Storia della Filosofia diretta da Mario Dal PraVallardi, Milano, 1975-76 |
NIETZSCHEVolume IX - Capitolo XVIII(pp. 431-445)
1. LO SCHOPENHAUERISMO E VON HARTMANNNella filosofia e più largamente nella cultura letteraria e artistica tedesca, a partire dal 1850—60 e con la massima espansione nel decennio successivo, si ha una notevole presenza dello schopenhauerismo. Attraverso Schopenhauer riceve espressione un insieme di orientamenti e di interessi concentrati su problemi di filosofia dell'uomo, di filosofia della cultura e di visione del mondo o cosmologia, e insistenti, benché non manchino motivi idealistici e positivistici, sul rifiuto delle concezioni intellettualistiche e logicizzate della realtà e della cultura, su una concezione della realtà vera come volontà o vita o arte, su una considerazione pessimistica della civiltà. In una prima fase lo schopenhauerismo appare essenzialmente legato alle delusioni successive al 1849, alla negazione dell'idealismo e del razionalismo. Più avanti (si pensi per es. a Wagner) sembra riflettere l'avvicinarsi della crisi dell'ultimo Ottocento; esprime l'esigenza, ispirata insieme ad aristocraticismo e ad anarchismo, di rompere con la cultura e con la società della seconda metà del secolo, con il loro moderatismo, con la loro ristrettezza, con la loro sicurezza e stabilità. È, come il nietzschianesimo, attenzione prevalente per i problemi dell'uomo e per la drammaticità della condizione umana. È confusa insoddisfazione che respinge insieme il razionalismo neokantiano, il naturalismo ottimistico dei positivisti, lo scientismo, la stessa scienza, la cultura accademica, il cristianesimo e la società industriale, la rispettabilità e la mediocrità borghesi e l'avvento delle masse. Nella filosofia la fortuna di Schopenhauer si manifesta non tanto attraverso la formazione di una scuola (lo schopenhauerismo non riesce a penetrare nelle università e a diventare una tradizione di pensiero universitaria) quanto attraverso la vasta influenza delle sue idee. Von Hartmann e in buona parte anche Nietzsche si muovono nell'ambito di questa influenza. Ci sono però alcuni pensatori che possono dirsi schopenhaueriani in senso vero e proprio: Julius Frauenstädt (1813-79), prima hegeliano, poi, dal 1846-47, il divulgatore e uno degli artefici del successo di Schopenhauer; Julius Bahnsen (1830-81), che sviluppa una concezione del reale basata sulla contraddizione interna allo stesso principio del reale (la volontà che è volere e non volere) e quindi sul «tragico» come «legge del mondo»; Paul Deussen (1845-1919), amico di Nietzsche, fondatore della " Schopenhauer-Gesellschaft ", studioso — dietro suggestione della filosofia di Schopenhauer — del pensiero orientale. Schopenhaueriano (dopo essere stato hegeliano e, nel 1848-49, feuerba-chiano) è poi il compositore Richard Wagner (1813-83), autore di vari scritti filosofico-artistici, filosofico-religiosi e politici. Wagner, che influisce largamente sul primo Nietzsche, insiste molto sulle antinomie di arte (soprattutto il dramma greco, opera d'arte comprendente tutte le arti, opera d'arte totale) e filosofia, di natura e cultura intellettualistica, di popolo e moltitudine di individui. I secondi termini delle antinomie contrassegnano l'epoca cristiana e moderna. II pensiero di Wagner influenza fortemente anche le posizioni del già ricordato sociologo Houston Stewart Chamberlain. Una metafisica di tipo schopenhaueriano e il programma di pervenire a «risultati speculativi secondo il metodo induttivo-naturalistico», o, più in generale, il tentativo di combinare mondo spirituale-metafisico e mondo naturale-fenomenico, definiscono la posizione, considerata talvolta per questa ultima caratteristica una forma di spiritualismo, del berlinese Eduard von Hartmann (1842-1906). La sua opera principale è Philosophie des Unbewussten (1869). Soprattutto nel decennio 1870-80, ma anche dopo, fino alla fine del secolo, il pessimismo di von Hartmann ha grande risonanza. Come essere assoluto viene assunta la psichicità inconscia. A questa scelta fanno da sfondo, da una parte, le filosofie di Schelling, Hegel e Schopenhauer, alle quali esplicitamente ci si richiama; da un'altra parte — e ciò dà l'apparenza di una fondazione induttiva — un'interpretazione vitalistica della biologia (esaltazione di fatti come gli istinti e i fenomeni di rigenerazione) e la considerazione del modo inconsapevole in cui si producono nell'uomo gli impulsi, le intuizioni, i pensieri, l'ispirazione artistica. L'essere metafisico ha due attributi : la volontà e la rappresentazione o idea. All'inconscio-alogico si deve l'esistenza del mondo, che è pertanto, come l'atto volitivo che lo produce, irrazionale. Ma niente può essere voluto se non è rappresentato : all'inconscio ideale si deve l'ordine o la forma o l'interna razionalità del mondo. Ciò però non modifica il fondamento cieco e irrazionale dell'esistenza. L'idea (che è un attributo dell'assoluto e non l'assoluto) non ha forza sufficiente per costringere l'inesauribile volontà in un universo concluso e perfetto. La vita è quindi dolore, infelicità. L'idea tuttavia non cede; vuole giungere a sottrarsi alla servitù della volontà, a sopprimere l'infelicità. Ciò non può essere che il riconducimento dell'esistenza nella non esistenza. Per abbreviare il cammino, l'idea si sviluppa come coscienza e come individualità cosciente. Sorgono ed evolvono gli uomini e le diverse forme della loro cultura; si costituisce e si amplia il mondo della civiltà. Accade di andare e si deve andare verso un'umanità unificata, progredita, colta, verso il migliore dei mondi possibili, per potere decidere la cessazione del mondo. Il dovere dell'uomo non è il suicidio, ma il contribuire alla costruzione della massima civiltà e quindi all'accelerazione dell'avvento della liberazione. Al pessimismo metafisico si accompagna, come si vede, un ottimismo evoluzionistico per quanto riguarda lo sviluppo storico dell'umanità. Il punto di fondo pare essere la tesi antipositivistica che l'umanizzazione della società e della natura, la produzione umana di razionalità, non è un valore assoluto e non è tale da vincere, trasformandola, l'irrazionalità dell'esistenza. Un punto interessante è l'accentuazione delle componenti non coscienti della vita psichica. Nietzsche ha forti legami con lo schopenhauerismo: anche il suo pensiero si situa in un orizzonte antropologico e cosmologico; è un'espressione, e un'espressione anarchico-aristocratica, della crisi dell'ultimo Ottocento; rifiuta l'idealismo classico e il positivismo ed è orientato in senso irrazionalistico e volontaristico. Esso rientra tuttavia solo in parte nello schopenhauerismo. Ha anche altri legami culturali molto forti : con il naturalismo presocratico, con l'umanismo giovane hegeliano, con il darwinismo e le scienze della natura, con l'antimetafisica positivistica. Ma soprattutto, pur nel quadro delle affinità accennate, mette capo a posizioni profondamente diverse. Siamo di fronte a una fase nuova, attivistica e non rinunciataria e pessimistica, e antropologica più che cosmologica, del pensiero etico e metafisico moderno. In complesso l'opera di Nietzsche si presenta come una ricerca tendente a definire l'essere dell'uomo e le forme di cultura, di ethos, di umanità, che a questo essere non corrispondono e corrispondono. In tale ricerca l'analisi che Nietzsche fornisce della natura biologico-psichica dell'uomo e della moderna situazione dell'uomo sono di grandissimo rilievo. Da un lato, egli getta luce sulla vitalità, l'istintualjtà, l'egoismo, l'aggressività, la finitezza, che fanno da base all'essere dell'uomo. Vede la consistenza della realtà individuale e la profondità delle tensioni che dividono l'individuo e gli individui. Contesta le metafisiche astratte dall'essere dell'uomo, il loro assolutizzare in modi diversi la ragione, il loro fissare le antinomie di coscienza e passione, di moralità e impulsi, di cultura e vita. Insomma coglie motivi che l'esistenzialismo, il pragmatismo, la psicanalisi (Freud lo ammette esplicitamente), la stessa filosofia analitica, venivano ponendo o avrebbero più avanti posto al centro della riflessione filosofica. Da un altro lato, Nietzsche indaga la decadenza della moderna civiltà. In essa mette a nudo la repressione della vitalità e dell'istintualità, il livellamento, la mediocrità, la mancanza di grandi finalità, la concezione ancora platonica e teologica della ragione. Occorre uscire dall'esistenza codificata e uniforme, riattingere l'essere originario dell'uomo e promuovere di qui la costituzione di una nuova, autentica esistenza. Ma Nietzsche non è in grado di pervenire a una soddisfacente teoria dell'uomo e della sua alienazione e liberazione. La natura multilaterale e le dimensioni sociali, storiche, economiche, della realtà umana gli sfuggono largamente o interamente. Sicché interpreta l'uomo e la sua civiltà in termini semplificati e astonci, in termini di cultura, di psicologia, di cosmologia. Accetta quasi indiscriminatamente l'istintualità e la vitalità: si trova cosi a difendere e a voler liberare allo stesso titolo il vitale che l'uomo ha represso e il vitale che l'uomo ha umanizzato o cerca di umanizzare. Altrettanto iperbolica è la sua negazione del non vitale, della civiltà moderna: gli aspetti che, nel cristianesimo o nel socialismo, nella società borghese o nella democrazia, non sono espressioni immediate dell'istintuale-individuale finiscono con il risultare alienazione. Nietzsche si trova cosi a considerare allo stesso titolo alienazione la civiltà nei suoi aspetti realmente alienanti e repressivi e la civiltà come umanizzazione e socializzazione. E si trova a considerare emancipazione sia l'effettiva liberazione del represso, sia la restaurazione di una società repressiva, individuahstico-classistica. Bisogna riconoscere che queste posizioni sono corrette da una forte componente umanistico-estetica: la vita deve essere anche misura; la civiltà non deve sparire ma essere la civiltà della vita; i superuomini, i dominatori, devono essere veri aristocratici, signori delle proprie passioni. Benché tale componente finisca spesso o con il non umanizzare realmente il vitale o con il sacrificare il vitale (il vitale positivo) a un modello di misura intellettualistico, moderato, conservatore, insomma benché tale componente non arrivi a dare luogo a un'unione effettiva di naturalismo e umanismo, è tuttavia di grande rilevanza e va sottolineato, contro le interpretazioni meramente naturalistiche del nietzschianesimo, il fatto che Nietzsche ha sentito l'esigenza di questa unione. Per concludere, con Nietzsche la filosofia del secondo Ottocento fa un'esperienza profondamente realistica, carica di forza demistificatrice, approdante a una più larga concezione dell'uomo e della ragione, e fa nello stesso tempo un'esperienza elusiva, pseudorivoluzionaria, rimistificante, deformata da generalizzazioni eccessive. Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844—1900), figlio di un pastore luterano, studia filologia classica a Bonn e a Lipsia con Friedrich Ritschl. Giovanissimo, nel 1869, grazie a Ritschl, viene chiamato all'università di Basilea, dove insegna per un decennio con varie interruzioni per la precarietà della salute. E' il periodo dell'amicizia con Wagner. Nel 1879 le condizioni fisiche critiche locostringono a lasciare la cattedra; l'università gli assegna una pensione. Il decennio successivo è un periodo di continue peregrinazioni, di isolamento sempre più profondo, di intensissima attività letteraria. Nel gennaio 1889 un collasso che lo colpisce a Torino lo porta alla follia. Sopravvive per undici anni curato dalla madre e dalla sorella. Le opere maggiori sono : Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872), Unzeitgetndsse Betrachtungen (1873-76), Menschliches, Allzumenschliches (1878), Morgenröte (1881), Die fröhliche Wissenschaft (1882), Also sprach Zarathustra (1883-85), Jenseits voti Gut und Bose (1886), Zur Genealogie der Moral (1887), Götzen-Dämmerung (1889). Ancora discusso è il peso da riconoscere nel quadro della sua opera al celebre Der Wille zur Macht, Versuch einer Umwertung aller Werte, che non è un vero e proprio libro di Nietzsche, ma una raccolta postuma di parte dei manoscritti inediti risalenti agli anni 1883—88, pubblicato per la prima volta nel 1901 e poi, molto ampliata, nel 1906. Nietzsche è pensatore asistematico, vario, largamente autobiografico; la formula espressiva che preferisce è l'aforisma. Sono caratteristiche che, insieme all'ambiguità e alla complessità delle sue posizioni, non rendono facile la ricostruzione della sua filosofia. Ci atteniamo alla distinzione del pensiero nietzschiano in tre periodi, riconosciuta dallo stesso Nietzsche. Si tratta di periodi diversi, non diversissimi; un fondo continuo di idee risulta chiaro e consistente. DIONISO E APOLLONel primo periodo cadono il saggio sull'origine della tragedia greca e i saggi chiamati Considerazioni inattuali. Nietzsche dipende in notevole misura da Schopenhauer, che scopre nel 1865, e da Wagner, che frequenta dal 1869. Con il primo concorda nel concepire la filosofia come un guardare in se stesso e al vissuto, e non come un pensare oggettivo e scientifico. E concorda nel considerare centrale la dicotomia di volontà e rappresentazione e nel considerare primaria la volontà. Fin d'ora tuttavia, secondo una linea che sarà sempre più marcata, si distanzia da Schopenhauer: sia perché accetta la vita e ne rifiuta la concezione pessimistica e la negazione ascetica, sia perché tende ad assegnare alla volontà una realtà non tanto e non soprattutto cosmico-metafisica quanto umano-esistenziale. Con Wagner Nietzsche concorda nel disaccentuare la liberazione morale della volontà di vita e nell'esaltare la liberazione attraverso l'arte. La traduzione della vita in un universo di sogni, di apparenze idealizzate, di bellezza, sembra essere il modo più umano, meno repressivo, di vivere e di dominare la vita. Il tema che interessa Nietzsche è appunto la cultura artistica come la forma più alta di cultura e la tragedia come la forma più alta della cultura artistica. Egli guarda alla fase della cultura greca postomerica e preplatonica che si è espressa nelle tragedie di Eschilo e Sofocle, e alla rinascita della tragedia che si ha con l'opera di Wagner. La più alta cultura estetica deriva da due istinti che rinviano alla volontà e alla rappresentazione di Schopenhauer e che sono il dionisiaco e l'apollineo. Il dionisiaco è passione, ispirazione, dedizione, identificazione con gli altri uomini e con la natura, dissolvimento nel coro ebbro dei seguaci di Bacco. E' il musicale e l'informe. È la potenza, l'attività, la finitezza, la conflittualità, l'assurdità, la fatalità, la tragedia, che forma lo strato originario dell'esistenza umana. L'apollineo è misura, pacatezza, visione disinteressata. La civiltà più umana nasce dall'unione di questi due elementi; è il tragico espresso in un linguaggio di immagini e di maschere. La natura informe non è cultura; non esiste il bello naturale; l'uomo non può vivere con la verità, deve velare il reale. E una posizione classicistica. Ma il nuovo e l'importante è ciò che separa Nietzsche dal classicismo. Egli individua nel dionisiaco e in questo dionisiaco drammatico la base della grecità più alta. Mette in discussione la concezione dell'ellenismo come un mondo di equilibrio e di razionalità, come una civiltà trasparente e serena. Nietzsche è uno dei pensatori che apre la strada alla comprensione dell'irrazionale presente nella cultura greca. Apollo non può vivere senza Dioniso. La decadenza della civiltà greca non proviene dal recedere della misura e dall'avvento della barbarie, ma dal prevalere dell'apollineo. Si disintegra l'unità di vita e misura; si ha un eccesso di civiltà. L'artistica volontà di illusione, aperta all'accoglimento di tutto il vitale, è sostituita dalla selettiva volontà di scienza e di realtà. Recise le radici con l'istintuale e l'individuale, si pongono in primo piano come realtà assolute la coscienza, la ragione, la legge morale, l'uomo parziale. L'esistenza, diventata un'astrazione, sembra essere intelligibile; abbiamo filosofie teologiche, metafisiche, superficiali, ottimistiche. Il mondo della scienza e della tecnica (del «dio delle macchine e dei crogiuoli») è anch'esso espressione di uno stato di allontanamento dall'essere. Nell'età greca la svolta decisiva verso l'autonomizzazione dell'apollineo e l'alienazione del vitale si deve a Socrate, l'«uomo teoretico» che esalta l'intelligenza dissolvitrice dell'istinto; ad Euripide, che fa oggetto della tragedia non la vita ma le teorie filosofiche e morali sulla vita; a Platone. Attraverso il cristianesimo, fino all'età moderna, la cultura ha conservato il suo carattere socratico-alessandrino. L'uomo moderno è razionalista, utilitarista, lontano dal «fiume violento» o dal «mare ondeggiante» della vita. Ma questa si reimpone: c'è la musica di Wagner; e prima ci sono stati Kant e Schopenhauer che hanno avuto il merito di «distruggere il pago piacere di vivere proprio del socratismo scientifico, dimostrandone i confini» (La nascita della tragedia, XIX). Il tema della crisi della cultura dionisiaco-apollinea e della necessità di superare la scissione dall'essere domina anche le Inattuali. Ma qui è svolto nel quadro di una critica della cultura tedesca contemporanea. E si ha anche un certo spostamento dell'interesse di Nietzsche, ora incentrato esplicitamente, più che sulla cultura artistica, sui «veri uomini». In David Friedrich Strauss autore di La vecchia e la nuova fede, al quale è dedicata una Considerazione, Nietzsche critica il «filisteo colto», il falso uomo di cultura, l'esponente di una cultura che è isolata dalla vita e che celebra la limitatezza, la tranquillità, il benessere, l'evoluzione verso il meglio, la religione dell'avvenire, l'ordine cosmico. Della cultura storica, oggetto di un'altra Considerazione, è messa in luce soprattutto la dannosità. Un certo grado di senso storico è necessario e utile strumento di esplicazione della vita, ma c'è un grado di esso che inibisce lo sviluppo della personalità umana. Se la storia, il passato, avvolgesse interamente l'uomo, non avremmo avuto 1 Greci ma degli epigoni della cultura orientale; non avremmo mai l'uomo creatore, l'uomo che si afferma ed è se stesso. La coscienza storica deve servire alla vita. Il fine della vita non sta, come Hegel e von Hartmann ritengono, nella «dedizione al processo mondiale» ; non sta nella dedizione all'umanità. Sta nella vita stessa, nell'individuo stesso. Ed ecco la tipica conclusione aristocratica : il fine è produrre alte forme di vita, cioè produrre grandi esemplari di individui. Nell'Inattuale dedicata a Schopenhauer Nietzsche esalta da un lato l'immagine dell'uomo che è se stesso e non appartiene alla storia o allo Stato, alla scienza o al bisogno pratico. Idealizza la figura del filosofo libero da ogni legame, dato che ogni legame è alienante. Da un altro lato, riprecisa il tipo di cultura e di uomo cui egli mira. Non è la cultura promossa dall'«egoismo degli affaristi», tendente a educare uomini che si integrino nel mondo della ricchezza e del guadagno ; non è la cultura voluta dall'«egoismo dello Stato», tendente a liberare le forze spirituali solo nella misura in cui giovano alle istituzioni esistenti; non è la cultura come «belle maniere», «forma interessante», eleganza, esteriorità ; non è infine la cultura dominata dall'«egoismo della scienza», risolventesi nell'oggettivazione e nell'intellettualizzazione del vitale. Il tecnico dell'industria, il funzionario dello Stato, il filisteo colto, lo scienziato, non sono «veri uomini». La vera cultura è quella che contribuisce a formare in noi e fuori di noi l'artista e il filosofo, cioè l'uomo libero, l'uomo che sa essere se stesso. È la cultura (ecco di nuovo l'aristocraticismo) consistente nel vivere non a vantaggio del maggior numero ma a vantaggio degli individui di maggior valore, dei geni artistici e filosofici. IV. LO SPIRITO LIBEROLa seconda fase del pensiero di Nietzsche va dal 1876-77 al 1881-82. Essa ha una forte impronta antimetafisica, scettica, positivistica. Il suo inizio è segnato dalla rottura con Wagner, nella cui arte Nietzsche coglie inclinazioni alla rassegnazione, cedimenti al cristianesimo, motivi democratico-plebei. Anche rispetto a Schopenhauer viene accentuata la distanza: la concezione negativa della volontà è la traccia di una incompleta emancipazione dal cristianesimo. Sotto l'aspetto più generale, il nuovo del pensiero nietzschiano pare essere questo: da una filosofia fondamentalmente intenta alla cultura artistica e all'uomo artista si passa a una filosofia intenta all'insieme della civiltà e dell'essere dell'uomo. Più profondamente, da una filosofia che, pur avendo già individuato il dionisiaco, guardava ai risultati, all'unità di Dioniso e Apollo, si passa a una filosofia che guarda alle premesse : nel senso che cerca di reperire il se stesso ultimo del mondo e dell'uomo, il terreno su cui poggia l'esistenza, e nel senso che si impegna in un'opera di demolizione di quanto si è venuto a sovrapporre all'originario. Da questo ricominciamento, da questa duplice e radicale impresa, non dall'arte, è da attendere la rinascita, l'apertura verso una vita autentica, «artistica». In questa impostazione è per contro la scienza che vede il suo ruolo diventare positivo e rilevante. Il vero uomo non è il genio artistico, non è Wagner; è il filosofo-scienziato che analizza e critica; è l'illuminista Voltaire (si noti: Voltaire con la sua «misura» aristocratica, con la sua «inclinazione all'ordine», non Rousseau con la sua «pazzia passionale»). E insomma lo «spirito libero» della prefazione a Umano, troppo umano : l'uomo che si scioglie da ogni soggezione e convenzione, che «si aggira curioso e tentatore intorno alle cose più proibite», che «rinuncia a tutto ciò che venerava e alla venerazione stessa», che giunge a disporre del suo se stesso reale. Sono soprattutto la metafisica, la religione, la morale, che nascondono la realtà della natura e dell'uomo. E stato il darwinismo, inteso nel senso profondo, cioè come deteologizzazione e disantropologizzazione della natura, a rivelarci l'essere di questa. La natura non è opera divina né manifestazione della ragione ; non ha significato o fine o ordine o legge o unità. Il mondo è «mutamento e transitorietà», «caos» ; ed è «neutrale», è se stesso, è quello che è. «Guardiamoci dal pensare che il mondo sia un essere vivente. . . Guardiamoci bene dal credere che l'universo sia una macchina: non è certo costruito per una meta. . . L'ordine astrale in cui viviamo è un'eccezione. . . Esso ha reso possibile l'eccezione delle eccezioni: la formazione dell'organico ... Il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l'eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane . . . L'universo non è perfetto, né bello né nobile e non vuole diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l'uomo . . . Guardiamoci dal dire che esistono leggi nella natura. Non vi sono che necessità. E. allora non c'è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce» (La gaia scienza, 109). A questa posizione che conclude al mondo come a una oggettività indifferente ed enigmatica e che sembra fondarsi sull'accettazione piena di una scienza della natura rigorosamente limitata alla natura, si affianca e nell'ultimo Nietzsche diventa dominante una posizione più radicale: il mondo non ha una " realtà ", una struttura oggettiva e indipendente dagli impulsi e dai bisogni che portano l'uomo a interpretarlo. È ciò che appare. Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni; non verità assolute ma solo relative ai diversi punti di vista. Nietzsche chiama più avanti questa posizione «prospettivismo"». È evidente che in tale quadro la stessa scienza in quanto pretende di rivelare la verità della natura viene a essere messa in questione; Nietzsche giunge a sostenere esplicitamente il carattere convenzionale dei concetti scientifici. Palesemente ciò su cui tale posizione fa pernio non è la natura ma l'uomo, non la scienza naturale ma la psicologia, la conoscenza e la certezza di sé. In ogni caso l'uomo ha di fronte un mondo in cui «Dio è morto». Deve avere il coraggio di non cedere a visioni sistematiche, a ipotesi di realtà retrostanti, a «errori letificanti e abbaglianti dovuti a età e uomini metafisici e artistici» (Umano, troppo umano, 3). Il mondo non autorizza né l'ottimismo né il pessimismo. Ogni costruzione metafisica si lascia ricondurre a ragioni storiche e psicologiche. La «chimica delle idee e dei sentimenti» e la «filosofia storica» mostrano le inconsistenti radici della metafisica. Nel mondo l'uomo non dispone di alcuna essenza e garanzia. È esclusivamente l'uomo che dà un significato alla sua esistenza. La sdivinizzazione interessa però l'uomo anche nella sua stessa realtà. L'uomo non è sostanza o anima o pensiero. Ci sono certamente nell'uomo forme di energia superiori: il linguaggio, la ragione, la bontà. Ma tutte queste qualità sono riportabili alle qualità inferiori, istintuali ed egoistiche, all'insieme di impulsi, alla finitezza, che l'uomo è originariamente. Al fondo dell'uomo troviamo «piacere, vanità, egoismo», «desiderio di godimento di sé» e «paura di perdere» tale godimento [op. ài., 107). Troviamo il vitale e il vitale individuale. Via via Nietzsche tende a rintracciare il nucleo di questo vitale nel «senso di potenza e paura». Soprattutto nel senso di potenza : «non lo stato di necessità, né la bramosia, ma l'amore della potenza è il demone degli uomini» [Aurora, 1&2). Nietzsche è contro le morali che contrastano l'affettività originaria esaltando la rinuncia e l'impotenza, e che hanno paura dell'individuo e della sua indipendenza e ne celebrano l'inserimento nel mondo dello Stato e del lavoro. Le pretese di universalità della morale non reggono. Essa non è altro che comportarsi secondo un certo costume, secondo un modo di valutare tradizionale in un certo gruppo sociale. Ma i popoli e i costumi sono molti e cambiano incessantemente ; e poi agiamo secondo il costume per paura o per convenienza o per desiderio di potenza. Anche qui la «filosofia storica» e la «chimica delle idee e dei sentimenti» smascherano la genesi e la natura finite dell'assoluto. L'immoralismo nietzschiano non è però la negazione totale della morale. È la negazione delle morali dominanti (utilitaristica, teologica) in quanto espressione di un'organizzazione della vita che è appropriata a certi soggetti (i popoli e gli individui deboli) e che è, d'altra parte indispensabile a certi fini (la conservazione della comunità umana,) ma che non è atta a promuovere la liberazione dell'istintuale e la formazione di «veri uomini». Il problema è infatti il ricollegamento con l'originario. Occorre che l'uomo non dissolva e spezzi la natura ; che non soffochi gli impulsi ; che non sopprima la competizione e la diseguaglianza. L'espansione del naturale include ovviamente dei pericoli. Ma buono e cattivo, costruttivo e distruttivo, vitale umano e vitale negativo, formano un groviglio inestricabile; e lo stesso cattivo o distruttivo è indispensabile all'economia complessiva della vita. «L'uomo ha bisogno dell'illogicità, e dall'illogicità nascono molte cose buone. Essa è piantata cosi saldamente nelle passioni, nella lingua, nell'arte, nella religione e in genere in tutto ciò che conferisce valore alla vita, che. non la si può estirpare senza danneggiare con ciò irreparabilmente queste belle cose. Sono solo gli uomini troppo ingenui quelli che credono che la natura dell'uomo possa essere trasformata in una natura puramente logica» (Umano, troppo umano, 31). «Nella storia dell'umanità, le forze più selvagge aprono la strada, dapprima distruggendo ; la loro attività è tuttavia necessaria perché più tardi dei costumi più miti stabiliscano qui la loro sede. Le terribili energie — ciò che si dice il male —- sono i ciclopici architetti e pionieri dell'umanità» (op. cit., 246). «I cattivi istinti sono utili alla conservazione della specie, indispensabili nello stesso grado in cui lo sono i buoni: soltanto la loro funzione è diversa» (La gaia scienza, 4). E' da rispondere positivamente alla domanda: «se una qualche forma di odio, di gelosia, di caparbietà, di diffidenza, di durezza, di avidità e di violenza non appartenga alle condizioni più favorevoli, senza le quali è a malapena possibile, sia pure nella virtù, un grande sviluppo» (op. cit., 19). Le grandi civiltà, l'umanità e la razionalità autentiche non possono uscire che dalla vita presa nella sua pienezza. Subordinare la vita a un ideale, scegliere dentro la vita, significa diminuire e deformare le possibilità di sviluppo dell'uomo. Nietzsche è filosofo che comprende la straordinaria difficoltà dello scegliere opportunamente, del preordinare gli sviluppi della storia, e si sottrae al rischio della scelta. La vita va accettata e affermata. È la sua tesi di fondo. «Che cosa ti dice la tua coscienza? Devi divenire quello che tu sei» (op. cit., 270). «Voglio imparare sempre di più a vedere il necessario nelle cose come fosse quello che c'è di bello in esse: cosi sarò uno di quelli che rendono belle le cose. Amor fati: sia questo d'ora innanzi il mio amore» (op. cit., 276). Ma questa non repressione ed emancipazione del vitale non è da intendere (ecco l'esigenza antinaturalistica di Nietzsche) come l'affermazione del suo espandersi sregolato. Lo «spirito libero» non si è sciolto dai «lacci» del costume per farsi legare dai lacci delle passioni indisciplinate. Non è un debole ; esercita l'istinto di potenza anche su se stesso, possiede se stesso. «Dare uno stile al proprio carattere è un'arte grande e rara. L'esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la sua natura in fatto di energie e debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico» (op. cit., 290). Si tratta di un " piano " che non è, come quello morale, esterno al proprio essere, ma che vi aderisce, che è l'accettazione-affermazione del proprio essere. «Noi vogliamo diventare quello che siamo : . . . i legislatori di noi stessi, i creatori di noi stessi» (op. cit., 335). V. VOLONTÀ DI POTENZA, SUPERUOMO, ETERNO RITORNOFra la seconda e la terza fase del pensiero di Nietzsche c'è una notevole continuità. Lo stacco è dato dal fatto che all'atteggiamento critico-analitico si accompagna un più spiccato atteggiamento costruttivo. La volontà di potenza si precisa come la categoria centrale della realtà umana. Tutta la psicologia deve scendere nel profondo e configurarsi come «morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza» (Al di là del bene e del male, 23). Non la ragione, non l'edonistica ricerca del piacere e fuga dal dolore, non l'eros, non l'istinto di dissoluzione, non la schopenhaueriana volontà di vita (apprezziamo molte cose più dell'autoconservazione), ma questa volontà è l'istinto cardinale. È essa l'essere da cui muovere per la costruzione dei veri valori, e cui riferirsi per la demistificazione dei valori-idoli. L'individuo umano è una forza che vuole estrinsecarsi, accrescersi, attirare a sé; è attività, creazione, superamento e mutamento continui, gara, rischio. La volontà di potenza rimane largamente una struttura psicologica, umano-individuale. Nell'ultimo Nietzsche essa si presenta tuttavia anche come una struttura cosmologica, come il principio costitutivo della natura organica e inorganica. Si tratta però di un'ipotesi: Nietzsche, per la conoscenza della natura, rinvia sempre alla scienza e non a una filosofia della natura. La polemica di fondo è ancora diretta contro la repressione del vitale. Bisogna non separarsi dalla vita, ma immergervisi. E' meglio avere passioni perverse, è meglio essere Cesare Borgia, che essere senza passioni. Lo sviluppo dell'umanità esige il dispiegamento della volontà di potenza. Può essere pericoloso, ma è più pericoloso l'infiacchimento della volontà. Alla dottrina della volontà di potenza e al biologismo che la ispira si connettono la gnoseologia pragmatistica e l'epistemologia convenzionalistica di Nietzsche. La teoreticità non è pura contemplazione. Sono i bisogni pratici, la lotta per la vita, la volontà di potenza, che ci obbligano e guidano all'ordinamento del molteplice empirico. Fare scienza significa trasformare la natura in concetti per dominarla. La verità è non un assoluto ma una funzione, una «prospettiva» ; è un errore e l'errore senza il quale una certa specie di esseri viventi non potrebbe vivere. Si tratta della posizione già emersa nella seconda fase. Considerata più precisamente e positivamente, la volontà di potenza ha le due dimensioni che si sono già viste. Una rinvia alla non obliterazione dell'apollineo, all'umanismo estetico; l'altra rinvia alla rivalutazione globale, indifferenziata, del vitale. Da un lato, la volontà di potenza non è bestialità o ritorno allo stato selvaggio. È potente chi ha organizzato il caos degli impulsi, chi è padrone (un padrone non negatore, non razionalista, ma «artista») delle proprie passioni. E' più potente, più se stesso, Socrate prigioniero che Nerone. Potenza è autodominio; è energia tolta alla dispersione e incanalata. Da un altro lato, la volontà di potenza è aggressione, violenza predatrice, conquista. «La vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto ciò che è estraneo e più debole, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più moderato dei casi, uno sfruttare» (op. cit., 259). I modelli forse più tipici di questa misura e dismisura sono Goethe e Napoleone. Il superuomo, il più che uomo o il vero uomo, cui Nietzsche guarda, è l'uomo che sa fare di sé (non si nasce superuomini) l'espressione della volontà di potenza in questa sua duplice natura. Della teoria del superuomo sono da sottolineare soprattutto due lati. Il primo è il contenuto di questo nuovo umanismo. Per Nietzsche il superamento dell'uomo comporta una «trasformazione di tutti i valori», un vero e proprio capovolgimento dell'uomo moderno (e perciò, nel fondo, non un uomo interamente umano, ma un uomo umano e disumano come l'uomo moderno). L'uomo che va superato non conosce la potenza-padronanza di sé, ma ha il suo padrone nella felicità o nella giustizia. E non conosce la potenza-dismisura: vive nella mediocrità, nella sicurezza pacifica, nel gregge. È una semplice creatura. La sua morale è la «morale degli schiavi». I valori di questa sono i valori che confortano gli stanchi e i sofferenti : pietà, altruismo, disinteresse, umiltà, operosità. Il superuomo è invece creatore di sé ed è avventuriero e dominatore. Non si ripara dalla vita, ma la sopporta coraggiosamente e la fa sua. Dice no a tutto ciò che indebolisce la sua potenza, e si a tutto ciò che la accresce. La «morale dei signori» ha i suoi valori nella pienezza umana, nella fierezza, nella fede in se stesso, nella spregiudicatezza. Si tratta di un umanismo della potenza. L'altro aspetto da sottolineare è l'aristocraticismo. Il «senso della terra», il senso della storia, viene indicato, e in modo ancora più netto che nel periodo giovanile, non nell'unificazione e nell'innalzamento della civiltà e del genere umano, ma unicamente nell'innalzamento e nell'innalzamento degli individui superiori. Non tutta l'umanità ma solo un'aristocrazia, una razza, un popolo o alcuni popoli, possono constare di tali individui. Si noti comunque che da Nietzsche questa disuguaglianza non è anzitutto richiesta ma anzitutto constatata e quindi accettata, riconosciuta come necessaria, celebrata, richiesta. Egli non è anzitutto un portavoce della conservazione ma anzitutto un antropologo pessimista. La negazione di questi due lati della teoria del superuomo — l'avversione verso la vita come potenza, l'avversione egalitaria verso l'individuo e le aristocrazie o l'affermazione di false aristocrazie — è ciò che Nietzsche persegue criticamente nel cristianesimo e nella civiltà moderna. Il cristianesimo, con la sua predicazione della carità e della non resistenza al male, dissecca la sorgente della vita; non può educare superuomini (si noti il carattere morale di questo anticristianesimo : la critica teoretica alla teologia era compresa nella critica alla metafisica). Nazionalismo e statalismo, in forme diverse, «addomesticano» l'uomo e lo distraggono dalla volontà di potenza. Nella società borghese-industriale, non superuomini, ma uomini comuni, diventati casualmente dominatori, detengono la ricchezza e il potere. Per Nietzsche non l'assoggettamento dei lavoratori, ma il loro assoggettamento a un'aristocrazia inautentica spiega lo sviluppo del socialismo e richiede il superamento della società moderna. Infine, cristianesimo, democrazia e socialismo negano l'individuo e le lotte fra individui e fra classi e affermano la comunità, l'uguaglianza degli uomini. La socializzazione, l'uguaglianza, e non la potenza, è l'ideale dell'abulico e dell'oppresso, ed è un ideale che aliena, che impedisce l'emergere della razza dei superuomini. Nietzsche non è venuto ad annunciare l'uguaglianza, ma a mostrare le differenze e a riaprire fossati ; non predica l'emancipazione degli sfruttati o un'etica valida per tutti gli uomini, ma l'accettazione del naturale dualismo di liberi e schiavi, di superuomini e di gregge. Ogni elevazione del tipo umano è stata opera di società gerarchizzate. «Senza il pathos della distanza cosi come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti... non potrebbe neppure nascere l'innalzamento del tipo " uomo ", l'assiduo " autosuperamento dell'uomo "» (op. cit., 257). L'aristocrazia, che non è la guida o la delegata della comunità, che non è una funzione ma il fine in sé, deve accogliere con coscienza tranquilla il sacrificio, a suo vantaggio, di innumerevoli esseri umani. «La società non può esistere per amore della società, bensì soltanto come infrastruttura e impalcatura, su cui una specie prescelta di individui è in grado di innalzarsi al suo compito superiore e soprattutto a un essere superiore» (op. cit., 258). «Lo sfruttamento non compete a una società guasta o imperfetta e primitiva: esso concerne l'essenza del vivente» ; volerlo abolire è «come se si pretendesse di inventare una vita che si astenesse da ogni funzione organica» (op. cit., 259). La limitazione dell'uomo, la schiavitù, la civiltà umana, sono da rovesciare solo nella misura in cui non consentono agli eletti di divenire quello che sono, di esplicare la loro potenza. Gli uomini della massa sono già quello che sono e devono restare tali: «lavoratori di vano genere, loquaci, abulici e atti a qualunque impiego, bisognosi del padrone, di uno che comandi» (op. cit., 242). Anche la civiltà moderna deve rimanere quello che è; essa conviene all'uomo e conviene al superuomo fornendogli il «pathos della distanza " : «le stesse nuove condizioni, sotto le quali si verrà a formare un livellamento medio e un mediocrizzarsi dell'uomo — un uomo che è un utile, laborioso, variamente usabile e industre animale da branco — sono idonee in sommo grado a ingenerare uomini di eccezione» (op. cit., 242). Per Nietzsche lo stesso rapporto intercorrente fra aristocrazia e gregge dovrebbe, su scala più generale, intercorrere fra ì popoli europei e gli altri popoli. In sostanza, per questo grande pensatore pessimista, l'umanità, l'istintualità, la vita, repressa e dominata, e la civiltà dominante e repressiva potrebbero essere superate dall'emancipazione di una parte degli uomini e dal costituirsi di questa parte in una classe dominante perfetta. A Nietzsche è estranea la matrice umanistico-razionalistica, egalitaria, universalistica, del cristianesimo e del pensiero rivoluzionario moderno. L'eterno ritorno degli stessi eventi, un altro dei grandi motivi del pensiero della maturità, è una riformulazione della teoria dell'essere che appare per la prima volta in La gaia scienza e che si rifa palesemente alla metafisica presocratica (soprattutto eraclitea). La dottrina poggia su questi punti: l'energia che costituisce l'universo è limitata e si conserva; questa energia è discreta e consta di un numero finito di quanti e di combinazioni; il tempo è infinito. Perciò «tutte le cose ritornano, noi stessi ritorniamo con esse, noi fummo già innumerevoli volte, e tutte le cose con noi» {Cosi parlò Zaratustra, III, 13). Sotto queste affermazioni c'è essenzialmente appunto la concezione nietzschiana dell'essere del mondo e dell'uomo. Il mondo è caos; non ha un al di là, un cominciamento, un centro, una direzione, uno sviluppo storico ascendente o discendente. E' un «mostro di forza, senza principio, senza termine». E' «eterno autocrearsi» ed «eterno autodistruggersi». Ma non è un semplice eterno mutare, un continuo fuggire per stanchezza o disgusto dal suo essere. Il mondo è ciò che deve essere ; afferma se stesso, si accetta, si ripete, è sempre eguale. Per quanto riguarda la concezione dell'uomo, nell'eterno ritorno dell'identico troviamo confermata la fondamentale indipendenza dell'uomo da ogni " tu devi ", da ogni fine o prospettiva di divenire altro. L'essere dell'uomo — istintuale, individuale, volitivo, costruttivo e distruttivo, buono e cattivo — è immutabile ed eternamente uguale. Non c'è niente che possa con fondatezza giudicare o condannare questo essere. Non esistono criteri dell'esistenza esterni all'esistenza. Non c'è Dio e non c'è creazione. L'uomo deve dunque accettare e volere il suo essere, deve diventare ciò che è. L'è stato, l'è, il sarà, si devono convertire nell'ho voluto, nel voglio, nel vorrò. È la tesi naturalistica della non negazione e dell'affermazione della vita, dell'identificazione con l'essere originario, che costituisce la base dell'antropologia di Nietzsche.
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