Ecce Homo |
Il ruolo storico di NietzschePrologo 2. L'ultima cosa che io prometterei, sarebbe «correggere» l'umanità. Non erigerò nuovi idoli; i vecchi possono cominciare ad imparare cosa comporta avere i piedi d'argilla. Rovesciare gli idoli (il mio termine per «ideali») è questo, piuttosto, che attiene al mio mestiere. La realtà è stata spogliata del suo valore, del suo senso, della sua veracità, nella misura in cui si è inventato un mondo ideale. Il «mondo reale» e il «mondo apparente» - vedi: il mondo inventato e la realtà... La menzogna dell'ideale è stata fino ad ora la maledizione scagliata contro la realtà, l'umanità stessa è diventata, per suo mezzo, mendace e falsa, giù nei suoi istinti più sotterranei fino al culto dei valori inversi rispetto a quelli per mezzo dei quali le sarebbe stata garantita la crescita, il futuro, il solenne diritto all'avvenire. Perché sono un destino 1. Conosco il mio destino. Un giorno il mio nome sarà associato al ricordo di qualcosa di prodigioso, - a una crisi, come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza, a un verdetto evocato contro tutto ciò che è stato finora creduto, preteso, santificato. Io non sono un uomo, sono dinamite. - E con tutto ciò non vi è in me nulla del fondatore di religioni le religioni sono affari per la plebe, io ho bisogno di lavarmi le mani dopo il contatto con uomini religiosi... Non voglio «credenti», penso di essere troppo maligno per credere a me stesso, non parlo mai alle masse... Ho una paura terribile che un giorno mi canonizzino: si indovinerà perché pubblico prima questo libro, deve impedire che con me si commettano degli eccessi... Non voglio essere un santo, piuttosto un buffone... Forse sono un buffone... E tuttavia, o piuttosto, non tuttavia perché non ci fu niente di più menzognero sinora del santo per bocca mia parla la verità. Ma la mia verità è terribile: poiché finora si è chiamata verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori, questa è la mia formula per un atto di sublime autodeterminazione dell'umanità, che è divenuto in me carne e genio. La mia sorte vuole ch'io debba essere il primo uomo come si deve, ch'io mi sappia in opposizione a una falsità di millenni... Io sono il primo ad aver scoperto la verità, per il fatto che io per primo ho sentito ho fiutato la menzogna come menzogna... Il mio genio è nelle mie narici... Io contraddico come mai è stato contraddetto e ciononostante sono il contrario di uno spirito negatore. Io sono messaggero di buone novelle come non ce ne fu nessuno, conosco compiti di un'altezza per la quale finora è mancato il concetto; solo a partire da me ci sono ancora speranze. Con tutto ciò sono necessariamente anche l'uomo della fatalità. Poiché quando la verità dà battaglia alla menzogna di secoli, avremo sconvolgimenti, un sussulto di terremoti, uno spostamento di monti e valli, come non se ne sono mai sognati. Il concetto di politica è trapassato con ciò interamente in una guerra di spiriti, tutte le forme di potere della vecchia società sono saltate in aria - si basano tutte sulla menzogna: ci sarà guerra, come non c'è stata mai sulla terra. Solo a partire da me ci sarà sulla terra una grande politica. Perché sono così saggio 6. - La mia prassi di guerra può essere compresa in 4 princìpi. Primo: attacco solo cose che sono vittoriose, in alcune circostanze aspetto fino a che siano vittoriose. Secondo: attacco solo cose contro le quali non troverei nessun alleato, contro le quali sono solo, contro le quali mi comprometto io solo... Non ho mai fatto pubblicamente un passo che non mi compromettesse: questo è il mio criterio del giusto agire. Terzo: non attacco mai persone, mi servo della persona solo come di una potente lente di ingrandimento, con la quale si può rendere visibile uno stato di disagio generale, ma strisciante, difficilmente afferrabile... Quarto: attacco solo cose dalle quali sia esclusa qualsiasi divergenza personale, dove manchi ogni retroscena di brutte esperienze. Al contrario, attaccare è, per me, una dimostrazione di benevolenza e, in determinate circostanze, di gratitudine. Associando il mio nome a una cosa, a una persona io le rendo onore, la distinguo: pro o contro per me è lo stesso... Perché scrivo libri così buoni 1. Una cosa sono io, un'altra i miei scritti. - Prima ch'io parli dei miei scritti stessi, conviene trattare qui il problema della loro comprensione o non-comprensione. Lo faccio con tutta la noncuranza del caso: poiché il momento per questo problema non è ancora giunto. Non è giunto neppure il mio, ci sono uomini che nascono postumi. - Prima o poi avremo bisogno di istituzioni nelle quali vivere e insegnare come io intendo che si viva e si insegni; forse verranno istituite anche cattedre particolari per l'interpretazione dello Zarathustra. Ma sarei in totale contraddizione con me stesso se mi aspettassi di trovare già oggi orecchi e mani per le mie verità: che oggi non si ascolti, che oggi non si sappia prendere da me, non solo è comprensibile, ma a me pure sembra giusto. Non voglio essere preso per quello che non sono, per ciò occorre che io stesso non mi prenda per ciò che non sono. Aurora Pensieri sui pregiudizi morali 2. Il mio compito, quello di preparare un momento di sublime autocoscienza dell'umanità, un grande mezzogiorno, nel quale essa guardi all'indietro o in avanti, nel quale essa esca dal dominio del caso e dei preti e ponga globalmente per la prima volta la questione del «perché»? dell'«a che scopo»? , questo compito deriva necessariamente dall'idea che l'umanità non è di per se stessa sulla buona via, che non è affatto retta da leggi divine, ma che proprio tra i suoi concetti di valore più sacri ha dominato, con la seduzione, l'istinto della negazione, della corruzione, l'istinto della décadence. La questione sull'origine dei valori morali è dunque per me una questione di primo piano, poiché essa condiziona il futuro dell'umanità. La pretesa di dover credere che in fondo tutto sia nelle mani migliori, che un libro, la Bibbia, offra una rassicurazione definitiva sulla guida e sulla saggezza divina nel destino dell'umanità, queste pretese, se ritradotte nella realtà, appare come volontà di non lasciar emergere la verità sulla miserevole antitesi di tutto questo, e cioè sul fatto che fino ad oggi l'umanità è stata nelle mani peggiori, è stata retta dai malriusciti, dai maligni vendicativi, dai cosiddetti «santi», questi calunniatori del mondo e denigratori dell'uomo. Coscienza e inconscioPerché sono così accorto 9. - Bisogna tenere sgombra tutta intera la superficie della coscienza - la coscienza è una superficie - da qualsiasi grande imperativo. Attenzione anche alle grandi parole, ai grandi atteggiamenti! Tutti pericoli che l'istinto «si comprenda» troppo presto. Nel frattempo, nel profondo, cresce sempre di più l'«idea» organizzatrice, l'idea chiamata al dominio, essa comincia a comandare, riconduce lentamente indietro dalle deviazioni e dagli sviamenti, prepara singole qualità e capacità, che si dimostreranno un giorno indispensabili come strumento per il tutto, essa forma successivamente tutti i poteri subalterni, prima ancora di far conoscere qualcosa del compito dominante, della «meta», dello «scopo», del «senso». Considerata da questo punto di vista, la mia vita è semplicemente prodigiosa. Umano, troppo umano Con due continuazioni 3. Allora il mio istinto si decise inesorabilmente contro ogni ulteriore cedimento, contro ogni comune procedere, ogni prendersi per un altro. Ogni genere di vita, le condizioni più sfavorevoli, malattia, povertà, - tutto mi sembrò preferibile a quell'indegno «altruismo» nel quale ero incappato prima per ignoranza, per gioventù e al quale, più tardi, ero rimasto legato per pigrizia, per il cosiddetto «senso del dovere». - A questo punto mi venne in aiuto, in un modo che non potrò mai ammirare abbastanza, e proprio al momento giusto, quella cattiva eredità paterna - in fondo la predestinazione a una morte precoce. La malattia mi sciolse lentamente da tutto: mi risparmiò ogni rottura, ogni passo violento e rivoltante. Non ho perduto allora la benevolenza di nessuno e ne ho acquistata molta ancora. La malattia mi diede nel contempo il diritto a un completo rovesciamento di tutte le mie abitudini; mi permise, mi ordinò di dimenticare; mi donò la necessità del riposo, dell'ozio, dell'attesa e della pazienza... Ma questo è appunto pensare! I miei occhi misero fine da soli ad ogni frenetico nutrirsi di libri, cioè alla filologia: ero libero dal «libro», per anni non lessi più nulla - il maggiore beneficio ch'io mi sia mai concesso! - Quel profondo me stesso, quasi sepolto, quasi ridotto al silenzio sotto un obbligo costante di ascoltare altri sé (- e questo appunto è leggere!) si risvegliò lentamente, timidamente, dubbiosamente, - ma alla fine parlò di nuovo. Mai ho provato tanta felicità di me come nei tempi più pieni di dolore e di malattia della mia vita: basta prendere in esame Aurora oil viandante e la sua ombra per capire cosa fu questo «ritorno a me stesso»: una forma suprema di guarigione!... L'altra ne fu semplicemente una conseguenza. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno 3. - C'è qualcuno, che alla fine del XIX secolo abbia un'idea chiara di ciò che i poeti delle epoche forti chiamavano ispirazione? Se non è così, voglio descriverla io. - Per quanto minimo sia il residuo di superstizione che si conserva in sé, non si riesce, in realtà, ad evitare la convinzione di essere semplici incarnazioni, semplici strumenti di voci altrui, semplici medium di forze superiori. Il concetto di rivelazione, nel senso che all'improvviso, con indicibile sicurezza e finezza, un qualcosa si fa visibile, udibile, un qualcosa che sconvolge e travolge, fin nel profondo, questo concetto descrive semplicemente il dato di fatto. Si ode, non si cerca; si prende, non si chiede chi offre; come una folgore si accende un pensiero, per necessità, in una forma priva di tentennamenti, io non ho mai avuto scelta. Un entusiasmo la cui mostruosa tensione si scioglie in un fiume di lacrime nel quale il passo si fa involontariamente ora precipitoso, ora lento; un totale esser-fuori-di-sé con la coscienza più chiara di un numero infinito di brividi sottili e di irrigazioni fino alla punta dei piedi; una profondità di gioia nella quale il colmo del dolore e delle tenebre non agisce come contrasto, ma come voluto, come provocato, come un colore necessario all'interno di una tale sovrabbondanza di luce; un istinto di rapporti ritmici che si distende in ampi spazi di forme la durata, il bisogno di un ritmo ampio e teso è quasi la misura della violenza dell'ispirazione, una sorta di elemento equilibratore rispetto alla sua pressione e tensione... Tutto avviene in un modo assolutamente involontario, ma come in una tempesta di sentimenti di libertà, di indeterminatezza, di potenza, di divinità... L'involontarietà dell'immagine, della metafora è il dato più notevole; non ci si rende più conto di che cosa sia un'immagine, che cosa una metafora, tutto si offre come la più prossima, la più giusta, la più semplice espressione. Sembra veramente, per ricordare le parole di Zarathustra, che le cose stesse si avvicinino e si offrano alla metafora (-«qui tutte le cose giungono carezzevoli al tuo discorso e ti blandiscono: poiché vogliono galoppare sulle tue spalle. Qui, ad ogni metafora, tu galoppi verso una verità. Qui tutte le parole dell'essere e gli scrigni delle parole si spalancano per te; qui ogni essere vuole diventare parola, ogni divenire vuol imparare a parlare da te - »). Questa è la mia esperienza dell'ispirazione; non dubito che bisogna ripercorrere secoli all'indietro per trovare qualcuno che possa dirmi «è anche la mia».- Psicologia e vissutiPerché sono così saggio 1. La felicità della mia esistenza, la sua unicità forse, sta nella sua fatalità: per parlare per enigmi, in quanto mio padre sono già morto, in quanto mia madre vivo ancora e invecchio. Questa doppia origine, per così dire dal più alto come dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e insieme cominciamento - se c'è qualcosa che spieghi quella neutralità, quella libertà da ogni fazione di fronte al problema della vita nel suo complesso, che forse mi contraddistingue, è proprio questo. Io ho, per i segni dell'ascesa e del declino, più fiuto di quanto un uomo abbia mai avuto, io sono, in questo, il maestro par excellence, - conosco l'una e l'altro, sono l'una e l'altro. - Mio padre morì a trentasei anni: era tenero, amabile e morboso, come un essere destinato solo a passare oltre piuttosto un ricordo benevolo della vita, che la vita stessa. Nello stesso anno in cui la sua vita declinò, declinò anche la mia: nel trentaseiesimo anno la mia vitalità toccò il punto più basso, vivevo ancora, tuttavia senza vedere a tre passi davanti a me. Allora era il 1879 lasciai la cattedra di Basilea, passai l'estate a St. Moritz, come un'ombra, e l'inverno seguente, il più privo di sole della mia vita, a Naumburg, ero un'ombra. Fu il mio minimum: «Il viandante e la sua ombra», nacque in quel periodo. Senza alcun dubbio allora mi intendevo di ombre... L'inverno seguente, il mio primo inverno genovese, quell'addolcimento e quella spiritualizzazione che un estremo impoverimento del sangue e dei muscoli comporta quasi inevitabilmente, portò alla nascita di Aurora. La limpidezza perfetta e la serenità, l'esuberanza quasi dello spirito, che quest'opera riflette, si accordano in me non solo con la più profonda debolezza fisiologica, ma addirittura con un eccesso di sensazioni dolorose. Nel martirio che mi causava un'ininterrotta emicrania di tre giorni consecutivi, accompagnata da un penoso vomito di muco, possedevo una chiarezza dialettica par excellence ed esaminavo con grande sangue freddo cose per le quali, in migliori condizioni di salute, non sono uno scalatore sufficientemente ardito, sufficientemente raffinato, sufficientemente freddo. I miei lettori sanno forse fino a qual punto io consideri la dialettica come un sintomo di décadence, per esempio nel caso più famoso: quello di Socrate. Tutti i turbamenti morbosi dell'intelletto, anche quel mezzo stordimento che segue alla febbre, mi sono rimasti fino ad oggi completamente estranei: ho dovuto informarmi sui libri della loro natura e della loro frequenza. Il mio sangue scorre lentamente. Nessuno ha mai potuto accertare la febbre su di me. Un medico, che mi curò a lungo come malato di nervi, disse alla fine: «no! i suoi nervi non hanno niente, sono io che sono nervoso». In definitiva nessuna degenerazione locale accertabile; nessun mal di stomaco di natura organica, per quanto sappia, come conseguenza di un esaurimento generale, di una fortissima debolezza del sistema gastrico. Anche il dolore agli occhi, che si avvicina a volte, pericolosamente, alla cecità, è solo una conseguenza, non una causa: di modo che ogni accrescimento della forza vitale ha accresciuto la forza visiva. Guarigione vuol dire, per me, una lunga, troppo lunga serie di anni, significa purtroppo anche ricaduta, declino, periodicità di ogni genere di decadence. Ho forse bisogno di dire, dopo tutto ciò, che sono esperto in materia di décadence? La ho sillabata da ogni lato. E anche quell'arte della filigrana dell'afferrare e comprendere in generale, quel tocco per le nuances, quell'attitudine psicologica a «vedere dietro l'angolo», e ogni altra cosa che mi distingue, l'ho imparata allora, è il vero dono di quel tempo nel quale ogni cosa si affinò in me, l'osservazione come tutti gli organi dell'osservazione. Partendo dall'ottica del malato, considerare i concetti e i valori più sani, poi, al contrario, partendo dalla pienezza e dalla sicurezza di sé della vita ricca, guardare in basso, nel lavoro segreto dell'istinto di décadence questo è stato il mio esercizio più lungo, la mia vera e propria esperienza, se sono stato maestro in qualche cosa lo sono stato qui. Ora l'ho in mano, mi sono fatto la mano a rovesciare le prospettive: ragione prima per la quale a me solo, forse, è possibile una «trasvalutazione dei valori». 2. Indipendentemente dal fatto che sono un décadent, sono anche il suo contrario. Prova ne è, tra l'altro, che contro le condizioni spiacevoli ho sempre scelto, istintivamente, gli strumenti adatti: mentre il décadent in sé sceglie sempre gli strumenti che lo danneggiano. Come summa summarum ero sano; ma nel dettaglio, nella peculiarità ero decadent. Quell'energia per conquistare un assoluto isolamento e distacco dalle condizioni abituali, la violenza con la quale mi sono imposto di non lasciarmi più curare, servire, coccolare dai medici tutto questo tradisce l'assoluta sicurezza dell'istinto per quanto riguarda ciò di cui allora, avevo soprattutto bisogno. Mi presi in mano, mi guarii io stesso: la condizione per questo ogni fisiologo lo ammetterà è che si sia fondamentalmente sani. Un essere tipicamente morboso non può guarire, tanto meno guarirsi; per uno tipicamente sano, al contrario, la malattia può essere addirittura un energico stimolante al vivere, al vivere-di-più. E’ così infatti che mi appare ora quel lungo periodo di malattia: scoprii, per così dire, di nuovo la vita, me stesso incluso, gustai tutte le cose buone, anche le piccole cose, come altri non avrebbero facilmente potuto gustarle, - feci della mia volontà di salute, di vita, la mia filosofia... Poiché, si faccia attenzione, gli anni della mia minore vitalità furono quelli in cui cessai di essere pessimista: l'istinto dell'autoristabilirsi mi proibiva una filosofia della povertà e dello scoraggiamento... E da cosa, in fondo, si riconosce l'essere benriuscito? Dal fatto che un uomo benriuscito fa bene ai nostri sensi: dal fatto ch'è tagliato in un legno duro, tenero e profumato al tempo stesso. Gli piace solo ciò che gli si conviene; il suo piacere, il suo desiderio cessano non appena la misura di ciò che conviene viene superata. Egli indovina i rimedi contro le ferite, utilizza a suo vantaggio le disavventure; ciò che non lo uccide lo rende più forte. Raccoglie istintivamente, di tutto ciò che vede, ode, vive, la sua somma: è un principio selettivo, elimina molte cose. E sempre nella sua società, sia che tratti con libri, uomini o paesaggi: onora in quanto sceglie, in quanto concede, in quanto dà fiducia. Reagisce lentamente ad ogni tipo di stimoli; con quella lentezza alimentata in lui da una lunga prudenza e da una deliberata fierezza esamina la sollecitazione che giunge, è ben lontano dall’andarle incontro. Non crede alla «disgrazia», né alla «colpa»: sa chiudere con sé, con gli altri, sa dimenticare, è forte abbastanza perché tutto debba venire a suo vantaggio. - Ebbene, io sono l'opposto di un décadent: 3. Io sono un nobiluomo polacco pur sang, in cui non c'è neppure una goccia di sangue cattivo e tantomeno di sangue tedesco. Se cerco la più profonda antitesi di me stesso, l'incalcolabile volgarità degli istinti, trovo sempre mia madre e mia sorella, credermi imparentato con una tale canaille sarebbe una bestemmia contro la mia divinità. Il trattamento che ricevo, fino a questo momento, da parte di mia madre e di mia sorella m'ispira un indicibile orrore: qui è all'opera una perfetta macchina infernale, con infallibile sicurezza sul momento in cui si può ferire a sangue nei miei momenti più alti... perché allora manca ogni forza per difendersi contro questo velenoso vermicaio... La contiguità fisiologica rende possibile una tale disharmonia praestabilita... Ma io confesso che l'obiezione più profonda contro l'«eterno ritorno», il mio pensiero propriamente abissale, sono sempre la madre e la sorella. 4. Qualunque sia lo strumento, per quanto scordato, come solo lo strumento «uomo» può esserlo dovrei essere malato, per non riuscire a trarne qualcosa di ascoltabile. E quante volte mi è stato detto da questi stessi «strumenti» che non sì erano ancora mai sentiti suonare a quel modo... 5. Il mio genere di rappresaglie consiste nel far seguire il più rapidamente possibile una cosa intelligente a una sciocchezza: così, forse, la si recupera. Per usare una metafora: spedisco un vaso di confitures per liberarmi di una storia inacidita... 6. Poiché ci si consumerebbe troppo rapidamente, se d'altra parte si reagisse, non si reagisce più: questa è la logica. E con nulla si brucia più in fretta che con le passioni del ressentiment. La rabbia, la vulnerabilità morbosa, l'incapacità di vendicarsi, il desiderio, la sete di vendetta, l'intossicare in ogni senso questo è certamente, per chi è stremato, il modo più negativo di reagire: comporta un rapido dispendio di forza nervosa, un morboso aumento di secrezioni nocive, ad esempio della bile nello stomaco. Perché sono così accorto 8. In tutto ciò nella scelta dei cibi, del luogo e del clima, del riposo domina un istinto di autoconservazione, che nel modo più netto si esprime come istinto di autodifesa. Non vedere, non udire, non farsi avvicinare da molte cose prima astuzia, prima dimostrazione che non vi è un caso, bensì una necessità. La parola corrente, per questo istinto di autodifesa, è gusto. Il suo imperativo non ci ordina solo di dire no, dove il sì sarebbe segno di «altruismo», ma anche di dire no il meno possibile. Separarsi, dividersi da ciò dove il no sarebbe continuamente necessario. La ragione di ciò sta nel fatto che le spese difensive, anche minime, diventando regola, abitudine, determinano un impoverimento straordinario e assolutamente superfluo. Le nostre grandi spese sono le piccole spese che si ripetono. Il difendersi, il non lasciarsi avvicinare è una spesa non ci si inganni qui , una forza sprecata per fini negativi. Unicamente per la costante necessità di difendersi, si può diventare troppo deboli per potersi ancora difendere. Un'altra astuzia e autodifesa consiste nel fatto di reagire il più raramente possibile e di sottrarsi a situazioni e condizioni nelle quali ci si troverebbe costretti a esporre, per così dire, la propria «libertà», la propria iniziativa e diventare un semplice reagente. Prendo a paragone il rapporto con i libri. Il dotto, che in fondo si limita a «compulsare» i libri circa duecento al giorno per il filologo di capacità media - perde alla fine completamente la capacità di pensare da solo. Se non compulsa non pensa. Quando pensa, risponde a uno stimolo ( un pensiero letto) alla fine non fa che reagire. Il dotto pone tutta la sua energia nel dire sì e no, nella critica del già pensato, - egli stesso non pensa più... L'istinto d'autodifesa si è rammollito; diversamente si rivolterebbe contro i libri. Il dotto - un décadent. L'ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e nate per essere libere «ammazzate dalla lettura» già a trent'anni, ridotti ormai a fiammiferi, che bisogna strofinare perché diano scintille - «pensieri» -. Leggere un libro di prima mattina, al giungere del giorno, nella piena freschezza, nell'aurora della propria forza, questo io lo chiamo vizio!- Tipologie di carattereForza/debolezza Perché sono così saggio 6. Poter essere ostile, essere ostile: questo presuppone forse una natura forte, in ogni caso è presupposto di ogni natura forte. Essa ha bisogno di ostacoli, di conseguenza essa cerca gli ostacoli: il pathos aggressivo appartiene necessariamente alla forza, tanto quanto il sentimento di vendetta e il risentimento appartiene alla debolezza. La donna, ad esempio, è vendicativa: questo è proprio della sua debolezza, come la sua sensibilità di fronte alle pene altrui. - La forza dell'attaccante trova una sorta di criterio di misura nel nemico di cui ha bisogno: ogni crescita si rivela nella ricerca di un avversario o di un problema più potente: perché un filosofo che sia combattivo sfida a duello anche i problemi. Il compito non è quello di dominare le resistenze in generale, ma quelle contro le quali si deve impiegare tutta la propria forza, la propria duttilità e abilità nell'uso delle armi, avversari di pari valore... Parità con il nemico condizione prima per un duello leale. Dove si disprezza non si può far guerra; dove si comanda, dove si vede qualcosa sotto di sé, non si deve far guerra. Socialità
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