G. Vattimo - A. MartinengoNIETZSCHE, Friedrich WilhelmEnciclopedia filosofica BompianiRCS, Milano 2010 |
Sommario: I. Vita e opere. - II. L'esperienza filologica e la formazione del pensiero di Nietzsche: 1. La nozione di decadenza. - 2. La malattia storica - 3. Il concetto di verità. - 4. Nietzsche, Schopenhauer e Wagner. - III. L'epoca della ricerca «genealogica»: 1. Umano, troppo umano. - 2. Problematicità del pensiero genealogico - 3. La filosofia come consapevolezza dell'errore necessario - 4. L'eterno ritorno e la morte di Dio. IV. L'origine della volontà di potenza: 1. Il nichilismo. Il mondo diventato favola. - 2. Il radicamento ontologico della creazione di valori. - V. Le interpretazioni del pensiero di Nietzsche.
I. Vita e opere.Sebbene proprio a proposito di Nietzsche si sia soliti parlare dell'indissolubilità di una filosofia dalla vita del pensatore che la propone e, anzitutto, la vive, nel suo caso sarebbe difficile indicare un nesso preciso tra momenti di sviluppo del pensiero e concreto svolgimento biografico, se si eccettuano gli anni di formazione. La vita di cui Nietzsche parla talvolta come legata al suo pensiero è fatta piuttosto di eventi interiori che di accadimenti e di fatti esterni: esemplare è, da questo punto di vista, la famosa passeggiata lungo il lago di Silvapiana nell'agosto del 1881, durante la quale egli ebbe la rivelazione dell'eterno ritorno. Se un senso si può cogliere, nella biografia esteriore di Nietzsche, connesso con il divenire del suo pensiero, è una specie di progressivo isolamento, che testimonia anche esteriormente della «inattualità» (cioè dell'originalità e profeticità) del suo pensiero. Dopo gli studi liceali, Nietzsche si iscrisse all'Università di Bonn, dapprima per studiarvi teologia, poi, a partire dal terzo semestre (nel 1865), dedicandosi interamente alla filologia classica. A Bonn fu discepolo del Ritschl, che nell'autunno del 1865 seguì all'università di Lipsia. Fu a Lipsia che, quello stesso autunno, cominciò a leggere Schopenhauer. Insieme agli studi filologici, per i quali si era rivelato subito straordinariamente dotato, Nietzsche coltivò intensamente la musica, come pianista e come compositore. A Lipsia, nel novembre del 1868, incontrò per la prima volta personalmente Richard Wagner in casa dell'orientalista Hermann Brockhaus. Nel gennaio del 1869, per interessamento del suo maestro Ritschl, fu chiamato come professore all'Università di Basilea. Il periodo di Basilea è denso di incontri e di contatti decisivi: con i colleghi universitari, anzitutto lacob Burckhardt; e poi, nelle frequenti visite a Tribschen, dove il maestro abitava una casa sul lago, non lontano da L-Cerna, con Richard Wagner. Di un wagnerismo inteso come recupero di una civiltà tragica Nietzsche si fa banditore con la sua prima opera, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (Leipzig 1872). Del periodo di Basilea sono anche le quattro Unzeitgemässe Betrachtungen (ivi 1873-76). Fin dagli anni del liceo, come testimoniano i documenti della scuola di Pforta, Nietzsche soffriva di gravi emicranie. A Basilea il suo stato di salute andò via via peggiorando, finché nel 1879 egli chiese e ottenne di poter lasciare definitivamente l'insegnamento. L'Università gli assegnò una pensione che consentì a Nietzsche, negli anni successivi, di dedicarsi alle sue opere senza preoccupazioni economiche. Tra il ritiro dall'insegnamento a Basilea e lo scoppio violento della follia, avvenuto nel gennaio 1889 a Torino, Nietzsche visse tra vari luoghi di cura, in cerca di climi che giovassero alla sua salute. Visse specialmente sulla riviera francese e italiana, oltre che nell'alta Engadina e, da ultimo, a Torino. In questi anni di peregrinazioni si consumano e si rompono molte delle sue amicizie, si dissolvono alcune «fedeltà» che erano state determinanti per gli anni precedenti, anzitutto l'amicizia (e il culto) per Richard Wagner. Dopo il manifestarsi della pazzia, dal 1889 fino alla morte, Nietzsche visse dapprima in case di cura, quindi presso la sorella Elisabetta, maritata Forster, a Naumburg e poi a Weimar. Dal punto di vista dello sviluppo del pensiero, il periodo che va dall'abbandono della cattedra di Basilea alla fine della vita cosciente si può ulteriormente suddividere in due momenti: al primo appartengono essenzialmente Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister (Chemnitz 1878), seguito da una appendice di Vermischte Meinungen und Spräche (ivi 1879); Der Wanderer und sein Schatten (ivi 1880); Morgenröte (ivi 1881); Die frohliche Wissenschaft (ivi 1882: la prima edizione comprende solo i primi quattro libri; il quinto libro e i conclusivi Liederdes Prinzen Vogelfrei furono aggiunti nella nuova edizione del 1887, Leipzig); all'ultimo periodo appartengono: Also sprach Zarathustra (prime tre parti, Chemnitz 1883-84; la quarta parte fu stampata privatamente nel 1885, Leipzig); Ienseits von Gut und Böse. Vorspiel einer Philosophie der Zukunft (Leipzig 1886); Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift (ivi 1887); Der Fall Wagner (ivi 1888); Die Götzenddämmerung (ivi 1889); Nietzsche contra Wagner. Aktenstücke eines Psychologen (ivi 1889; le bozze di stampa furono ancora corrette, in parte, da Nietzsche stesso nel 1888). Altri scritti di Nietzsche di questo ultimo periodo, pronti per la stampa prima della sua malattia, furono stampati a cura di vari editori: Ecce Homo. Wie man wird. was man ist (Leipzig 1908); Der Antichrist (ivi 1894); Dionysos-Dithyramben (ivi 1891; ma si veda la complessa storia di questo manoscritto nell'appendice filologica del terzo volume dell'edizione di K. Schlechta, pp. 1389-90). L'opera in cui Nietzsche pensava di sistemare in maniera completa e organica la sua filosofia, quella che doveva essere il suo Hauptwerk. rimase allo stato di un immenso insieme di appunti e di aforismi che furono pubblicati - in varie edizioni via via aumentate, fino all'edizione definitiva del 1906 in 1067 aforismi - dalla sorella Elisabetta Forster-Nietzsche e da Peter Gast, col titolo Der Wille zur Macht. Proprio intorno a quest'opera si è concentrato a partire dalla metà del '900 un rilevante problema filologico. Nel 1956, Karl Schlechta, uno studioso che aveva già collaborato, negli anni dell'anteguerra, alla preparazione della mai compiuta «Historisch-kritische Gesamtausgabet” delle opere (Monaco, Beck, 1933 ss.), pubblicò una nuova edizione in tre volumi (Munchen, Hanser; un quarto volume, il Regisler. è stato aggiunto nel 1965), contenente tutti gli scritti di Nietzsche fino allora conosciuti insieme a un'ampia scelta di lettere. Per ciò che riguarda però il Wille zur Macht. Schlechta, che era riuscito a documentare una serie di gravi falsificazioni dovute a Elisabetta Forster Nietzsche che ne aveva curato l'edizione postuma, ristampava tutto il materiale già conosciuto fuori di ogni ordine sistematico, nel puro ordine cronologico di composizione dei vari frammenti. Sull'edizione Schlechta si aprì presto una vasta polemica in Germania, i cui atti si possono vedere, in parte, pubblicati nel «Merkur» del novembre 1957 e dell'agosto 1958. Tale polemica si è in gran parte chiusa grazie al lavoro di due studiosi italiani, Giorgio Colli e Mazzino Montinari, che a partire dagli anni '60 hanno intrapreso una nuova edizione critica dell'opera nietzscheana, con l'intento di liberare i testi dalle sovrascrizioni critiche che li avevano in parte oscurati. L'edizione critica di Colli e Montinari, pubblicata parallelamente in Germania e in Italia (presso l'allora nascente editore Adelphi), ha così contribuito ad aprire una fase nuova nella recezione del pensiero di Nietzsche, che si è largamente inserita nel più vasto movimento della Nietzsche-Renaissance. Il progetto italo-tedesco ha incluso i testi editi e gli inediti conservati al Nietzsche-Archiv di Weimar, ordinandoli cronologicamente in otto volumi, variamente suddivisi in tomi. L'edizione italiana (cui manca soltanto la pubblicazione del secondo volume, dedicato alle lezioni e agli studi filologici dal 1869 al 1878), comprende ora anche l'epistolario, in via di pubblicazione in cinque volumi. II. L'esperienza filologica e la formazione del pensiero di Nietzsche.L'opinione che comunemente si ha sul significato del pensiero di Nietzsche come moralista e diagnostico dei mali della nostra civiltà, è corretta e fondata nella misura in cui, nei suoi scritti, si incontrano tutti i problemi fondamentali del suo tempo, un tempo di crisi e di decisioni che determinano ancora il nostro presente. È importante, però, integrare questo modo comune di vedere Nietzsche in due direzioni: anzitutto evidenziando il nucleo generatore centrale e originale delle sue posizioni (Nietzsche, cioè, non è un eclettico); e, in secondo luogo, facendo emergere il significato solutivo, non solo diagnostico, della sua filosofia. Ora, se un nucleo originale si può riconoscere nella problematica di Nietzsche, di là da ogni ricostruzione di influssi esterni, questo va indicato nella sua esperienza filologica. Non tanto che la filosofia di Nietzsche nasca come pura riflessione sul suo mestiere di filologo. E però, in qualche modo, nella decisione giovanile di dedicarsi alla filologia, cioè nella sua vocazione di filologo come egli la intese fin dall'inizio, sono già presenti i temi base da cui muoverà il suo successivo sviluppo filosofico 1. La nozione di decadenza. La prima opera di un certo rilievo di Nietzsche, la Geburt der Tragödie, che è anche l'unica a presentarsi come opera filologica, ha infatti per argomento, più ancora che la definizione dello spirito della grecità, la nozione di decadenza. E il discorso sulla decadenza è, indissolubilmente, discorso sulla decadenza di una civiltà del passato (la civiltà greca) e sulla decadenza del presente. La Geburt der Tragödie riprende dalla base un problema che era stato un po' il centro di tutta la riflessione europea, a partire dall'età dell'Umanesimo, il problema della classicità. Non è difficile mostrare che, da qualunque parte si affronti la storia del moderno pensiero europeo si incontra sempre, sotto profili diversi questa questione. Persino lo sviluppo delle scienze della natura, che sembra da pensare in termini di contrapposizione tra «libro della natura» e libri degli antichi autori, non sfugge in realtà a questo quadro nella misura in cui il libro della natura è scritto in caratteri matematici, con tutto ciò che di platonico e di classico questa nozione comporta. Per tutta l'età moderna (ma si vedano i precedenti della prospettiva nietzscheana ricostruiti dall'Andl|er nel primo volume della sua opera), la nozione di grecità e quella di classicità coincidono; c'è un mondo storicamente determinato che viene assunto assiologicamente a indicare l'umano come tale. Anche il Medioevo cristiano aveva visto nella piena maturità del mondo classico (l'Aristotele di s. Tommaso o il Virgilio di Dante) il culmine di quanto l'uomo come tale, prima dell'avvento di Cristo, poteva raggiungere. Il problema che Nietzsche si pone non è dunque una questione da specialisti di filologia. Egli l'affronta con la piena consapevolezza di tutti i suoi sfondi, consapevolezza che si andrà chiarendo sempre di più negli anni successivi (si veda perciò la prefazione del 1886: il problema dell'opera era «il problema della scienza stessa», par. 2). La tragedia greca, quella di Eschilo e di Sofocle, almeno, giacché con Euripide essa viene a morte, nasce in un'epoca di pessimismo: non è il prodotto di uno spirito equilibrato e armonioso, quale siamo soliti scorgere nella scultura classica; ma di uno spirito profondamente tormentato, che vi giunge trionfando del terrore in cui lo piomba la visione chiara della vicenda di morte che domina tutte le cose. Il mondo apollineo della forma definita e conchiusa nasce sul terreno di una visione dionisiaca del caos dell'esistenza. Nei termini di Schopenhauer (di un kantismo interpretato da Schopenhauer) in cui la Geburt derTragödie è ancora formulata, dionisiaco è il noumeno, il mondo della volontà di vivere, e apollineo è il fenomeno, il mondo delle forme. In tale quadro metafisico, la tragedia acquista un’importanza capitale perché, rispetto ad altre arti come l'epopea - che rappresenta semplicemente il mondo apollineo oggettivato nella plastica - o la musica, che è pura oggettivazione immediata della volontà-noumeno, è l'arte in cui si incontra lo stesso evento dell'origine del mondo, il sorgere della forma dal caos originario. La tragedia morrà in Euripide, col prevalere del razionalismo socratico, che ne reciderà il fecondo e vitale radicamento sulla base dell'essenza dionisiaca della vita. In generale, il trionfo dello spirito razionalistico e ottimistico del socratismo è responsabile di aver fissato la tarda grecità in quella forma (armonia, proporzione ecc.) che rimane il suo carattere nella coscienza della cultura occidentale successiva. Ma questa grecità armoniosa, «classica», è in realtà la grecità della decadenza ellenistica, che ha perso ogni effettiva forza creativa perché ha perso il suo originario slancio dionisiaco. In questa descrizione della vicenda del rapporto apollineo-dionisiaco c'è dunque una prima delineazione del concetto di decadenza: una civiltà pur grande come quella greca si avvia fatalmente a morte quando si lascia determinare dalla concezione di un mondo razionalmente organizzato, dall'idea di un ordine metafisico stabilito, che si tratta solo di riconoscere. È merito di Kant e di Schopenhauer (secondo il Nietzsche di questa prima opera) aver messo in crisi il razionalismo ottimistico che domina, da Socrate in poi, la cultura occidentale: essi hanno ottenuto «la vittoria più difficile, quella contro l'ottimismo radicato nell'essenza della logica, e che è ancora sempre il sottofondo della nostra cultura» (Geburt der Tragödie, 18: le opere incluse nell'edizione Colli-Montinari vengono citate indicando il titolo, l'eventuale numero del libro in cifra romana, e il numero del capitolo e/o dell'aforisma in cifra araba; eventuali riferimenti ad altre edizioni sono esplicitati). La prefazione scritta da Nietzsche per la nuova edizione del 1886 ne rifiuterà l'armamentario concettuale schopenhaueriano; e, insieme, respingerà come spurio l'altro ideale che dominava quell'opera, quello di una possibile rinascita dello spirito greco autentico attraverso la musica di Wagner; questo falso ideale aveva «guastato il grandioso problema attraverso l'intrusione di cose moderne» (Geburt der Tragödie, Prefazione del 1886, §6). 2. La malattia storica. Nella Geburt der Tragödie, insieme al concetto di decadenza, si annunciano altri temi che saranno sviluppati nelle opere immediatamente successive. Così, sullo sfondo del concetto di decadenza, nello scritto sulla tragedia sta il problema del rapporto che una civiltà stabilisce con il proprio passato. C'è, infatti, per Nietzsche, un legame indissolubile tra razionalismo-ottimismo di tipo socratico e Historismus, cioè quell'atteggiamento che considera la storia come una concatenazione di cause ed effetti, una catena di cui il presente è solo un anello, definito (e determinato) dalla sua posizione tra gli altri. 1 Greci dell'età tragica avevano col loro passato un rapporto definito piuttosto dal mito che dalla consapevolezza storiografica (cfr. Geburt der Tragödie, I); in generale, un rapporto autentico con il passato si può definire piuttosto come analogo a quello che ha l'albero con le proprie radici (cfr. Unzeitgem. Betracht., 11, Vom Nutzen und Nachteil der Hstorie für das Leben, 3). In sostanza lo Historismus, che significa insieme storicismo e storiografismo, è la trasposizione sul piano temporale dello schema razionalistico di origine socratica: come c'è un ordine rigoroso nelle strutture dell'essere, c'è un ordine rigoroso in quel particolare aspetto di tali strutture che è il divenire temporale. Al problema dello Historismus Nietzsche dedica uno dei suoi scritti più belli, la seconda delle Unzeitgemässe Betrachtungen, che s'intitola Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, del 1874. L'obiettivo polemico di questo scritto è l'esasperata coscienza storiografica del sec. XIX: l'uomo di questo secolo è talmente consapevole della storicità, cioè della transitorietà e «relatività» di ogni evento, che non ha più la forza di prendere alcuna decisione. La civiltà del sec. XIX non ha uno stile, che implicherebbe decisione e delimitazione di orizzonti; è una civiltà epigonica. La storia, come storiografismo portato alle sue estreme conseguenze, non è utile alla vita; la vita per affermarsi e svilupparsi ha bisogno di uno sfondo oscuro, di una «arbitraria» delimitazione di orizzonte. Si articola e si svolge qui, in maniera nuova, il rapporto apollineo-dionisiaco della Geburt der Tragödie, la delimitazione di un orizzonte, e quindi di una «forma» storica, è a sua volta un atto di vita, frutto di una decisione radicata sostanzialmente in uno sfondo oscuro, quello che occorre alla vita per svilupparsi. Non solo, dunque, la seconda Inattuale combatte polemicamente lo storicismo; ma, positivamente, essa evidenzia un tema fecondo di sviluppo per il pensiero di Nietzsche, cioè il riconoscimento che l'orizzonte storico della vita umana, la stessa struttura temporale della nostra esperienza, si istituisce sempre a partire da uno sfondo che non è infrastorico. Tale tema sarà centrale nella nozione di eterno ritorno su cui insisteranno le opere della maturità 3. Il concetto di verità. Parallelamente al venire in luce dei temi della decadenza e della malattia storica, un terzo tema si annuncia nelle opere giovanili di Nietzsche, che rappresenta un po' l'estrema fondazione teoretica degli altri due, anche se il nesso non è esplicitamente riconosciuto. È del 1873 lo scritto Űber Wahrheit und Lüge in aussermoralischen Sinn. Esso acquista tutto il suo senso se lo si collega con gli altri scritti editi e inediti degli stessi anni, specialmente con gli appunti preparatori di una inattuale mai compiuta, che doveva intitolarsi Wir Philologen. Sebbene l'abbozzo di Wir Philologen sia posteriore (1874-75) a Űber Wahrheit und Lüge, molti degli argomenti di esso sono affrontati da Nietzsche già negli anni precedenti, non solo nella prolusione basileese su Homer und die classische Philologie (1869), ma anche in una Einleitung in das Studium der classischen Philologie del 1871. Tutto questo va tenuto presente per vedere come la critica di Nietzsche al concetto di verità come evidenza nasca sul terreno della sua esperienza storiografica e filologica. Al filologo, infatti, si pone il problema della conoscibilità del fatto storico: ora questo è dotato di una sua infinità, che insieme richiede e rende vano l'atteggiamento erudito di chi non si stanca di raccogliere dati e documenti. Come l'evento storico, per accadere, ha bisogno di uno sfondo oscuro, così la conoscenza storica ha bisogno di una «arbitraria» delimitazione di prospettive. «La forza poetica e l'istinto creatore hanno prodotto il meglio nella filologia. L'influsso più grande lo hanno esercitato alcuni begli errori» (Musarion I, p. 296; e cfr II, p. 360). È anzitutto nel campo della conoscenza storica che entra in crisi il concetto di verità come conformità obiettiva al dato, giacché la conoscenza storica può esistere solo sulla base della «scelta» di una prospettiva. La ragione ultima di ciò è che la storia è un «nie zu vollendes Imperfektum» (Vom Nutzen und Nachteil, 6), un imperfetto che non diventa mai passato remoto, perché è in sé un fatto di vita ed è ancora vivo in noi che pretendiamo di obiettivarlo. Di qui Nietzsche perviene a quella che sarà la concezione della verità e della conoscenza anche in Űber Wahrheit und Lüge: la Conoscenza è atto di vita, non rispecchiamento puro e semplice del già accaduto (o, in generale, del «dato»). Lo stesso carattere irrazionale della storia (come res gestae), più che fondarsi su una metafisica schopenhaueriana, si fonda su questo carattere aperto dell'evento; conoscere l'evento come tale significa in qualche modo intervenirvi, proseguirlo, il che esclude ogni concezione che lo veda come concluso in una sua struttura necessaria. Űber Wahrheit und Lüge mostra che l'impossibilità della conoscenza come rispecchiamento obiettivo del dato non vale secondo Nietzsche solo per le scienze dello spìrito, ma è generale. Ogni conoscenza suppone l'istituzione di una prospettiva. L'evidenza, in base a cui la tradizione metafisica ha sempre giudicato della verità o falsità dei singoli enunciati, considerandola come segno indiscutibile della conformità di essi alla realtà, si dà solo all'interno di una prospettiva; essa è solo segno del fatto che un certo enunciato è conforme alla prospettiva, l'articola internamente in rapporto a una determinata situazione. Le scienze non sono che interne articolazioni di questo genere (cfr. Űber Wahrheit und Lüge, 2). Nietzsche perviene in tal modo alla soglia di quella che sarà la sua riflessione più matura, almeno in uno dei suoi aspetti, che comincia appunto con un grande tentativo «archeologico» di ricostruzione dei sistemi culturali che sostituiscono le basi dei nostri criteri di verità e di valore. 4. Nietzsche, Schopenhauer e Wagner. Risulta chiaro da quanto detto, che, per ciò che riguarda la formazione del suo pensiero, i rapporti di Nietzsche con le due personalità che, biograficamente, dominano i suoi anni giovanili, hanno un peso relativamente limitato. Non solo ciò è suffragato dalle affermazioni dello stesso Nietzsche maturo; ma anche gli studi più recenti sull'insieme del suo pensiero tendono sempre più a metter in rilievo l'originalità, non solo delle sue soluzioni, ma anche, anzitutto, della sua problematica. A parte l'analisi dettagliata, piuttosto biografica che strettamente teoretica, condotta dall'Andler nella sua opera, una precisazione dell'originalità dei temi anche, apparentemente, più legati a Schopenhauer e a Wagner, si può trovare nell'opera di H .M. Wolff (F. Nietzsche Der Weg zum Nichts, Bern 1956). Se nel caso di Wagner è più facile provare che l'incontro di Nietzsche con Wagner ha un significato quasi esclusivamente biografico, anche il rapporto con Schopenhauer, sebbene teoreticamente più significativo, sembra risolversi nell'assunzione, da parte del Nietzsche giovane, di una terminologia sostanzialmente non omogenea al suo autentico pensiero. È chiaro che soprattutto questo secondo problema implica una serie di precisazioni più vaste concernenti anche la valutazione del pensiero di Schopenhauer. La critica più recente, in ogni caso, tende a considerare Nietzsche, piuttosto che in rapporto alle «fonti» prossime del suo pensiero, in relazione polemica con la filosofia classica tedesca (Hegel soprattutto) o addirittura con tutta la tradizione metafisica occidentale. III. L'EPOCA DELLA RICERCA «GENEALOGICA».L'affrancamento via via più esplicito dalla fedeltà a Wagner e a Schopenhauer e l'abbandono dell'insegnamento a Basilea rappresentano anche l'aprirsi di quello che si suole considerare il periodo «medio» della produzione di Nietzsche, e che, sulla base anche della dedica a Voltaire che compare nella prima edizione di Menschliches, Allzumenschliches, alcuni tendono a presentare come periodo «illuministico». Al centro della speculazione di questo periodo sta bensì la messa in evidenza del carattere non naturale, ma storico e «divenuto», delle verità e dei valori su cui si fonda la cultura europea; per cui si può a buon diritto parlare di una ricerca «genealogica» su tale cultura. Ma questa critica «illuministica» dei valori, che intesa in tali lìmiti sarebbe anche l'estremo dello Hìstorismus criticato nella seconda Inattuale, ha in realtà il risultato di condurre Nietzsche al riconoscimento degli sfondi più autenticamente ontologici del suo pensiero. 1. Umano, troppo umano. Il programma da cui parte Nietzsche nel periodo «genealogico» del suo pensiero è dunque quello di mettere in luce le radici non nobili di tutto quanto ci si presenta come sacro e indiscutibile. «I problemi filosofici riprendono oggi la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall'irrazionale, ciò che sente da ciò ch'è morto, la logica dall'illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall'egoismo, la verità dagli errori?». La metafisica tradizionale nega ogni rapporto tra gli opposti, e li radica ciascuno in una cosa in sé; per una «filosofia storica», invece, «non esiste, a rigor di termini, né un agire altruistico né un contemplare pienamente disinteressato, entrambe le cose sono soltanto sublimazioni, in cui l'elemento base appare quasi volatilizzato e solo alla più sottile osservazione si rivela ancora esistente» (Umano, troppo umano, 1, 1). Ciò che interessa a Nietzsche non è tanto discutere le tavole morali in se stesse, quanto i comportamenti cosiddetti virtuosi da cui queste tavole, per astrazione, derivano: ora, tali comportamenti non sono affatto virtuosi, nel loro fondo; almeno non corrispondono all'ideale di virtù che pretendono di affermare, p. es. non sono mai davvero altruistici (cfr. Menschlkhes, Attzumenschliches, I, 181). Attraverso questa opera che noi chiameremmo di demitizzazione si raggiunge la libertà dello spirito, il Freigeist (il sottotitolo di Menschlkhes, Allzumenschliches è infatti: Ein Buch für freie Geister); ci si vaccina in qualche modo contro tutti gli errori del passato, ripercorrendone la storia (Menschlkhes, Allzumenschliches,1, 292). Ma la prima pagina di Menschlkhes, Allzumenschliches, che abbiamo in parte sopra riportata, non sembra considerare decisamente la messa in evidenza del processo di sublimazione come una distruzione pura e semplice della fede nei valori; se no, lo spirito libero sarebbe davvero paragonabile al discepolo di Eraclito di cui parla la seconda Inattuale, incapace di prendere qualunque decisione. Tale questione della sublimazione e del vero significato di questa riduzione dei valori alle loro radici «troppo umane» apre una zona di problemi decisivi per lo sviluppo del pensiero di Nietzsche 2. Problematicità del pensiero genealogico. Abbiamo accennato in che senso il tipo di pensiero che Nietzsche si sforza di realizzare nelle opere del cosiddetto periodo medio o illuministico si possa chiamare pensiero genealogico. «In primo luogo vi sono pensatori superficiali, in secondo luogo pensatori profondi - quei tali che vanno nel profondo di ogni cosa -, in terzo luogo pensatori radicali, che vanno alla radice di una cosa; infine coloro che cacciano la testa nella melma... sono i cari uomini del sottosuolo» [Morgenröte, 446). Sembra si possa interpretare questo testo come rivendicazione del pensiero genealogico inteso come pensiero più che radicale, che non si limita a conoscere la struttura essenziale delle cose né la loro causa o ragione sufficiente, ma cerca di più, esplorando il sottosuolo, anche se questo può apparire ripugnante, come quando, «se amiamo una bella donna, finiamo facilmente per odiare la natura al pensiero di tutte le ripugnanti circostanze naturali cui ogni donna è sottoposta» (Die fröhliche Wissenschaft, 59). Passati al vaglio di questo pensiero genealogico, Dio (cfr. Morgenröte, 95) e l'imperativo morale (cfr. Die fröhliche Wissenschaft, 335) si rivelano insussistenti, come qualcosa che si credeva ultimo e in realtà non lo è. Ma appunto il metodo genealogico, portato all'estremo, si manifesta a sua volta come problematico, anzi addirittura contraddittorio: per tale pensiero, infatti, non c'è nulla di veramente «ultimo». Anche gli istinti e i sentimenti, che sembrano modi di valutazione immediati (non risultati da ragionamenti) sono solo reazioni condizionate da tutta una storia (cfr. Morgenröte, 35 e 248). il pensiero genealogico, applicato rigorosamente, non trova mai davvero l'origine. Questa impossibilità interna si rivela anche nell'insoddisfazione in cui la ricerca dell'origine lascia il pensatore. “Origine e significato. Perché mi ritorna sempre questo pensiero e mi arride in colori sempre più vari? Il pensiero che una volta.., fosse costantemente presupposta una dipendenza della salvezza umana da una piena cognizione dell'origine delle cose, mentre noi oggi, al contrario, quanto più perseguiamo l'origine, tanto meno ne siamo partecipi con i nostri interessi... Con la piena cognizione dell'origine aumenta l'insignificanza dell'origine: mentre la realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato, cose, queste, di cui l'umanità più antica non sognava neppure» (Morgenöte., 44; i corsivi sono di Nietzsche). Ciò che volevamo conoscere riducendolo all'origine, sfugge in realtà a questa riduzione, perché si rivela più nuovo e più ricco; perciò, anche, la riduzione all'origine non vale mai come confutazione, p. es. di un valore morale (cfr. Die fröhl. Wiss., 45). In questo sforzo di applicare rigorosamente il metodo genealogico e nello scacco relativo si può vedere rappresentata di scorcio tutta la posizione di Nietzsche nei confronti della metafisica tradizionale e della sua ricerca di un unico Grund a cui ogni cosa possa essere ridotta. Nelle opere del periodo «medio» della produzione di Nietzsche è dunque riconoscibile una evidente oscillazione tra la concezione del pensiero come genealogia, riduzione all'origine, e la consapevolezza dell'insufficienza di questo metodo. A questa oscillazione sul piano metodico, ne corrisponde un'altra sul piano metafisico: quella tra la volontà di verità ad ogni costo e il riconoscimento della necessità vitale dell'errore. Da un lato, la verità va perseguita anche se, a differenza dell'errore, non ha una capacità consolatoria e tranquillizzante (cfr. Morgenr., 424); ma d'altra parte questa «volontà di verità» potrebbe essere un'occulta «volontà di morte», giacché si vede chiaramente che la vita si fonda e si fortifica nell'errore (cfr. Die fröhli. Wiss., 344). Proprio attraverso le analisi di Menschliches, Allzumenschliches, anzitutto, e delle opere dello stesso periodo, Nietzsche arriva a vedere la necessità dell'errore per lo stesso esser uomo dell'uomo (cfr. p. es. Menschliches, Allzumenschliches, I, 28-32, 245,519). 3. La filosofia come consapevolezza dell'errore necessario. Abbiamo parlato di una «oscillazione» tra pensiero genealogico e consapevolezza della sua insufficienza, da un lato, e tra volontà di verità e riconoscimento della necessità dell'errore, dall'altro; in realtà non si tratta di un'oscillazione. Infatti, il senso complessivo delle opere del periodo medio è la scoperta della necessità dell'errore, e di conseguenza, della non definitività della riduzione genealogica. La necessità dell'errore è una necessità vitale; ma sarebbe sbagliato pensare che Nietzsche, dunque, riporti tutto a un piano naturalistico; gli istinti stessi, come abbiamo già visto in Morgenröte e come si farà chiaro sempre più nei frammenti del Wille zur Macht, sono storici, cioè è un'idea storica anche l'idea di vita di cui si serve il pensiero «vitalistico». E neanche si tratta di pragmatismo: se non altro perché, già nelle opere del periodo medio e più nettamente in quelle dell'ultimo periodo, l'interesse di Nietzsche è accentuatamente metafisico: la dottrina dell'eterno ritorno, già presente nella Gaia scienza, non è certo inquadrabile in una cornice pragmatistica. Ma se l'interesse dominante di Nietzsche è quello metafisico, resta che egli lo persegue attraverso l'analisi dell'esistenza dell'uomo. Se il pensiero non può essere semplicemente pensiero genealogico, che cosa dovrà essere, nel quadro, di questa «realtà» in cui, come si è visto, l'errore è necessario? Esso sarà anzitutto consapevolezza della necessità dell'errore. «Ho scoperto per me che l'antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l'intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni - mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire» (Die fröhl. Wiss., 54). Questo dovere di continuare il sogno si verrà sempre più precisando, per Nietzsche, non più come legato all'imperativo ipotetico di non perire, ma come identico con la natura stessa dell'essere di ciascuno, con quello che Nietzsche chiama destino. Si delinea così una prima importante apertura metafisica del cosiddetto «prospettivismo» di Nietzsche: l'errore (che Nietzsche continua a chiamare tale, impropriamente) non è solo mezzo di conservazione di una determinata forma di vita individuale o sociale: pensarlo così significherebbe ancora ridurlo a un'origine, a un Grund. È piuttosto lo stesso modo di essere (non effetto o causa) di una vita: la prospettiva di un individuo o di un gruppo si identifica con il suo destino. Ora, a sua volta, il destino di ciascuno non è qualcosa che si imponga dall'esterno, solo da accettare passivamente: esso dipende, oltre che dal caso (ma l'uso di questa nozione serve solo a escludere l'idea di una necessità determinante), dalla nostra capacità di decifrare (cfr. Die frohl. Wiss., 277). Solo tenendo presente questa basilare componente ermeneutica del destino si può intendere senza contraddizione il concetto nietzscheano di amor fati e il dovere di «divenire ciò che si è» (cfr. Die frohl. Wiss., 321 e 270. p. es.). In questa specie di circolarità errore-prospettiva-destino-interpretazione (e quindi di nuovo prospettiva) c'è non solo la «gnoseologia» di Nietzsche, ma anche, anzitutto, la sua ontologia. La prospettiva in cui io vedo il mondo è il mio stesso essere; e in generale, come proveranno a chiarire i frammenti del Wille zur Macht, l'essere stesso, in definitiva, non è che prospettiva, interpretazione continuamente in atto. Il radicamento ontologico delle prospettive, del resto, è confermato da un suggestivo testo della Gaia scienza, là dove si parla dì una «curva siderale» in cui le stesse prospettive contrastanti sono destinate a incontrarsi (Die frohl. Wiss., 279). 4. L'eterno ritorno e la morte di Dio. La circolarità tra le nozioni di prospettiva e di destino non fa che esprimere in un altro modo quello che è l'esito metafisico più importante, anche se per ora solo annunciato, della Gaia scienza: l'idea dell'eterno ritorno dell'uguale. Se nell'aforisma 341, dove se ne ha l'enunciazione esplicita, sembra sussistere ancora la possibilità di un'interpretazione anzitutto o esclusivamente etica di questa idea, una lettura attenta ne mette in luce un significato più radicale e autentico. Già nell'aforisma 285, Nietzsche parla di un eterno ritorno, di guerra e pace; e là l'idea è esplicitamente connessa alla fine di una metafisica che offriva la garanzia dell'ultimo fondamento, Dio, l'essere, la sanzione morale. L'idea dell'eterno ritorno indica quindi anzitutto una concezione dell'essere come apertura, come origine continuamente originante e non mai incontrabile nella sua struttura «ultima». Non è un caso che il tema della «morte di Dio» si annunci nella stessa opera. La morte di Dio è la morte di ogni struttura necessaria, fondativa nel senso del Grund, della realtà; la fine, conseguentemente, di quella che in termini heideggeriani si chiamerebbe onto-teologia, cioè della metafisica come sapere dell'essere concepito appunto come Grund, come ente ultimo fondante tutti gli altri. Ma perché Nietzsche enuncia la sua tesi ateistica non come tesi della non-esistenza di Dio, ma della sua morte? Il senso testuale ed esplicito che ha per lui la cosa è noto (cfr. p. es. Die frohl. Wiss., 125): è lo stesso spinto religioso, inteso come spirito di onestà e di rettitudine, che conduce l'uomo a riconoscere che Dio non c'è. Ma nell'insistenza con cui Nietzsche continua a parlare di morte di Dio c'è probabilmente più di questo. Anzitutto, c'è implicito il rifiuto di fare un'affermazione metafisica sulla «struttura» della realtà (Dio non esiste); l'ateismo è piuttosto per lui l'aspetto di una determinata prospettiva, storicamente determinata, quella dell'umanità moderna, anche se questa non se n'è ancora resa conto a fondo. In secondo luogo, la morte di Dio, proprio in quanto è il Dio-fondamento che è negato, non equivale semplicemente, come l'ateismo di tipo metafisico, a una presa di posizione irreligiosa: questo spiegherebbe anche i numerosi caratteri indubbiamente religiosi, non solo nel tono ma nella sostanza, di molti testi nietzscheani. È morto il Dio-fondamento perché il sistema di pensiero che lo aveva «creato», che riusciva a pensarlo solo così, è venuto alla sua fine. Ciò che la tradizione metafisica europea (più che il cristianesimo) chiama Dio è solo un aspetto di un sistema metafisico che è finito. Tale sistema era caratterizzato dalla concezione dell'essere come opposto al divenire, dalla nozione di verità come evidenza cioè come raggiungimento del Grund ultimo e reggente il tutto. Attraverso la critica del razionalismo dello storicismo, della verità come evidenza, e al riconoscimento della necessità dell'errore Nietzsche è venuto mettendo in luce l'insussistenza di tutto questo sistema: nell'ambito del suo discorso, l'essere può pensarsi solo come eterno ritorno dell'uguale, cioè come origine sempre in atto di prospettive e mondi storici IV. L'origine della volontà di potenza.1. Il nichilismo. Il mondo diventato favola Tutto il non facile discorso metafisico di Nietzsche è condotto sul filo di questo riconoscimento del carattere interpretativo di ogni accadere, e in fondo dell'essere stesso. «Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: "ci sono soltanto fatti" - direi: no, proprio i fatti non ci sono bensì solo le interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto "in sé"; è forse un'assurdità volere qualcosa del genere. "Tutto è soggettivo", dite voi; ma già questa è un'interpretazione, il "soggetto" non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l'immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo» (Nachgelassene Fragmente Vili, I, 7 |60|). Ma la teorizzazione di questo carattere interpretativo di tutto l'essere è condotta in costante riferimento al problema della posizione dell'uomo in seno ad esso. Ecco perché, sotto un altro aspetto, si può dire che il filo conduttore della speculazione del Nietzsche maturo è il problema della «metafilosofia». Se il filosofare non è altro che sognare sapendo di sognare, anche le affermazioni di un filosofo non possono rivendicare una maggiore «verità» (nel senso della corrispondenza al reale) di quelle di qualunque altro. In una pagina della Göttendämmerung, che è una vera storia del nichilismo, Nietzsche mostra «wie die wahre Welt endlich zur Fabel wurde», come il mondo vero alla fine è diventato favola. Il pensiero, cioè, si è accorto di poter fare a meno della distinzione tra realtà e apparenza, tra fenomeno e noumeno. Ma tolta l'opposizione, anche l'errore non si può più ovviamente chiamare tale. Il mondo non esiste indipendentemente dal nostro favoleggiarne. Sul piano ontologico, il riconoscimento del carattere «favoloso» del mondo implica davvero un rovesciamento decisivo di tutta la metafisica precedente, compresa quella hegeliana, fondata sulla contrapposizione tra essere ed apparire. Sul piano del pensiero, però, Nietzsche incontra così un problema che è comune a tutta la filosofia classica tedesca, fino a Marx, il problema che si può indicare col termine «metafilosofia». Si sa che uno dei punti irrisolti del sistema hegeliano è l'ambiguità del concetto di filosofia: da un lato essa è coscienza di un'epoca, quindi relativa ad essa, dall'altro, come teoria della relatività delle filosofie, pretende di valere in assoluto (cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, 1950). In Nietzsche lo stesso problema si presenta nella concezione della filosofia come sogno consapevole, nella Gaia scienza, e poi, soprattutto in Jenseits von Gut und Böse, come creazione di valori. Ma se si tratta di una creazione, i valori come rivendicheranno il loro diritto a valere? Si ritiene comunemente che Nietzsche si limiti a teorizzare una lotta tra le prospettive in termini di pura forza (ma, si può domandare, che cosa significa forza di una prospettiva?). Il carattere arbitrario della creazione dei valori, tuttavia, e la conseguente riduzione del dialogo filosofico a lotta, rappresenta solo l'aspetto polemico della concezione nietzscheana della filosofia, il suo aspetto negativo. 2. Il radicamento ontologico della creazione di valori. La creazione di valori, infatti, cioè la proposta di una prospettiva del mondo che pretende di valere, di esser riconosciuta, è lungi dall'essere pensata davvero come un atto arbitrario. «Ogni centro di forza ha per tutto il re-sto la sua prospettiva, cioè la sua affatto determinata scala di valori, il suo tipo di azione, il suo tipo di resistenza» (Nachgelassene Fragmente VIII, III, 14 [184]). Ora, se un diritto bisogna averlo quando si propone una scala di valori e d'altra parte questo diritto, nella misura in cui la tavola è creazione, non può venire da niente che sia disponibile come dato, da un qualche ente, si intende perché, a proposito ella creazione di valori, si possa parlare per Nietzsche di un vero e proprio radicamento ontologico, a cui del resto sembra alludere la stessa accentuazione del termine essere di nel testo riportato. La tavola di valori non può essere radicata nell'ente, giacché piuttosto costituisce essa, in maniera originaria, il quadro dentro cui l'ente, soltanto, può essere. Siamo qui, cioè, non sul piano ontico, ma su quello ontologico, proprio nel senso che Heidegger dà a questi termini. Più che alla definizione dei contenuti precisi delle nuove tavole, la speculazione dell'ultimo Nietzsche è diretta a studiare le condizioni, il significato, la possibilità di questa creazione e del relativo radicamento. Anche in questo senso, la sua filosofia si svolge piuttosto come metafilosofia, senza risolvere tuttavia esplicitamente il problema del rapporto tra favola e consapevolezza, ma piuttosto riproponendolo continuamente, con un'acutissima coscienza della tensione. In questa prospettiva metafilosofica va letto p. es. Also sprach Zarathustra, dal quale, non solo per lo stile particolarissimo della scrittura, sembra difficile ricavare le linee effettive del progetto di una nuova cultura, al di là dell'insistenza sul concetto stesso di progetto. La stessa nozione di superuomo non è mai definita in termini positivi precisi; vale piuttosto come un ideale escatologico, e tutto ciò che si dice di esso concerne la sua preparazione. Ora, la lunga preparazione che è necessaria per produrre il superuomo esprime semplicemente in altro modo i due concetti che a Nietzsche stanno più a cuore in quest'ultima fase della sua speculazione: quello del radicamento ontologico (che proprio in quanto tale, come la preparazione del superuomo, è sempre qualcosa di remoto) e quello della vita come progettazione del mondo. A partire da questi concetti si chiarisce il nesso tra superuomo, eterno ritorno e volontà di potenza: in un mondo dove non c'è un accadere obiettivo a una garanzia stabile (dove Dio è morto), cioè in un mondo caratterizzato dall'eterno ritorno (cioè dall'apertura assoluta, che implica una circolarità da intendersi soltanto come la negazione polemica di qualunque concezione rettilinea, progressiva o regressiva, della storia), l'uomo può esistere solo come superuomo, cioè solo come uno che si assume la responsabilità di progettare il mondo, l'essere stesso del mondo. Le prospettive entro cui il mondo esiste non hanno nulla a cui appellarsi per farsi valere; sono pura «istituzione», volontà di valere, cioè volontà di potenza. Tuttavia, lo stesso carattere non mai puramente conservatore, ma continuamente autosuperantesi delle prospettive storiche indica che ciò per cui esse giungono a istituirsi e a farsi valere non appartiene, come ente, alle prospettive stesse; dal punto di vista dell'uomo creatore di valori questo equivale a dire, appunto, che chi crea i valori non lo fa arbitrariamente; questo compito è piuttosto un destino. Eterno ritorno, volontà di potenza, superuomo sono dunque inscindibili dall'idea di un radicamento ontologico. Questa inscindibilità è visibile p. es. nella pagina dello Zarathustra intitolata «Della visione e dell'enigma», in cui è rovesciato il modo comune di concepire il rapporto tra la decisione e il tempo: non la decisione è nel tempo, ma il tempo è nella decisione. Questo, se da un lato sottolinea l'arbitrarietà, il carattere originario e creativo dell'istituzione dei valori da parte dell'uomo, evidenzia anche, nel simbolo del serpente che si morde la coda, la circolarità che è propria dell'eterno ritorno, per cui anche la decisione non può essere pensata come ultimo fondamento da cui tutto viene. Essa è a sua volta radicata in altro, nell'essere. A proposito del carattere non ultimo della decisione e della necessità di pensarla come ulteriormente (anche se circolarmente) radicata, è utile ricordare un passo della Gaia Scienza (127), in cui Nietzsche rimprovera a Schopenhauer proprio di aver ceduto a un'antica superstizione col concepire la volontà come qualcosa di semplice, di immediato, di autenticamente ultimo. Il tentativo di dare una definizione positiva di ciò che, secondo Nietzsche, è l'essere, fallisce così quando lo si intenda come volontà, in senso psicologico o nel senso metafisico schopenhaueriano, ma fallisce, a maggior ragione, quando lo si voglia intendere come vita, vitalità biologica, in modo da fare di Nietzsche un teorico del vitalismo. L'unico senso in cui questo termine può valere per Nietzsche è quello in cui esso equivale a naturalismo, in riferimento al termine greco di physis intesa come origine continuamente originante. In questi limiti, appunto, si debbono leggere anche tutte le pagine che suonano più «naturalistiche» dell'opera del Nietzsche maturo. Il parlare della preparazione del superuomo in termini di «razza», da selezionare con metodi biologici, non può esser seriamente considerato che come un tentativo di definire, attraverso un mito e un'allegoria, un rapporto dell'uomo con l'essere pensato in termini non più ontici, ma ontologici. Anche questo carattere allegorico delle opere della maturità di Nietzsche riflette bene, sul piano della stessa formulazione del pensiero, il carattere fondamentalmente ermeneutico della sua ontologia. V. Le interpretazioni del pensiero di Nietzsche.Per un pensiero deliberatamente offerto al fraintendimento come quello di Nietzsche è vero in modo tutto speciale che non lo si può capire se non, anche, in riferimento alle interpretazioni che ne sono state date. Ora, poiché non si può in questa sede ripercorrere l'intera Wirkungsgeschichte del pensiero nietzscheano, che peraltro è stata pesantemente sovradeterminata dalle questioni filologiche di cui si è detto nel § 1, è utile almeno richiamare le coordinate generali sotto cui, in larga parte, la storiografia contemporanea legge Nietzsche. Posto che l'edizione di Colli e Montinari ha in qualche modo risolto i problemi legati all'edizione degli scritti postumi, va segnalato che in realtà, anche prima che la critica filologica pervenisse a risultati condivisi, buona parte della recezione nietzscheana si era già orientata sugli aspetti specificamente metafisici ed ermeneutici del suo pensiero, interesse che era stato avviato, fin dagli anni trenta, dagli studi di Jaspers e di Lowith. Ciò significa che la storiografia filosofica contemporanea, anche se di rado ha riconosciuto esplicitamente il carattere allegorico, cui si accennava, degli scritti dell'ultimo periodo, si è sforzata di leggere e ridiscutere Nietzsche in rapporto alla storia della filosofia classica tedesca o, più in generale, in rapporto alla storia di tutta la metafisica occidentale. Sebbene molti spunti per una elaborazione positiva di questo rapporto possano venire da opere che, facendo leva su questo o quel concetto reperibile in Nietzsche, hanno proposto un recupero della sua problematica nell'ambito di questa o quella corrente della filosofia contemporanea, l'opera che ha aperto una fase indiscutibilmente nuova per il panorama novecentesco degli studi nietzscheani è senz'altro quella di M. Heidegger (Nietzsche. 2 voll., Pfullingen 1961). Si tratta di scritti e corsi universitari che si estendono per un lungo pe-riodo della vita di Heidegger. La tesi fondamentale, che ci corre l'obbligo di segnalare perché contrasta anche radicalmente con l'interpretazione proposta qui, è che Nietzsche non solo non rappresenta una rivoluzione nell'ambito del pensiero «metafisico» (nel senso tecnico che Heidegger dà a questa espressione, da cui non si discosta molto quello che il termine ha per lo più nella nostra esposizione), ma anzi lo porta al suo estremo compimento. La storia della metafisica è storia del tramonto e dell'oblio dell'essere; ora, in questa storia, si arriva a un punto in cui «dell'essere non ne è più nulla», il momento del nichilismo compiuto di cui Nietzsche, appunto, è il profeta. La perdita totale di ogni autentica radice ontologica è indicata secondo Heidegger dal concetto stesso di volontà di potenza, che per lui equivale a «volontà di volontà», espressione in cui ne viene in luce tutta la costitutiva «infondatezza». Al medesimo insieme di problemi fa riferimento (spesso senza derivarne direttamente) anche la stessa Nietzsche-Renaissance, che pur con molte voci distinte rinnova decisivamente, a partire dagli anni '60, la recezione del pensiero nietzscheano. Nietzsche incontra così da una parte il dibattito francese attorno al post-metafisico e al post-strutturalismo (Deleuze, Foucault) e dall'altra le discussioni attorno all'ermeneutica (Vattimo), che nel recupero del nietzscheanesimo, anche in senso positivamente nichilista, trovano soprattutto l'occasione per ripensare le nozioni di realtà e verità. A partire da Heidegger, e poi sempre più chiaramente nelle interpretazioni che ne sono seguite, il pensiero di Nietzsche ha dunque ottenuto una specifica coloritura storico-epocale, che pur con molti distinguo è tuttora la chiave sotto cui più agevolmente se ne raccolgono gli esiti. Più di quanto Heidegger stesso abbia voluto vedere, a Nietzsche non è così attributo soltanto il ruolo di profeta del nichilismo compiuto, ma in positivo quello di un punto di svolta all'interno del più vasto processo di emancipazione e infinitizzazione delle visioni del mondo che segna - secondo queste interpretazioni - il punto d'arrivo della metafisica. |