendicano del loro forzato nascondersi, della riservatezza imposta. Escono dalle loro caverne con espressioni tremende: allora le loro parole e le loro azioni sono esplosioni ed è possibile che causino la loro stessa rovina. In tanta pericolosità visse Schopenhauer...
Schopenhauer - la guida cioè, che dalle caverne del malumore scettico e della rinuncia critica conduce in alto, verso la sommità della contemplazione tragica, il cielo notturno con le sue stelle infinitamente sopra di noi e che, per primo, ha condotto su questa strada se stesso.
Questa è la sua grandezza: nell'essersi posto di fronte al quadro della vita come di fronte ad un tutto, per interpretarlo come un tutto; mentre le teste più acute non riescono a liberarsi dall'errore che a questa interpretazione si possa giungere solo analizzando minuziosamente i colori e la materia su cui questo quadro è stato dipinto; col solo risultato, forse, che si tratta di una tela dalla tessitura intricatissima e di colori che non si possono analizzare chimicamente. Bisogna indovinare il pittore per poterne intendere il quadro, e Schopenhauer questo lo sapeva.
Ora tutta la congrega di tutte le scienze si sforza di capire quella tela e quei colori, ma non il dipinto; si può, anzi, dire che solo colui che ha compreso e fissato nei suoi occhi il quadro generale della vita e dell'esistenza, potrà servirsi, senza suo danno, delle varie scienze, giacché senza questo quadro d'insieme regolatore, esse non sono che fili che non portano mai alla fine e rendono lo svolgersi della nostra vita ancor più confuso e labirintico. Proprio in questo come ho detto Schopenhauer è grande, perché persegue quel quadro come Amleto lo spirito, senza farsi mai distrarre, come fanno gli eruditi, o senza rimanere impigliato nella scolastica concettuale, sorte questa dei dialettici sfrenati.
Lo studio di tutti i mezzi-filosofici è attraente soltanto per conoscere che essi, nella costruzione di grandi filosofie, si fermano subito dove è accademicamente il pro e il contro, dove è permesso rimuginare, dubitare, contraddire, e, così, sfuggono all'esigenza di ogni grande filosofia che, in quanto totalità, afferma sempre e soltanto: questo è il quadro di tutta la vita, e da ciò impara il senso della tua... E per converso: leggi soltanto la tua vita e da essa comprendi i geroglifici della vita universale.
Immaginiamoci l'occhio del filosofo indugiare sull'esistenza: egli vuole stabilire di nuovo il valore. Questo è stato infatti il lavoro proprio di tutti i grandi pensatori, essere legislatori per la misura, la moneta e il peso delle cose. Come sarà imbarazzante per lui se l'umanità, che vede per prima, è un gracile frutto divorato dai vermi! Quanto dovrà aggiungere al «non valore» dell'epoca per essere comunque giusto verso l'esistenza!
Se occuparsi della storia di popoli passati o stranieri ha valore, lo ha soprattutto per il filosofo che voglia dare un giudizio equo su tutta la sorte umana, non quindi solo su quella media, ma anche e soprattutto su quella suprema, che può toccare ai singoli come a interi popoli. Ora però tutto ciò che è presente è importuno, opera e condiziona l'occhio anche quando il filosofo non vuole; e, involontariamente, nel conto complessivo sarà sopravvalutato. Perciò il filosofo deve ben valutare la sua epoca nella sua differenza rispetto alle altre e, mentre supera per sé il presente, deve superarlo anche nei quadro che dà della vita, rendendolo cioè impercettibile e ridipingendovi sopra. Compito difficile e quasi inassolvibile...
Se ogni grande uomo, di preferenza, è considerato proprio come l'autentico figlio del suo tempo - e comunque soffre di tutti i suoi malanni con maggiore intensità e sensibilità di tutti gli altri uomini più piccoli - la lotta di un tale grande contro la sua epoca è solo apparentemente una battaglia insensata e deleteria contro se stesso. Ma appunto solo apparentemente; poiché nel suo tempo egli combatte ciò che gli impedisce di essere grande, e ciò in lui non significa altro che essere liberamente e completamente se stesso. Ne consegue che la sua inimicizia in fondo è indirizzata contro ciò che è sì in lui stesso, ma che però non è propriamente lui stesso, cioè contro l'impuro mescolarsi e coesistere di ciò che è immescolabile e non unificabile in eterno, contro la falsa saldatura dell'attuale al suo inattuale
4.
Ogni filosofia che creda rimandato e risolto il problema dell'esistenza da un avvenimento politico è una filosofia da farsa o una pseudofilosofia. Più volte ormai, da quando il mondo esiste, si sono fondati gli Stati; questa è una vecchia storia. Come dovrebbe un rinnovamento politico essere sufficiente a rendere, una volta per tutte, gli uomini appagati abitatori della terra? Ma se qualcuno nel profondo del suo cuore crede veramente che ciò sia possibile, allora si faccia avanti: merita in verità di diventare professore di filosofia in una università tedesca…
Quindi subiamo, tuttavia, le conseguenze di quella dottrina predicata di recente da tutti i tetti, secondo cui il fine supremo dell'umanità sarebbe lo Stato e per un uomo non ci sarebbe più alto dovere del servire lo Stato: in ciò io non vedo una ricaduta nel paganesimo ma nella stupidità. Può essere che un uomo, che vede nel servizio allo Stato il suo dovere supremo, non conosca realmente altri obblighi superiori; ma proprio perciò dall'altra parte esistono altri uomini e altri doveri e uno di questi doveri, che per me almeno vale più del servire lo Stato, esige che si distrugga la stupidità in ogni sua forma, quindi anche questa stupidità.
Com'è dunque che il filosofo considera la cultura nella nostra epoca? Certo in modo diverso da quei professori di filosofia soddisfatti del loro Stato. Se considera la fretta generale, la crescente velocità di caduta, la fine di ogni contemplatività e semplicità, è quasi come se avvertisse i sintomi di una completa distruzione e sradicamento della cultura.
5.
Questo è il pensiero fondamentale della cultura in quanto sa dare a ognuno di noi un compito: favorire il formarsi del filosofo, dell'artista e del santo in noi e fuori di noi e così collaborare al perfezionamento della natura. Infatti, come la natura ha bisogno del filosofo, così ha bisogno dell'artista, per uno scopo metafisico, e cioè per la propria illuminazione su se stessa, sicché finalmente le si ponga di fronte, come immagine pura e compiuta, ciò che non riesce a vedere chiaramente nell'irrequietezza del suo divenire dunque per l'autoconoscenza.
6.
Il problema infatti è: come può la tua vita, vita di un singolo, acquistare il valore supremo e il significato più profondo? In che modo può essere meno sprecata?
Certo vivendo soltanto a vantaggio degli esemplari più rari e più preziosi e non a vantaggio dei più, degli esemplari cioè che, singolarmente presi, hanno minor valore. Proprio questa determinazione dovrebbe essere inculcata e coltivata in un giovane in modo che intenda se stesso quasi come opera mal riuscita della natura, ma allo stesso tempo come testimonianza delle maggiori e più meravigliose intenzioni di questo artista: questa volta l'opera le è riuscita male dovrebbe dirsi ma voglio far onore alla sua grande intenzione, mettendomi al suo servizio perché possa riuscire un'altra volta.
Con questo proposito egli si pone nell'ambito della cultura; essa infatti è figlia dell'autoconoscenza di ogni singolo e dell'insoddisfazione di sé. Colui che le si riconosce devoto, si esprime così: «sopra di me vedo qualcosa di più elevato e più umano di quanto io stesso sono, aiutatemi tutti a raggiungerlo, così come io voglio aiutare chiunque conosca la stessa cosa e ugualmente ne soffra: affinché finalmente risorga l'uomo, che sente se stesso pieno e infinito nel conoscere e nell'amare, nel contemplare e nel potere, e che in tutta la sua totalità si affida e confida nella natura, come giudice e misura del valore delle cose».
Solo chi con il suo cuore è attaccato a un grande uomo riceve la prima consacrazione della cultura; ne è segno il vergognarsi di sé senza malumore, l'odio verso la propria ristrettezza e miseria, la simpatia per il genio, che è riuscito sempre di nuovo a strapparsi da questa nostra tetraggine e aridità, il presentimento di tutti coloro che verranno e combatteranno, e la più profonda convinzione di incontrare quasi ovunque la natura nella sua condizione di bisogno, mentre urge verso l'uomo; mentre sente dolorosamente fallire ancora una volta la sua opera, mentre, tuttavia, ovunque le riescono gli spunti e i lineamenti e le forme più mirabili: così che gli uomini con cui viviamo sono simili a un campo di macerie dei più preziosi abbozzi figurativi, in cui tutto grida verso di noi: venite, aiutateci, completate, riunite ciò che deve stare insieme, ci struggiamo immensamente di divenire un tutto.
Chi lascia che tra se stesso e le cose si frappongano concetti, opinioni, antichità, libri, chi insomma è nato, nel senso più ampio, per la storia, non vedrà mai le cose per la prima volta, né sarà mai egli stesso una tale cosa vista per la prima volta. Tutti e due gli aspetti sono invece certamente presenti nel filosofo, poiché egli deve trarre da se stesso la maggior parte degli insegnamenti e poiché serve a se stesso come immagine e compendio di tutto il mondo. Se qualcuno si osserva servendosi di opinioni altrui, non c'è da meravigliarsi se in sé non vedrà altro che opinioni altrui! Così sono, vedono e vivono gli studiosi.
8.
Succede, infatti, che lo Stato ha comunque paura della filosofia e, se così stanno le cose, cercherà di attirare a sé quanti più filosofi gli è possibile, che gli diano la parvenza di avere la filosofia dalla sua parte perché così ha al suo fianco questi uomini che ne portano il nome e, tuttavia, non incutono alcun timore. Ma se dovesse comparire un uomo che faccia veramente atto di affrontare tutto con il coltello della verità, anche lo Stato, allora lo Stato, poiché prima di tutto afferma la propria esistenza, è in diritto di escludere da sé un tipo simile e di trattarlo come nemico; proprio allo stesso modo in cui esclude una religione e la tratta come elemento ostile, quando questa si ponga al di sopra di lui e ne voglia essere giudice.
Se qualcuno, dunque, sopporta di essere filosofo per grazia dello Stato, deve anche sopportare di essere considerato dallo Stato come se avesse rinunciato a perseguire la verità in ogni angolo più nascosto. Almeno finché è favorito e ha un posto, deve riconoscere al di sopra della verità qualcosa di più elevato, lo Stato. E non solo quello, ma tutto ciò che lo Stato richiede per il suo bene: ad esempio una determinata forma della religione, dell'ordinamento sociale, dell'organizzazione militare su tutte queste cose c'è scritto noli me tangere. E’ mai accaduto che un filosofo di università abbia compreso con chiarezza tutta l'estensione dei suoi doveri e delle sue limitazioni? Non lo so; se qualcuno l'ha fatto, rimanendo ugualmente funzionario statale, è certo come minimo un cattivo amico della verità; se non l'ha mai fatto allora, dovrei pensare, anche in questo caso non è un amico della verità.
Domanda: può veramente un filosofo impegnarsi con buona coscienza ad avere ogni giorno qualcosa da insegnare? E insegnando a chiunque voglia ascoltare? Non deve forse dare l'impressione di sapere più di quanto sa? Non deve parlare davanti a un uditorio sconosciuto, di cose di cui potrebbe parlare, senza pericolo, solo con gli amici più prossimi? E soprattutto: non si priva così della sua splendida libertà di seguire il suo genio quando questo chiama e nella direzione che indica dato che a ore stabilite è obbligato a pensare in pubblico su cose precedentemente stabilite? E tutto ciò davanti ai giovani! Un tal modo non è per così dire, a priori svirilizzato? Che succederebbe se un bel giorno egli sentisse: «oggi non posso pensare, non mi viene in mente nulla di sensato» e tuttavia dovesse mettersi in cattedra e dare l'impressione di pensare?
Ma ammesso che questa schiera di cattivi filosofi è ridicola e chi non lo ammetterebbe? fino a che punto sono anche dannosi? Per rispondere brevemente: lo sono perché rendono ridicola la filosofia. Finché durerà questo pseudo modo di pensare, riconosciuto dallo Stato, ogni grandioso effetto di una vera filosofia sarà vanificato o, almeno, ostacolato e da niente altro se non dalla maledizione del ridicolo, che i rappresentanti di quella grande cosa hanno attirato su di sé ma che colpisce la cosa stessa. Perciò io dico che è un'esigenza della cultura sottrarre alla filosofia qualsiasi riconoscimento statale o accademico e esonerare lo Stato e l'accademia da quel compito per loro inassolvibile, di distinguere tra filosofia vera e apparente.
Lasciate, comunque, che i filosofi crescano selvaggiamente, negate loro ogni prospettiva di un posto e di un inserimento nelle professioni borghesi, non sollecitateli più con stipendi, anzi ancor di più: perseguitateli, siate maldisposti nei loro confronti e vedrete cose meravigliose! Allora quei poveri filosofi apparenti si disperderanno e cercheranno qua e là un tetto: qui si apre una parrocchia, lì una scuola, questo si rifugia in una redazione di giornale, quello scrive manuali per scuole femminili superiori, il più ragionevole di loro afferra l'aratro, e il più vanesio va a corte. Improvvisamente tutto è vuoto, il nido è abbandonato: è facile infatti liberarsi dai cattivi filosofi, basta non favorirli più. E ciò è certo più consigliabile che patrocinare pubblicamente, attraverso lo Stato, una filosofia, qualunque essa sia.
Proprio così si dovrebbe scrivere sulla lapide della filosofia delle università: «Non ha turbato nessuno». Ma questa è più la lode di una anziana donna che di una dea della verità, e non c'è da stupirsi se coloro che conoscono questa dea solo come una vecchietta sono essi stessi poco uomini e perciò, a buon diritto, non vengono più tenuti in alcuna considerazione dagli uomini del potere.
Ma se questa è la situazione nel nostro tempo, allora la dignità della filosofia è calpestata nella polvere: sembra che essa stessa sia diventata qualcosa di ridicolo o indifferente: cosicché tutti i suoi veri amici sono tenuti a render testimonianza contro questo equivoco o, per lo meno, a mostrare che soltanto quei falsi servitori e quegli indegni rappresentanti della filosofia sono ridicoli e indifferenti. Meglio ancora se con l'azione dimostrano che l'amore per la verità è qualcosa di terribile e violento.
Scienza
6.
La scienza sta alla saggezza come la virtuosità alla santificazione: essa è fredda e asciutta, non ha amore e non sa nulla di un sentimento profondo di insoddisfazione e nostalgia. Essa è tanto più utile a se stessa quanto è nociva per i suoi servi, in quanto trasferisce su di loro il proprio carattere e, per così dire, ne fossilizza l'umanità. Finché come cultura si intenderà essenzialmente l'incremento della scienza, essa passerà impietosa e fredda davanti agli uomini sofferenti perché la scienza vede ovunque solo problemi di conoscenza, e perché il dolore nel suo mondo è qualcosa di inappropriato e incomprensibile, e, al massimo, è ancora un altro problema.
Ma basta abituarsi a tradurre ogni esperienza in un gioco dialettico di domanda e risposta e in un fatto puramente intellettuale ed è strabiliante in quanto breve tempo l'uomo con un'attività del genere si inaridisca e rapidamente si riduca a un mucchio di ossa scricchiolanti. Chiunque lo sa e lo vede: come è dunque possibile che ciononostante i giovani non indietreggino inorriditi di fronte a questi uomini ossificati, e continuino ad abbandonarsi ciecamente, senza scelta e senza misura, alle scienze? Ciò non può certo derivare da un presunto «impulso alla verità»: come potrebbe infatti esistere un impulso per la conoscenza fredda, pura e priva di conseguenze!
Quali siano invece le vere e proprie forze motrici nei servitori della scienza appare anche troppo chiaramente allo sguardo spregiudicato: ed è molto consigliabile analizzare e sezionare anche gli studiosi dopo che essi stessi si sono abituati a maneggiare sfacciatamente e a scomporre tutto ciò che è al mondo, anche ciò che vi è di più nobile.
Se devo esprimere ciò che penso, dirò: lo scienziato è fatto di un complicato intreccio di stimoli assai diversi, è un metallo assolutamente impuro. Si consideri, dunque, prima di tutto una forte e sempre più acuita bramosia di novità, il desiderio di avventure della conoscenza, la forza sempre stimolante del nuovo e del raro in opposizione al vecchio e noioso. A ciò si aggiunga un certo istinto dialettico per l'indagine e il gioco, il piacere del cacciatore per astute mosse volpine del pensiero, così che in realtà non si ricerca la verità ma il ricercare in sé, il piacere principale consiste nell'astuto avvicinarsi strisciando, nell'accerchiare, nell'uccidere a regola d'arte.
A questo si aggiunga ancora l'impulso alla contraddizione; la personalità vuole, contro tutti gli altri, sentire se stessa e farsi sentire; la lotta diventa piacere e il fine è la vittoria personale, mentre la lotta per la verità ne è solo un pretesto. Per una buona parte, ancora, nello scienziato è mescolato l'impulso a trovare determinate «verità», cioè per sudditanza rispetto a persone, caste, opinioni, chiese e governi dominanti perché avverte di giovare a se stesso portando la «verità» dalla loro parte. Con minor frequenza, ma tuttavia abbastanza spesso, nello scienziato si manifestano le seguenti qualità. In primo luogo, onestà e senso di semplicità, che debbono apprezzarsi moltissimo se non sono soltanto mancanza di duttilità e di perizia nella finzione, per la quale del resto occorre un certo spirito. Infatti, ovunque lo spirito e la duttilità danno molto nell'occhio, bisogna stare attenti e dubitare un p0' della rettitudine del carattere. D'altra parte, per lo più, quell'onestà è di poco valore e anche per la scienza solo di rado feconda, poiché essa è attaccata a ciò che è abituale ed è solita dire la verità soltanto a proposito di cose semplici o in adiaphoris; infatti in questo caso, corrisponde più all'accidia dire la verità che tacerla. E poiché tutto ciò che è nuovo rende necessario l'imparar daccapo, l'onestà, quando in qualche modo è possibile, rende onore all'antica opinione e rimprovera a chi annuncia il nuovo la mancanza di sensus recti. Perciò oppose resistenza alla dottrina di Copernico, perché aveva dalla sua l'apparenza e l'abitudine.
L'odio molto frequente degli scienziati nei confronti della filosofia è soprattutto odio verso le lunghe concatenazioni di concetti e la ricercatezza delle dimostrazioni. In fondo ogni generazione di scienziati ha una inconsapevole misura dell'acume permessole; ciò che va oltre questa misura è messo in dubbio e quasi utilizzato come motivo di sospetto nei confronti dell'onestà. In secondo luogo, l'acutezza dello sguardo per le cose vicine legata a una grande miopia per le cose lontane e per ciò che è generale. Il suo campo visivo è in genere molto limitato, i suoi occhi devono rimanere assai vicini all'oggetto.
Se uno scienziato vuole spostare la sua attenzione da un punto appena studiato a un altro, fa convergere tutto il suo apparato visivo su quel punto. Scompone un'immagine in vere e proprie zone, come chi adopera il binocolo da teatro per vedere la scena ed ora vede una testa ora un pezzo di costume ma non riesce ad abbracciare il tutto con lo sguardo. Non riesce a vedere mai quella singola zona nella sua connessione, ma ne rende soltanto accessibile il contesto; perciò, di fronte a tutto ciò che è generale, non ha alcuna forte impressione. Non potendolo valutare nella sua totalità, giudica, ad esempio, uno scritto da alcuni brani o frasi o errori; sarebbe indotto ad affermare che un dipinto ad olio è un selvaggio guazzabuglio di scarabocchi…
In tutti i tempi i geni e gli studiosi sono stati in conflitto. Questi ultimi vogliono uccidere la natura, sezionarla e comprenderla, i primi invece vogliono accrescere la natura con una nuova natura vivente; e così c'è un conflitto di intenzioni e di attività. Tempi del tutto felici non hanno avuto bisogno dello scienziato e non lo hanno conosciuto, epoche completamente malate e svogliate lo hanno apprezzato come l'uomo migliore e più degno, dandogli il primo posto.
Storia, Politica, Economia, Classi sociali
1.
Con quanta ripugnanza si occuperanno le generazioni future dell'eredità di un'epoca in cui a governare non erano uomini viventi ma parvenze di uomini con un'opinione pubblica; per questo forse la nostra epoca apparirà a una qualche lontana posterità il periodo della storia più oscuro e più ignoto perché più inumano.
4.
Ora quasi tutto sulla terra è determinato dalle forze più rozze e peggiori, dall'egoismo degli affaristi e dai tiranni militari. Lo Stato, nelle mani di questi ultimi - così come l'egoismo degli affaristi - fa certo il tentativo di riorganizzare tutto di sua iniziativa ed essere, quindi, vincolo e pressione per tutte quelle forze ostili: desidera, cioè, che gli uomini abbiano verso di lui la stessa idolatria che prima riservavano alla Chiesa.