Gianni Vattimo

Il pensiero di Nietzsche

I Grandi filosofi -Il Sole 24 ORE, Milano 2006
I. DALLA FILOLOGIA ALLA FILOSOFIA
1. Come leggere Nietzsche.

L'odierna interpretazione di Nietzsche, pur nella varietà delle sue impostazioni e dei suoi esiti (sui quali si veda la «Storia della critica») è nel suo complesso tutta orientata da una decisiva «prescrizione» di Martin Heidegger - la cui opera su Nietzsche, elaborata tra il 1936 e il 1946, fu pubblicata nel 1961 segnando una svolta fondamentale negli studi nietzscheani1 ; prescrizione secondo la quale bisogna leggere Nietzsche mettendolo in relazione con Aristotele2, cioè guardando a lui come a un pensatore essenzialmente metafisico. Nietzsche non solo è un filosofo a pieno titolo, nel senso più «tecnico» della parola; è anche un filosofo che pone al centro della propria attenzione il problema più antico e più basilare della filosofia, la questione dell'essere. Ora, se si guarda alla storia più remota della ricezione di Nietzsche nella cultura europea, una storia che risale alla fine del secolo scorso e ai primi anni di questo, si vedrà facilmente quanto di rivoluzionario c'è in questa posizione interpretativa di Heidegger: la prima recezione di Nietzsche fu infatti piuttosto «letteraria», o più genericamente «culturale» (nel senso della critica della cultura, della riflessione sulle ideologie) che non strettamente filosofica3. E, a prima vista, i testi nietzscheani - se si eccettuano forse alcune delle opere della maturità e i frammenti postumi raccolti dai primi editori sotto il titolo di La volontà di potenza4 - sembrano dar torto a Heidegger e ragione ai primi interpreti: sia la forma aforistica prevalente in questi testi, sia il loro contenuto (la critica della morale, delle idee religiose, dei pregiudizi in generale, della «cultura») giustificano assai poco un approccio interpretativo di tipo strettamente ontologico e metafisico come quello heideggeriano.

Sembra invece molto più accettabile la valutazione che, del significato dell'opera nietzscheana, dà Wilhelm Dilthey (alle cui posizioni e alla cui eredità Heidegger è del resto probabilmente legato ancor più di quanto egli stesso non ammetta esplicitamente) nello scritto su L'essenza della filosofia, del I907 5. Qui, descrivendo la filosofia del secondo Ottocento come una «filosofia della vita» - non però nel senso di metafisica vitalistica che ha ora il termine, ma nel senso di una riflessione sull'esistenza che rinuncia a ogni pretesa «scientifica», di validità e di fondazione - Dilthey colloca Nietzsche accanto a Carlyle, Emerson, Ruskin,Tolstoj, Maeterlinck (i cui analoghi, in altre epoche della storia della cultura europea, sono ad esempio Marco Aurelio e Montaigne), cioè accanto a dei filosofi-scrittori che si muovono in un orizzonte aperto da Schopenhauer: «questa specie di letteratura», scrive Dilthey a proposito di questi autori, «è vicina all'antica arte dei sofisti e dei retori, che Platone esilia dall'ambito della filosofia, poiché al posto della dimostrazione metodica [nei loro scritti] subentra la persuasione [...]. Il loro occhio resta diretto al mistero della vita, ma essi disperano di risolverlo con una metafisica universalmente valida: la vita deve essere spiegata in base a se stessa - questo è il grande principio che lega questi filosofi all'esperienza del mondo e alla poesia». La loro spiegazione della vita è «non metodica», ma espressiva e suggestiva6. Questa tesi di Dilthey, che sembra giustificare una considerazione prevalentemente letteraria del testo nietzscheano, in contrasto con l'approccio metafisico di Heidegger, offre però anche gli elementi per collegare i due opposti punti di vista: anche per Heidegger, del resto, Nietzsche è bensì un pensatore metafisico da leggere in riferimento al problema dell'essere; ma è anche, e fondamentalmente, l'ultimo pensatore della storia della metafisica, nella quale questa storia giunge alla sua conclusione. Ciò, possiamo legittimamente supporre, conferisce un carattere peculiare ai contenuti e allo stile del suo pensiero: forse proprio quel carattere che Dilthey ha di mira definendo la sua filosofia una «filosofia della vita». Questa filosofia, infatti, è legata anche per Dilthey ai momenti finali delle «metafisiche», cioè delle grandi costruzioni sistematiche che, secondo lui, si ripresentano periodicamente nella storia del pensiero occidentale.

Non si tratta, naturalmente, di trovare a tutti i costi un punto di vista interpretativo che elimini il contrasto tra l'approccio di Dilthey e quello di Heidegger, che possiamo considerare emblematici di tutta la storia della fortuna di Nietzsche. Quel che si vuole suggerire, cercando le affinità tra questi due approcci, è che un modo fruttuoso di leggere Nietzsche è bensì quello che, come vuole Heidegger, vede in lui anzitutto un filosofo nel senso pieno della parola; ma che insieme cerca il segno peculiare della sua posizione - di pensatore «finale» della metafisica - proprio nel suo esercitare la filosofia come «letteratura» o «filosofia della vita», e ciò in un senso più essenziale di quanto Heidegger abbia voluto esplicitamente ammettere nella propria interpretazione di Nietzsche. Paradossalmente, quel che Heidegger non riconosce in Nietzsche, e cioè il peculiare legame del pensiero della fine della metafisica con la poesia e la letteratura, è poi ciò che invece pratica egli stesso nel proprio filosofare, che si sviluppa proprio, in larga misura, come un dialogo tra pensare e poetare, secondo modi che forse Dilthey non avrebbe esitato a collocare nella stessa «categoria» in cui colloca Nietzsche. Tutto ciò, come si capisce, ha da fare non solo con la lettura di Nietzsche ma anche con il significato che si attribuisce a Heidegger e, più in generale, alla stessa filosofia in quest'epoca che rimane, in tutti i diversi sensi pensati da Dilthey e da Heidegger, un'epoca di «fine della metafisica».

Volendo qui limitarsi a un tentativo di presentazione complessiva del pensiero nietzscheano - tentativo che, anche se non elabora tutte queste implicazioni teoriche, non può prescindere da una collocazione di tale pensiero nell'orizzonte dei problemi filosofici generali sollevati dalle interpretazioni più rilevanti che ne sono state date - tutto ciò si riassume nel dire che, proprio per seguire le direttive di Heidegger, anche in un senso che va oltre le sue intenzioni, qui si cercherà di mostrare come in Nietzsche la filosofia pervenga a esiti specificamente ontologici (cioè a enunciati rilevanti sul senso dell'essere, secondo la più propria vocazione della metafisica), proprio attraverso un itinerario che passa, non casualmente e marginalmente, per la critica della cultura, la riflessione di tipo «moralistico», l'analisi dei pregiudizi, l'osservazione e autosservazione psicologica -cioè per tutte quelle vie che fanno di Nietzsche un «filosofo della vita» nel senso diltheyano del termine. Ancora in altri termini, tutto ciò significa anche - senza che qui si debba sviluppare più ampiamente la proposta7 - che l'orizzonte di questa lettura di Nietzsche è quello della «ontologia ermeneutica». Il problema, del tutto aperto e spesso rimosso, più con argomentazioni retoriche che con ragioni sostanziali, della collocazione di Nietzsche nel quadro della filosofia contemporanea (in che corrente, in che scuola, ecc.) può trovare finalmente una soluzione quando si decida di considerare Nietzsche un momento rilevante di quel filone di pensiero che, partendo da Schleiermacher, si sviluppa attraverso Dilthey e lo storicismo tedesco fino a Heidegger e all'ermeneutica postheideggeriana (Gadamer, Ricoeur, Pareyson, per indicare solo i nomi più significativi). L'unità di questa «scuola» filosofica non è quella, forte e consolidata nella storiografia, di altre correnti generalmente riconosciute, come fenomenologia, esistenzialismo, neopositivismo.

Ciò - si può ipotizzare - perché da un lato l'ermeneutica non come disciplina tecnica ma come orientamento filosofico è divenuta riconoscibile solo a partire da Heidegger; e in secondo luogo perché è probabile che, proprio nella misura in cui innova rispetto alle scuole filosofiche del passato, essa non possa presentarsi mai, anche in una luce storiografica diversa e più matura, con la stessa unità di metodi, tesi, esiti propria delle altre scuole. Nietzsche è sotto questo aspetto una figura più che emblematica: nulla di più difficile, infatti, che indicare nella filosofia contemporanea una «scuola» nietzscheana, anche se l'influsso esercitato dal suo pensiero è vastissimo e molto vivo. E' probabile che anche lo studio della filosofia di Nietzsche consenta di specificare meglio quella che si può considerare la peculiare unità di una «ermeneutica» come orientamento filosofico individuato nella cultura otto-novecentesca. Per ora, come avvio all'esposizione delle opere di Nietzsche, intenderemo con il termine «ermeneutica» o «ontologia ermeneutica» soltanto il legame peculiare che si delinea nel suo pensiero tra «critica della cultura» o filosofia della vita o meditazione sulla decadenza (insomma, quel pensiero riferito all'esistenza nella sua concretezza e storicità) e riproposizione del problema della verità e dell'essere. Con la consapevolezza - qui solo suggerita in via di ipotesi - che questa connessione, almeno dal punto di vista di quel pensiero che più esplicitamente ripensa e discute Nietzsche (e cioè l'ontologia ermeneutica), è anche al centro dell'attuale problematica della filosofia e costituisce la specifica attualità teorica del pensiero nietzscheano.

2. Dalla filologia alla filosofia come critica della cultura.

a) Dioniso, il tragico e la decadenza. Per capire il pensiero di Nietzsche, e la sua rilevanza per una «soluzione» ermeneutica dei problemi della filosofia, occorre ampliare in modo decisivo le indicazioni fornite da Dilthey ne L'essenza della filosofia. Non si tratta solo di riconoscere in Nietzsche la peculiare connessione tra filosofia e «letteratura». Prima e più fondamentalmente che questa connessione, ciò che caratterizza la filosofia di Nietzsche, e che lo avvicina a Dilthey e lo colloca in una possibile continuità con il pensiero del primo Novecento, è il rapporto tra filosofia e filologia che contraddistingue la prima fase della sua opera, e che si manterrà, in forme diverse, in tutto il corso della sua carriera di pensatore. Una prima precisazione del senso da attribuire alla collocazione di Nietzsche nell'ambito dell'ermeneutica va dunque cercata in questo nesso, che in qualche modo lo accomuna allo stesso Dilthey e alla problematica filosofica dello storicismo primonovecentesco, malgrado ogni apparenza di eccezionalità e rivoluzionaria irriducibilità delle sue tesi alla filosofia accademica dell'epoca.

Come per tutta la più significativa filosofia del Novecento, anche per Nietzsche l'avvio al filosofare è dato da una riflessione sulle «scienze umane», detto nei termini più generali, cioè sulla storiografia e il sapere che l'uomo ha di se stesso. E' in questa luce che si devono prendere in considerazione i primi lavori di Nietzsche. La prima filosofia di Nietzsche si elabora nel periodo del suo insegnamento a Basilea e risente, nei suoi tratti caratteristici, sia della sua formazione di filologo, sia delle sue venerazioni giovanili, soprattutto quelle per Schopenhauer e per Wagner; essa contiene una serie di temi che perderanno di importanza nell'elaborazione successiva. Tuttavia, di una filosofia del giovane Nietzsche si può legittimamente parlare, perché pur nella mancanza di sistematicità (della quale, del resto, Nietzsche farà un peculiare stile di pensiero) e persino nella contraddittorietà di certi aspetti, si presenta in essa un concetto centrale, originale e caratteristico, che può esser preso come filo conduttore per leggere tutta l'opera di Nietzsche: è la coppia apollineo-dionisiaco che, formulata in origine in relazione al problema della nascita della tragedia greca e della sua fine, raccoglie intorno a sé quasi tutti gli aspetti più significativi del pensiero del Nietzsche giovane: la critica della cultura del tempo, la «metafisica d'artista», la dottrina del linguaggio, la polemica contro lo storicismo - e prepara in maniera consistente gli sviluppi successivi della sua filosofia.

Nel presentarsi a Basilea nel 1869 con la prolusione su Omero e la filologia classica, e poi con le conferenze del 1870 sul Dramma musicale greco e Socrate e la tragedia8, Nietzsche mostra di intendere il proprio lavoro di filologo in un senso che non è quello della filologia accademica prevalente, e che lo avvicina invece alla filosofia, o almeno a ciò che egli, sotto l'influsso di Schopenhauer, intende con questo nome. Del resto, già al momento della chiamata a Basilea, i suoi dubbi sulla propria vocazione di filologo sono espliciti: sappiamo che fin dal 1868 egli aveva progettato con Rohde di mettersi a studiare testi di scienze, di chimica per esempio9. Le lettere a Rohde dei primi anni basileesi attestano chiaramente questi dubbi, a causa dei quali Nietzsche vive «superbamente estraniato» dalla filologia, «in una estraniazione che peggio di così non si potrebbe immaginare»10. Quali sono le cause di questo precoce distacco interiore dalla filologia, alla quale Nietzsche era arrivato lasciando da parte, fin dal secondo semestre di studi universitari a Bonn, l'idea di dedicarsi alla teologia - idea che non aveva mai coltivato veramente, ma che aveva dato l'impressione di accettare all'inizio degli studi universitari solo per corrispondere alle aspettative della madre e della sorella11?

Se l'abbandono della teologia rappresentò per Nietzsche solo un problema esterno, di rapporti con la famiglia, il «distacco» interiore dalla filologia è un fatto molto più complesso. Anzitutto, non implica che il Nietzsche professore di greco a Basilea si adatti al suo lavoro solo per ragioni economiche o di carriera, nonostante tutta l'insofferenza che prova per esso. Sulla propria vocazione di educatore, Nietzsche in questo periodo non ha dubbi. E la base di una educazione - di sé e degli altri - gli appare sostanzialmente, tolta l'altra alternativa che è quella del cristianesimo, la classicità e cioè la filologia. Ma ciò non senza due ordini di dubbi: uno, radicale, che è espresso dal ricorrente proposito (che del resto Nietzsche attua anche, a Basilea, nelle sue letture) di dedicarsi alle scienze, e che dunque sembra sospettare, o mitizzare, un altro possibile centro della Bildung, senza tuttavia esprimersi in questo momento, come invece avverrà negli scritti a partire da Umano, troppo umano, in precise prese di posizione teoriche. Un secondo motivo di interiore distacco dalla filologia, che si mescola al primo ma per lo più si esprime in modo autonomo, è l'insofferenza per la filologia accademica, motivo che si fa sentire sia in una forma più ristretta (lo studio dell'antichità è divenuto un puro lavoro antiquario, che comporta un distacco intollerabile tra il filologo e il suo oggetto, cioè tra la bellezza del mondo greco e l'intima deformità degli studiosi che dovrebbero ricordarcela12), sia in una forma più generale: in questo secondo aspetto, la filologia classica appare come un tradimento dello spirito del classicismo, in quanto non è più capace di guardare all'antico come a un modello da imitare e proseguire, ma solo come a un repertorio di oggetti di studio. Questo implica, ovviamente, un giudizio più vasto sia sulla società in cui il rapporto con l'antico è diventato mestiere e industriosità filologica, sia sui modi in cui, storicamente, l'immagine dell'antichità come modello si è degradata fino a divenire puro oggetto di studio accademico.

L'insofferenza di Nietzsche per la filologia comincia dunque da una critica della filologia professionale, del suo atteggiamento di ricerca positiva e «obiettiva» sull'antico13, e diventa poi: a) critica del mondo che configura il proprio rapporto con l'antico solo in questa forma, chiudendosi a ogni penetrazione del modello classico; b) critica dei modi in cui l'immagine dell'antico si è trasmessa a questo mondo riducendosi infine a tale livello. L'interesse per questi modi di trasmissione dell'antichità alla coscienza moderna è abbastanza costante nei lavori filologici del giovane Nietzsche: dalla ricerca sulle fonti di Diogene Laerzio, che egli porta a termine nel 1868 a Lipsia, nella quale si tratta di stabilire come si sia formata l'immagine della filosofia antica che Diogene Laerzio trasmette alle epoche successive; alla prolusione basileese su Omero e la filologia classica, che è ancora una volta la storia di un'immagine sto-riografico-filologica e delle sue vicende. E anche gli studi sul dramma musicale greco e sul tragico, che confluiscono nella Nascita della tragedia, sono bensì ricerche su «oggetti» determinati dello studio filologico, ma mirano altrettanto che a questi «oggetti», alle vicende del loro modo di darsi nella tradizione culturale europea. È questo insieme di problemi, centrati bensì sulla filologia, ma oltrepassanti sia i suoi limiti di disciplina accademica, sia in generale i suoi confini di studio del passato (in direzione di una critica della cultura attuale), ciò che Nietzsche chiama, in questi anni giovanili di Basilea, filosofia.

Anche l'incontro con l'opera di Schopenhauer - di cui Nietzsche legge Il mondo come volontà e rappresentazione nel 1865 - non lo allontana dalla filologia verso una filosofia intesa come metafisica, teoria dell'essere o simili. Riaggiusta piuttosto il suo rapporto con la filologia, come è evidente proprio dalla prima grande opera di portata filosofica di Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo (pubblicata nel dicembre del 1871). Uno degli aspetti dell'insuperabile fascino di quest'opera consiste proprio, probabilmente, nella peculiare mescolanza, in essa, di filologia e filosofia, in una misura e con risultati che non trovano precedenti nella grande filologia-filosofia romantica (gli Schlegel, Creuzer) alla quale pure Nietzsche si ricollega14. La nascita della tragedia è insieme una reinterpretazione della Grecità, una rivoluzione filosofica ed estetica, una critica della cultura presente e un programma di rinnovamento di essa. Tutto ciò ruota intorno alla scoperta - che è tale solo nella portata nuova che Nietzsche conferisce ai suoi elementi di base, variamente presenti nella tradizione precedente15 - delle due nozioni di apollineo e dionisiaco.

L'immagine della Grecità di cui a lungo è vissuta la tradizione europea è dominata dall'idea di armonia, bellezza, equilibrio, misura, da tutti quei tratti insomma che valgono come classici. Questa, secondo Nietzsche, è un'immagine che privilegia un certo momento della Grecità, l'Atene del V secolo, e un certo genere di prodotti artistici, l'architettura e la scultura soprattutto. Nella fissazione di questa immagine della Grecità ha avuto gran parte il Cristianesimo, attraverso cui ci è stato trasmesso ciò che sappiamo della cultura antica; la funzione del Cristianesimo in questa trasmissione è così determinante che negli appunti che Nietzsche prese per la stesura di una quinta Considerazione inattuale (li si veda in IV, 1 cit.) sembra talvolta che, con l'indebolirsi e lo sparire della fede cristiana nella modernità, sia destinata anche a interrompersi ogni nostra possibilità di accesso all'antichità classica. Il Cristianesimo ha fissato l'antichità nei suoi tratti classici, che sono già però aspetti di decadenza, perché corrispondono a un momento non più pienamente vitale. Le radici vitali che si nascondono e spariscono nella forma classica della cultura antica - le radici della «montagna incantata» dell'Olimpo (NT 3, 32) - appaiono manifeste se ci si richiama a filoni della tradizione antica che ci sono stati conservati solo marginalmente: tra le arti non tanto all'architettura e alla scultura, quanto piuttosto alla musica; e fuori dal campo delle arti, a certi elementi che si esprimono nella saggezza popolare piuttosto che in testi letterari e filosofici, e che difficilmente si lasciano comporre nelle belle immagini degli eroi di Winckelmann. Così, il detto di Sileno (una figura mitologica, mezzo uomo mezzo animale, precettore di Dioniso), profondamente radicato nella tradizione popolare greca, secondo cui per l'uomo il meglio sarebbe non nascere e, una volta nato, morire presto, svela una visione dell'esistenza che esula da ogni possibile interpretazione classicistica (classicismo, da Winckelmann e Schiller a Hegel, era soprattutto l'idea che i greci avevano potuto produrre belle opere perché erano essi stessi belli, armoniosi e sereni). Se però, accanto a questi frammenti «marginali», ma radicati e costanti nella saggezza popolare, mettiamo i miti tragici, e più ancora le notizie che abbiamo circa la presenza e diffusione di culti orgiastici nel mondo greco16, allora saremo indotti a «disfare pietra per pietra il geniale edificio della cultura apollinea» (NT 3, 30), scoprendo l'altro principio che in essa vive, cioè il dionisiaco. Apollineo e dionisiaco rappresentano una dualità che caratterizza il più profondo dell'anima greca:

il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dovè porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura [...] fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici (NT 3,32)17.

Gli dèi olimpici sono il mezzo con cui i greci sopportano l'esistenza, della quale hanno visto la caducità, la vicenda dolorosa di vita e morte, soffrendone in modo profondo a causa della loro esasperata sensibilità; gli dèi olimpici «giustificano la vita umana vivendola essi stessi» (NT 3, 33), perché la vivono in una luce senza ombre e fuori dall'angoscioso incombere della morte. Anche la natura spesso impiega per il conseguimento dei suoi fini l'illusione (NT 3, 34). Negli dèi olimpici, la vita umana era contemplata «in una sfera superiore, senza che questo mondo perfetto dell'intuizione agisse come imperativo o come rimprovero» (NT 3, 34) - e cioè non nel senso normativo metafisico che caratterizza il mondo delle idee platoniche, possiamo intendere.

Il mondo degli dèi olimpici è il mondo prodotto dall'impulso apollineo; l'esperienza del caos, del perdersi di ogni forma definita nel flusso incessante della vita che è anche sempre morte, è invece quella che corrisponde all'impulso dionisiaco; che è anch'esso un impulso, un Trieb: come l'apollineo tende a produrre immagini definite, forme armoniose e stabili che rassicurino, l'impulso dionisiaco non è solo la sensibilità al caos dell'esistenza, ma è anche spinta a immergersi in questo caos, sottraendosi al principium individuationis. L'allusione al principium individuationis, come numerosi altri riferimenti espliciti nella Nascita della tragedia, manifesta la dipendenza di queste tesi nietzscheane dalla metafisica di Schopenhauer - anche se, come Nietzsche dirà poi esplicitamente nella prefazione alla nuova edizione del 1886, c'è già in quest'opera, espresso in linguaggio schopenhaueriano, qualcosa dì profondamente contrastante con l'ascetismo, e dunque il permanente platonismo, di Schopenhauer. Il mondo apollineo degli dèi olimpici nietzscheani è bensì, come le idee di Schopenhauer, un insieme di rappresentazioni sottratte alla volontà di vivere. Tuttavia, il rapporto degli dèi olimpici con il fondo oscuro dell'uno primordiale non è solo oppositivo, come in Schopenhauer; per quest'ultimo, attraverso le figure dell'arte (che rappresentano le idee), si tratta di sottrarsi alla volontà di vita che costituisce la sostanza irrazionale del mondo. Per Nietzsche, già nella Nascita della tragedia e poi, in termini via via diversi, nello sviluppo successivo del suo pensiero, la portata liberatoria delle figure degli dèi olimpici si esercita solo se esse rimangono in un rapporto profondo con il dionisiaco, cioè con il mondo del caos al quale pure devono aiutarci a sfuggire. Nelle pagine dello scritto sulla tragedia dedicate al Tristano e Isotta, l'opera di Wagner in cui Nietzsche vede rivivere l'autentico spirito della tragedia greca, «alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso» (NT 21, 145). Non è certo nello spirito di Schopenhauer ciò che Nietzsche scrive dell'orrore che afferra l'uomo quando egli vede vacillare il principium individuationis. A questo orrore, di cui parla Schopenhauer, dobbiamo aggiungere, secondo Nietzsche, «l'estatico rapimento che, per la stessa violazione del principium individuationis, sale dall'intima profondità dell'uomo, anzi della natura» (NT 1, 24); questo rapimento si prova perché «sotto l'incantesimo del dionisiaco si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estranea, ostile o soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l'uomo [...]. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s'infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la 'moda sfacciata' hanno stabilite fra gli uomini» (NT 1, 25-26).

Questo rapporto fra apollineo e dionisiaco è anzitutto un rapporto di forze all'interno dell'uomo singolo, che all'inizio dell'opera Nietzsche paragona agli stati del sogno (l'apollineo) e dell'ebbrezza (il dionisiaco); e che funziona nello sviluppo della civiltà come la dualità dei sessi nella conservazione della specie. Tutta la cultura umana è frutto del gioco dialettico di questi due impulsi (Triebe); che poi si specificano anche, più determinatamente, come Kunsttrìebe, impulsi artistici (NT 2,26-27), rispetto ai quali l'artista funge da imitatore. Apollìneo e dionisiaco, cioè, non definiscono soltanto una teoria della civiltà e della cultura, ma anche una teoria dell'arte. Occorre appena ricordare che il rapporto fra creazione artistica e genesi degli dèi, soprattutto degli dèi della mitologia greca, era un tema largamente frequentato dal pensiero romantico. Costruendo una «estetica» che è anche, e soprattutto, una teoria generale della cultura, Nietzsche si ricollega evidentemente a questi precedenti. Sul piano della specifica teoria dell'arte, la dualità di apollineo e dionisiaco permette di leggere le varie fasi dell'arte greca in relazione alla lotta tra impulso dionisiaco e impulso apollineo, lotta che si dispiega anche come conflitto tra popoli diversi, nel succedersi di invasioni e assestamenti che caratterizza la storia della Grecia arcaica. Così l'arte dorica si spiega solo come risultato di una resistenza dell'apollineo agli assalti, che sono anche veri e propri attacchi di popoli invasori, del dionisiaco, dei culti orgiastici di origine barbarica. Nella lotta dei due princìpi avversi, «la storia greca antica si suddivide in quattro grandi periodi artistici» (NT 4, 39); «dall'età 'del bronzo', con le sue titanomachie e la sua aspra filosofia popolare, si sviluppò, sotto il dominio dell'istinto di bellezza apollineo, il mondo omerico; questa magnificenza 'ingenua' venne di nuovo inghiottita dal fiume irrompente del dionisiaco, e di fronte a questa nuova potenza l'apollineo si elevò alla rigida maestà dell'arte dorica e della visione dorica del mondo» (NT 4, 38). Al predominio dell'uno o dell'altro impulso si legano anche, senza alcuna schematizzazione rigida, le diverse arti: se la musica è arte prevalentemente dionisiaca, la scultura e l'architettura sono apollinee, e così l'epopea. Sia dal punto di vista del grado di civiltà, sia dal punto di vista della maturità artistica, il mondo dorico non è però il culmine della grecità; questo culmine è invece rappresentato dalla tragedia attica, che si presenta come la più perfetta sintesi dei due impulsi (NT 4, 39).

Circa la sua origine, Nietzsche riprende un'idea presente nella tradizione, secondo cui la tragedia sarebbe nata dal coro tragico (cfr. NT 7, 50), proponendone però una nuova interpretazione che si lega alle nozioni di apollineo e dionisiaco. Il coro da cui la tragedia nasce è il coro dei Satiri, cioè la processione sacra in cui i partecipanti si trasformano in «finti esseri naturali» (NT 7,53). Questo mondo non è però un «mondo di fantasia, situato arbitrariamente fra cielo e terra; bensì un mondo di realtà e credibilità pari a quelle che possedeva, per il Greco religioso, l'Olimpo con tutti i suoi abitatori» (NT 7,54). Nello stato di esaltazione che pervade il corteo dei Satiri che danzano e cantano, l'uomo ridivenuto essere di natura getta uno sguardo nel mistero dell'uno primordiale e reagisce all'orrore e all'estasi attraverso la produzione di immagini: nell'esaltazione dionisiaca, accade al coro dei Satiri il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere (NT 8, 60). Non sarà inutile, per rintracciare anche in questo un aspetto, essenziale, dell'antiplatonismo di Nietzsche, ricordare che la disidentificazione, l'immedesimazione in altri, la perdita di continuità con sé erano le ragioni principali della condanna platonica dell'arte drammatica. Nietzsche vi vede l'origine del dramma, dandone una valutazione opposta a quella di Platone. Egli ne sottolinea anche, in tutte queste pagine, gli aspetti sociali: «il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale [...]. In questo incantesimo, chi è esaltato da Dioniso (giacché la processione dei Satiri è in origine in onore di Dioniso, G. V.) vede se stesso come Satiro, e come Satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato. Con questa nuova visione il dramma è completo» (NT 8, 60). La tragedia greca va dunque intesa come «coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini» (NT 8, 61).

Sebbene apparisse anzitutto come un'ipotesi filologica sulla nascita della tragedia greca - e come tale fosse discussa, e criticata, dai filologi (anzitutto, Wilamowitz-Mòllendorfi8) - l'importanza di questa proposta di Nietzsche, anche conformemente ai suoi propositi niente affatto «storiografici» e obiettivi, consiste nell'aprire la via a un rinnovato rapporto con la classicità che comporta anche un radicale atteggiamento critico nei confronti del presente. Più in generale, Nietzsche poneva qui le basi di quella «ontologia» - centrata sulla nozione di interpretazione - che sarà elaborata nelle opere della maturità e nei frammenti del Wille zur Macht. Il gioco di apollineo e dionisiaco, e l'ambiguo significato, che la tragedia possiede, di liberazione dal e del dionisiaco19 nella bella immagine apollinea, rimangono elementi decisivi di tutta la successiva elaborazione del pensiero di Nietzsche, e costituiscono la base anche della sua possibile attualità teorica.

Le conseguenze delle tesi della Nascita della tragedia per la teoria e la critica della cultura vengono elaborate da Nietzsche a partire dal problema del come e perché la tragedia attica sia morta. Essa, a differenza di altri generi letterari antichi, che sono periti di morte «naturale», essendo divenuti superflui e senza lasciare alcun vuoto, è morta per suicidio (NT 11, 75); l'autore di questo suicidio della tragedia è stato Euripide, che ha «portato lo spettatore sulla scena» iniziando il processo che avrebbe posto capo alla commedia attica nuova, nella quale sopravvive «la forma degenerata della tragedia» (NT 11,76). Euripide ha trasformato il mito tragico in un susseguirsi di vicende razionalmente concatenate e comprensibili, di stampo sostanzialmente realistico.

Si può domandare se questa visione del ruolo di Euripide nella storia della tragedia greca sia storicamente fondata20; ma ciò che sta a cuore a Nietzsche, più dell'accertamento della responsabilità di Euripide, è smascherare il vero ispiratore di questa vicenda del suicidio della tragedia. Euripide trasforma in senso realistico e razionale il mito tragico per soddisfare le esigenze di uno spettatore determinato, cioè Socrate. È Socrate a inaugurare nella mentalità greca una visione razionale del mondo e delle vicende umane, secondo la quale «al giusto non può accadere nulla di male», né nell'ai di qua né nell'aldilà. Il realismo della tragedia euripidea è una conseguenza dell'ottimismo teoretico di Socrate: ciò che merita di essere rappresentato sulla scena è la struttura razionale della vita. Siccome questa non desta emozioni - anche perché Euripide, con l'introduzione del prologo che spiega fin da principio l'azione, toglie alla tragedia ogni «tensione epica» e «eccitante incertezza» (NT 12, 86) - occorre che tutta l'azione si articoli in grandi scene retorico-liriche, capaci di suscitare nello spettatore quel pathos che altrimenti non potrebbe più prodursi. E poiché tutto deve andare secondo lo schema razionale previsto, si intende anche la necessità del deus ex machina. Ciò che si svolge nell'intervallo tra prologo ed epilogo - che sono epici - è il presente drammatico-lirico; la sintesi tragica fra epopea e lirica, tra musica e rappresentazione dell'intreccio, tra apollineo e dionisiaco, è sparita. Ma ciò non per una dinamica interna della forma letteraria, bensì per corrispondere a nuove esigenze spirituali legate all'affermarsi dell'ottimismo teoretico di Socrate - cioè al sorgere della filosofia classica greca. Se c'è una struttura razionale dell'universo, come Socrate crede e insegna, allora il tragico non ha più senso: ma ciò non soltanto nel significato più limitato, per il quale in un mondo razionalmente ordinato non può esservi incertezza, eccitamento, tensione, ambiguità.

L'opposizione fra socratismo e tragico getta anche luce su ciò che Nietzsche persegue davvero con le nozioni di apollineo e dionisiaco e su ciò che egli considera come caratteristico di quello che, più tardi, chiamerà il platonismo della cultura europea, che egli intende oltrepassare. Le immagini apollinee degli dèi olimpici, e poi la tragedia attica, sono forme di redenzione dell'esistenza che non comportano l'ipostatizzazione di essenze e strutture metafisiche. Anche queste nascono (come Nietzsche spiegherà più esplicitamente a partire da Umano, troppo umano) da un bisogno di rassicurazione, dall'esigenza di rendersi in qualche modo tollerabile il caos della vita, con l'inarrestabile ciclo di nascita e morte; ma secondo Nietzsche, la rassicurazione metafisica cercata nelle essenze, nell'ordine razionale dell'universo, è propria di una cultura indebolita e decadente. Con l'ideale di una «giustificazione estetica dell'esistenza» (cfr. NT 5, 45) Nietzsche persegue né più né meno che una alternativa alla metafisica (che egli chiama socratismo o platonismo), che in tutte le sue forme ha sempre cercato la rassicurazione in strutture essenziali, in un «mondo vero» il quale, contrariamente agli dèi olimpici, diventa subito, rispetto al mondo dell'esperienza, «imperativo o rimprovero» (cfr. NT 3, 34), e quindi produce quella depressione della vita in cui consiste la decadenza legata al razionalismo socratico (platonico)-cristiano.

Le implicazioni della nozione di decadenza legata al razionalismo socratico che si esprime nella metafisica, nella morale, nella cultura «cristiana» che domina l'Occidente, saranno sviluppate da Nietzsche nelle opere successive allo scritto sulla tragedia: qui, il limite e la portata negativa del socratismo, oltre che nell'aver eliminato la stessa possibilità di una visione tragica dell'esistenza (sia nel senso della presenza del mito e del mistero; sia nel senso di una giustificazione estetica dell'esistenza, diversa, sia pure oscuramente, dalla giustificazione metafisica), viene indicato nella sua conclusiva insufficienza che, venendo in chiaro proprio nel momento della crisi finale della metafisica, in Kant e Schopenhauer (nei quali si esprime una vera e propria saggezza di tipo dionisiaco; cfr. NT 19, 132), prepara anche un possibile ritorno della cultura tragica, quello che Nietzsche, almeno in questi anni, si aspetta dal dramma musicale wagneriano. Inaugurata dal razionalismo socratico,

la scienza, spronata dalla sua robusta illusione, corre senza sosta fino ai suoi limiti, dove l'ottimismo ìnsito nell'essenza della logica naufraga. Infatti la circonferenza che chiude il cerchio della scienza ha infiniti punti, e mentre non si può ancora prevedere come sarà mai possibile misurare interamente il cerchio, l'uomo nobile e dotato giunge a toccare inevitabilmente, ancor prima di giungere a metà della sua esistenza, tali punti di confine della circonferenza, dove guarda fissamente l'inesplicabile. Quando egli vede qui con terrore come la logica in questi limiti si torca intorno a se stessa e si morda infine la coda - ecco che irrompe la nuova forma di conoscenza, la conoscenza tragica, la quale, per poter essere sopportata, ha bisogno dell'arte come protezione e rimedio (NT 15, 103).

Il ritorno della cultura tragica non è dunque, in questo passo, un puro e semplice ritorno del mito; esso è piuttosto il risultato di una estremizzazione dello stesso bisogno di razionalità della mentalità scientifica, che - secondo una «logica» che prelude a quella della «morte di Dio», di cui Nietzsche parlerà nella Gaia scienza - proprio per la sua esigenza di certezza si rovescia in quella specie di scetticismo disperato che è il kantismo, con la sua prosecuzione in Schopenhauer. Anche qui, tuttavia, si può cogliere una ambiguità e un autofraintendimento del Nietzsche giovane. Il wagnerismo che domina tutto lo scritto sulla tragedia ha fatto sì che il suo senso fondamentale apparisse, e fosse, in larga misura, quello di una predicazione del ritorno del mito. I passi sulla «sapienza dionisiaca» del kantismo, tuttavia, come il testo che abbiamo ora riportato, lasciano intravedere una possibile diversa soluzione del problema del ritorno del tragico, che non implica necessariamente una rimitologizzazione di stampo wagneriano e, più in generale, irrazionalistico. Questa diversa soluzione sarà quella che Nietzsche cercherà a partire da Umano, troppo umano, che conserverà alcune tesi fondamentali dello scritto sulla tragedia distaccate dalla fede wagneriana dei primi anni basileesi.

La paradossale mescolanza di Kant e Wagner nelle conclusioni dello scritto sulla tragedia è solo un aspetto della più generale difficoltà di riconoscere chiaramente che cosa, in concreto, Nietzsche si immaginasse come ritorno di una cultura tragica. Gli altri scritti di questi anni, e cioè, essenzialmente, l'inedito Su verità e menzogna in senso extramorale (in III, 2, 353-72) - nel quale Nietzsche fa un tentativo di teorizzazione specificamente «filosofica», e che tuttavia lascerà incompiuto - e le Considerazioni inattuali, specialmente la seconda e la terza, possono fornire qualche indicazione ulteriore, senza tuttavia presentare soluzioni definitive del problema. La vicenda del distacco da Wagner, del resto, che si consuma esplicitamente con Umano, troppo umano ma che è già preparata nella quarta Inattuale e negli appunti e lettere dell'epoca, si spiega, oltre che con ragioni psicologiche e personali21, anche con la più generale constatazione che, se Nietzsche non ha rinunciato in generale, almeno esplicitamente, al sogno di una rinascita della cultura tragica (comunque egli ora la chiami) la forma di tale rinascita gli pare sempre meno collegabile a un fenomeno come la musica wagneriana e, forse, all'arte in generale; anche se è probabilmente errato pensare che si possa intendere l'insufficienza, per Nietzsche, di una tale soluzione «estetistica» in termini che più o meno remotamente richiamino l'idea hegeliana della «morte dell'arte». Non bisogna pensare, cioè, che l'insufficienza della soluzione del problema della decadenza mediante l'arte sia percepita in relazione a una possibile «provvisorietà» dell'arte (benché Nietzsche dia adito a interpretazioni del genere; cfr. «L'arte delle opere d'arte» in GS 89, 99-100). Nietzsche non pensa insomma che il rinnovamento della cultura tragica possa avvenire attraverso una sorta di riscatto estetico di tutta l'esistenza, che comporti eventualmente una fine dell'arte come dominio separato. L'insufficienza di una soluzione estetica del problema della decadenza sarà invece riconosciuta in Umano, troppo umano come legata a una inattualità storico-psicologica dell'arte per l'uomo moderno, per il quale la libertà dello spirito, e la stessa manifestazione dell'impulso dionisiaco, trova ormai il suo luogo di dispiegamento, più che nell'arte, nella scienza.

Intanto, nelle opere giovanili (dalla Nascita della tragedia alle Considerazioni inattuali e all'inedito Su verità e menzogna), l'arte sembra destinata a esercitare tutta la sua potenza di giustificazione estetica dell'esistenza anche - e forse soprattutto - nella cornice di una civiltà socratica. Uno dei caratteri affascinanti, ma anche inquietanti, dello scritto Su verità e menzogna è proprio questo: sul piano genetico, Nietzsche mostra che il linguaggio socialmente stabilito, con le sue regole e la sua funzione conoscitiva, è nato solo come irrigidimento arbitrario (legato però anche, almeno nella prospettiva della Genealogia della morale, a configurazioni dei rapporti di dominio) di un certo sistema di metafore che, inventato liberamente come ogni altro sistema di metafore, si è poi imposto come l'unico modo pubblicamente valido di descrivere il mondo; ogni linguaggio, in origine, è metafora, indicazione di cose mediante suoni che non hanno nulla da fare, in sé, con le cose stesse. La società sorge quando un sistema metaforico si impone sopra agli altri, diventa il modo pubblicamente prescritto e accettato di indicare metaforicamente le cose (cioè, di mentire). Da quel momento in poi, i sistemi metaforici diversi, sia passati che futuri, sono ridotti al livello della «poesia», cioè al livello di menzogne riconosciute come tali. Questa descrizione «genetica», sia pure ideale, del linguaggio, non dà però luogo, in Nietzsche, a una idealizzazione della condizione della libera inventività metaforica, che nella situazione di canonizzazione di un solo sistema di metafore sarebbe andata perduta. Anzi, è solo attraverso la costruzione di quel «concettuale gioco di dadi che si chiama peraltro 'verità'», (VM 1, 362), cioè attraverso lo stabilirsi di un ordine gerarchico di concetti astratti, remoti non solo dalle cose ma anche dalle impressioni intuitive immediate dei singoli - che l'uomo si distingue dall'animale, tutto immerso nel flusso delle immagini. Per edificare la propria umanità razionale, fondata sulla capacità di «mentire in uno stile vincolante per tutti» (ibid.), l'uomo deve dimenticare «se stesso in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo» (ivi, 365). Ma in nessuna parte dello scritto Nietzsche sostiene in base a queste constatazioni la necessità di restaurare un mondo di libera inventività metaforica, senza regole canonizzate e in definitiva senza società e umanità.

Si può ragionevolmente ipotizzare che uno dei motivi dello stato incompiuto e inedito in cui Nietzsche lasciò questo saggio sia proprio l'incertezza e la problematicità delle conclusioni: se infatti ci sono da un lato buone ragioni per collegare lo scritto Su verità e menzogna al discorso della Nascita della tragedia sulla rinascita di una cultura tragica attraverso il recupero dell'elemento dionisiaco rimosso dal socratismo (e dunque, attraverso la restaurazione della libera creatività artistica e del «dominio dell'arte sulla vita», VM 2, 371); d'altro lato, l'irrigidimento di un sistema di metafore in linguaggio canonizzato della verità non fa altro, a ben vedere, che proseguire la stessa tendenza alla «menzogna», all'imposizione di nomi, immagini, metafore sulla «realtà» delle cose, in cui consiste l'impulso metaforico originario. Sarebbe contraddittorio, dal punto di vista di Nietzsche, condannare l'astrazione e la fissazione in regole del linguaggio concettuale pubblico in nome di una maggior «fedeltà al reale» della libera attività metaforica. Non solo: anche l'impulso a mentire e a creare illusioni è radicato nel bisogno della conservazione - che si soddisfa allo stato di natura nella lotta illimitata tra gli individui e le loro metafore private; mentre lo stato sociale risponde alla stessa esigenza appunto attraverso l'istituzione di regole secondo cui «mentire» in modo stabile. Molti passi del breve scritto mostrano che Nietzsche non sottovalutava affatto il significato emancipativo che ha avuto per l'uomo la nascita di un linguaggio regolato, di un sistema di metafore uguale per tutti. E vero che «l'intelletto, maestro di finzione, è libero e sottratto al suo normale servizio da schiavo» solo quando «con gusto creativo mescola le metafore e sposta i confini dell'astrazione» (VM 2,370); ma si tratta della gioia dello schiavo nei Saturnali, di una momentanea sospensione delle leggi, in cui si può ingannare «senza recar danno» (ibid). Ritroviamo qui, e in modo più complesso perché maggiori sono le ambizioni filosofiche sistematiche di questo testo, la stessa problematicità delle conclusioni dello scrìtto sulla tragedia: come si deve pensare la rinascita di una cultura tragica? Davvero essa è la restaurazione dell'esistenza greca, in cui «l'arte dominala vita» (VM 2, 371),e che però sembra comportare anche il rischio, alla luce dello scritto Su verità e menzogna, di una ricaduta nello stato di natura, in cui la libertà creativa si accompagna con la suprema insicurezza dell'esistenza? Oppure è invece affidata, la rinascita del tragico, a una «esaltazione» della finzione dell'arte nella quale l'intelletto celebra i suoi Saturnali senza recar danno, dunque nella condizione di sicurezza che proprio il sistema delle astrazioni ha contribuito a creare e mantenere?

b) L'inattuale. È piuttosto quest'ultima la direzione in cui sembra muovere il pensiero di Nietzsche nei primi anni di Basilea, cosicché Umano, troppo umano, che inaugurerà il secondo, più maturo periodo della sua filosofia (e segnerà il distacco da Wagner e da Schopenhauer) non rappresenta una svolta così repentina e imprevista. Umano, troppo umano parlerà di un «doppio cervello» che «una cultura superiore deve dare all'uomo, qualcosa come due camere cerebrali, una per sentirci la scienza, un'altra per sentirci la non scienza; che stiano l'una accanto all'altra, senza confusione, separabili, isolabili: è questa un'esigenza di salute» (UTUI, 251, 179). E, in termini più espliciti, la posizione che si trova già delineata nello scritto Su verità e menzogna.

La rinascita della cultura tragica a cui Nietzsche pensa negli scritti giovanili si configura dunque come una «rivoluzione» in cui l'arte ha una funzione decisiva, la quale però, mentre resta non sufficientemente determinata nello scritto sulla tragedia, nelle altre opere degli anni immediatamente successivi si precisa come generalmente legata a una funzione critica della cultura. Questa posizione critica della cultura nei confronti della civiltà della decadenza socratica non dà luogo all'ipotesi di un rovesciamento rivoluzionario; cerca invece di definirsi in termini diversi, e proprio questo è il senso delle Considerazioni inattuali. La stessa nozione di inattualità su cui insiste il loro titolo indica la problematicità di questo rapporto: il pensatore inattuale che

Nietzsche sente di essere non lavora alla fondazione immediata di una cultura diversa, nella quale le sue tesi potrebbero diventare «attuali»; lavora piuttosto «contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo» (I II pref., 261). Ma la possibilità che un tempo a venire modifichi davvero la posizione dell'uomo di cultura nei confronti della società appare in Nietzsche del tutto ingiustificata: sia la seconda Inattuale, sia soprattutto quel vero e proprio manifesto sui rapporti tra società e cultura che è la terza Inattuale, Schopenhauer come educatore, pensano tali rapporti in termini di alternativa radicale tra Kultur e ZiVIIIsation; due termini che Nietzsche contrapporrà esplicitamente negli appunti dell'ultimo periodo (cfr. per es. 16 [10], VIII, 3,275), secondo l'accezione che avranno nella Kulturkritik tedesca del primo Novecento22. Sia la seconda, sia la terza Inattuale si concludono non con la delineazione di una ZiVIIIsation alternativa a quella decadente che conosciamo e in cui siamo, ma con l'appello a forze di Kultur che, entro questa ZiVIIIsation, rappresentino momenti «critici»: tali sono sia le «potenze sovrastoriche» o eternizzanti a cui fa appello la conclusione della seconda Inattuale (I II, 10, 351 sgg.), sia le figure del santo, dell'artista e del filosofo a cui Nietzsche guarda, nello stesso spirito, in Schopenhauer come educatore. Tutte queste figure rappresentano - insieme all'arte wagneriana dalla quale Nietzsche finirà poi per prender congedo - i soli modi di una rinascita della cultura tragica nel mondo attuale; sono insieme il concretarsi, ma anche lo stemperarsi e l'iniziale dissolversi, della «metafisica d'artista» delineata nella Nascita della tragedia. La seconda e la terza Considerazione inattuale, più che per il loro contenuto teorico «costruttivo» sono importanti nella produzione del primo Nietzsche soprattutto da due punti di vista: da un lato avvicinano la dissoluzione della giovanile «metafisica d'artista» mostrandone l'unica via di sviluppo in una teoria della Kultur come critica più che in un progetto alternativo di ZiVIIIsation; dall'altro precisano ulteriormente gli obiettivi di questa critica, ponendo le basi per lo sviluppo in senso «decostruttivo» del pensiero del Nietzsche maturo. La seconda Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita ( 1874), ha un particolare fascino, nonostante il fatto che, come e più di altri scritti di Nietzsche, apra problemi assai più numerosi di quanti non ne risolva; tale fascino si è fatto sentire profondamente sul pensiero europeo del Novecento (pensiamo solo a AUR. Heidegger e a Walter Benjamin23), e non si tratta di un fenomeno marginale, se è vero che molta grande filosofia di questo secolo si è costruita in polemica con, o comunque in riferimento allo storicismo, che è l'obiettivo della critica di Nietzsche in questo scritto. La problematicità del significato della seconda Inattuale nel quadro dell'opera nietzscheana consiste nel fatto che è difficile vedere in essa un punto di arrivo, o una preparazione di tesi successive - per esempio della dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale - alle quali pure si potrebbe legittimamente collegare. Sembra invece altrettanto, e forse più, probabile che Nietzsche nelle sue opere successive abbia progressivamente eroso proprio le tesi antistoricistiche dell'inattuale sulla storia, al punto che uno dei cosiddetti biglietti della pazzia (scritto da Torino all'inizio del gennaio 1889), in cui egli dice tra l'altro di essere «tutti i nomi della storia» potrebbe considerarsi la logica conclusione di un itinerario di recupero proprio di quello Historismus che è l'obiettivo della polemica dello scritto del 1874.

A parte questi sviluppi, che vedremo in seguito, la seconda Inattuale si presenta come la prima vigorosa critica, nel tardo Ottocento, di uno dei tratti dominanti della cultura del secolo (insieme allo scientismo positivistico, che Nietzsche prende già di mira nella Nascita della tragedia), lo storicismo; non tanto nella sua forma metafisica hegeliana, quanto nella forma dello storiografismo, caratteristico della educazione dell'uomo ottocentesco. Nietzsche muove dalla constatazione che un uomo, o una cultura, perfettamente consapevole della «storicità» delle proprie azioni non avrebbe alcuno stimolo e alcuna capacità di produrre nuova storia. Storico è infatti ciò che «risulta» da quanto è venuto prima ed è destinato a lasciare il posto a ciò che seguirà: dunque, il puro e semplice punto su una linea, che si individua unicamente in relazione agli altri punti; questa relazione, mentre lo costituisce, anche lo dissolve. Quando la consapevolezza della storia domina un individuo o, com'è il caso dell'Ottocento, una cultura, le forze creative vengono meno; appare insensato e inutile dedicarsi a costruire ciò che è destinato a perire di lì a poco, nel corso inarrestabile della storia. È questo stato d'animo che Nietzsche chiama «malattia storica».

La malattia storica è legata, da un lato, agli sviluppi, anche in Hegel, della visione cristiana del mondo: il memento mori della religiosità medievale si concreta, nello storiografismo ottocentesco, in una diffusa coscienza epigonica, la quale non crede che si possa dare qualcosa di nuovo sotto il sole, e pensa che tutto nasce e perisce inarrestabilmente (I II, 8, 324-25); il provvidenzialismo hegeliano, secondo Nietzsche, non è altro che il rovesciamento di tale epigoni-smo in una pretesa di trovarsi non alla fine, ma al culmine del processo storico. Il quale, poi, appare come un corso razionale di eventi (e qui ha parte anche Socrate, che ha fondato la possibilità di vedere il mondo, e anche la storia, come una totalità razionale) e in definitiva, come dirà Benjamin riprendendo Nietzsche24, la «storia dei vincitori». Epigonismo scetticheggiante e pretesa (hegeliana, positivistica, evoluzionistica) di essere (gli europei dell'Ottocento) il punto di arrivo del processo storico si mischiano indissolubilmente nella coscienza ottocentesca. Un fattore determinante del-l'imporsi di un tale atteggiamento spirituale è l'enorme sviluppo della conoscenza positiva della storia passata, che si realizza proprio nell'Ottocento; all'uomo del secolo XIX è dato più materiale conoscitivo sul passato di quanto egli riesca ad assimilarne, a digerirne: questo materiale grava sul suo stomaco, e produce quella «mancanza di stile in cui consiste propriamente la decadenza. Se infatti le conoscenze sul passato non sono assimilate e digerite, interno e esterno non si corrispondono più; le forme che l'uomo ottocentesco impone alle proprie produzioni nelle varie arti, prendendole, come di fatto accade, dal passato considerato come una sorta di repertorio e guardaroba di costumi teatrali, non hanno alcun rapporto organico, necessario, con la sua interiorità. L'eccesso di consapevolezza e di conoscenza storica causa insieme l'incapacità di produrre forme nuove e il «rimedio», ancora peggiore del male, a questa incapacità, cioè l'eclettismo storicizzante.

Ma non è solo l'eccesso di storiografia ciò che ha fatto maturare questa situazione: il predominio della storia nell'educazione e nella cultura è anche direttamente funzionale alla formazione della forza-lavoro sociale.

Gli uomini devono essere adattati agli scopi del tempo per potervi metter mano il più presto possibile; devono lavorare nella fabbrica delle utilità generali prima di esser maturi, anzi perché non diventino affatto maturi - in quanto questo sarebbe un lusso che sottrarrebbe una quantità di forze al «mercato del lavoro» [...]. Il giovane viene spinto con la frusta attraverso tutti i millenni: adolescenti che non capiscono nulla di una guerra, di un'azione diplomatica, di una politica commerciale, vengono trovati degni di esser introdotti nella storia politica. Ma come il giovane corre attraverso la storia, così noi moderni corriamo attraverso le gallerie d'arte, così ascoltiamo i concerti (I II, 7, 316-17).

Accanto a questa funzione in vista della preparazione rapida di forza-lavoro, lo storiografismo sviluppa anche una funzione spettacolare, che serve di stimolo alla personalità moderna indebolita dall'eccesso di coscienza storica.

[L'uomo moderno] si fa preparare di continuo dai suoi artisti della storia la festa di un'esposizione universale; è diventato uno spettatore gaudente e peregrinante [...]. Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia (I II, 5, 295-96).

Nietzsche intravvede così un tratto caratteristico della cultura di massa che si svilupperà nel Novecento.

Tutti questi sono i danni che l'eccesso di storiografia produce in una società; la vita, infatti, ha bisogno di «oblio», di un orizzonte definito, di un certo grado di incoscienza. Ciò non vuol dire però che la conoscenza del passato non abbia anche un'utilità per la vita: è l'utilità che si manifesta nelle tre forme «positive» in cui Nietzsche vede articolarsi lo studio storico: la storiografia monumentale, la storiografia antiquaria e quella critica. Nessuna di queste tre forme, è importante sottolinearlo, coincide con l'atteggiamento che domina lo storiografismo ottocentesco: nessuna, infatti, cerca nel passato un «corso logico» di eventi, la cui messa in luce serva per giustificare il presente, per educare la forza-lavoro, o per coltivare il senso dell'inarrestabile fluire delle cose umane (il memento mori).

In tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione (I II, 2, 272).

Su queste tre esigenze si fondano le tre specie di storia utili alla vita; esse comportano anche dei rischi, che si combattono limitando ciascuno dei tre modi con l'intervento degli altri due. Ma accanto a questi tre modi non dannosi di porsi in rapporto storiografico con il passato (i quali delineano le basi di quello che sarà il «recupero» dello Historismus da parte del Nietzsche successivo, a cui abbiamo accennato), ciò che può aiutare la cultura presente a guarire dalla malattia storica e dalla decadenza è il ricorso alle potenze sovrastoriche, o eternizzan-ti, dell'arte e della religione (cfr. I II, 10, 351 sgg.). Il richiamo a queste potenze non si sviluppa tuttavia, nello scritto di Nietzsche, in una tesi teorica articolata; rimane un puro appello, e ciò che resta chiaro è che un aspetto decisivo dell'uscita dalla decadenza è l'instaurazione di un rapporto vitale con il passato - antiquario, monumentale, critico - che contribuisca a una vera maturazione dell'individuo, invece che alla sua semplice riduzione a lavoratore nella fabbrica sociale o a consumatore di spettacoli. Ma di fronte alla chiarezza e perentorietà della pars destruens, la parte costruttiva dello scritto sulla storia non presenta se non un insieme di esigenze che restano largamente indeterminate.

Nel senso di una cultura intesa essenzialmente come critica, più che come costruzione articolata di un ideale alternativo di ZìVIIIsatìon, parla anche la terza Inattuale, su Schopenhauer come educatore (uscita alla fine del 1874). Come dice il titolo, non si tratta di una esposizione della filosofia di Schopenhauer, ma di lui come pensatore, e figura esemplare - diremmo noi - di intellettuale nella società dell'epoca di Nietzsche. Schopenhauer è visto soprattutto come l'antitesi del dotto-funzionario statale, del professore d'università che, stipendiato dallo stato, non può che insegnare una filosofia che non turbi lo stato. Ma la filosofia, seriamente coltivata, è necessariamente critica delle istituzioni, comunque produce cittadini niente affatto sottomessi agli scopi dello stato; di conseguenza, l'unica «filosofia» che si insegna nelle università è la storia delle opinioni filosofiche del passato, possibilmente in modo da suscitare negli studenti insofferenza e nausea, esorcizzandone dunque ogni funzione educativa nel senso della critica dell'esistente. Il discorso su Schopenhauer si allarga così a una visione generale del rapporto tra cultura e istituzioni: non solo lo stato, ma anche il mondo dell'economia e la scienza, che sono tutti annoverati tra i nemici della cultura - con una posizione assai affine a quella di Jacob Burckhardt che Nietzsche a Basilea aveva conosciuto e frequentato personalmente, e da cui è stato certamente influenzato25. È però facile vedere come questa posizione si leghi coerentemente con le premesse contenute nella Nascita della tragedia e rappresenti uno sbocco delle esigenze presenti in quell'opera e nella seconda Inattuale.

Più esplicitamente che la seconda Inattuale, lo scritto su Schopenhauer accentua l'impressione che la rinascita della cultura tragica sia per Nietzsche qualcosa che ha a che fare sia con una rinascita dell'arte (e probabilmente anche del mito, della religione) sia con un potenziamento della capacità critica contro l'esistente, una critica che, come si vede qui nella esaltazione che Nietzsche fa della figura del filosofo, accanto a quella del poeta e del santo, si dispiega come ricerca e devozione alla verità, anche se non è la verità dello scienziato, da cui il filosofo si distingue per la capacità, che Nietzsche vede come una caratteristica essenziale, di non limitarsi ad accumulare conoscenze particolari, ma di possedere invece una «intuizione del tutto» una sorta di sapere come «saggezza» che guarda a tutta l'esistenza. La centralità di questo elemento critico per la rinascita di una cultura tragica contribuisce a distanziare l'ideale di una tale rinascita da quello della bellezza dionisiaco-apollinea descritta nella seconda sezione dello scritto Su verità e menzogna: la terza Inattuale parla esplicitamente di una bellezza intesa come «mite stanchezza crepuscolare», che si posa sui volti di chi ha avuto una «grande illuminazione sull'esistenza» (I III,5,406) Questa bellezza, che certo non è quella della vita prorompente del dionisiaco ritrovato, non è però neppure solo quella di uno sguardo nostalgico; sono istruttive, a questo proposito, le pagine della terza Inattuale in cui Nietzsche descrive le «tre immagini dell'uomo che la nostra epoca ha eretto una dopo l'altra, e dalla cui visione i mortali prenderanno ancora a lungo l'impulso per una trasfigurazione della loro vita: l'uomo di Rousseau, l'uomo di Goethe e infine l'uomo di Schopenhauer» (I III,4, 393-94). Il primo è quello che fa appello impulsivamente alla propria santa natura per rompere le oppressioni e le catene di ogni genere, e che dunque ispira le rivoluzioni; l'uomo goethiano è invece uno che «odia qualsiasi violenza, qualsiasi salto, il che vuol dire però: qualsiasi azione; e così il liberatore del mondo Faust diventa quasi soltanto uno che viaggia per il mondo» (I III, 4,395); egli è «l'uomo contemplativo in grande stile, che non langue sulla terra soltanto perché raccoglie per il suo nutrimento tutto ciò che di grande e memorabile vi è stato e ancora vi è» (ivi, 396). Come l'uomo di Rousseau rischia sempre di diventare «un catilinario», quello di Goethe è sempre lì lì per diventare un filisteo (ivi, 396). «L'uomo di Schopenhauer», invece, «assume su di sé il dolore volontario della veridicità» (ìbid.). E quello che potremmo anche chiamare l'autentico spirito critico, che si sforza di «conoscere tutto», come l'uomo di Goethe, ma per un amore eroico del vero che lo costringe anche a sacrificare se stesso.

Come già nella conclusione della Nascita della tragedia e della seconda Inattuale, anche qui l'ideale «positivo», sebbene caratteristicamente caricato di aspetti ascetico-eroici, non risulta tanto sistematicamente definito. Ma è rilevante che, accanto all'insistenza sulla contrapposizione tra filosofia e ogni forma di istituzionalità, e alla polemica contro la scienza come affare di specialisti privi di una visione complessiva del mondo, si faccia luce, proprio rispetto alla scienza, una attenzione che si svilupperà in Umano, troppo umano: in confronto alla vuotezza, al dogmatismo, all'oscurità della filosofia accademica, Nietzsche riconosce che «senza dubbio oggi nelle singole scienze si è più logici, cauti, modesti, geniali, insomma si è molto più filosofici dei cosiddetti filosofi» (I III, 8, 450). Ancor più in generale - anche se si tratta solo di un cenno - Nietzsche sembra riconoscere che gli avversari con cui la filosofia si trova a fare i conti (la filosofia buona non meno che la cattiva, forse) sono le scienze naturali e la storia. Con tutti i limiti che questi ambiti di sapere presentano, è vero anche del pensiero di Nietzsche stesso che, nel periodo che si apre con Umano, troppo umano, esso si svilupperà proprio ripensando il significato delle scienze e della storia (sia come forme di sapere, sia nelle loro implicazioni per l'organizzazione della società) e ridefinirà in relazione ad esse la propria concezione dei compiti della filosofia.

II. LA DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA

1. Arte e scienza in «Umano, troppo umano».

Si è già accennato al fatto che, soprattutto a partire dalla pubblicazione del Nietzsche di Heidegger nel 1961, lo studio di Nietzsche si è concentrato specialmente sulle opere dell'ultimo periodo della sua vita e sui frammenti postumi che egli, almeno in un certo momento, aveva pensato di raccogliere in un'opera organica sotto il titolo di La volontà di potenza. Sono questi gli scritti in cui si annunciano le grandi tesi ontologiche di Nietzsche, quelli che Heidegger chiama i suoi Haupttìteft. Ma proprio una certa presa di distanza dall'interpretazione di Heidegger, che è maturata negli anni recenti nella Nietzsche-Literatur, induce a riconsiderare il problema in un'altra luce; nel senso, cioè, di riconoscere che le tesi filosofiche caratteristiche di Nietzsche, anche quelle su cui si appunta di più l'attenzione heideggeriana, acquistano il loro senso, sia nella sua biografia intellettuale sia nell'immagine di lui che ci possiamo fare noi lettori, solo in relazione al lavoro di «critica della cultura» che si svolge nelle opere di quello che si usa considerare il periodo «medio» della sua produzione2. Gli inizi «filologici» della carriera di Nietzsche non agirebbero perciò in lui soltanto, o anzitutto, a livello del «metodo» (anche quello che il tardo Nietzsche chiama «filosofare col martello» è un'eco di questa educazione filologica; non si tratta infatti di rompere, ma di saggiare e auscultare, toccando gli idoli con il martello, come un diapason (CI pref., 53-4), ma soprattutto al livello di una stretta connessione tra elaborazione di tesi filosofiche e critica della cultura. Di questa connessione - che probabilmente può essere assunta come tratto caratteristico di molta filosofia contemporanea, e specialmente della linea ermeneutica del pensiero del nostro secolo - è espressione emblematica l'idea di nichilismo, che è una delle tesi «metafisiche» del tardo Nietzsche e che però, inscindibilmente, è anche un certo schema interpretativo della storia del pensiero europeo.

L'interesse peculiare delle opere di Nietzsche degli ultimi anni di Basilea e poi dei suoi primi anni di vagabondaggio di «pensionato» - dal primo volume di Umano, troppo umano fino agli inizi dello Zarathustra - consiste nel maturare di tesi ontologiche in relazione alla critica della cultura, in una connessione caratteristica e densa di significato filosofico. Per questo, si può anche ritenere con buone ragioni che la prevalente attenzione filosofica per gli scritti del Nietzsche ultimo sia eccessiva, e comporti il rischio di lasciarsi sfuggire il significato più proprio della filosofia nietzscheana: che vive tutta nel nesso, sempre di nuovo da esplorare, tra riflessione sul corso della civiltà europea e meditazione sull'essere. Il nesso tra filosofia e critica della civiltà era già chiaramente presente nelle opere giovanili, come mostra il significato che assume nella Nascita della tragedia il dualismo di dionisiaco e apollineo. Ma nelle opere del secondo periodo, la filosofia di Nietzsche assume una consistenza originale che manca, o almeno è ancora poco visibile, negli scritti giovanili, in cui sembra ancora prevalere un'adesione totale alla metafisica di Schopenhauer, e anche una certa eterogeneità non risolta di posizioni-^. Umano, troppo umano è lo scritto che marca chiaramente il passaggio alla nuova fase e, sintomaticamente, è quello che sancisce la rottura di Nietzsche con Wagner. Ciò che colpì subito Wagner, in quell'opera, e che anche per il lettore di oggi risulta l'elemento immediatamente nuovo rispetto agli scritti precedenti, è la nuova posizione di Nietzsche nei confronti dell'arte. Di essa ci sono già delle anticipazioni negli scritti dei primi anni basileesi, come si è visto: ma si tratta di elementi marginali, e ancora la terza Inattuale pensa la scienza come uno dei grandi nemici della vera cultura. In Umano, troppo umano, invece, il quadro sembra rovesciarsi: non più «metafisica d'artista», non più la speranza che l'arte sia la forza che può farci uscire dalla decadenza; la nozione stessa di decadenza si fa problematica, come problematico diventa il giudizio di condanna globale della civiltà moderna. In Umano, troppo umano, che nella sua prima edizione porta una dedica a Voltaire, Nietzsche ha un atteggiamento generalmente «illuminista», anche se proprio nell'analizzarlo meglio si scoprono ragioni di una differenza sostanziale dall'Illuminismo, in particolare per quanto riguarda la fede nel progresso.

Nel determinare queste nuove posizioni hanno un peso decisivo le nuove conoscenze e letture del periodo basileese, e l'esperienza «wagneriana»; che aveva trovato la sua più alta sistemazione, non scevra di impliciti spunti critici, nella quarta Inattuale, Richard Wagner a Bayreuth (uscita nel 1876). Nei suoi rapporti con Wagner e il wagnerismo, Nietzsche viene scoprendo sul piano pratico l'irrealizzabilità di un progetto di rinascita della cultura tragica che dovrebbe fondarsi sul dispiego della portata più vasta dell'opera wagneriana: l'esperienza del Festspielhaus di Bayreuth, che Wagner progetta e realizza (nel 1876) come luogo di irradiazione della sua opera, mette Nietzsche di fronte a tutti i limiti di una tale impresa di «rivoluzione estetica»4. Ma l'esperienza del «wagnerismo reale», come potremmo chiamarla (con tutte le componenti, personali e personalissime, che giocano su Nietzsche), è solo uno degli aspetti del processo di maturazione di Nietzsche negli anni di Basilea; accanto ad essa, assai più importanti, sono le sue nuove amicizie e le sue nuove frequentazioni culturali: da un lato, anzitutto, lo stretto sodalizio con lo storico e teologo Franz Overbeck, l'amico più costante e fedele di Nietzsche fino ai giorni della follia torinese (è Overbeck che viene a prendere Nietzsche a Torino nel gennaio del 1889, quando la pazzia è già in atto, e lo riconduce in Svizzera); e la conoscenza personale di Jakob Burckhardt, che certamente influisce in modo decisivo sia sulle tesi della seconda Inattuale, sia sul ridimensionamento delle speranze di Nietzsche in una rinascita della cultura tragica. Basilea rappresenta anche un'occasione di contatti più intensi, sul piano delle letture, con le scienze della natura: i biografi di Nietzsche hanno documentato il vivo interesse che egli manifesta in questo periodo per la lettura di opere scientifiche: tra il 1873 e il 1874 prende ripetutamente a prestito alla biblioteca la Filosofia naturale di Boscovich; poi storie della chimica, trattati di fisica; inoltre, Die Natur der Kometen di F. Zoellner (uscito nel 1871; Nietzsche lo legge nel 1872), e gli scritti di L. Rütimeyer, un paleontologo neo-lamarckiano suo collega all'università5. Rilevanti, per l'orientamento che prende il pensiero nietzscheano a partire da Umano, troppo umano, sono anche le letture che configurano un interesse per l'analisi «positiva» dell'uomo e della cultura: dalla Primitive Culture di Tylor (una delle opere che inaugurano l'antropologia culturale alla fine dell'Ottocento; uscita nel 1871, Nietzsche la legge nel 1875) ai grandi moralisti francesi: Montaigne, La Rochefoucauld, Chamfort, Fontenelle e Pascal6. Quel che risulta da tutti questi nuovi stimoli a cui Nietzsche si espone è leggibile nelle opere degli anni successivi, da Umano, troppo umano, ad Aurora, alla Gaia scienza; ma si può riassumerlo schematicamente come fine della «metafisica d'artista», problematizzazione del concetto di decadenza, nuova configurazione dei rapporti tra arte, scienza, civiltà, e rinuncia all'ideale di una rinascita della cultura tragica. L'arte ha, agli occhi del Nietzsche di Umano, troppo umano, il difetto di rappresentare una fase «superata» dell'educazione dell'umanità, pensata come un processo di illuminazione in cui il ruolo dominante, oggi, appartiene alla scienza:

L'arte come evocatrice di morti. L'arte esplica in linea secondaria il compito di conservare e benanche di ricolorire un po' concezioni spente, sbiadite; essa allaccia, quando assolve questo compito, un legame intorno a epoche diverse e ne fa ritornare gli spiriti. Per la verità è solo una vita di larva come sopra delle tombe, quella che in tal modo sorge, oppure come il ritorno in sogno di cari morti; ma almeno per alcuni istanti l'antico sentimento si ridesta e il cuore pulsa con un ritmo ormai dimenticato. Ora, per questa generale utilità del-l'arte, si deve perdonare all'artista che egli non figuri nei primi ranghi del rischiaramento e della progressiva, virile educazione dell'umanità: egli è rimasto per tutta la vita un fanciullo o un giovinetto e si è fermato nel punto nel quale è stato colto dal suo impulso artistico; i sentimenti dei primi gradi della vita sono però, come si ammette, più vicini a quelli delle epoche passate che a quelli del secolo presente. Involontariamente il suo compito diventa quello di far ridiventare bambina l'umanità; questa è la sua gloria e il suo limite (UTU 1,147,122).

A una prospettiva simile si riporta anche l'aforisma precedente, il 146, nel quale all'artista si imputa la «moralità più debole» di quella del pensatore nei riguardi della conoscenza della verità: l'artista, per conservare le condizioni che rendano efficace la sua arte, ha bisogno di mantenere in vita un'interpretazione sostanzialmente mitica dell'esistenza, con tutti i suoi corollari: emotività, senso del simbolico, apertura al fantastico; e per lui il perdurare di una tale visione della vita è «più importante della dedizione scientifica al vero in ogni forma, per spoglia che possa apparire». Questo atteggiamento regressivo dell'artista non è neanche tanto, o esclusivamente, legato al fatto che l'arte debba necessariamente coprire con «simboli» la verità delle cose; quanto piuttosto al fatto che, per dispiegare la propria azione, l'arte ha bisogno di un certo mondo, di una certa cultura: i tempi e i mondi in cui l'arte fioriva nel modo più rigoglioso sono quelli delle emozioni violente, della credenza in dèi e dèmoni, in cui la scienza non aveva parte (cfr. UTUI, 159, 127). Ciò che rende inattuale l'arte (e certo Nietzsche pensa anche all'arte wagneriana) non è tanto il confronto astratto con la scienza, come forma di sapere più vera e completa; bensì il mutamento delle condizioni generali della società, mutamento certo anche legato all'affermarsi della scienza, per cui si crea una situazione in cui l'arte appare un fatto del passato. Di questo mutamento della società fa parte anche ciò di cui parla una pagina del secondo volume di Umano, troppo umano, l'aforisma 170 de // viandante e la sua ombra, su L'arte nell'epoca del lavoro. Qui, «il fatto più generale, per il quale la posizione dell'arte rispetto alla vita è mutata» è individuato nell'imporsi di una organizzazione sociale fondata sul lavoro, nella quale all'arte è riservato solo il «tempo libero», che poi è anche il tempo della stanchezza e dello svago: di qui, la necessità per l'arte di involgarirsi; anche la grande arte, per tener desta l'attenzione del pubblico che le dedica solo le ore serali, deve ricorrere a eccitamenti, «stordimenti, ebbrezze, sconvolgimenti, convulsioni lacrimose» (WS 170, 202-3). Molti di questi tratti sono anche quelli che Nietzsche rimprovererà all'opera wagneriana, nei suoi scritti più tardi. Sebbene non faccia una grande differenza quanto agli esiti, è notevole il fatto che Nietzsche non si schiera con la scienza contro l'arte per pure e generali ragioni gnoseologiche (la scienza conosce, l'arte simboleggia e fantastica); ma per ragioni di «critica della cultura», potremmo dire: l'arte per agire sugli animi ha bisogno di un mondo che non è più il nostro; se vuole mantenersi nel nostro mondo, deve richiamarsi al passato, ricreare artificialmente oggi le condizioni che la rendevano attuale in altre epoche; e queste condizioni non sono tanto caratterizzate in termini di maggiore o minore obiettività della conoscenza, ma in termini di violenza delle emozioni, mutevolezza degli stati d'animo, irruenza e irragionevolezza infantile (cfr. Taf. 159 di UTU l, cit.).

Coerentemente con tutto ciò, anche la scienza non è apprezzata da Nietzsche, in Umano, troppo umano, in quanto conoscenza obiettiva del reale, ma in quanto, per gli atteggiamenti spirituali che comporta, è la base di una civiltà più matura, in definitiva meno violenta e passionale. In nessuna pagina di Umano, troppo umano Nietzsche attribuisce alla scienza la capacità di fornire una conoscenza oggettiva delle cose. Così, l'aforisma 19 mostra gli errori e le assunzioni arbitrarie su cui si fonda la possibilità di numerare e calcolare (e dunque, la struttura matematica delle scienze della natura). La validità delle proposizioni scientifiche non è con questo messa in dubbio, in quanto gli errori su cui si fondano i nostri calcoli sono più o meno costanti; Nietzsche si richiama qui a Kant, che egli interpreta in senso radicalmente fenomenistico, riducendo drasticamente le strutture trascendentali al «compendio di una moltitudine di errori dell'intelletto». Su questi errori si fonda la rappresentazione del mondo che noi abbiamo, e su cui anche la scienza lavora: «ciò che noi ora chiamiamo il mondo, è il risultato di una quantità di errori e di fantasie che sono sorti a poco a poco nell'evoluzione complessiva degli esseri organici [...]. Da questo mondo della rappresentazione la severa scienza può in realtà liberarci solo in piccola misura - e del resto non è affatto una cosa da augurarsi - in quanto essa non può essenzialmente infrangere il potere di antichissime abitudini della sensazione»; non può dunque condurci, oltre l'apparenza, alla cosa in sé, che anzi, pensa Nietzsche contro Schopenhauer e contro Kant, «è degna di un'omerica risata». La scienza può solo «gradatamente e progressivamente rischiarare la storia della nascita di quel mondo come rappresentazione: e sollevarci, almeno per qualche momento, al di sopra dell'intero processo» (UTU I, 16, 27). Se dunque anche la scienza si muove nell'ambito della rappresentazione, degli errori consolidati nella storia degli esseri viventi e dell'uomo, la sua differenza dall'arte 'non sarà da cercare nella sua maggiore obiettività e verità. Già in Umano, troppo umano, e poi sempre più nettamente in Aurora e nella Gaia scienza, essa funziona piuttosto come un modello e un ideale metodico; come attività capace di indurre un determinato atteggiamento psicologico, che viene apprezzato indipendentemente dai risultati strettamente conoscitivi. È verosimilmente all'uomo di scienza che si deve applicare ciò che Nietzsche scrive negli aforismi 501 e 547 di Aurora: che la conoscenza, per noi e per le generazioni future, non è più da pensare come qualcosa da cui dipende il destino dell'anima di chi vi si impegna; così è aperta la via a quel gran lavoro di collaborazione, e di attenzione ai fatti minimi, alle sfumature, - cioè a tutti quei fenomeni, diremmo noi, da cui dipende lo sviluppo delle scienze positive e specialistiche. «'Che importa di me!', sta scritto sulla porta del pensatore futuro» (AUR 547, 258). La credenza nell'immortalità dell'anima, propria di epoche passate, faceva dipendere dalla conoscenza della verità delle cose la salvezza eterna; ma oggi che tale credenza è tramontata, l'enigma della realtà non deve esser risolto frettolosamente da ciascuno: l'umanità «può appuntare lo sguardo su compiti talmente grandiosi, che alle epoche trascorse sarebbero sembrati vaneggiamento e giuoco con il cielo e coll'inferno» (AUR 501,239).

Allo stesso orizzonte di pensieri e aspettative si collega l'ultima sezione di Umano, troppo umano (pensiamo specialmente all'aforisma 635): qui è chiaro che Nietzsche non si aspetta dalla scienza una immagine del mondo più vera, ma piuttosto un modello di pensiero non fanatico, attento alle procedure, sobrio, «obiettivo» solo nel senso che è capace di giudicare fuori dal più immediato premere degli interessi e delle passioni: il modello di ciò che egli chiamerà anche lo «spirito libero».

Proprio tutto questo, però, rende alquanto ambiguo anche il discorso sull'arte come fenomeno del passato, e movimenta il quadro «illuministico» della gnoseologia di Nietzsche in queste opere. Tale ambiguità si può rintracciare in una serie di temi che compaiono in Umano, troppo umano, e si rafforzano negli scritti successivi. Si è visto infatti che arte e scienza non si distinguono perché l'una sia puro gioco della fantasia e l'altra fredda conoscenza delle cose come sono; bensì perché nella scienza si attua un atteggiamento di maggior libertà, equilibrio, sobrietà dell'uomo nei confronti del mondo. Tutti questi aspetti, però, sono anche aspetti essenziali dell'atteggiamento estetico. Ad esempio: la conclusione dell'aforisma 16 di Umano, troppo umano dice che la scienza non può liberarci dal mondo della rappresentazione, risultato di una lunga storia di errori divenuti connaturali all'uomo ma può solo «sollevarci, almeno per qualche momento al di sopra dell'intero processo», facendoci scoprire che la «cosa in sé», di cui sognavano Kant e Schopenhauer è forse «degna di un'omerica risata» (UTU I, 16, 27) Questa risata di chi si solleva per un momento al di sopra del processo di errori da cui nasce il mondo della rappresentazione è la stessa di cui parla il successivo aforisma 213: qui il riso è provocato dal momentaneo piacere dell'assurdo che dà l'arte, sospendendo per un momento le leggi ferree della rappresentazione consueta del mondo. Su questa base si può capire l'affermazione di Nietzsche secondo cui «l'uomo scientifico è l'ulteriore sviluppo dell'uomo artistico» (UTUI, 222, 157), sebbene nel con testo di questo aforisma la giustificazione esplicita della tesi sia più limitata: l'arte ci ha abituati fra l'altro «a prender piacere dell'esistenza, a considerare la vita umana come un pezzo di natura, senza lasciarsi troppo trasportare, e come oggetto di uno sviluppo necessario» (ibid.). Proprio questi atteggiamenti ritornano nel bisogno di conoscenza dell'uomo scientifico; in lui rivive, in forma più sviluppata, l'interesse e il piacere con cui l'arte per secoli ci ha insegnato a guardare alla vita in tutte le sue manifestazioni. È l'interesse e il piacere che portiamo al processo di errori da cui nasce il mondo della rappresentazione, sollevandoci per un momento al di sopra di esso. Questa lunga educazione attraverso l'arte ha preparato la scienza e lo spirito libero; e perciò all'arte si deve essere grati.

La nostra ultima gratitudine verso l'arte. Se non avessimo consentito alle arti ed escogitato questa specie di culto del non vero, la cognizione dell'universale non verità e menzogna che ci è oggi fornita dalla scienza, - il riconoscimento dell'illusione e dell'errore come condizioni dell'esistenza conoscitiva e sensibile, - non sarebbe affatto sopportabile. Le conseguenze dell’ onestà sarebbero la nausea e il suicidio. Ora però a nostra onestà ha una controforza che ci aiuta ad eludere tali conseguenze: l'arte intesa come la buona volontà dell'apparenza. Non sempre impediamo al nostro occhio di arrotondare compiutamente, di creare forme poetiche definite: e allora non è più l'eterna incompiutezza quella che trasportiamo sul flusso del divenire; perché pensiamo di trasportare una dea, e siamo superbi e come fanciulli in questo nostro servigio. In quanto fenomeno estetico, ci è ancora sopportabile l'esistenza, e mediante l'arte ci è concesso l'occhio e la mano e soprattutto la buona coscienza del poter fare di noi stessi un siffatto fenomeno. Dobbiamo, di tanto in tanto, riposarci dal peso di noi stessi, volgendo lo sguardo là in basso su di noi, ridendo e piangendo su noi stessi da una distanza di artisti: dobbiamo scoprire Yeroe e anche il giullare che si cela nella nostra passione della conoscenza, dobbiamo, qualche volta, rallegrarci della nostra follia per poter stare contenti della nostra saggezza! E, proprio perché in ultima istanza siamo gravi e seri e piuttosto dei pesi che degli uomini, non c'è nulla che ci faccia tanto bene quanto il berretto del monello: ne abbiamo bisogno di fronte a noi stessi - ogni arte tracotante, ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi. Sarebbe per noi una ricaduta, incappare proprio con la nostra suscettibile onestà nel pieno della morale e per amore di esigenze più che severe, poste a questo punto in noi stessi, diventare anche noi dei mostri e spauracchi di virtù. Dobbiamo poter sovrastare anche la morale: e non soltanto starcene impalati lassù con l'angosciosa rigidità di chi teme ad ogni istante di scivolare e di cadere; ma, inoltre, ondeggiare e giocare su di essa! Come potremmo perciò fare a meno dell'arte, e anche del giullare? Finché continuerete a provare in qualche modo vergogna di voi stessi, non entrerete in mezzo a noi ! (GS 107, 115-16).

Ritorna qui, tra l'altro, un tema caro alla Nascita della tragedia: l'arte come sola forza capace di render sopportabile l'esistenza. Ma il significato, qui, è profondamente diverso: non si tratta più, schopenhaue-rianamente, di sfuggire al caos della volontà in un mondo di forme definite e tuttavia sottratto alla lotta per la vita che domina il mondo della rappresentazione. Si tratta, invece, di rendersi tollerabile la consapevolezza della ineluttabilità dell'errore su cui vita e conoscenza si fondano, riconoscendo che esso è l'unica fonte della bellezza e ricchezza dell'esistenza. Tutto il mondo della rappresentazione, e non soltanto il mondo dell'arte, ha ora la «positività» delle rappresentazioni artistiche di cui parlava la Nascita della tragedia. Paradossalmente, questa generalizzazione dell'apparenza («la cosa in sé è degna di una omerica risata») produce anche un'alleanza tra scienza e arte: alla scienza tocca sia la conoscenza metodica del mondo della rappresentazione, sia la conoscenza del processo attraverso cui questo mondo si costituisce (e dunque la consapevolezza dell'errore); all'arte tocca il compito di mantenere in vita l'eroe e il giullare che sono in noi, aiutando la scienza a sopportare la consapevolezza dell'errore necessario. Questa consapevolezza dell'errore necessario distingue la concezione nietzscheana della scienza da quella positivistica; e rappresenta, più ancora dei singoli risultati conoscitivi, il significato della scienza per il progresso umano: la scienza è qualcosa di più maturo dell'arte proprio perché raccoglie e sviluppa l'eredità dell'arte stessa. Il rapporto di scienza e arte, come Nietzsche lo pensa in Umano, troppo umano e nelle opere successive del periodo, è ben riassunto dall'immagine del «doppio cervello»:

Una cultura superiore deve dare all'uomo un doppio cervello, qualcosa come due camere cerebrali, una per sentirci la scienza, un'altra per sentirci la non scienza; che stiano l'una accanto all'altra, senza confusione, separabili, isolabili: è questa un'esigenza di salute. Nell'un campo si trova la fonte di forza, nell'altro il regolatore: con illusioni, unilateralità e passioni bisogna riscaldare; con l'aiuto della scienza conoscitiva bisogna prevenire le cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento (UTUI, 251, 179).

Non si tratta mai, qui come nei testi citati più sopra, di una divisione di ambiti né di diversi «modi» di accostarsi al reale; scienza e arte sono complementari nel definire un atteggiamento maturo dell'uomo nei confronti del mondo; e se, guardate sul piano della sincronia e della attualità, sembrano caratterizzarsi soprattutto l'una come fonte di forza, l'altra come regolatore, il loro nesso più profondo è dato dalla loro comune origine, quella che fa sì che la scienza sia solo uno sviluppo ulteriore, più maturo, dell'impulso da cui si origina anche l'arte. E, come si vedrà fra breve, il punto di vista strutturale ha per Nietzsche una rilevanza incomparabilmente minore di quello genealogico o genetico.

2. L'autosoppressione della morale.

Sebbene, come si è visto, la contrapposizione tra scienza e arte non sia nemmeno in Umano, troppo umano così totale e radicale come potrebbe a prima vista apparire, è vero che quello che Nietzsche considera ora il proprio compito non è più la rinascita di una cultura tragica, fondata sull'arte e la ripresa, in qualche senso, del mito. Delle figure che Schopenhauer come educatore indicava come possibili «redentori» della cultura, il santo e l'artista passano decisamente in secondo piano, e rimane centrali la figura del filosofo, che lavora con un metodo e uno spirito affine a quello dello scienziato. Ciò che Nietzsche intende fare con Umano, troppo umano, ritornando, in un determinato senso, all'epoca tragica dei Greci, è costruire una «chimica delle idee e dei sentimenti» (come suona il titolo del primo aforisma dell'opera), riportando i problemi filosofici alla «stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto per esempio il razionale dall'irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall'illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall'egoismo, la verità dagli errori?» (UTUI, 1, 15). È per l'appunto quello che avevano cercato di fare i filosofi più antichi, prima della nascita della metafisica, quando cercavano gli elementi semplici delle cose, capaci di spiegare la loro varietà e molteplicità mediante la diversa composizione. La metafisica che poi si è affermata nella cultura europea ha negato che le cose potessero derivare dal loro opposto; ha dunque ipotizzato, per esempio, che i valori stimati «superiori» non potessero che venire dall'alto, da una misteriosa «cosa in sé».

Invece la filosofia storica, che non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali, ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha accertato in singoli casi (e questo sarà presumibilmente il suo risultato in tutti i casi), che quelle cose non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o metafisica [...]: secondo la sua spiegazione, non esiste, a rigor di termini, né un agire altruistico né un contemplare pienamente disinteressato, entrambe le cose sono soltanto sublimazioni, in cui l'elemento base appare quasi volatilizzato e solo alla più sottile osservazione si rivela ancora esistente (UTU I, 1, 15).

La filosofia «storica» che lavora con il metodo della «chimica» è quel sapere che, come dice l'aforisma 16 di Umano, troppo umano, «rischiara gradatamente e progressivamente» la storia del mondo come rappresentazione e ci solleva, «per qualche momento, al di sopra dell'intero processo». Sebbene solo Aurora porti nel sottotitolo una esplicita allusione ai «pregiudizi morali», tutta la «decostruzione»7 chimica di Nietzsche in queste opere riguarda la morale, intesa in un senso globale come l'assoggettamento della vita a valori pretesi trascendenti, che hanno invece la loro radice nella vita stessa. Entro la morale intesa in questo senso vasto rientrano anche gli errori della metafisica e della religione, e la stessa arte - come si è già visto - appare in Umano, troppo umano profondamente legata a questo mondo della morale da decostruire.

L'uso della categoria di morale per indicare tutte le forme spirituali «superiori» non è tuttavia solo conseguenza di una assunzione generica e ampia del termine; alla radice di tutti i pregiudizi, anche religiosi e metafisici, sta per Nietzsche il problema del rapporto «pratico» dell'uomo con il mondo, e in questo senso tutto l'ambito dello spirituale ha da fare con la morale in quanto pratica. Questa riduzione e unificazione, del resto, è insieme un presupposto e un risultato dell'analisi chimica di Umano, troppo umano e delle opere dello stesso periodo: le analisi che Nietzsche conduce, utilizzando molto spesso materiale disparato, dimostrano, secondo lui, che la verità stessa non è altro che funzione di sostegno e promozione di una determinata forma di vita. L'aforisma iniziale di Umano, troppo umano indica il primo passo e il senso generale del discorso di Nietzsche critico della morale: tutto ciò che si spaccia per alto e trascendente, insomma quello che chiamiamo valore, non è altro che il prodotto, per sublimazione, di fattori «umani troppo umani». Questo non nel senso che i valori morali e le azioni che vi si ispirano siano menzogne consapevoli degli uomini che agiscono e che predicano quei valori; si tratta invece di errori che possono anche essere professati in buona fede (cfr. AUR 103, 71-72). Il mondo della morale, sia come sistema di prescrizioni sia come complesso di azioni e comportamenti ispirati a valori, sia come visione generale del mondo, è costruito su «errori». Questi - non dimentichiamolo, per capire gli esiti dell'analisi; «chimica» nietzscheana - sono proprio quegli errori che hanno dato ricchezza e profondità al mondo e all'esistenza dell'uomo.

Il primo e più fondamentale errore della morale è credere che ci possano essere azioni morali: ciò presuppone anzitutto che il soggetto possa avere una conoscenza esauriente di che cosa è una sua azione. Persino Schopenhauer, che pure ha insegnato a vedere il mondo delle rappresentazioni come «velo di Maja», insieme di apparenze che nascondono una irrappresentabile cosa in sé, ha creduto che le azioni potessero essere adeguatamente conosciute e giudicate. Ma ciò che vale per il mondo fenomenico, per le cose esterne, vale anche per il mondo intimo del soggetto. Il fatto è che la conoscenza intellettuale di un'azione, e anche del suo valore per noi, non basta mai a compierla, come ci mostra senza equivoci la nostra esperienza. Entrano dunque in gioco, nell'azione altri fattori, che non sono possibili oggetti di conoscenza.

«Ci siamo dati così tanta pena per imparare che le cose esteriori non sono quel che esse ci appaiono - ebbene, dunque, lo stesso avviene per il mondo interiore! Le azioni morali sono in realtà 'qualcosa d'altro'-di più non possiamo dire: e tutte le azioni ci sono essenzialmente ignote» (AUR 116,87-88). Se questo rilievo fenomenistico getta una luce dubbia su ogni possibile giudizio morale, esso potrebbe però non colpire in generale il dominio della morale nel suo insieme: anche l'etica religiosa cristiana accetta, in linea di principio, l'idea che le azioni non sono definitivamente valutabili se non da Dio. Gli altri aspetti della nietzscheana critica della morale, che non sempre si lasciano coordinare in un insieme sistematico, ma si accumulano piuttosto anche in maniera disordinata, toccano però altri punti chiave dell'errore morale. Non solo un'azione non si può mai valutare perché non si può conoscere; ma la stessa possibilità di valutarla moralmente suppone che essa sia scelta liberamente, il che per l'appunto non accade, o almeno non si può provare. La negazione della libertà del volere, che ricorre molto spesso negli scritti di questo periodo, consegue abbastanza logicamente dalla negazione della conoscibilità dell'azione; è l'altra faccia dello stesso fenomeno. Se neanche l'agente può avere una consapevolezza chiara di ciò che costituisce la sua azione, è ovvio che la sua scelta di essa non sarà mai completamente libera; e d'altra parte, che l'azione, nei suoi molteplici fattori, sfugga al dominio conoscitivo del soggetto, è solo una conseguenza del suo sfuggirgli effettivo: nelle azioni di un uomo giocano elementi che si sottraggono alla sua conoscenza perché sono al di fuori del suo controllo e viceversa (cfr., per tutto ciò, UTUI, 107,83-85).

Ciò che svela la morale come errore è la «filosofia storica», che ricostruisce la storia dei sentimenti morali (è il tema della seconda parte di Umano, troppo umano, che si conclude con il ricordato aforisma 107). Questa storia mostra, secondo Nietzsche, che l'uomo fa tutto ciò che fa spinto «dall'istinto di conservazione o, ancor più esattamente, dall'intenzione di procurarsi il piacere e di evitare il dolore» (UTU1,99, 76). Si può osservare, a ragione, che questa tesi sembra violare il principio dell'inconoscibilità delle azioni, giacché qui sembra si sostenga che c'è un movente, ben conoscibile, delle azioni, appunto l'istinto di conservazione o la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. Sarebbe però difficile far leva su questa «contraddizione» per confutare questo aspetto della filosofia di Nietzsche: sia l'istinto di conservazione, sia la ricerca del piacere e la fuga dal dolore risultano poi, nelle analisi di singoli fenomeni, così formali (quasi «trascendentali»), da potersi riempire di qualunque contenuto specifico; sicché conservano una loro inconoscibilità fondo mentale. Ma poi, soprattutto, si tratterebbe anche di stabilire fino a che punto l'inconoscibilità delle azioni per il soggetto che agisce - da cui consegue l'impossibilità di una scelta libera e dunque il determinismo morale - implichi anche una inconoscibilità di secondo grado, per così dire, quella che impedirebbe al filosofo di parlare di morale. Possiamo dunque riconoscere che qui c'è un problema, per la coerenza di Nietzsche; ma non si deve esagerarne la portata.

Del resto, il determinismo è lungi dall'essere il punto di arrivo di Nietzsche nella sua critica della morale. Come risulta sempre più chiaro proprio dagli sviluppi di questa critica, ciò che importa alla «scienza» come Nietzsche la pensa qui, non è liberarsi dalle catene dell'apparenza raggiungendo un principio ultimo (e dunque una possibile descrizione «vera» del meccanismo delle azioni); ma piuttosto collocarsi in un punto di vista capace di guai dare all'insieme del processo in cui le apparenze si costituiscono, si articolano e si sviluppano. Rispetto a questo programma, la posizione di Nietzsche, per quante contraddizioni possa implicare, ha una sua innegabile coerenza: individuare alla base della morale una pulsione come l'istinto di conservazione o la ricerca del piacere non come indicare la fonte del valore morale in strutture stabili, non divenute, proprie dell'essere stesso - quelle strutture che sono sempre servite alla morale tradizionale metafisica o religiosa, per giustificare i suoi sistemi di precetti. Istinto di conservazione e ricerca del piacere sono forze plastiche, che permettono proprio di vedere la morale come storia e come processo. Anzitutto, aprono la via a considerare gli stessi valori morali come «divenuti»: il che è proprio ciò a cui la «chimica», nutrita di «filosofia storica» (della consapevolezza della molteplicità delle culture umane), non può rinunciare. La «scienza» di Umano, troppo umano è per l'appunto lo sforzo di ricostruire il processo, i molteplici processi che hanno portato alla nascita e allo sviluppo del mondo morale, con tutte le sue sfumature, astuzie, articolazioni (quelle che Nietzsche trova magistralmente analizzate dai moralisti francesi), partendo dall'unico istinto di conservazione e dall'impulso a cercare il piacere e a fuggire il dolore. In questo senso, e solo in questo, la scienza ha bisogno anche per Nietzsche di un principio unitario: che non funziona come il fondamento nel quale ci si «fonda», cioè ci si quieta, perché autorevolmente rende ragione di come le cose sono; ma funziona come il punto di partenza del processo, che solo a chi muove da esso si svela nella sua multiformità e nella sua crescente ricchezza8.

Il divenire del mondo morale a partire dall'unico principio di piacere-conservazione si articola attraverso meccanismi molteplici, che la scrittura aforistica di Nietzsche caratterizza in sempre nuovi modi. La sublimazione, per la quale, dall'impulso a conservarsi e a cercare il piacere e fuggire il dolore, si può arrivare anche all'azione eroica, al sacrificio di sé, all'altruismo, cioè a quelli che a Schopenhauer appaiono come miracoli, «azioni impossibili eppure reali», è possibile anzitutto in base a una «auto scissione dell'uomo» che, per perseguire più fortemente i fini dell'autoconservazione e del piacere, li costituisce come oggetti autonomi di fronte a sé.

La morale come autoscissione dell'uomo. Un buon autore che ha veramente a cuore la sua causa, desidera che qualcuno venga e annulli lui stesso col sostenere la stessa causa in modo più chiaro e col rispondere esaurientemente alle questioni in essa contenute. La ragazza che ama desidera poter vagliare nell'infedeltà dell'amato la devota fedeltà del suo amore. Il soldato desidera cadere sul campo di battaglia per la sua patria vittoriosa: poiché nella vittoria della sua patria vincono insieme i suoi più alti desideri. La madre dà al figlio ciò che toglie a se stessa, il sonno, il miglior cibo, in certi casi la salute e gli averi. Ma sono, tutti questi, stati altruistici? Sono, queste azioni della morale, miracoli, in quanto sono, secondo l'espressione di Schopenhauer, «impossibili eppure reali»? Non è evidente che in tutti questi casi l'uomo ama qualcosa di sé, un pensiero, un'aspirazione, una creatura, più di qualche altra cosa di sé, che egli, cioè, scinde il suo essere e ne sacrifica una parte all'altra? Avviene forse qualcosa di essenzialmente diverso, quando un caparbio dice: «Preferisco farmi ammazzare che spostarmi d'un passo davanti a quest'uomo»? In tutti i casi detti esiste l’inclinazione verso qualche cosa (desiderio, istinto, aspirazione); assecondarla, con tutte le conseguenze, non è, in ogni caso, «altruistico». Nella morale l'uomo tratta se stesso non come ìndividuum, ma come dividuum (UTU1,57,60-61).

Ma questo sdoppiamento, che sta anche alla radice del sentimento religioso9 e al quale si possono far risalire anche tutte le ulteriori complicazioni, che noi chiameremmo sado-masochistiche, della morale, non è l'unico meccanismo che Nietzsche indica alla base del costituirsi dei valori. Altrettanto importante, per la costituzione dell'io come pluralità di individui che, nella morale, si rapportano fra loro come estranei, è lo stratificarsi di esperienze e abitudini che, una volta utili al singolo o alla specie nella lotta per l'esistenza, hanno poi perso la loro funzione e tuttavia sono rimaste. Il meccanismo di base è quello che Nietzsche descrive anche, nello scritto Su verità e menzogna, per l'origine del linguaggio dalle metafore; così, qui, l'individuo dimentica o che qualcosa è solo una parte di lui (nel caso categoricamente dello sdoppiamento), o che certe azioni raccomandate dalla morale sono solo richieste per qualche scopo (Kant parlerebbe qui di «imperativi ipotetici»).

L'importanza del dimenticare nel sentimento morale. Le stesse azioni che nella società originaria furono in un primo tempo ispirate dallo scopo dell'utilità comune, furono successivamente compiute da altre generazioni per altri motivi: per paura o per rispetto di coloro che le esigevano e raccomandavano, oppure per abitudine, in quanto sin dall'infanzia le si erano viste fare intorno a sé, oppure per benevolenza, in quanto il compierle creava dappertutto gioia e volti consenzienti, o per vanità, in quanto venivano elogiate. Tali azioni, in cui il motivo principale, quello dell'utilità, sia stato dimenticato, si chiamano poi morali: non forse perché esse siano compiute per quegli altri motivi, bensì perché non sono compiute per consapevole utilità. - Da che cosa deriva quest'odio per l'utilità, che diviene qui visibile, dove ogni agire lodevole si separa formalmente dall'agire per amore dell'utile? -Evidentemente la società, focolare di ogni morale e di tutte le lodi dell'agire morale, ha dovuto lottare troppo a lungo e troppo duramente con l'utile egoistico e l'ostinazione del singolo, per non giudicare da ultimo ogni altro motivo moralmente superiore all'utilità. Così nasce l'apparenza che la morale non si sia sviluppata dall'utilità; mentre essa è originariamente l'utile sociale, che ha avuto gran pena per affermarsi e per acquistare considerazione superiore contro tutte le utilità private (UTU 240, 160-61).

Ma, a conferma di quanto si diceva sul carattere niente affatto univoco e riduttivo del principio di conservazione e di ricerca del piacere, si dovrà ricordare che la policromia del mondo morale, comprendendovi anche religione e metafisica - che anch'esse costituiscono «mondi» di valori che si contrappongono a, e reagiscono su, il mondo dell'esperienza quotidiana ha anche altre fonti, diverse dall 'autoscissione dell'io e dalle stratificazioni di imperativi ipotetici dimentichi del loro originario significate puramente utilitario. Un importante aspetto del principio di conservazione e ricerca del piacere è il bisogno di rassicurazione, di certezza, che dà luogo al sorgere delle nozioni basilari della metafisica, dalle quali del resto, come è il caso del principio di causalità, nasce anche la scienza. Umano, troppo umano riconduce al sentimento del piacere e del dolore il sorgere di due nozioni fondamentali della metafisica, l'idea di sostanza e l'idea di libertà; queste sono le nozioni più elementari con cui l'organismo vivente dà una sistemazione ai propri rapporti con l'ambiente circostante10.

Allo stesso bisogno di rassicurazione risponde il pensiero astratto e generalizzante, e anche lo sforzo di guardare alle cose «obiettivamente». Come «gli animali imparano a dominarsi e a simulare» accordando per esempio il proprio colore a quello dell'ambiente, «così il singolo si nasconde sotto la generalità del concetto 'uomo', o nella società [...]. Anche quel senso della verità che in fondo è il senso della sicurezza, l'uomo lo ha in comune con l'animale: non ci si vuole far ingannare, non ci si vuole indurre da noi stessi in errore, si presta orecchio con diffidenza alle parole suadenti della passione. Similmente, l'animale osserva gli effetti che esercita sulla rappresentazione di altri animali, a partire di lì impara a riguardare indietro su se stesso, a cogliersi 'oggettivamente'...» (AUR 26, 25-26). All'idea di un sapere «obiettivo» corrisponde anche la pretesa di cogliere le essenze di cose e fatti: l'illusione di afferrare essenze e strutture eterne rassicura perché dà una sorta di punto fermo sul quale stare (cfr. WS 16, 143-44).

All'origine di quell'altra forma di errore morale che è la religione sta poi non solo il bisogno di arrivare ad un punto fermo, come le essenze separate dai fatti, ma a una stabilità che sia superiore all'uomo, e che dunque offra maggiori garanzie: «si rafforza dinnanzi a sé una opinione sentendola come rivelazione, se ne cancella il carattere ipotetico, la si sottrae alla critica, anzi al dubbio, la si consacra» (AUR 62,47). E ancora: per una mentalità primitiva che non sa vedere gli eventi naturali come effetto di cause precise, la prima forma di rassicurazione consiste nel vedere tutto ciò che accade come manifestazione di una volontà, quella divina, con cui ci si può mettere in qualche modo in rapporto (cfr. UTU1,111, 93-97).

Ma se tutti questi meccanismi possono essere largamente riportati all'istinto di conservazione, ce ne sono altri che sembrano più legati alla ricerca del piacere: il quale si può definire, secondo Nietzsche, come «il senso della propria potenza, del proprio forte eccitamento» (UTU1,104,81). Questo secondo movente dei processi di sublimazione articola tutta una nuova serie, ancora più varia e sfumata, di fenomeni morali, in cui morale, metafisica, religione, arte non fungono solo da strumenti di rassicurazione e di primo ordinamento del mondo, ma sono fonti di piacere, sotto il generale principio della spettacolarizzazione e drammatizzazione della vita interiore.

Il mezzo più comune che l'asceta e il santo impiegano, per rendersi comunque la vita ancora sopportabile e interessante, consiste nel trovarsi ogni tanto a far guerra e nell'alternarsi di vittoria e sconfitta. A tal fine essi hanno bisogno dì un avversario, e lo trovano nel cosiddetto «nemico interiore» [...]. Sfruttano la propria inclinazione alla vanità, la propria sete di onori e di dominio e infine i propri desideri sensuali, per poter considerare la propria vita come una continua battaglia, e se stessi come un campo di battaglia [..."] (UTUI, 142, 111; e cfr.GS 353, 218-19).

Mentre spettacolarizza la vita interiore, tutto ciò comporta anche gravi conseguenze negative, che sono però inscindibili dai meccanismi morali: «quanta superflua crudeltà e bestiale tormento sono scaturiti da quelle religioni che hanno inventato il peccato» (AUR 53, 43). Nel lavoro di decostruzione degli esiti della morale, della metafisica, della religione, anche quel luogo di possibile rassicurazione che è l'interiorità viene eroso: la coscienza è il campo dove si combattono diverse «parti» dell'io - senza che sia possibile dire mai quale di questi diversi io sìa quello autentico. Una volta scalzata la credenza nella immediatezza ultima e nell'unità dell'io, tutto ciò che l'uomo chiama con questo nome cade sotto una luce sospetta. L'io è solo il palcoscenico su cui si svolge il dramma della vita morale, in cui si combattono impulsi diversi e contrastanti: le lotte in cui crediamo che maturino le nostre decisioni morali si concludono quando «ci si decide da ultimo per il motivo più potente - come si dice (ma in verità, quando il motivo più potente decide di noi)» (UTU1,107,83). La presenza in noi di imperativi morali, che sdoppia la nostra personalità, è solo la traccia di strati diversi di cultura (cfr. il già citato WS 40). La stessa immagine di sé che ognuno ha davanti agli occhi come criterio e punto di riferimento è largamente dominata dagli altri: «La maggior parte degli uomini, qualunque cosa possano ognora pensare e dire del loro 'egoismo', ciononostante, in tutta la loro vita, non fanno nulla per il loro ego, bensì soltanto per il fantasma dell'ego che si è formato, su di essi, nella testa di chi sta intorno a loro e che si è loro trasmesso [...]» (AUR 105, 72-73). Così, la pretesa immediatezza e «ultimità» della coscienza, su cui si fonda in definitiva ogni morale, risulta insostenibile: anche la coscienza è «fatta», è prodotta, dunque non è un'istanza ultima (cfr. GS 335, 193-194; dove Nietzsche svolge un'argomentazione assai più complessa, che riassume molti dei suoi argomenti contro l'«ultimità» della coscienza in senso morale).

Da tutto ciò, però, risulta che il lavoro chimico di Nietzsche non raggiunge un esito conforme al metodo: esso non si conclude con l'individuazione di elementi ultimi, di componenti semplici delle varie configurazioni della morale. Né la coscienza, né l'io, che dovrebbe essere il «soggetto» dell'impulso di conservazione e della ricerca di piacere, sono elementi ultimi, immediati, semplici. La chimica si rivela piuttosto un metodo che permette a Nietzsche di ricostruire «storicamente» il divenire della morale, della metafisica e della religione. Tale ricostruzione diventa, proprio in virtù dei risultati dell'analisi, l'unico senso dell'analisi stessa. E questo il senso del già citato (v. sopra, la nota 8) aforisma di Aurora su «Origine e significato»: la chimica non conduce a elementi primi; anzi, tali elementi si rivelano sempre di nuovo già «composti»; ma le procedure della composizione, le trasformazioni, la ricchezza di colori e sfumature che costituiscono la vita spirituale dell'umanità - gli errori della morale, della metafisica, della religione, fino alla spettacolarizzazione dell'ascesi religiosa - si comprendono (il che comporta ancora una peculiare sorta di spettacolarizzazione: il sollevarsi per un momento al di sopra del processo) solo se si applica il metodo dell'analisi chimica, risalendo alle loro, sia pur problematiche, radici. La dissoluzione dell'idea di fondamento, di principio primo, nello stesso processo che cerca di risalirvi è quello che Nietzsche chiama Vautosoppressione della morale. E questo il senso che egli attribuisce ad Aurora nella prefazione dell'edizione del 1886: ma è un senso che non si aggiunge all'opera dall'esterno, in relazione alle nuove posizioni del Nietzsche degli ultimi anni; ìndica invece nella maniera più fedele i risultati del lavoro cominciato con l'analisi chimica di Umano, troppo umano.

Autosoppressione della morale significa il processo nel quale si «dà la disdetta alla morale [...] per moralità» (AUR, pref. del 1886, 4, 7). È in base al dovere di verità sempre predicato dalla morale metafisica e poi cristiana che alla fine le «realtà» in cui questa morale credeva - Dio, virtù, verità, giustizia, amore del prossimo - vengono riconosciute come errori insostenibili. Proprio perché «siamo ancora devoti», come dice il lungo aforisma 344 della Gaia scienza, e precisamente perché crediamo ancora nel «valore della verità», «anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina [...]. Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?» (GS 344, 207-8). Con ciò, però, si raggiunge proprio il punto dell'autosoppressione della morale, che è poi lo stesso processo della «morte di Dio», annunciata per la prima volta nella Gaia scienza (GS 108,117; 125,129-30), il quale è stato ucciso dagli uomini religiosi, per devozione11 . Autosoppressione della morale e morte di Dio hanno già tutti i tratti di quel processo che più tardi, in una pagina del Crepuscolo degli idoli, Nietzsche riassumerà mostrando «Come il 'mondo vero' finì per diventare favola» (è questo il titolo di uno dei capitoli di CI, che riportiamo per intero più avanti, pp. 81-2). È un processo che Nietzsche considera legato a una sorta di logica interna del discorso morale-metafisico; ma che ha anche una base «esterna», cioè la trasformazione delle condizioni di esistenza che, proprio in virtù della disciplina instaurata dalla morale, si modificano in modo da rendere alla fine inutile la morale e da far venire in luce questa superfluità. Ecco perché, tra l'altro, l'annuncio della «morte di Dio» non equivale puramente e semplicemente, in Nietzsche, alla negazione metafisica della sua esistenza. Non c'è una «struttura vera» del reale in cui Dio non esiste mentre si credeva che esistesse. Ci sono mutate condizioni di vita che rendono superflua una favola che è stata utile e decisiva in altre epoche; queste condizioni rendono possibili «favole» diverse, e anzi, un favoleggiare più esplicito e consapevole di esser tale (cfr. GS 54, 75-76, sul «continuare a sognare» pur avendo raggiunto la «coscienza dell'apparenza»). La condizione «esterna» dell'autosop-pressione della morale è la fine, o comunque la riduzione, dell'insicurezza dell'esistenza nello stato sociale, nell'ambiente creato dalla divisione del lavoro e dallo sviluppo della tecnica. «Dove la vita sociale ha un carattere meno violento, le decisioni ultime (sulle cosiddette questioni eterne) perdono di importanza. Si rifletta come raramente, già oggi, un uomo ha da fare con esse» (IV, 3, 350). Ora, «la metafisica e la filosofia sono tentativi di impadronirsi con la forza delle contrade più fertili» (ivi, 352); e in generale è legato alla violenza e all'insicurezza, come si è visto, il sorgere della credenza in Dio, nella sostanza e nella libertà del volere, e lo stesso imperativo della verità (che si radica nel bisogno di difendersi dall'inganno, e dall'autoingan-no prodotto dalle passioni, nella lotta per la vita). In un più tardo frammento, Nietzsche scriverà:

la nostra posizione nei riguardi della 'certezza' è diversa. Poiché nell'uomo è stata inculcata per lunghissimo tempo la paura, e ogni esistenza tollerabile ebbe inizio con il «sentimento di sicurezza», ciò continua ad agire anche oggi nei pensatori. Ma, non appena regredisce la «pericolosità» esterna dell'esistenza, nasce un piacere dell'insicurezza, dell'illimitatezza delle linee dell'orizzonte. La felicità dei grandi scopritori, dell'aspirazione alla certezza, potrebbe trasformarsi in felicità di constatare ovunque incertezza e temerarietà. Parimenti, l'angosciosità della passata esistenza è la ragione per la quale i filosofi sottolineano tanto la conservazione (dell'ego o della specie) e la concepiscono come principio: mentre, in realtà, noi giochiamo continuamente alla lotteria contro questo principio [...] (frammento del 1884: 26 [280]; VII, 2, p. 204).

Sebbene la libertà di giocare con le apparenze si eserciti nell'arte ancora solo come un momento di festa (i «saturnali» di cui parla UTU1,213, cit.), e il «giullare» e «l'eroe» siano fatti vivere in noi dall'artista solo «accanto» alla saggezza che invece si dispiega nella scienza (cfr. GS 107, cit.), nei confronti della serietà dell'esistenza noi siamo oggi in una posizione diversa dalle generazioni precedenti proprio grazie alla maggior sicurezza che l'organizzazione sociale ha cominciato a garantirci, e ciò in virtù della «scienza» fondata su basi metafisico-morali; sebbene la fede in un progresso necessario dell'umanità sia un dogma metafisico inaccettabile, la possibilità del progresso è attestata dalla nostra esperienza, e proprio in termini di miglioramento delle condizioni esteriori della vita (cfr. UTUI, 24, 33-34). E in queste nuove condizioni di - almeno relativa - sicurezza che matura la possibilità di un nuovo modo di esistere dell'uomo, che Nietzsche chiama con i nomi di autosoppressione della morale, morte di Dio o anche, come nelle ultime righe di Umano, troppo umano, la «filosofia del mattino» (UTUI, 638, 305).

3. Filosofia del mattino.

In questa espressione, che chiude il bellissimo aforisma conclusivo di Umano, troppo umano, sembra risuonare un puro richiamo «climatico», al massimo una metafora, un'immagine esornativa che sembra di dover «tradurre» in qualcosa di più sostanzialmente concettuale. Si può certo sottolineare, come è anche legittimo, che questa immagine è l'opposto simmetrico di quella hegeliana della filosofia come «civetta di Minerva», ed è verosimile che Nietzsche intendesse marcare anche questa differenza. Ma la riduzione della metafora al senso proprio non riesce completamente. Anche perché, nelle opere nietzscheane di questo periodo, e sempre più ancora in quelle successive, le allusioni che si possono accostare a questo richiamo «climatico» sono così numerose da far pensare a qualcosa di più significativo che una ricerca di effetti letterari. Si parla per lo più di «buon temperamento», di salute, di convalescenza, in maniera così costante che il lettore riporta da questi testi la percezione di una «temperie spirituale» più che l'idea di un corpo di dottrine che si enuncerebbero in forma metaforica. Una tale impressione corrisponde in maniera assai precisa alla realtà dei fatti: la filosofia del Nietzsche critico e demistificatore della cultura, quella elaborata nelle opere del periodo medio della sua produzione, è una filosofia relativamente «vuota» di contenuti teorici positivi, e di veri e propri «risultati», che non siano l'instaurazione di un determinato «stato d'animo». Che cosa può risultare, infatti, da un'opera di smascheramento che, come accade con l'autosoppressione della morale e la morte di Dio, alla fine smaschera anche se stessa, l'impulso ancora dogmatico al vero che la muove? Soltanto - ma appunto: soltanto? - una umanità a venire, la cui caratteristica, virtù e malattia insieme, sarà il «senso storico» (GS 337, 196-97). Il contenuto della spiritualità dell'uomo nell'avvenire, che Nietzsche prepara con la propria filosofia, non è altro che tutta la storia passata dell'umanità, sentita «come la propria storia» (ibid.). Saper portare il peso di tutto questo passato, sentendosene l'erede, anche gravato di obblighi, «prendere tutto questo sulla propria anima, il più antico come il più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell'umanità, possedere infine tutto ciò in una sola anima e tutto insieme stringerlo a un unico sentimento - questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che finora l'uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e d'amore, di lacrime e di riso [...]» (ibid.). Quello che per la seconda Inattuale era soltanto malattia, peso insopportabile del passato che rendeva incapaci di creare nuova storia, diventa qui il tratto caratteristico dell'umanità futura. Si può pensare che non si tratti di un vero e proprio rovesciamento, giacché Nietzsche mantiene l'esigenza che tutta la storia dell'umanità sia presa su di sé e sentita come propria storia, il che è un modo di rapportarsi al passato diverso da quello caratteristico della malattia storica, che porta in sé il peso di un passato non digerito e assimilato.

Ma una tale appropriazione qui, a differenza della seconda Inattuale, non appare più impossibile; e anzi si realizza proprio attraverso il lavoro «scientifico» del ripercorrimento storico del cammino degli «errori» dell'umanità. Umano, troppo umano, del resto, che è la prima e più emblematica realizzazione del programma di una «filosofia storica», è tutto come scandito da aforismi che, in posizioni «strategiche» (accanto a quello conclusivo già citato, ricordiamo il 292, che conclude la parte quinta, e il 34, che chiude la parte prima; ma anche il 223, alla fine della parte quarta, e il 107, alla fine della parte seconda), richiamano il significato liberante di una tale appropriazione della storia dell'umanità passata, che è sempre storia di «errori». La liberazione non consiste però in una loro confutazione: la storia dell'origine e del valore dei sentimenti morali, dice un aforisma della Gaia scienza (GS 346, 210-11), non equivale certo a una loro giustificazione, ma nemmeno, all'opposto, a una confutazione. L'abbandono delle superstizioni, il riconoscimento degli errori come errori, è solo una prima tappa.

Alcuni gradini all'indietro. Un grado, certo molto elevato, di cultura è raggiunto quando l'uomo si libera dalle idee e dalle paure superstiziose e religiose e per esempio non crede più ai cari angioletti o al peccato originale, e ha anche disimparato a parlare della salvezza delle anime: se egli è a questo grado di liberazione, gli resta ancora da superare con la massima tensione della sua riflessione la metafisica. Poi, però, è necessario un movimento all'indietro: egli deve capire la giustificazione storica, come pure quella psicologica, di tali rappresentazioni, deve riconoscere come sia di là venuto il maggior progresso dell'umanità e come, senza un tale movimento all'indietro, ci si priverebbe dei migliori risultati finora ottenuti dall'umanità. Riguardo alla metafisica filosofica, sempre più numerosi sono quelli che vedo giungere alla meta negativa (che ogni metafisica positiva è un errore), ma ancora pochi che scendano alcuni scalini all'indietro; bisogna cioè sì guardare al di sopra dell'ultimo piuolo della scala, ma non voler stare su di esso. I più illuminati riescono solo a liberarsi della metafisica e a volgersi a guardarla con superiorità: mentre anche qui, come nell'ippodromo, al termine della dirittura è necessario girare (UTU1,20, 30-31).

Questo atteggiamento, che è oltre la confutazione e il rifiuto, è quello che Nietzsche chiama anche il «buon temperamento» di cui ha bisogno il nuovo pensiero: esso non ha in sé «nulla del tono ringhioso e dell'accanimento: le note fastidiose caratteristiche dei cani e degli uomini invecchiati che sono rimasti a lungo legati a una catena» (UTU1,34, 42)i2.

La «contemplazione» - perché forse così si deve chiamare - della storia degli errori che hanno costituito la cultura dell'umanità dando ricchezza e profondità al mondo, non è però necessariamente un atteggiamento di immobilità e passività: anzi, lo «spirito libero» può raggiungere questo atteggiamento solo perché ha il coraggio dell'avventura e dell'incertezza (anche questo, non dimentichiamolo, reso possibile dalle condizioni di vita meno violente in cui ci troviamo ad esistere), al punto da occupare spesso, nella società attuale, una posizione marginale, dove si toccano l'eccezionalità del genio e la malattia (cfr. UTUI, 234-36, 167-70, dove si parla soprattutto del genio). Anche la definizione, del resto niente affatto sistematica, che Nietzsche abbozza dello spirito libero non è tale da fornire un contenuto teorico positivo alla nozione di «filosofia del mattino», la quale resta dunque la definizione di un atteggiamento, di un clima spirituale, e non una véra e propria «dottrina» filosofica. Tutto il significato del discorso nietzscheano sembra ridursi allo sforzo di indurre nell'uomo un atteggiamento diverso, non però sulla base di tesi filosofiche specifiche, bensì sulla base di una presa di congedo da quelle ereditate dal passato. Proprio la critica agli errori della metafisica ha condotto Nietzsche a diffidare anche delle «visioni del mondo» globali, delle tesi filosofiche generali: lo spirito libero è quello che vive nella prossimita, alla superficie (cfr. GS 256,157; e WS 6,136-37). Una certa impressione di «mancanza di contenuti» dottrinali, nella filosofia nietzscheana del secondo periodo, più che in quella giovanile, in cui, bene o male, Nietzsche lavora ancora su basi metafisiche schopenhaueriane, è quindi giustificata. Ma non si tratta solo, come anche ci si potrebbe aspettare, del prevalere in lui di un atteggiamento «letterario» (secondo l'idea diltheyana della «filosofia della vita», che si è ricordata all'inizio); né di una riduzione, molto novecentesca e «wittgensteiniana», della filosofìa a pura e semplice «terapia» - del linguaggio e degli atteggiamenti umani - sebbene certamente questo modo di vedere la filosofia sia assai presente in Nietzsche.

Quel che si tratta di capire, superando notevoli difficoltà interpretative, è come, in connessione con questo apparente, e anche effettivo, «vuoto» di tesi filosofiche, maturino però anche, nel Nietzsche di questi scritti, posizioni in largo senso ontologiche, che tuttavia non rappresentano un «salto» al di fuori del suo lavoro di critico della cultura, di «filosofo storico». C'è insomma, nel Nietzsche del secondo periodo, e poi più esplicitamente nelle opere tarde, una certa visione filosofica dell'essere, una «ontologia», che però, in un modo peculiare, si definisce solo entro una certa visione della storia della cultura (senza essere, né nei contenuti né nella forma, una «filosofia della storia» del tipo di quella hegeliana...). Anzi, per converso, si deve dire che le «tesi» ontologiche che Nietzsche svilupperà negli scritti dell'ultimo periodo (quelle, per intenderci, su cui si è esercitata la lettura heideggeriana) non hanno un senso molto diverso dalla critica della cultura di Umano, troppo umano, e ne rappresentano il prolungamento. Ciò è particolarmente evidente in una delle tesi principali dell'ontologia dell'ultimo Nietzsche, quella dell'eterno ritorno dell'uguale, che a differenza delle altre (volontà di potenza, oltreuomo, nichilismo) si annuncia già nell'ultimo degli scritti del secondo periodo, nella Gaia scienza. Nell'aforisma 341 di quest'opera, il penultimo del libro quarto13, l'idea dell'eterno ritorno dell'uguale, che più tardi si caricherà di significati molteplici, anche «metafisici» in senso tradizionale, non ha un senso molto diverso da quello di altri testi in cui si descrive il nuovo atteggiamento verso la vita che Nietzsche vuol produrre con la sua critica della cultura, e che chiama tra l'altro filosofia del mattino. Si pensi per esempio al già ricordato aforisma 107 di Umano, troppo umano e lo si confronti con il 341 della Gaia scienza14: forse apparirà che l'eterno ritorno è solo un'altra formulazione di quella approvazione incondizionata della vita che è lo spirito della filosofia del mattino.

Emblematico del nesso che, nelle opere del secondo periodo, lega la critica della cultura con l'elaborazione di tesi ontologiche è ^annuncio» della morte di Dio. Si è già accennato che la «morte di Dio», che riassume in sé tutti gli esiti di quello che Nietzsche chiama l'autosop-pressione della morale, non è un'enunciazione metafisica della non esistenza di Dio; intende esser preso alla lettera come l'annuncio di un evento. Annunciare un evento, però, non significa «dimostrare» alcunche; né significa, a rigore, pretendere alcuna adesione (che si potrebbe richiedere solo in base a una credenza, storicistico-metafisìca, nella razionalità dell'accadere). L'annuncio, però, accompagnato dalla descrizione delle circostanze dell'evento annunciato - in questo caso, dalla ricostruzione degli errori della morale e del suo finale autosop-primersi - non può non provocare a sua volta altri eventi; è quanto la Gaia scienza dice anche del pensiero dell'eterno ritorno: «Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi | ...1 graverebbe sul tuo agire come il peso più grande [...]» (GS 341, 202),

Le tesi filosofiche dell'ultimo Nietzsche hanno tutte, come ci proponiamo di mostrare, uno status misto di fattuale e di ipotetico: che è legato direttamente alla radicalità dell'autosoppressione della morale che Nietzsche ha descritto nelle opere del secondo periodo. «Dio è morto» è una tesi che non si distingue da un enunciato di «critica della cultura»; è una presa d'atto di tipo «storico», che però, proprio per la sua radicale storicità, non implica il riconoscimento di alcuna razionalità storica necessaria. 11 prender atto della morte di Dio, tuttavia, produce effetti, conseguenze, metamorfosi; le quali però mantengono lo stato di possibilità, come nel caso della pagina della Gaia scienza sull'eterno ritorno: «che cosa accadrebbe se [...]» (GS 341, cit.). Sotto questo profilo, è giusto chiamare la filosofia di Nietzsche un pensiero sperimentale15, che si regge tutta sulla «scoperta» - ma di fatto, forse, solo sul sospetto - che la credenza nella verità sia solo una credenza: fino a che non «accada» qualcosa che valga come argomento in contrario, la sola via che resta aperta è quella dell'esperimento: che accadrebbe se...

III. LA FILOSOFIA DI ZARATHUSTRA

1. Mattino e meriggio.

La suddivisione dell'opera di Nietzsche in tre periodi (opere giovanili; pensiero genealogico o decostruttivo da Umano, troppo umano alla Gaia scienza; filosofia dell'eterno ritorno, che comincia con Zarathustra) è certamente solo uno schema, e come tale non va sopravvalutato; ma è comunque largamente accettato, implicitamente o esplicitamente, dagli interpreti. Le possibili alternative consistono o nel considerare sostanzialmente unitario tutto il pensiero della maturità, da Umano, troppo umano fino agli ultimi scritti; oppure, nel marcare un'ulteriore distinzione, tra una «filosofia di Zarathustra» e le opere più tarde, tutte dominate dal progetto, alla fine abbandonato, di scrivere una grande opera sistematica, che doveva essere (questo è uno dei titoli più spesso ricorrenti nei piani di Nietzsche di quel periodo) La volontà di potenza 1.

Anche chi, come Curt Paul Janz, l'autore della più recente (e completa) biografia di Nietzsche2 considera sostanzialmente unitario il pensiero del Nietzsche maturo, riconosce però che lo Zarathustra nasce da una svolta che Nietzsche stesso avverte come decisiva, E ciò non solo nella ricostruzione autobiografica che egli fece delle proprie opere in Ecce homo, lo scritto degli ultimi mesi di Torino che per i suoi toni messianici ed esaltati sembra già, in molte pagine, risentire del clima della follia imminente. Qui, nel capitolo su Così parlò Zarathustra, Nietzsche racconta di come l'idea dell'eterno ritorno, che è il tema fondamentale dell'opera, gli venne incontro un giorno d'agosto del 1881, in una passeggiata lungo il lago di Silvaplana, in Alta Engadi-na (vicino a Sils-Maria, dove proprio a partire da quell'anno Nietzsche sarà solito passare l'estate), «6000 piedi al di là dell'uomo e del tempo». L'insieme del passo, e poi i paragrafi e i capitoli successivi, mostrano che Nietzsche attribuisce a questo evento il senso di un destino gravido di conseguenze non solo per lui e la sua opera, ma per la stessa storia dell'umanità. Di lì si diparte tutto il suo sviluppo di pensiero successivo, incentrato intorno al programma di una «trasvalutazione di tutti i valori», che è anche il programma della progettata opera sistematica che egli pensava di intitolare, come si è detto, La volontà di potenza.

La decisività della svolta del 1881 non è però soltanto ricostruita retrospettivamente da Ecce homo. Una lettera come quella che Nietzsche scrisse a Heinrich Köselitz (più noto con lo pseudonimo di Peter Gast3) il 14 agosto 1881, proprio da Sils-Maria, mostra che già in quel momento Nietzsche era consapevole che qualcosa di nuovo stava accadendo al suo pensiero. Scriveva: «Sul mio orizzonte sono sorte idee quali non ho mai visto prima - non voglio farne parola, voglio mantenere un silenzio incrollabile [...]. L'intensità dei miei sentimenti mi fa rabbrividire e ridere»4. Idee così nuove e sconvolgenti che Nietzsche decide di non parlarne ancora. Ecce homo descrive il periodo immediatamente successivo, fino al febbraio del 1883, in cui esce la prima parte di Così parlò Zarathustra, come un periodo intermedio e di gestazione, interrotto solo dai primi annunci delle nuove dottrine nella Gaia scienza (dove, alla fine del IV libro, non solo si parla per la prima volta di eterno ritorno, ma anche, nell'aforisma 342, di Zarathustra). La svolta, dunque, si definisce sul piano dei contenuti teorici come «scoperta» dell'eterno ritorno, e sul piano dell'opera scritta è segnata dallo Zarathustra. Quest'opera rappresenta di per sé una rivoluzione stilistica negli scritti di Nietzsche: non ha infatti la forma del saggio, del trattato, della raccolta di aforismi - cioè le forme che Nietzsche aveva praticato fino ad allora; non è nemmeno poesia in senso stretto; è una specie di lungo poema in prosa, il cui modello più evidente è il Nuovo Testamento, con la tipica struttura in versetti che gli usi didattici e cultuali hanno sedimentato nel testo.

La scelta di questa nuova forma letteraria non si spiega evidentemente, da parte di Nietzsche, con il contenuto della nuova dottrina dell'eterno ritorno. Entrambi però, l'idea del ritorno e la forma «profetica» dello Zarathustra, si riportano a una radice comune: l'idea dell'eterno ritorno dell'uguale, che farà da Leit-motiv teorico dello Zarathustra e delle opere successive, sorge in Nietzsche insieme a una nuova idea della sua missione. Come vedremo, l'altro grande tema dello Zarathustra è la dottrina dello Uebermensch, deH'oltreuomo5, che allude a una trasformazione radicale dell'umanità. La novità degli scritti del terzo periodo, sulla quale siamo richiamati anzitutto dalla consapevolezza che Nietzsche stesso mostra di averne, consiste dunque, insieme, in un gruppo di nuovi temi teorici (il primo dei quali è quello dell'eterno ritorno) e in un nuovo modo di pensare il proprio stesso compito di pensatore. La scelta della forma «profetica» dello Zarathustra significa che Nietzsche si sente investito di un compito epocale, molto più nettamente e radicalmente di quanto non sentisse nel periodo delle opere decostruttive e genealogiche. È vero che anche e proprio in quelle opere Nietzsche prende criticamente congedo da tutta la tradizione morale-metafisica europea; ma quel che c'è di nuovo, a partire dallo Zarathustra, è la convinzione di dovere e poter partire da questa presa di congedo per provocare un mutamento radicale di civiltà. Inutile tentare di stabilire se siano i nuovi contenuti teorici a provocare la nuova posizione «profetica» o viceversa.

E' certo però che, rispetto alla funzione, in largo senso, politica, che Nietzsche attribuisce ora al proprio pensiero, i nuovi grandi temi della sua filosofia mostrano di avere una portata decisiva; non, anzitutto, nel loro contenuto teorico, ma in quanto permettono, se non la completa attuazione, almeno la formulazione d: un progetto di «sistema», e una certa sistematicità sembra indispensabile per una filosofia che voglia avere delle «applicazioni», che voglia diventare principio di una nuova umanità storica. L'ossessione di una «efficacia» storica del suo pensiero, altrettanto quanto i grandi temi ontologici collegati all'idea del ritorno, caratterizza tutto l'ultimo periodo della produzione nietzscheana, e spiega, anche senza risolverli, molti degli equivoci, delle contraddizioni, degli auto-fraintendimenti che segnano gli scritti di questi anni. Da questo punto di vista, l'esaltazione «politica» che caratterizza gli ultimi appunti torinesi prima dello scoppio della pazzia (ma già, probabilmente, nel clima di essa) è emblematica e corrisponde a un tratto costante del pensiero del Nietzsche maturo. A partire da Zarathustra, Nietzsche pensa al filosofo come a un legislatore, a un inventore di valori che intendono fondare nuova storia: «Non basta - scrive in un appunto del 1883 - annunciare una dottrina: bisogna, anche, oltre a ciò, trasformare con la forza gli uomini, in modo che la ricevano. - Questo capisce, alla fine Zarathustra»5bis.

Prima dì esser responsabile - come crediamo - degli equivoci e degli autofraintendimenti che segnano il pensiero dell'ultimo Nietzsche, questa tensione verso un'efficacia storico-politica serve anche a dar conto in modo unitario di molti dei tratti rilevanti nelle opere di questo periodo. Intanto, come ha mostrato da ultimo Janz, si dovranno prendere più alla lettera le vicende dei rapporti di Zarathustra con i discepoli: gli alti e bassi di questi rapporti, le delusioni e le ire del maestro, le sue ironie contro gli «uomini superiori» ma anche il suo costante bisogno di tornare presso di loro, di sentirsi con amici, il senso di crescente solitudine che domina soprattutto la quarta parte: tutto ciò traspone sul piano della finzione «profetica» un movimento che riguarda Nietzsche stesso e il modo in cui gli si prospettano, negli anni in cui compone le quattro parti dell'opera, i destini storici del suo insegnamento6.

In secondo luogo, è ancora la preoccupazione di efficacia storica che spiega, oltre agli sforzi di produrre un sistema, di scrivere uno Hauptwerk, anche gli interessi e gli obiettivi polemici di Nietzsche in questi anni. Per esempio: non sembra completamente giustificabile solo alla luce di premesse ed esigenze teoriche la costanza e asprezza della polemica contro il cristianesimo, che culmina ne\YAnticristo, un'opera con la quale, significativamente, negli ultimi mesi di vita cosciente Nietzsche finisce per identificare la stessa Trasvalutazione di tutti i valori (ossia proprio il suo intero Hauptwerk progettato)7. Nell'Anticristo, come in altre opere precedenti di questi stessi anni, confluiscono i risultati di numerose letture di storia delle origini cristiane, di storia dell'Islam, di psicologia e antropologia; ma dal punto di vista teorico, è difficile vedere che cosa un'opera come L'anticristo aggiunga agli scritti precedenti di Nietzsche. L'importanza che egli le attribuisce, evidentemente, si lega a quella che abbiamo chiamata la sua preoccupazione per l'efficacia storica: poiché non vuole soltanto criticare, ormai, gli errori della morale e della religione, ma legiferare in vista di una nuova umanità, Nietzsche si misura polemicamente con quel mondo di idee e di istituzioni che più universalmente ha improntato di sé la modernità europea, cioè il cristianesimo; e ciò in una misura, con un'asprezza polemica e con una dovizia di argomenti anche di tipo storico che, per l'appunto, solo l'interesse non teorico ma politico può giustificare.

Alla questione della ricerca di un'efficacia storica si lega anche un'ipotesi suggestiva avanzata da Colli e Montinari (VIII, 1,325) in relazione alla nozione di volontà di potenza, in base a un frammento del 1886-87 (5 [9], VIII, 1, 176-77): «Essoterico-esoterico. I. Tutto è volontà contro volontà. 2. Non c'è affatto una volontà. 1. Causalismo. 2. Non c'è qualcosa come causa-effetto». La volontà, dunque anche la volontà di potenza, la «formula magica» su cui «per un secolo ci si è azzuffati», cercando di penetrarne il senso, potrebbe non essere altro, agli occhi di Nietzsche, che un'espressione essoterica, e cioè divulgativa, popolare, del suo pensiero; alla quale corrisponderebbe, sul piano esoterico, proprio il contrario, la consapevolezza teorica che «non c'è affatto una volontà». Inutile dire che il bisogno di una esposizione essoterica del proprio pensiero nascerebbe in Nietzsche, secondo questa ipotesi, in relazione al suo «affannoso impulso artistico-politico» che cerca di «suscitare un pubblico, di scuoterlo e affascinarlo» (VIII, 2, 422), e quindi di ottenere un effetto storico. Se anche può legittimamente sembrare troppo riduttiva la soluzione di tutti i problemi sollevati dalla nozione di volontà di potenza sulla base di questa distinzione tra esoterico ed essoterico, è certo vero che, in generale, gli equivoci del pensiero del Nietzsche tardo sono legati a una preoccupazione di efficacia storica, e dunque, molto mediatamente, all'ambito di problemi in cui può esser sorta anche l'esigenza di una formulazione essoterica della dottrina. Ma si tratta di equivoci che Nietzsche non «comanda» del tutto, come dovrebbe se fossero solo «rivestimenti» divulgativi del suo pensiero per le masse; sono invece equivoci in cui egli stesso incorre, proprio, però, perché si preoccupa degli effetti che intende produrre sul piano storico, dunque anche sulle masse. In ogni caso, anche la centralità che questa ipotesi di Colli e Montinari attribuisce alla distinzione tra essoterico ed esoterico nelle sue dottrine tarde conferma, per quel che ci interessa qui, che uno dei tratti dominanti delle opere dell'ultimo periodo è l'interesse storico-politico.

In relazione ad esso si può comprendere anche un altro aspetto del Nietzsche di questi anni, che pure è stato rilevato da vari interpreti: una certa tendenza in largo senso «regressiva» del suo pensiero, cioè la ripresa di tematiche proprie degli scritti giovanili, all'antistoricismo della seconda Inattuale, che ritorna, insieme alle ironie contro la scienza, in molte pagine soprattutto di Al di là del bene e del male, alla speranza in un rinnovamento generale della civiltà che permeava la Nascita della tragedia?8.

Se però da questi aspetti stilistici (la novità dello Zarathustra) o in generale «esterni» (il nuovo significato e portata storica che Nietzsche vuol dare al proprio pensiero; eventualmente anche come reazione «ideologica»^ solo di compensazione psicologica, alla sua crescente solitudine, al suo isolamento di intellettuale vagante) ci volgiamo ai contenuti teorici (che analizzeremo più dettagliatamente nel seguito di questo capitolo), anche qui la svolta e i caratteri specifici dell'ultimo periodo del pensiero nietzscheano appaiono ben rilevati, e coerenti con quanto si è trovato fino a qui. Molto in generale, da Zarathustra ai frammenti postumi della Volontà di potenza, si può dire che, rispetto alla «filosofia del mattino» a cui guardavano le opere del secondo periodo, qui si fanno sentire due novità peculiari: una nuova insistenza sulla decisione (pensiamo a due centrali discorsi di Zarathustra: «Il convalescente», e «La visione e l'enigma», entrambi nella parte terza); e, d'altro lato, una maggior radicalità nella critica del soggetto. Se si vuole, l'elemento «decisione» può considerarsi il più legato, sul piano teorico, alla tensione di Nietzsche verso un rinnovamento generale della civiltà che dovrebbe nascere dal suo pensiero; mentre la critica del soggetto è piuttosto coerente, come sua implicazione teorica radicale, con l'idea dell'eterno ritorno. Ma altrettanto a ragione si possono vedere i due temi, della decisione e della dissoluzione del soggetto, come momenti specifici dell'idea stessa del ritorno. Ciò che conta, però, è rilevare la presenza di una tensione, alla fine non risolta (e alla quale, prima e più fondamentalmente che alla pazzia, soccombe il pensiero nietzscheano) tra l'elemento decisione (e dunque anche rinnovamento storico, nascita dell'oltrcuomo) e l'elemento dissoluzione del soggetto (conseguenza del riconoscimento radicale dell'eterno ritorno).

Anche a prima vista, si capisce che non è facile impostare un programma di rinnovamento dell'umanità su una dottrina come quella dell'eterno ritorno dell'uguale. Certo, questa significa anzitutto che l'unica via attraverso cui si può operare quel «salto» che deve condurre all'oltre-uomo è una trasformazione del modo di vivere il tempo (anche in questo, tra l'altro, si deve riconoscere un ritorno di Nietzsche ai temi delle opere giovanili: qui, come si capisce, si tratta della meditazione sulla storia della seconda Inattuale). Ma se, come Nietzsche si sforza di dimostrare, l'eterno ritorno significa anche una «obiettiva» circolarità del tempo o, come pure sembra si possa interpretare (ed è la tesi di Karl Lowith9), il suo senso è la radicale riduzione del tempo lineare della storia al tempo ciclico della natura, è difficile vedere come su una tale vanificazione della storia e della stessa progettualità umana si possa fondare un «programma» di rinnovamento, una tensione rivoluzionaria così profonda come quella che Nietzsche cerca di suscitare con i suoi scritti.

Queste tensioni e contraddizioni si condensano nella immagine del «meriggio», che, in contrasto con quella della «filosofia del mattino», domina ora gli scritti di Nietzsche10. «Ma in qualche tempo - scrive la Genealogia della morale - in un'età più forte di questo marcido, dubi-toso presente, dovrà pur giungere a noi l'uomo redentore, l'uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore [...]. Quest'uomo dell'avvenire, che ci redimerà tanto dall'ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione [...]» (GdM II, 24, 296-97). Se in questa pagina il mezzogiorno è segnato dal rintocco delle campane, che indicano un risveglio per la «grande decisione», il «mezzogiorno» a cui si intitola un discorso della quarta parte di Zarathustra è invece «l'ora segreta e solenne, in cui nessun pastore soffia nel flauto», un momento di silenzio totale. «Non divenne proprio ora perfetto il mondo? Rotondo e maturo?». Eppure, proprio l'insieme di questa pagina di Zarathustra è un buon indice delle tensioni che si nascondono nell'immagine del meriggio. Zarathustra vorrebbe starsene immobile, a godere la felicità meridiana, il senso di riposo, malinconia e pienezza insieme che essa gli porta, «come una nave che sia entrata nella sua baia più immota [...].

Come una simile stanca nave [...] così anch'io riposo, ormai vicino, fedele, familiare alla terra, ad essa legato dal più tenue dei fili». Ma l'«anima» di Zarathustra vuol cantare, vuol muoversi. «In piedi, dormiglione - si disse. - Tu dormiente nel meriggio! Forza, coraggio vecchie gambe! È tempo, più che tempo, avete ancora un buon pezzo di strada da fare [...]» (Z, IV, «Mezzogiorno», 335-36). Anche quando gli appare come l'ora più perfetta, della immobilità totale, il meriggio porta con sé, per Nietzsche-Zarathustra, il problema della decisione, dunque di un movimento che non può non turbare la perfezione meridiana, e che in definitiva è un mettersi in ulteriore cammino verso il tramonto - non tanto forse verso la morte (come pensa Lowith nel bellissimo commento a questo testo"), quanto verso l'inevitabile dissoluzione della soggettività che l'idea dell'eterno ritorno, pensata radicalmente, non può non portare con sé.

Si delineano così, per ora soltanto in forma introduttiva, i problemi che percorrono il terzo periodo della filosofia di Nietzsche, e che del resto - senza probabilmente che si possa vederne in lui una soluzione - conferiscono anche a questo pensiero, la sua (altrimenti inspiegabile) attualità. La connessione tra riflessione critica sulla cultura ed elaborazione di una nuova tematica ontologica, che si riassume nella nozione di nichilismo (nel corso dell'inciVIIImento umano le tesi metafisico-morali perdono la loro necessità vitale, Dio «muore», dunque l'essere stesso si avvicina al nulla) si presenta qui in una nuova configurazione: non è più filosofia del mattino, cioè puro e semplice ripercorrimento critico-genealogico, e anche fruizione riconoscente e nostalgica, degli «errori» che hanno fatto ricca e profonda l'esperienza dell'uomo. Condensandosi, come sembra si possa dire, nell'idea dell'eterno ritorno dell'uguale, la filosofia del mattino va incontro a tensioni che prima le erano sconosciute, evidenzia un elemento di intima instabilità. È difficile dire se questa instabilità e tensione siano una implicazione necessaria della teoria: perché, insomma, Zarathustra non può star fermo nel suo mezzogiorno, contemplare, in uno stato d'animo che è insieme di gratitudine, stanchezza, melanconia (queste ultime, certo, legate al cammino che ha dovuto compiere prima, e quindi ancora a una dimensione temporale di tensione, sia pure ormai superata), il senso-non senso del mondo, la perfetta rotondità del tutto? Perché la filosofia del mattino non è il punto di arrivo di Nietzsche? Ciò che sappiamo dai discorsi di Zarathustra è che, da un lato, il raggiungimento di questa condizione di perfetta sospensione del tempo comporta ancora (come ora vedremo) una decisione, dunque una precisa scissura nel tempo; e che, forse in modo più teoricamente rilevante e radicale, il raggiungimento della «circolarità» produce tali effetti «dissolutivi» sulla stessa nozione di soggettività da rendere impossibile, forse, proprio quello stato di perfetta contemplazione che Zarathustra conosce nel suo meriggio, e al quale, tuttavia, non riesce a fermarsi.

Questi problemi, come si capisce, non riguardano soltanto l'interno sviluppo del pensiero di Nietzsche. Se, come ha sostenuto Lowith, la filosofia dell'eterno ritorno è lo sforzo di una «ripresa anticristiana dell'antichità all'apice della modernità» (è il titolo del cap. IV del libro di Lowith, già cit.), la riuscita o il fallimento di questo sforzo, con le loro rispettive motivazioni, mettono in gioco tutto il nostro modo di considerare la modernità, il suo rapporto con il mondo antico, il significato del cristianesimo: cioè, le questioni con cui si trova a fare i conti la filosofia moderna almeno a partire dal romanticismo. Lowith, come si sa, trova che il fallimento del pensiero di Nietzsche, e dunque l'impossibilità, nei nostri termini, di rimanere alla filosofia del mattino e, insieme, di trovare una alternativa ad essa teoricamente coerente, dipende dal fatto che egli è così radicato nella tradizione cristiano-moderna da non poter concepire l'eterno ritorno (cioè il recupero di una visione greca, naturalistica, dell'esistenza) se non come risultato di una tensione progettuale, come una redenzione che si deve raggiungere, e che, in definitiva, dovrebbe eternizzare l'uomo, cioè togliergli proprio quella sua mortalità «naturale» che ispirava il naturalismo antico12. E, come si vede, la contraddizione che abbiamo già indicato tra eterno ritorno e decisione. Ma intorno al problema posto da Lowith si possono condensare altre questioni (e una messa in questione dei termini stessi in cui Lowith le pone). Per esempio: l'opposizione radicale tra un'antichità «naturalista» e legata a un'immagine circolare del tempo, e una modernità cristiana, storicista, che pensa il tempo come linea retta in cammino verso un telos, non sarà già una concezione tutta interna alla stessa coscienza moderna, la quale non riesce a risolvere il problema di Nietzsche (storia-natura, decisione-ritorno) proprio perché continua a porlo nei termini di quella opposizione «mitica», inventata, si potrebbe dire, dal classicismo e dal romanticismo? Se si comincia a prender sul serio questo problema, allora si potrà ritrovarsi più vicini alla lettura che, di Nietzsche, ha dato Martin Heidegger, nella quale non ha rilievo la distinzione tra «antichità» e modernità cristiana, che sono invece unificate dal comune filo conduttore di quello che Heidegger chiama «metafisica»13, sul cui sfondo soltanto, secondo lui, prende senso la meditazione di Nietzsche.

Tutto ciò dà un'idea di quali siano i problemi che si pongono quando si voglia leggere Nietzsche, e soprattutto la filosofìa del tardo Nietzsche, badando alle sue implicazioni più vaste e ascoltando le interpretazioni che ne sono state date. Forse Nietzsche non esagerava poi tanto, quando in Ecce homo scriveva «Perché io sono un destino». Il «passaggio» dalla filosofia del mattino al «meriggio» di Zarathustra non riguarda solo la biografia intellettuale di Nietzsche; anche se, per gli scopi a cui deve servire questa presentazione sommaria, sarà bene cominciare a dipanarne i fili nel modo più elementare, ricostruendo anzitutto il senso che, negli scritti degli ultimi anni, assumono i termini chiave di questo pensiero, e le loro connessioni.

2. Nichilismo, eterno ritorno, decisione.

Così parlò Zarathustra, Vopera che inaugura la nuova filosofia di Nietzsche (annunciata, soltanto, negli ultimi aforismi della prima edizione della Gaia scienza) comincia là dove si era concluso l'itinerario che aveva preparato la «filosofia del mattino». È questo che dice un capitolo del più tardo Crepuscolo degli idoli, in cui si riassumono le tappe (non del pensiero di Nietzsche, ma della filosofia europea come in questo pensiero si ricostruisce) che hanno condotto a Zarathustra.

Come il «mondo vero» finì per diventare favola Storia di un errore

1.  Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in esso, lui stesso è questo mondo.

(La forma più antica dell'idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi «Io, Platone, sono la verità»).

2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso («al peccatore che fa penitenza»).

(Progresso dell'idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile - diventa donna, si cristianizza...).

3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(In fondo l'antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l'idea sublimata, pallida, nordica, konigsbergica).

4. Il mondo vero - inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?...

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).

5. Il «mondo vero» - un'idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante - un'idea divenuta inutile e superflua, quindi un'idea confutata: eliminiamola!

(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente]

(Mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell'umanità: INCIPIT ZARATHUSTRA).

(CI 75-76)

La filosofia del mattino è richiamata nel punto 5, come la fase in cui ci si è liberati del «mondo vero», delle strutture metafisiche, di Dio. Ma c'è un passo successivo: con il mondo vero è tolto di mezzo anche il mondo apparente; con ciò si è fatto mezzogiorno, l'ora senza ombre; l'ora in cui comincia l'insegnamento di Zarathustra. È possibile, dando retta a questa ricostruzione nietzscheana, vedere le differenze che separano il pensiero del meriggio dalla filosofia del mattino, riassunte e giustificate nella liquidazione del mondo apparente insieme a quello vero, di cui parla questa pagina del Crepuscolo! L'insegnamento di Zarathustra, e dunque il pensiero dell'ultimo Nietzsche, sembra semplicemente trarre tutte le conseguenze dal fatto che, con il mondo vero, abbiamo eliminato anche il mondo apparente. Tra queste conseguenze, sembra, si deve annoverare anche il pensiero più sconvolgente e abissale di Zarathustra, l'idea dell'eterno ritorno.

Come si lega l'idea del ritorno all'itinerario di smascheramento che Nietzsche ha percorso nelle opere del secondo periodo? Intanto, è facile vedere che alcuni elementi costitutivi di questa idea sono già chiaramente presenti negli scritti «smascheranti» a partire da Umano, troppo umano. Quest'opera, ad esempio, parlava dell'atteggiamento dell'uomo della conoscenza, dell'uomo di buon temperamento, come di uno sguardo che considera sé e il mondo senza lode né biasimo (UTU1,34,41-42); altrove, lo stesso atteggiamento è presentato come quello che, avendo imparato dall'arte a «prender piacere all'esistenza e a considerare la vita umana come un pezzo di natura» si educa a pensare che alla fine, «comunque sia, la vita è buona» (UTUI, 22, 157). Sono gli stessi sentimenti che dominano il primo testo in cui Nietzsche annuncia l'idea del ritorno, l'aforisma 341 della Gaia scienza, penultimo della prima edizione di quell'opera:

Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? (GS 341, 201-2).

Nell'estate del 1881, quando a Sils-Maria Nietzsche «scopre» per la prima volta l'eterno ritorno, egli si sta interessando attivamente di Spinoza14. Ora, proprio a Spinoza si pensa quando si leggono certe pagine, come quelle poco sopra ricordate, di Umano, troppo umano («senza lode né biasimo») e anche quella della Gaia scienza. È vero che, se dobbiamo credere alle sue stesse dichiarazioni15, Nietzsche prima del 1881 aveva una conoscenza solo superficialissima di Spinoza. Ma, per l'appunto: come l’amor dei intellectualis di Spinoza era fondato su una articolata dottrina metafisica (l'etica, more geometrico demonstrata), così il Nietzsche del 1881 pensa probabilmente all'eterno ritorno come a una dottrina che deve dispiegare i fondamenti metafisici di quello che, in Umano, troppo umano, gli appare ancora soltanto come «buon temperamento». Più in generale, si può dire che l'idea dell'eterno ritorno si presenta nell'opera di Nietzsche come una sistemazione, se non una «fondazione» nel senso classico, del nichilismo caratteristico della filosofia del mattino. Questa filosofia, infatti, ha liquidato il mondo vero e indotto un atteggiamento di libertà di spirito nei confronti degli errori su cui la vita è necessariamente fondata. Ma, sembra pensare Nietzsche, se con il mondo vero è liquidato anche il mondo apparente (nel senso che esso stesso perde la caratteristica leggerezza e libertà, sia pure «inferiore», che gli conferiva il confronto con il mondo vero) allora si pongono problemi più vasti: non si può considerare come punto di arrivo l'atteggiamento di chi, sollevandosi per un momento al di sopra di tutto il processo, contempla «come uno spettacolo» (UTU1, 34,41) gli erramenti che hanno fatto profondo, ricco e colorato il nostro mondo. Non si può cioè rimanere alla «filosofia storica» e al pensiero genealogico.

Legittimo o no che si consideri il passaggio dal secondo al terzo periodo, dal «mattino» al «meriggio», esso di fatto risponde, in Nietzsche, all'esigenza di realizzare, con la dottrina dell'eterno ritorno, una sistemazione unitaria e una radicaliz-zazione del nichilismo a cui era arrivata la filosofia del mattino. Il senso dell'idea che prevale nel testo citato della Gaia scienza è quello che si potrebbe chiamare il suo senso morale. Ma ce n'è un secondo, inscindibile dal primo, che si deve invece indicare come il suo significato cosmologico. Come ipotesi etica, l'idea significa solo che, se si pensasse alla possibilità che ogni attimo della nostra vita diventi eterno e si ripeta all'infinito, avremmo un esigentissimo criterio di valutazione: solo un essere perfettamente felice potrebbe volere una tale ripetizione eterna. D'altra parte però - ed è questo il senso più completo che l'idea assume in Nietzsche, legandosi alla nozione di nichilismo - solo in un mondo che non fosse più pensato nella cornice di una temporalità lineare sarebbe possibile una tale piena felicità. La temporalità lineare, quella che si articola in presente passato futuro, ciascuno irripetibile, implica che ogni momento ha senso solo in funzione degli altri sulla linea del tempo (come diceva la seconda Inattuale); in essa, ogni attimo è un figlio che divora il padre (il momento che lo precede) ed è destinato a propria volta ad essere divorato. In questa, che altrove ho chiamato la struttura «edipica del tempo»16, non è possibile felicità perché nessun momento vissuto può avere davvero, in sé, una pienezza di senso. Se è così, si capisce come l'eterno ritorno debba avere un aspetto anche «cosmologico»: non si tratta solo di costruirsi attimi di esistenza così pieni ed intensi da poter esser voluti come eternamente ritornanti; ma del fatto che attimi di questo genere sono possibili solo a patto di una radicale trasformazione che sopprima la distinzione tra mondo vero e mondo apparente e tutte le sue implicazioni (tra le quali, prima fra tutte, la struttura «edipica» del tempo). L'eterno ritorno può esser voluto solo da un uomo felice; ma un uomo felice può darsi solo in un mondo radicalmente diverso da questo; e di qui viene l'esigenza di un contenuto «cosmologico» della dottrina.

Tuttavia: liquidare l'opposizione tra mondo vero e mondo apparente, e tutte le strutture morali-metafisiche che ne derivano (tra cui la struttura edipica del tempo, per cui nessun istante ha mai in sé il suo vero significato) esige necessariamente che si affermi l'idea di ripetizione? Questa domanda è semplicemente un'altra formulazione di quella che già abbiamo incontrato discutendo i problemi del passaggio dalla filosofia del mattino a quella del «meriggio», e cioè se questo passaggio sia richiesto strettamente da motivi interni alla teoria, o se invece non sia ispirato da motivi extrateorici, come l'interesse pratico-politico di Nietzsche, che lo condurrebbe a cercare formulazioni più «efficaci», secondo lui, del proprio pensiero. Nietzsche, sembra, avrebbe potuto limitarsi a sostenere che, con la dissoluzione della metafisica e della temporalità lineare che ad essa si lega, diventa per la prima volta possibile una umanità felice, non più angosciata dalla separazione tra evento vissuto e senso, che invece caratterizza l'esistenza nel mondo della morale-metafisica. Perché, invece, ha sentito l'esigenza di dare una sorta di base «metafisica», di nuovo, a questa tesi, teorizzando una «obiettiva» circolarità del tempo? Seguendo Lowith, già più volte ricordato, si può pensare che qui giochi ancora l'ammirazione per l'antichità greca del Nietzsche filologo classico: egli vorrebbe restaurare una visione greca, presocratica, del mondo, in opposizione a quella ebraico-cristiana che pensa il tempo scandito da momenti irripetibili: creazione, peccato, redenzione, fine dei tempi...

Quali che siano le ragioni e le conseguenze di questa esigenza, sta di fatto che Nietzsche si sforza costantemente, negli scritti editi e negli appunti dell'ultimo periodo, di fondare la dottrina del ritorno anche come tesi cosmologica. Il più organico argomento a favore di questa tesi è in Nietzsche quello, contenuto in un appunto dell'autunno 1881, i cui termini sono poi ripetuti, con poche variazioni, in numerosi altri testi, sia della stessa epoca (che è quella della Gaia scienza) sia più tardi (cfr. per es. 14 [188], VIII, 3, 165). Nell'appunto dell'81, Nietzsche scrive:

La misura della forza del cosmo è determinata, non è «infinita»: guardiamoci da questi eccessi del concetto! Conseguentemente, il numero delle posizioni, dei mutamenti, delle combinazioni e degli sviluppi di questa forza è certamente immane e praticamente «non misurabile»; ma in ogni caso è anche determinato e non infinito. È vero che il tempo nel quale il cosmo esercita la sua forza è infinito [...]. Fino a questo attimo è già trascorsa un'infinità, cioè tutti i possibili sviluppi debbono già essere esistiti. Conseguentemente, lo sviluppo momentaneo deve essere una ripetizione, e così quello che l'ha generato e quello che da esso nasce, e così via: in avanti e all'indietro [...] (V, 2, p. 382).

A partire da Georg Simmel, molti interpreti si sono dedicati a confutare dettagliatamente questo argomento, e altri simili, che pretenderebbero di provare l'eterno ritorno17. Esso non era tuttavia una dottrina del tutto stravagante rispetto al sapere dell'epoca18, il che spiegherebbe anche come Nietzsche potesse pensare che, dando una versione «scientifica» della sua dottrina, in armonia con il sapere del tempo, tutto l'insieme del suo pensiero se ne sarebbe giovato (si ricordi l'ipotesi, già accennata sopra, del carattere essoterico di questi aspetti della filosofia nietzscheana). Le difficoltà maggiori, tuttavia, non stanno tanto nella portata e validità della dimostrazione «scientifica» dell'eterno ritorno; quanto piuttosto nella stessa pensabilità di una tale dimostrazione dal punto di vista delle altre tesi di Nietzsche. Avrebbe senso, infatti, sulla base della «fabulizzazione» del mondo vero operata negli scritti del secondo periodo, e anche sulla base del «prospettivismo» che percorre gli scritti dell'ultimo periodo, pensare che Nietzsche possa dare una base «descrittiva» alla propria filosofia? Una delle tesi caratteristiche dell'ultimo Nietzsche, legata all'idea di eterno ritorno, è che «non ci sono fatti, bensì solo interpretazioni» (7 [60], VIII, 1, 299); ma dunque non è un «fatto» nemmeno la struttura circolare del divenire cosmico. Nietzsche, che pure ritorna molto spesso agli argomenti «cosmologici» per dimostrare l'eterno ritorno, è probabilmente consapevole di tutte queste difficoltà; e infatti, in un appunto dell'epoca della Gaia scienza, considera seriamente la possibilità che l'idea del ritorno sia solo una probabilità o una possibilità; ma anche come tale, questo pensiero avrebbe la capacità di trasformarci, così come ha fatto per tanti secoli la pura e semplice possibilità della dannazione eterna (cfr. il frammento inedito 11 [317], in V, 2, pp. 382-83). Possiamo in generale ritenere che l'abbondanza di appunti sul senso cosmologico del ritomo non provi che Nietzsche considerava questa la parte forte e decisiva della dottrina; o meglio, ne sentiva, in maniera che non chiarì mai definitivamente (e di qui la continua ripresa degli argomenti), il nesso con il significato etico di essa; significato che rimane quello più importante anche per lui. E questo significato etico che domina, per esempio, nei grandi discorsi di Zarathustra che hanno per oggetto la dottrina del ritorno, anzitutto quello (della terza parte) su «La visione e l'enigma». Non è possibile darne qui un commento puntuale19, data la lunghezza e complessità, che ne fanno una delle pagine capitali di tutta l'opera. Zarathustra narra qui di una passeggiata su un impervio sentiero di montagna, in cui lo segue «lo spirito di gravità», «metà talpa; metà nano; storpio», il suo «demonio e nemico capitale», il quale gli canta una sorta di ritornello che contiene una versione «da nani» dell'eterno ritorno:

«O Zarathustra, sussurrava beffardamente sillabando le parole, tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve - cadere!». [A un certo punto, si trovano di fronte a una porta carraia.] «Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.

Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti - è un'altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi due sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: 'attimo'. Ma, chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?!».

«Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo». «Tu, spirito di gravità!, dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera!».

Poco dopo, Zarathustra ode un grido, e come in sogno si trova trasportato in un paesaggio diverso:

D'un tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna.

Ma qui giaceva un uomol [...] Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca [...].

La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi!

Mordi!» [...].

Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -: e balzò in piedi. -

Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva. Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come

lui rise! (Z, «La visione e l'enigma», 189-94).

Molti dei significati di questo discorso rimangono enigmatici (e Zarathustra stesso li presenta come tali). Ma è almeno chiaro che qui la versione «cosmologica» del ritorno, la pura e semplice «constatazione» del fatto che «tutte le cose diritte mentono» e «ricurvo è il sentiero dell'eternità», sebbene non sia respinta come falsa, è tuttavia un modo troppo superficiale di vedere la cosa. La visione del pastore che deve mordere la testa al serpente (un simbolo della circolarità e dell'anello eterno) lega misteriosamente l'idea del ritorno a una decisione che deve essere presa dall'uomo, e in base alla quale, soltanto, l'uomo si trasforma. Nella stessa parte terza dello Zarathustra, il discorso su «Il convalescente» conferma questo nesso tra eterno ritorno e decisione: qui la versione «leggera» dell'eterno ritorno è esposta dagli animali di Zarathustra, l'aquila e il serpente.

«O Zarathustra [...] le cose stesse tutte danzano per coloro che pensano come noi: esse vengono e si porgono la mano e ridono e fuggono - e tornano indietro. Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell'essere [...].

 

- e come la bestiaccia mi è strisciata dentro le fauci per strozzarmi! Ma io ne ho morso il capo e l'ho sputato lontano da me. E voi,- voi ne avete già ricavato una canzone da organetto?» (Z, «Il convalescente», 263-70).

Anche in questo discorso molti dei significati rimangono enigmatici (e, sia detto una volta per tutte: enigmatici a Nietzsche stesso, giacché la forma «profetica» dello Zarathustra non è solo una scelta stilistica, un artificio retorico, ma ha da fare con la, almeno relativa, «impensabilità» dei suoi contenuti). Ma la contrapposizione di base è chiara: ciò che manca alla «canzone da organetto» degli animali, come allo spirito di gravità dell'altro discorso, è qualcosa che ha da fare con la decisione; e qui in modo molto più chiaro e preciso che nella «Visione e l'enigma», giacché Zarathustra identifica esplicitamente se stesso, nel suo rapporto con l'idea del ritorno, con il pastore che dovette mordere la testa del serpente.

3. La redenzione dal tempo.

A Nietzsche interessa, si è visto, presentare l'idea del ritorno sia come tesi etica sia come tesi cosmologica; e questo, anzi, sembra essere il tratto essenziale della dottrina, quello per cui essa gli si presenta come un'idea risolutiva, sconvolgente, carica di destino, che riassume, radicalizza e in qualche modo «concreta», nella loro portata storica, le idee delle opere precedenti, la genealogia, il nichilismo, tutta la filosofia del mattino. Non avrebbe evidentemente tutto questo peso se fosse solo una finzione «euristica», un espediente per valutare la esistenza («come dovresti esser felice [...]»). Nell'idea del ritorno, perché possa funzionare come pensiero decisivo della trasformazione dell'uomo, ci deve essere qualcosa di più; ed è quello che Nietzsche insegue con i suoi argomenti «cosmologici». La condizione di felicità in cui l'uomo può volere il ritorno eterno dell'uguale è possibile solo se è tolta la struttura lineare del tempo.

La «redenzione», a cui è dedicato un grande discorso della parte seconda dello Zarathustra, è pensata come la redenzione dallo «spirito di vendetta» che domina l'uomo fino ad ora (der bisherige Mensch), l'uomo della tradizione platonico-cristiana, prigioniero della struttura lineare del tempo. La miseria dell'uomo attuale è qui descritta da Nietzsche con termini che evocano tutta la moderna concezione dell'alienazione umana seguita alla dissoluzione della bella umanità classica; anzitutto, la sesta delle Lettere sull'educazione estetica di Schiller (poi così presente in Hegel e Marx).

Da quando sono in mezzo agli uomini, questo è per me il meno: che io veda: «A costui manca un occhio, a quello un orecchio, a un terzo la gamba, e altri vi sono che hanno perduto la lingua o il naso o la testa».

Io vedo e ho visto ben di peggio e certe cose così ributtanti, che non vorrei parlare di ciascuna di esse e di talune neppure tacere: uomini cioè a cui manca tutto, se non che hanno una sola cosa di troppo - uomini che non sono nient'altro se non un grande occhio o una grande bocca o un gran ventre o qualcos'altro di grande - costoro, io li chiamo storpi alla rovescia [...].

In verità, amici, io mi aggiro in mezzo agli uomini, come in mezzo a frammenti e membra di uomini! [...].

E se il mio occhio rifugge dall'oggi verso il passato: sempre esso trova la stessa cosa: frammenti e membra e orride casualità - ma mai un uomo!

L'uomo frammentato è l'uomo del passato: ma lo è anche in un altro e più sottile senso: perché è l'uomo che si infrange sotto il peso del macigno del passato e del suo «così fu», contro cui la volontà non può nulla, e si vendica infliggendo a sé e agli altri ogni genere di sofferenze, quelle che costituiscono la crudeltà della morale, della religione, dell'ascesi.

Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; «ciò che fu» - così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere [...].

Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l'avversione della volontà contro il tempo e il suo «così fu». [...] Lo spirito di vendetta: amici, su nient'altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto; e dov'era sofferenza, sempre doveva essere una punizione. [...]

Ed ecco che sullo spirito si accumulò nube su nube: e alla fine la demenza si mise a predicare: «tutto perisce, perciò tutto è degno di perire!». [...]

Ogni «così fu» è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea non dica anche: «ma così volli che fosse!».

Finché la volontà che crea non dica: «ma io così voglio! Così vorrò!» [...].

Bisogna che la volontà - in quanto volontà di potenza - voglia qualcosa al di sopra di ogni conciliazione: ma come può accadere ciò alla volontà? Chi le ha insegnato il volere a ritroso? (Z, «Della redenzione», 168-73).

Redenzione si dà solo come radicale modificazione del modo di vivere il tempo; ma questo non può essere l’amor fati solo nel senso della accettazione delle cose come stanno; il destino, per Nietzsche, non è mai ciò che ci accade, ma sempre una unità di senso voluta e creata (è la «volontà che crea» che può dire «così volli che fosse). L'insistenza negli sforzi di dimostrare l'eterno ritorno come tesi cosmologica ha qui le sue basi: Nietzsche non vuole semplicemente l'accettazione rassegnata delle cose come sono; vuole un mondo in cui sia possibile volere il ritorno eterno dell'uguale. Ma d'altra parte, le premesse critiche elaborate nelle opere del secondo periodo non gli permettono semplicemente di formulare la dottrina del ritorno come descrizione di una, ennesima, pretesa struttura metafisica del mondo (un altro «mondo vero»). Di qui, come si è già visto, la connessione che Nietzsche stabilisce, senza mai venirne in chiaro totalmente, tra mondo dell'eterno ritorno e decisione. Questa connessione è destinata a evitare che il suo pensiero si risolva nel teorizzare una struttura vera del mondo a cui l'uomo non dovrebbe far altro che aderire: la versione «superficiale» dell'eterno ritorno, quella del nano e degli animali di Zarathustra. Ma circolarità del tempo e decisione non si lasciano conciliare, almeno non in modo chiaramente pensabile. Ciò dipenderà solo, come vuole Lowith, dall’impossibilità (storica? storicistica?) di restaurare una metafisica naturalistica di tipo greco al culmine della modernità? A noi pare piuttosto un'impossibilità che, senza escludere anche i termini in cui la vede Lowith, si radica in elementi più interni alla dottrina di Nietzsche. La difficoltà, o impossibilità, di legare eterno ritorno e decisione dipende dal fatto che, in termini molto sommari, l'idea dell'eterno ritorno (non solo la dottrina, ma l'esperienza che l'uomo dell'epoca del nichilismo ne fa) produce sul soggetto una tale azione destrutturante, che diventa letteralmente «impensabile» - inconcepibile, tale da non poter esser «tenuta insieme» nei suoi vari aspetti, e da produrre una sorta di vertigine del pensiero.

4. La volontà di potenza e il destino del soggetto.

E soprattutto questo il significato della nozione di volontà di potenza, che viene in luce se si segue fino in fondo il discorso sulla portata «selettiva» che Nietzsche attribuisce all'idea dell'eterno ritorno, nel suo duplice significato di estremizzazione del nichilismo e di nuova condizione di felicità dell'uomo20.

Su questa portata selettiva dell'eterno ritorno, il testo più organico e illuminante è un appunto dell'estate 1887, intitolato Il nichilismo europeo (5 [71], VIII, 1, 199-206). Si tratta di sedici brevi paragrafi, di cui i primi otto ripercorrono le tappe dell'itinerario compiuto da Nietzsche con gli scritti del secondo periodo: la morale cristiana è servita all'uomo per uscire dal «primo nichilismo», quello sorto dalla consapevolezza del caos e dell'insensatezza del divenire. Della morale cristiana, però, faceva parte anche l'imperativo della veridicità; ma proprio applicandolo fino in fondo l'uomo ha scoperto che la morale stessa è menzogna, una finzione costruita per servire a scopi vitali, ma priva di un fondamento di verità. Tale scoperta è stata possibile perché nel frattempo la vita si era fatta meno incerta e pericolosa, e non occorreva più all'uomo una disciplina così dura come la morale cristiana; Dio stesso ha finito per apparire «un'ipotesi troppo estrema» (§ 3). Poiché però per secoli la morale cristiana è apparsa come l'unica interpretazione del mondo, la sua caduta ha piombato l'uomo europeo in un «secondo nichilismo»: nessun valore sembra più capace di resistere alla diffidenza che proprio la morale ci ha insegnato. II mondo senza fine né scopo, «l'esistenza così com'è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza finale nel nulla: 'l'eterno ritorno'. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la 'mancanza di senso') eterno!» (§ 6). È possibile però un atteggiamento diverso? Un atteggiamento che «dica sì» al processo, a ogni momento di esso, proprio anche in quanto non più «svalutato» da fini trascendenti e sempre di là da venire? Bisogna, per questo, poter considerare «ogni caratteristica fondamentale» di ogni accadimento come una propria caratteristica (§ 8); cioè, sentire il senso degli eventi in perfetta coincidenza col senso della propria vita. Ma questa è la «felicità» di cui parlava il primo annuncio dell'idea del ritorno, nella Gaia scienza (GS 341).

Qui però c'è una svolta (§ 9): la «selettività» del pensiero del ritorno non è più il «come dovresti esser felice...» di quel testo. Ciò che funziona qui da principio selettivo non è più la personale sensazione di felicità, ma il fatto del nichilismo, cioè il venire in luce della menzogna della morale. La morale ha inventato e proposto valori per l'utilità della vita; ma con ciò, pretendendo dì imporre valori fondati sulla «verità», ha nascosto da sempre il senso stesso delle posizioni di valore, cioè il loro esser radicate nella volontà di potenza di singoli e gruppi; e anzi, con la propria stessa esistenza, la morale ha sempre condannato l'esplicita volontà di potenza dei dominatori, dei trasgressori o riformatori della morale. Scoperto che tutto è volontà di potenza, tutti sono costretti a prender posizione: non c'è più, per i deboli e i falliti, la protezione della morale, che ha dato loro la base per disprezzare e condannare ì forti. Esplicitandosi e generalizzandosi la lotta tra opposte volontà di potenza, i deboli e falliti periscono; anzitutto, in quanto, per non lottare, restano attaccati ai loro pregiudizi morali, e li radicalizzano (ad esempio, l'egualitarismo in politica) in modo da renderli più distruttivi e contrari alla vita. Tutto questo, però, non conduce Nietzsche a un'affermazione senza limiti della lotta, e all'esaltazione della forza come capacità di imporsi in questa lotta: gli uomini davvero forti, dice il § 15,

saranno i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all'uomo, con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all'altezza della maggior parte delle disgrazie e che quindi non hanno tanta paura delle disgrazie - gli uomini che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall'uomo (p. 206).

La selettività del pensiero del ritorno pare essere, soprattutto in questo penultimo paragrafo citato, non tanto l'instaurarsi di una situazione dì lotta di tutti contro tutti (che del resto è sempre esistita, e proprio i deboli hanno a lungo vinto con l'imposizione dei pregiudizi morali); ma l'effetto che produce nell'uomo la consapevolezza dell'eterno ritorno, la scoperta esplicita della volontà di potenza che è all'opera nel mondo. Il forte, allora, non è caratterizzato tanto da tratti «interni» al mondo della lotta, ma da una sorta di carattere «ermeneutico», che ricorda molto da vicino la «filosofia del mattino».

Del resto, la vera essenza, se si può dir così, della volontà di potenza è ermeneutica, interpretativa. La lotta delle opposte volontà di potenza, anzitutto, è lotta di interpretazioni, come si vede del resto dal frammento sul nichilismo europeo che abbiamo ora esposto. Ciò corrisponde al divenire favola del mondo vero: non c'è altro che il mondo apparente, e questo è prodotto delle interpretazioni che ciascun centro di forza elabora.

Ogni centro di forza ha per tutto il resto la sua prospettiva, cioè la sua affatto determinata scala di valori, il suo tipo di azione, il suo tipo di resistenza. Il «mondo apparente» Si riduce pertanto a un modo specifico di agire sul mondo, che muove da un centro. Ma non c'è nessun'altra azione, e il «mondo» è solo una parola per il gioco complessivo di queste azioni (14 [184], VIII, 3,160).

Ma anche in un secondo senso la volontà di potenza è ermeneutica: essa stessa, in quanto modo di vedere il mondo come gioco di apparenza e prospettive in lotta, è una teoria fra altre, è una interpretazione e nien-t'altro. Nietzsche lo ammette esplicitamente nella conclusione di un aforisma di Al di là del bene e del male: «posto poi che anche questa fosse soltanto un'interpretazione [...] ebbene, tanto meglio» (JGB 22, 28). La radicalizzazione dell'essenza ermeneutica della volontà di potenza non si ferma qui:

Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: «ci sono soltanto fatti» - direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto «in sé»; è forse un'assurdità volere qualcosa del genere. «Tutto è soggettivo», dite voi; ma già questa è un'interpretazione, il «soggetto» non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l'immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. E infine necessario mettere ancora l'interprete dietro l'interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi (7 [60], VIII, 1,299).

Anche il soggetto che interpreta, dunque, è preso nel gioco dell'interpretazione, esso stesso solo una «posizione» prospettica di una volontà di potenza. Come si vede, incontriamo qui i limiti in cui eterno ritorno e volontà di potenza si mostrano come principi piuttosto dissolutivi che costruttivi. La loro portata selettiva sembra inscindibilmente legata al loro significato dissolutivo; anche se, proprio in questi termini, resta una portata selettiva, «funziona», in qualche modo, come principio di scelta.

Si prenda ad esempio l'idea che il mondo non è altro che gioco delle interpretazioni che partono da «centri di forza» - i quali a loro volta, come il soggetto, non sono punti ultimi, ma configurazioni interpretative di «durata relativa» (cfr. 11 [73], VIII, 2,247). Dovremo intendere che tutte le interpretazioni si equivalgono, giacché non c'è nessun criterio di verità che possa essere invocato per preferire l'una o l'altra? Anche se ammette che la dottrina della volontà di potenza, l'eterno ritorno ecc. sono solo, anch'esse, interpretazioni, Nietzsche non pensa affatto che siano semplicemente equivalenti a qualunque altra interpretazione, per esempio che l'interpretazione «volontà di potenza» equivalga all'interpretazione «morale cristiana». Il prospettivismo - un'altra parola che Nietzsche usa per indicare la propria dottrina dell'ultimo periodo - non significa affatto che la teoria stessa che afferma la pluralità delle prospettive non debba e possa scegliere fra di esse; o almeno, diciamolo, fra se stessa e le molteplici altre.

I criteri che Nietzsche indica più costantemente per operare una tale scelta sono di tipo «fisiologico»: forza-debolezza, salute-malattia; e anche, sempre legati a questi, creatività-risentimento, attività-reattività21. Il rifiuto della metafisica non può infatti, a rigore, essere ispirato a Nietzsche dalla constatazione degli errori su cui essa è basata; giacché l'errore come tale è necessario alla vita, e non c'è nessuna «verità» a cui si possa appellarsi per venirne fuori, e che «valga» più dell'errore. Quando, per il modificarsi delle condizioni di esistenza e insieme per la logica interna della morale, la menzogna della morale-metafisica si svela come tale e Dio «muore», allora il non prender atto di ciò, più che il rifiuto di aderire a una verità di fatto, è un segno di degenerazione fisiologica, una manifestazione di scarsa salute. Forza e debolezza, salute e malattia sono gli unici criteri che restano a Nietzsche alla fine del suo itinerario di smascheramento della metafisica. Così, il suo odio per la morale, per il cristianesimo e per il socialismo (che, come ideologia egualitaria, è solo un'estrema derivazione del cristianesimo) è tutto motivato da una preferenza «fisiologica» per la salute e la forza. La morale è una volontà di potenza che si caratterizza come vendetta: non è la proposta di un valore alternativo rispetto ad altri, secondo Nietzsche; ma piuttosto la nichilistica negazione di ogni valore al mondo, e la conseguente volontà di abbassarlo ancora di più, disprezzandolo e umiliandolo (come si disprezza e si umilia, nella morale cristiana, la «carne»). «Che cosa è propriamente la morale? L'istinto della decadenza, sono gli esauriti e i diseredati che in tal modo si vendicano» (14 [135], VIII, 3, 109). Di contro allo spirito vendicativo dei deboli, che vedono l'insensatezza del divenire e si rivoltano contro di essa disprezzando e abbassando il mondo, la forza e la salute sono invece proprio caratterizzate come capacità di vivere attivamente l'esperienza del nichilismo. «Stimo la potenza di una volontà da quanta resistenza, sofferenza, tortura tale volontà sopporta e sa trasformare in proprio vantaggio; in base a questo criterio dev'essere ben lungi da me il rimproverare alla esistenza il suo carattere malvagio e doloroso» (10 [118], VIII, 2,168). La resistenza e la capacità di trasformare la sofferenza in proprio vantaggio non sono però meccanismi di una volontà che intenda conservarsi, altrimenti il carattere malvagio dell'esistenza dovrebbe esserle comunque rimproverato, anche se riconosciuto e combattuto in una lotta attiva; ma Nietzsche, nello stesso appunto citato da ultimo, scrive, subito di seguito; «anzi io mi attacco alla speranza che essa [l'esistenza] diventi un giorno più malvagia e dolorosa di quanto sia stata finora». Resistenza e capacità di sofferenza non sono solo forze al servizio dell'istinto di conservazione, perché questo supporrebbe unità ultime che vogliono conservarsi. Ma «non ci sono unità durevoli ultime, non atomi, non monadi: anche qui 'l'essere' è stato introdotto solo da noi (per ragioni pratiche, di utilità, prospettiche)... Non c'è una volontà: ci sono puntuazioni di volontà, che accrescono o diminuiscono costantemente la loro potenza» (11 [73], VIII, 2,247-48).

Forza e debolezza, salute e malattia non si possono dunque definire in relazione allo stato «normale» di un qualche ente, per esempio l'uomo in generale, o anche solo il singolo uomo; giacché questi sarebbero pensati appunto come entità ultime. Il quinto libro della Gaia scienza, nel penultimo aforisma, definisce invece la salute in termini di spirito d'avventura. La salute appartiene a chi «ha sete nell'anima di percorrere con la sua vita tutto l'orizzonte dei valori e di quanto fu desiderato fino ad oggi, che ha sete di circumnavigare tutte le coste di questo ideale 'Mediterraneo'» (GS 382, 262). E, in un appunto del 1884: «La suprema misura di vigore è data da quanto uno può continuare a vivere sulla base di ipotesi, lanciandosi per così dire su di un mare infinito, invece che sulla base di 'una fede'. Tutti gli spiriti inferiori periscono» (25 L515], VII, 2, 132). Da questo punto di vista, il «tanto meglio» che conclude l'aforisma 22 di Al di là del bene e del male (sopra citato), nel quale Nietzsche considera l'ipotesi che anche la dottrina del mondo come volontà di potenza sia «solo» un'ipotesi, va preso molto alla lettera. È ciò che si dà esplicitamente come interpretazione che può aspirare a valere come prospettiva «sana», e non certo le interpretazioni camuffate da enunciati metafisici sulla struttura eterna delle cose^Tutto ciò può esser letto, senza forzature, al di fuori da schemi di pura retorica vitalistica (o almeno, nel quadro di un «vitalismo» più critico e vigile): per esempio, vedendovi una posizione di «anarchismo metodologico» ante litteram22, che potrebbe citare, a proprio sostegno, un testo molto esplicito della Genealogia della morale (III, 12,323): contro il mito di una scienza obiettiva, fatta da un puro occhio senza collocazione storica nel mondo, si deve affermare che «esiste soltanto un 'conoscere' prospettico; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro 'concetto' di essa, la nostra 'obiettività'».

Ecco dunque come la selettività dell'idea del ritorno, o della volontà di potenza, funziona: la forza e la salute sono solo definibili in termini di capacità di avventura, di molteplicità di punti di vista - dunque in termini che abbiamo chiamato «dissolutivi»; non certo come qualità capaci di caratterizzare una singola prospettiva fra le altre e in opposizione alle altre. Analogo significato dissolutivo hanno anche le applicazioni «politiche», in senso specifico, che Nietzsche intese fare della dottrina della volontà di potenza. Sebbene sia arrischiato, e in definitiva, probabilmente, impossibile ridurre a unità tutti gli appunti dedicati da Nietzsche a questo problema, il loro significato, molto al di là della loro retorica «sociobiologistica» (quella su cui fecero leva gli interpreti nazisti), sembra potersi riassumere in una espressione della Gaia scienza (GS 356, 226) secondo cui noi, uomini dell'epoca del nichilismo, «non siamo più materiale per una società». La «scoperta» da parte di tutti della volontà di potenza, descritta dal frammento sul nichilismo europeo, non può dar luogo ad alcuna rifondazione della politica, ma solo alla dissoluzione della politica stessa. Come si potrebbe infatti fondare una politica sull'idea di volontà di potenza? Forse favorendo «per legge» la vittoria dei forti sui deboli? Ma i forti, una volta definiti tali per legge (per esempio: in quanto ariani), rientrerebbero nella più bieca logica dello spirito di vendetta, della morale del risentimento: una sorta di egualitarismo cristiano semplicemente rovesciato, ma fondato in modo altrettanto «morale». Per non far torto a Nietzsche, dobbiamo invece probabilmente riconoscere - come ha fatto qualche interprete recente - che anche in politica la volontà di potenza funziona come principio selettivo solo nella misura in cui dissolve la stessa dimensione del politico, mediante la sua generalizzazione (che si può vedere realizzata proprio nella democrazia moderna)23.

Il nesso tra portata selettiva e significato dissolutivo dell'eterno ritorno si riflette anche in un altro dei temi centrali del tardo pensiero di Nietzsche, quello dello Uebermensch, l'oltreuomo. La figura dell'oltreuomo oscilla costantemente tra quella di una «bella individualità» di tipo, sia pur remotamente, umanistico (i «forti» del § 15 dell'appunto sul nichilismo europeo) e quella dell'avventuriero che va oltre ogni equilibrio e ogni possibile costruttività, spinto da un impulso sperimentale che si rivolge anche contro lui stesso. Un oltreuomo «luminoso» è soprattutto quello dei discorsi di Zarathustra (l'uomo della «virtù che dona», che redime il divenire, che vive il meriggio come l'ora della perfetta rotondità e compiutezza del mondo, ecc.). A questa immagine se ne accompagna - anche senza contrapporvisi sempre nettamente - un'altra: quella dove, potremmo dire, il prefisso iiber, l'oltre che distingue l'uomo nuovo, è connesso alla hybris, alla tracotanza e violenza di chi è al di là del bene e del male.

Se lo si commisura al metro degli antichi Greci - scrive la Genealogia della morale - tutto il nostro essere moderno, in quanto non è fiacchezza, bensì potenza e coscienza di potenza, ha l'aspetto di mera hybris e miscredenza [...]. Hybris è oggi tutta la nostra posizione rispetto alla natura, la nostra violentazione della natura con l'aiuto delle macchine e della tanto spensierata inventiva dei tecnici e degli ingegneri [...]. Hybris è la nostra posizione di fronte a noi stessi, giacché eseguiamo esperimenti su di noi, quali non ci permetteremmo su nessun animale, e soddisfatti e curiosi disserriamo l'anima tagliando nella viva carne: che cosa ci importa ancora la «salute dell'anima!» (GM III, 9, 316).

Ma esperimento su se stessi, esperimento estremo, è anche, alla fine, l'ipotesi, l'idea, la «scoperta», dell'eterno ritorno, con tutta la sua portata dissolutiva. Anche l'io è un Hinzu-Erdichtetes, qualcosa di «aggiunto con l'immaginazione» (cfr. 7 [60|, VIII, 1, 299 cit.). I predicati di unità e di «ultimità» dell'io, che la tradizione filosofica ci ha trasmesso come ultimo baluardo delle certezza (dal cogito cartesiano alla ragione kantiana) sono tutti messi in questione. La coscienza di sé, su cui si fondano le nostre concezioni dell'io, non è affatto un carattere essenziale, primo o basilare, dell'uomo; egli avrebbe potuto vivere benissimo, allo stato «naturale», senza consapevolezza centrale di sé; l'ha sviluppata solo divenendo un essere sociale, sotto la pressione del bisogno di comunicazione (doveva rendersi conto di sé per poter render conto agli altri), soprattutto nel rapporto «tra chi comanda e chi ubbidisce» (GS 354,220-21 ). Non solo la coscienza è una funzione dei rapporti sociali; l'io stesso è solo un effetto di superficie, come dice Zarathustra nel discorso «Dei dispregiatori del corpo», che è uno dei primi della prima parte. «'Io', dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere, - il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice 'io', ma fa 'io'» (ZI, «Dei dispregiatori del corpo», 34). Ancora una volta, Nietzsche non vuole affatto operare una «riduzione», della coscienza al corpo, giacché piuttosto il fenomeno del corpo serve solo da «filo conduttore» per rendersi conto della molteplicità dell'io, contro la riduzione che da sempre ha operato la morale-metafisica teorizzando l'egemonia della coscienza (cfr. 2 [91 ], VIII, 1,94). Un io, però, che si renda conto di essere effetto di superficie, e che faccia risiedere la propria salute proprio in questa consapevolezza, non potrà certo essere un io intensificato e potenziato, come è spesso stato pensato l'oltreuomo; anzi, è problematico se possa ancora dirsi, in qualche senso, un soggetto.

5. La volontà di potenza come arte.

Forse l'unico concetto che può aiutare a pensare la figura dell'oltre-uomo nietzscheano, con tutte le difficoltà e contraddizioni che lo caratterizzano (soprattutto quella tra eterno ritorno e decisione, tra costruzione e dissoluzione, ecc.) è il concetto di arte quale Nietzsche lo sviluppa negli scritti dell'ultimo periodo, soprattutto negli appunti inediti. Le basi sono già nella Gaia scienza (il cui quinto libro, però, appartiene a pieno titolo all'ultimo periodo della sua produzione). In questi scritti, come già si è detto, Nietzsche riprende taluni aspetti della sua metafisica giovanile, segnatamente i temi della Nascita della tragedia: tra gli altri, ad esempio, l'idea che l'arte debba servire da «giustificazione estetica dell'esistenza» (come dice la prefazione del 1886 alla riedizione di quello scritto), perché ci protegge dalla verità. Ma qui non si tratta più di un mondo di belle apparenze che ci distraggono dalla vista del caos e dell'irrazionalità dell'uno primordiale. «La verità è brutta: abbiamo l'arte per non perire a causa della verità». Ma ciò solo perché la volontà di verità è un sintomo di degenerazione (16 [40], VIII 3, 289). L'arte non nasconde con le sue forme una qualche «verità» obiettiva delle cose; essa, invece, come attività di creazione di menzogna si contrappone alla passività, reattività, spirito di vendetta che caratterizza la ricerca della verità. «No, non si tiri in ballo la scienza, quando cerco il naturale antagonista dell'ideale ascetico [...].

L'arte, in cui la menzogna si santifica e la volontà d'illusione ha dalla sua la tranquilla coscienza, è in maniera molto più radicale della scienza contrapposta all'ideale ascetico [...]» (GdM III, 25, 357-58). Tutte le attività spirituali dell'uomo sono menzogna, naturalmente, e non solo l'arte. In questo senso, anzitutto, l'arte è il modello stesso della volontà di potenza24, e il titolo che lungamente, nei piani per lo Haup-werk poi abbandonati, Nietzsche pensava di dare a una sezione di quest'opera, «La volontà di potenza come arte», sembra significare ben più che un aspetto o un'applicazione marginale della dottrina. Una volta che si pensi il mondo come volontà di potenza, scrive Nietzsche, non si ha più la consolante differenza tra un mondo vero e uno apparente:

C'è un solo mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso [...]. Un mondo così fatto è il vero mondo [...]. Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa «verità», cioè per vivere [...]. La metafisica, la morale, la religione, la scienza - [...] vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita. «La vita deve ispirare fiducia»: il compito, così posto, è immenso. Per assolverlo, l'uomo dev'essere per natura un mentitore, dev'essere prima di ogni altra cosa un artista [...]. Metafisica, morale, religione, scienza, sono nient'altro che creature della sua volontà d'arte [...] (11 [415], VIII, 2, 396-97).

C'è tuttavia una differenza sostanziale tra l'arte propriamente detta, e le «creature» della volontà d'arte che costituiscono il mondo delle altre forme spirituali. Solo l'arte, almeno esplicitamente e in maniera tematizzata, non ricade totalmente, come invece succede per religione, metafisica, morale, anche scienza, nel mondo della malattia, della debolezza, dello spirito di vendetta che si manifesta nell'asce-si. Di questo si può già vedere un principio di spiegazione nel testo della Genealogia della morale citato poco sopra, dove è detto che nell'arte la menzogna si santifica e la volontà d'illusione «ha dalla sua la tranquilla coscienza»; del resto, il mentire e la volontà di mascherarsi senza cattiva coscienza sono già i caratteri positivi dell'arte nella

Gaia scienza. Così si può capire come l'arte, negli appunti tardi, sia un modello della volontà di potenza non solo in senso, per dir così, descrittivo, ma anche in senso normativo. Se si dà una volontà di potenza non prigioniera dell'ideale ascetico, dello spirito di vendetta - una volontà di potenza sana e non malata - essa può attuarsi solo nel mondo dell'arte; le altre forme spirituali della tradizione morale-metafisica sono tutte rinchiuse dentro l'ambito del nichilismo reattivo e della malattia. Anche l'oltreuomo, dunque, può darsi solo, almeno a questo punto dello sviluppo della nostra cultura, come artista; questi è la forma per ora più visibile dell'ultraumanità, ed è come «un gradino preliminare» nell'attuarsi del mondo come volontà di potenza, come «opera d'arte che si fa da sé» (cfr. 2 [130] e fi 141, VIII, 1, 116 e 106). Possiamo dunque cercare nell'arte un modello normativo della volontà di potenza, e nell'artista una prima visibile figura dell'oltreuomo perché l'arte può, anche se non deve necessariamente, darsi in forma non malata. «L'arte è una conseguenza dell' insoddisfazione per il reale! O un'espressione di riconoscenza per la felicità goduta! Nel primo caso romanticismo, nel secondo aureola e ditirambo (insomma arte d'apoteosi)» (2 [114], VIII, 1, 106). L'artista romantico crea la sua opera solo per scontentezza, dunque per spirito di risentimento e di vendetta (cfr. 2 [ 112], ivi, 105). Tutti i caratteri negativi che Nietzsche ritrova e condanna nell'arte del suo tempo, soprattutto il sentimentalismo esagerato, l'istrionismo e la fantasmagoria di eccitazioni della musica wagneriana, unita al suo spirito sostanzialmente cristiano (il Parsifal.) si riportano a questa distinzione di base, tra sovrabbondanza e scontentezza, povertà, risentimento.

E' questione di forza (di un individuo o di un popolo) SE E DOVE si pronunci il giudizio «bello». Il senso di pienezza, dì forza accumulata (per cui è permesso accogliere coraggiosamente e di buon animo molte cose di fronte a cui il debole è preso da brividi) - il senso di potenza pronuncia il giudizio «bello» anche su cose e stati che l'istinto dell'impotenza può trovare solo odiose, «brutte» (10 [168], VIII, 2, 197).

Ecco le basi di quella che Nietzsche ha concepito come una vera e propria estetica «fisiologica», e che, più ancora che come teoria dell'arte, è importante come luogo di elaborazione di una immagine dell'esistenza nel mondo pensato come volontà di potenza, cioè come privo di fondamenti, strutture stabili, essenze, garanzie di qualunque genere. Occorre ricordare costantemente che l'appello alla forza, alla salute, ecc., risponde in Nietzsche solo all'esigenza di trovare criteri di valutazione capaci di distinguere il valore delle interpretazioni (che sole costituiscono il mondo) senza fare riferimento a strutture essenziali, a elementi ultimi di tipo necessariamente metafisico. Seguendo in ciò anche una tendenza abbastanza comune (tanto comune da non essere, evidentemente, casuale) del pensiero moderno, anche Nietzsche, per motivazioni del tutto peculiari peraltro (ma anche qui, quanto davvero soltanto proprie del suo sistema?), considera l'arte come un luogo privilegiato, una sede del definirsi di una alternativa «positiva» (sana, forte, ecc.) di esistenza per l'uomo.

Il fatto che nel suo pensiero questa alternativa si definisca in riferimento all'arte, che la volontà di potenza e l'oltreuomo trovino il loro modello nell'arte, almeno nella sua versione «sana», non infetta dal nichilismo, fornisce qualche indicazione in più e qualche elemento importante per la delineazione della figura dell'oltreuomo. Qual è infatti l'arte che realizza la possibilità non reattiva e nichilistica della volontà di potenza? Di nuovo, il punto di partenza è la fisiologia, ma il discorso passa poi immediatamente a un piano diverso, che implica, come carattere essenziale della forza e della salute, non la corrispondenza a qualche modello «normale», ma semplicemente la capacità di vivere in un mondo in cui non si danno modelli normali, né per le cose né per il soggetto. L'appunto dell'autunno 1887 di cui si è già ricordato l'inizio, scrive:

In complesso, la predilezione per le cose problematiche e terribili è un sintomo di forza, mentre il gusto del grazioso e dell’elegante appartiene ai deboli e ai delicati. Il gusto per la tragedia contraddistingue i tempi e i caratteri forti [...]. Ammesso invece che i deboli cerchino godimento in un'arte che non è fatta per loro, cosa faranno per render gradita la tragedia al loro palato? La interpreteranno secondo i loro stessi sentimenti di valore, introducendovi per esempio il «trionfo dell'ordine morale del mondo» o la teoria del «non valore dell'esistenza» o l'incitamento alla rassegnazione [...]. È segno di benessere e di potenza la misura in cui uno può riconoscere alle cose il loro carattere terribile e problematico; bisogna vedere per contro se uno abbia in genere bisogno di «soluzioni» finali (10 [1681, VIII, 2, 197-98).

Come si vede, qui il discorso riguarda specificamente la tragedia, ma implica una teoria generale dell' arte e del suo significato: il termine tragedia, del resto, nell'ultimo Nietzsche tende ad assumere un significato generale che va molto ad di là del senso teatrale, e anche artistico, della parola («Incipit tragoedia» è il titolo dell'ultimo aforisma della Gaia scienza, prima edizione, che annunciava Zarathustra). Qui, esso diventa sinonimo di ogni arte sana perché il gusto del tragico è possibile solo a chi non abbia bisogno di soluzioni finali; dunque a chi sappia vivere nell'orizzonte aperto del mondo come Wille zur Macht ed eterno ritorno. Sebbene, in tal modo, la forza si definisca nuovamente in termini non principalmente, tanto meno esclusivamente, fisiologici e biologici, è anche importante rilevare, non solo per l'estetica ma per tutta l'immagine dell'oltreuomo, che Nietzsche pensa anche alla forza in termini letterali; il «filo conduttore del corpo» cessa di avere un significato solo metodico, e diventa un elemento centrale, come tale, nel rovesciamento dell'ascetismo e della morale-metafisica platonico-cristiana. Non però, sembra da sottolineare, per una scelta «materialistica» (i valori del corpo «più veri» di quelli dello spirito), ma solo perché la negazione e il disprezzo del corpo sono sempre stati, almeno nella nostra tradizione, sintomi di una cultura del risentimento, del bisogno di soluzioni finali. Il riferimento al corpo è un'altra delle ragioni per cui è l'arte l'unica forma spirituale capace di realizzare la possibilità positiva della volontà di potenza: morale, metafisica, religione, anche la scienza (almeno in quanto ha ridotto il corpo alla massa misurabile), hanno sempre espresso nella presa di distanza ascetica dal corpo il loro spirito nichilistico e reattivo. Nel definire l'arte un «contromovimento» rispetto all'ascetismo e al nichilismo, Nietzsche ne enfatizza gli elementi tonificanti:

Il senso dell'ebbrezza, corrispondente in realtà a un di più di forza; nel modo più forte nel periodo di accoppiamento dei sessi; nuovi organi, nuove abilità, colori,forme [...] l'«abbellimento» è conseguenza della forza accresciuta. Abbellimento come conseguenza necessaria dell'aumento di forza. Abbellimento come espressione di una volontà vittoriosa, di un coordinamento intensificato, di un'armonizzazione di tutti i desideri forti [...]. La semplificazione logica e geometrica è conseguenza dell'aumento di forza; inversamente, la percezione di tale semplificazione accresce a sua volta il senso di forza. Vertice dell'evoluzione: il grande stile [...]. Lo stato di piacere che si chiama ebbrezza è esattamente un alto senso di potenza [...]. Le sensazioni di spazio e tempo cambiano: immense distanze vengono abbracciate e quasi percepite per la prima volta; l'estensione dello sguardo su maggiori moltitudini e vastità; il raffinamento dell'organo per la percezione di molte cose piccolissime e fuggevolissime; la divinazione, la forza di capire per il più lieve suggerimento, per ogni suggestione; la sensualità «intelligente» [...] la fortezza come senso d'imperio nei muscoli, come agilità e piacere nel movimento, come danza, come leggerezza e presto [...}. Gli artisti, se servono a qualcosa, hanno forti inclinazioni (anche fisicamente), esuberanza, energia animale, sensualità; senza una certa sovreccitazione del sistema sessuale un Raffaello non è pensabile [...] (14 [117), VIII, 3, 83-84).

Tutto il contrario dell'arte come catarsi, quale che sia l'interpretazione che si dà della dottrina aristotelica: l'arte non ha come scopo né di quietare le passioni attraverso uno sfogo momentaneo, né di placarle mediante una spiegazione della superiore razionalità delle vicende umane. Ciò sarebbe possibile solo se essa si muovesse nella luce di «soluzioni finali»; ma al di fuori dell'orizzonte dell'ascesi nichilistica, non c'è che eccitamento, manifestazione di forza, sensazione di potenza. Due elementi, oltre al riferimento al corpo e alla sensualità, sembrano rilevanti nel testo riportato: l'acutizzarsi della sensibilità che è conseguenza dell'eccitamento vitale (dunque: intensificata capacità di percezione, estensione dello sguardo a più ampi orizzonti, raffinamento degli organi che diventano capaci di cogliere il piccolissimo e il fuggevole) e l'idea del bello nel suo senso tradizionale, quasi classico, come risultato di questo stato di eccitazione (abbellimento come manifestazione della forza, della volontà vittoriosa; con connessa semplificazione delle forme). Del primo tratto fa parte anche «una sovrabbondanza di mezzi di comunicazione, insieme con un'estrema ricettività agli stimoli e ai segni. È il culmine della comunicatività e della traducibilità fra esseri viventi -è la fonte dei linguaggi [...]» (14 [119], ibid., 86). Il secondo elemento spiega come mai Nietzsche, pur pensando la volontà di potenza e l'oltreuomo in termini, ci è parso, prevalentemente dissolutivi, possa essere un partigiano del «grande stile»25. E, se si vuole, una tarda eco della dottrina della tragedia, in cui le belle forme apollinee erano radicate e avevano il loro senso nel caos vitale dionisiaco. E come nello scritto sulla tragedia, anche nell'estetica fisiologica del tardo Nietzsche sembra che, alla fine, «Apollo parli la lingua di Dioniso» - che ci sia, cioè, una conclusiva prevalenza degli elementi dissolutivi, dionisiaci, esasperatamente «sperimentali», che rendono problematica la nozione di «grande stile». Che cosa si deve pensare, infatti, di un frammento come quello della primavera del 1888, che sotto il titolo «Volontà di potenza come arte. 'Musica'e il grande stile» sembra mettere in dubbio che l'unica forma di arte sana, come volontà dì potenza, sia quella che sa «dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma»? Intorno agli artisti che lavorano così si forma come il deserto, la paura del loro sacrilegio. «Tutte le arti conoscono tali ambiziosi del grande stile: perché essi mancano nella musica? Perché un musicista non ha mai costruito finora come l'architetto che creò il palazzo Pitti? I...] C'è qui un problema.

Appartiene la musica forse a quella cultura in cui è già finito il regno di ogni specie di uomo della violenza? Sarebbe alla fine il concetto di grande stile già in contraddizione con l'anima della musica, con la 'donna'nella nostra musica?» (14 [61], VIII, 3,37-38). Sembra qui profilarsi il sospetto, in Nietzsche, che l'idea dell'opera d'arte come grande costruzione, come forma compatta che esprime una «vittoria» della volontà (sui materiali, sulla molteplicità, ecc.) possa ancora esser legata all'epoca della violenza - l'epoca del risentimento, dovremmo intendere; oppure la musica è, in contraddizione con altri testi nietzscheani, relegata tra le arti naturalmente decadenti? Senza voler esagerare l'importanza di questo testo, esso conferma almeno una difficoltà effettiva nell'estetica fisiologica di Nietzsche: quella di conciliare pienamente il senso di superamento, e dunque anche di dissoluzione, che ha la volontà di potenza, con la volontà di forma. Non sarà in contrasto con la forza costruttiva e la compattezza della forma anche il carattere «miope» dei giudizi di bellezza, che è descritto in un altro appunto dell'epoca (10 [1671, VIII, 2, 196)? Dire di qualcosa che è bello significa valutarlo positivamente rispetto alle nostre esigenze di conservazione e accrescimento; ma si tratta di una valutazione che guarda solo agli effetti più vicini, e in ciò ha contro l'intelletto. Anche questa miopia, però, sembra poco conciliabile con un'idea del bello come opera del grande stile. La gaia scienza, in un aforisma già citato (GS 120), si domandava, in conclusione di una pagina sulla «salute», «se l'esclusiva volontà di salute non sia un pregiudizio, una viltà e forse un residuo della più squisita barbarie e arretratezza». Ebbene, nell'estetica fisiologica degli ultimi scritti di Nietzsche questo sospetto investe in fondo anche la nozione di forma e di grande stile; la volontà forte si manifesta bensì nell'abbellimento, nella semplificazione, nella compattezza della forma; ma oltre questo c'è qualcosa d'altro, la possibilità che un'arte non più legata all'epoca della violenza, e al pregiudizio dell'esclusiva volontà di salute, realizzi meglio il programma dell'oltrepassamento dell'umano che Nietzsche persegue. (Si può legittimamente vedere, anche e soprattutto in questa opposizione non conciliata, un carattere profetico dell'estetica nietzscheana rispetto alla storia delle poetiche novecentesche; dove la volontà sperimentale si è esercitata sia in termini dissolutivi e destrutturanti, sia in poetiche dominate da un ideale rigorosamente costruttivo, tecnicistico, formalistico).

L'uomo è l'animale che ha inventato la «cattiva coscienza», e altre tecniche per tormentarsi. Ora, con questo rivolgersi di una specie animale contro di sé, contrario a ogni principio e istinto di conservazione, non è solo nata una nuova crudeltà, ma anche una possibilità di trasformazione del tutto inedita. «D'altro canto, col fatto di un'anima animale rivolta contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d'avvenire, che l'aspetto della terra ne fu sostanzialmente trasformato» (GdM II, 16, 285). L'ascesi, come tutti gli elementi che compongono la visione morale-metafisica del mondo, si rovescia alla fine nel suo opposto: come Dio muore a causa della religiosità e moralità dei suoi fedeli, così l'ascesi che nasce dalla morale del risentimento diventa anche una promessa di avvenire, opera nella direzione della liberazione dell'uomo dalla pura volontà di salute, di sopravvivenza, di sicurezza. Solo perché l'uomo è divenuto, anche attraverso l'ascesi, capace di guardare al di là dei propri interessi di conservazione, solo per questo è possibile qualcosa come la volontà di potenza non reattiva, l'oltreuomo, la «grande salute»; tutte cose che si rispecchiano nella capacità di vivere l'esperienza del tragico. «La profondità dell'artista tragico sta nel fatto che il suo istinto estetico abbraccia le conseguenze più lontane, che non si ferma... a quanto è prossimo, che afferma l'economia in grande, la quale giustifica (e non solo [...] giustifica) il terribile, il male, il problematico» (10 fl68], VIII, 2, 198). Si tratta «solo» di una radicalizzazione del disinteresse del giudizio estetico kantiano nella sua interpretazione schopenhaueriana? È probabile che tutto questo ci sia in queste dottrine di Nietzsche; ma la radicalizzazione consiste nel fatto che la volontà di potenza, cioè «il mondo», è arte e nient'altro che arte; e che il disinteresse radicale dell'animale uomo è l'unico che a Nietzsche appare adeguato a caratterizzare l'esistenza in un mondo dove non ci sono fondamenti ed essenze, e l'essere è riportato a puro accadimento interpretativo.

IL PENSIERO: NOTE

I. DALLA FILOLOGIA ALLA FILOSOFIA

1  AUR. Heidegger, Nietzsche, 2 voll., Pfullingen 1961.

2  Ivi, I, pp. 76 sgg.

3 Si veda su ciò la Storia della critica.

4 Sulle vicende di questo Hauptwerk, progettato da Nietzsche negli ultimi anni e poi mai compiuto (il progetto, anzi, fu esplicitamente abbandonato) si veda la sezione III e la Bibliografia.

5 Lo si veda in trad. italiana nella raccolta antologica W. Dilthey, Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Torino 1954.

6 Ivi, p. 427.

7 Cfr., per una lettura di Nietzsche in chiave ermeneutica, anche se in senso diverso dal nostro, J. Figi, Nietzsche und die philosophische Hermeneutik des 20. Jahrhunderts, in «Nietzsche Studien», voli. 10-11, 1981-82, pp. 408-30. Si veda inoltre la mia relazione su Nietzsche and Contemporary Hermeneutics, presentata al V colloquio filosofico di Gerusalemme (su Nietzsche as Affirmative Thinker; aprile 1983), in corso di stampa negli atti relativi.

8 Queste ultime due sono tradotte in italiano nel vol. III, tomo 2, dell'edizione Colli-Montinari delle opere; la prolusione del 1869 non è ancora uscita in questa edizione; la si veda nella edizione Schlechta (cfr. Bibliografia), voi. Ili, pp. 155 sgg.

9  Cfr. C. P. Janz, Vita di Nietzsche, trad. it. a cura di AUR. Carpitella, voi. I, Roma-Bari 1980, p. 294.

10 Cfr. la lettera a Rohde del 29 marzo 1871: in Epistolario, ed. Colli-Montinari (v. Bibliografia), voi. II, p. 182. Si vedano finche gli appunti di qualche anno più tardi: voi. IV, l,pp. 121 e 134.

11  Cfr. su ciò Janz, Vita di Nietzsche, vol.I.cit., pp. 128-29.

12 Si vedano gli appunti relativi all'epoca della quarta Inattuale, in voi. IV, I ,e in particolare le note per la progettata quinta Considerazione inattuale su «Noi filologi» (ivi, pp. 87 sgg.).

13 Su ciò, mi permetto di rimandare alcap. III del mio Ipotesi su Nietzsche .Torino 1967.

14 Una dettagliata analisi dei rapporti di Nietzsche con la filologia romantica tedesca è data da Ch. Andler, Nietzsche. Sa vie et sa pensée, (1920-31), Paris 1958, vol.I.cap.IV.

15 Si veda, anche su ciò, Andler, Nietzsche, cit., voi. I, cap. IV

16 Si veda ad esempio H. Jeanmaire, Dioniso. Religione e cultura in Grecia (1951), trad. it. di G. Glaeser, con appendice e aggiornamento bibliografico di F. Jesi, Torino 1972.

17 Ricordiamo qui, una volta per tutte, che i corsivi, quando non vi sia indicazione esplicita diversa, sono sempre di Nietzsche.

18 Gli atti della polemica seguita alla pubblicazione della Nascita della tragedia si possono vedere in it. nel volume La polemica sull'arte tragica, a cura e con introd. di F. Serpa. Firenze 1972.

19 Per questo, si veda il mio // soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Milano 19832.

20 Si veda su ciò la nota di G. Colli e AUR. Montinari alla fine del voi. Ili, 1, della loro edizione delle Opere.

21  Cfr., oltre al cit. Janz, Vita di Nietzsche, voi. I, anche il recente studio di AUR. Montinari,Nietzsche contro Wagner: estate1878, in R. Wagner e F.Nietzsche Atti del seminario tenuto al Goethe Institut di Torino il 10-11 marzo 1983, a cura di E. Fubini,Quaderni di «Musica e realtà», n. 4, Unicopli, Milano 1984, pp. 73-85.

22 Emblematiche di questo tipo di pensiero sono le Considerazioni di un impolitico di Th. Mann (1918), trad. it. a cura di AUR. Marianelli, Bari 1967.

23 Per Heidegger, si pensi al § 76 di Essere e tempo (1927), trad. it. di P. Chiodi, Torino 19692, pp. 565-66. In Benjamin, la seconda Inattuale è esplicitamente citata nelle Tesi dì filosofia della storia, trad. it. nella raccolta W. Benjamin, Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino 19762.

24 Cfr. le già citate Tesi di filosofia della storia (tesi VII).

25 Le Riflessioni sulla storia universale di J. Burckhardt furono pubblicate postume a cura del suo allievo, e nipote, JakobOeri (1905; v. la trad. it. a cura di AUR. T. Mandalari, Milano 1966); ma costituirono temi dei corsi universitari di Burckhardt a Basilea fin dal 1868. Nietzsche dunque le conosceva certamente, almeno il questa forma (cfr. su ciò Janz, Vita di Nietzsche, cit., I, p. 360).

II. LA DECOSTRUZIONE DELLA METAFISICA

1  Cfr. AUR. Heidegger, Nietzsche, cit., voi. II, pp. 259-60.

2 Sulla questione della periodizzazione dell'opera di Nietzsche, cfr. più avanti l'inizio della parte terza.

3 Si veda quanto scrive Nietzsche stesso nel «Tentativo di un'autocritica» che è la prefazione alla nuova edizione, 1886, della Nascita della tragedia. Cfr. anche le osservazioni di Colli e Montinari nella nota conclusiva del voi. Ili, 2 delle Opere, nella parte riferita allo scritto Su verità e menzogna, pp. 387-88.

4 Cfr. l'analisi della quarta Inattuale, e tutte le considerazioni sul significato che ebbe per Nietzsche l'esperienza del primo Festival di Bayreuth, in Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. I, pp. 658 sgg.

5 Sull'esigenza, che Nietzsche avverte nel periodo di Basilea, di formarsi una cultura scientifica,cfr. per es. Janz, Vita, cit., voi. 1, pp. 520-21. Cfr. anche K. Schle-chta - A. Anders, Nietzsche, Stuttgart 1962.

6 Cfr. Andler, Nietzsche, ài., voi. 1, pp. 105-75 e W.D. Williams, Nietzsche and the French, Oxford 1952.

7 Il termine «decostruzione» ha assunto un significato specifico nella filosofia e critica letteraria di oggi, soprattutto in riferimento all'opera di Derrida (cfr. AUR. Ferraris, La svolta testuale, Pavia 1984); ma si può legittimamente usare, in un senso più ampio, in riferimento a Nietzsche: non solo perché molto decostruzionismo contemporaneo si ispira a lui; ma anche e soprattutto perché il lavoro che Nietzsche compie nei confronti della tradizione morale-metafisica dell'Occidente, nel suo andamento «genealogico» piuttosto che «critico», implica un'analisi di questa tradizione che la dissolve nei suoi elementi senza distruggerla: il che può proprio considerarsi un senso della decostruzione.

8 Cfr. AUR 44: «Origine e significato. Perché mi ritorna sempre questo pensiero e mi arride in colori sempre più vari? 11 pensiero che una volta i pensatori, quando erano sulla strada diretta all'origine delle cose, credevano di trovar sempre qualcosa di ciò che avrebbe avuto per ogni agire e giudicare un significato inestimabile; che fosse anzi costantemente presupposta una dipendenza della salvezza umana da una piena cognizione dell'origine delle cose: mentre noi oggi al contrario, quanto più perseguiamo l'origine, tanto meno ne siamo partecipi con i nostri interessi; anzi, tutte le valutazioni e gli «interessi» che abbiamo posto nelle cose cominciano a perdere il loro senso, quanto più regrediamo con la nostra conoscenza fino a giungere alle cose stesse. Con la piena cognizione dell'origine aumenta l'insignificanza dell'origine: mentre Ut realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato, cose, queste, di cui l'umanità più antica non sognava neppure. Una volta i pensatori girovagavano rodendosi di rabbia come animali in cattività, sempre intenti a spiare le sbarre della loro gabbia e pronti a balzare contro di esse per infrangerle: e pareva beato colui che credeva di vedere, attraverso un'apertura, qualcosa di quanto stava al di fuori, al di là e nella lontananza».

9 Si ricordi che Nietzsche conosceva l'opera di Feuerbach, del quale aveva letto, già al tempo del ginnasio a Pforta, L'essenza del cristianesimo.

10 Su ciò, è opportuno tener presente interamente il lungo aforisma 18 di Umano, troppo umano I: «Problemi fondamentali della metafìsica. Se un giorno sarà scritta la storia della genesi del pensiero, vi starà anche, illuminata da una nuova luce, la seguente proposizione di un eccellente logico: "La legge generale originaria del soggetto conoscente consiste nell'intima necessità di conoscere ogni oggetto in sé, nel proprio essere, come un oggetto identico a se stesso, che esiste quindi di per sé e rimane in fondo sempre uguale e immutabile, insomma come una sostanza". Anche questa legge, che viene qui detta "originaria", è divenuta: un giorno si mostrerà come a poco a poco questa tendenza si formi negli organismi inferiori: come da principio gli scempi occhi di talpa di questi organismi vedano sempre la medesima cosa e nient'altro che quella; come poi, quando le diverse eccitazioni di piacere e dolore diventano più osservabili, vengano a poco a poco distinte diverse sostanze, ma ciascuna con un attributo, cioè con un solo rapporto con un tale organismo. Il primo gradino del pensiero logico è il giudizio: la cui essenza consiste, secondo quanto i migliori logici hanno stabilito, nella fede. Alla base di ogni fede sta il sentimento del piacevole o del doloroso con riguardo al soggetto senziente. Una nuova, terza sensazione, come risultato di due singole sensazioni precedenti, è il giudizio nella sua forma più bassa. Originariamente a noi esseri organici in ogni cosa non interessa nient'altro che il suo rapporto con noi, con riferimento al piacere e al dolore. Fra i momenti in cui diveniamo coscienti di questo rapporto, fra gli stati del sentire, ne esistono altri di riposo, di non sentire: allora il mondo e ogni cosa sono privi di interesse per noi; noi non osserviamo alcun mutamento in essi (come ancora oggi uno fortemente assorto non nota che qualcuno gli passa accanto). Per la pianta tutte le cose sono di solito ferme, eterne, ogni cosa è uguale a se stessa. Dal periodo degli organismi inferiori in poi, l'uomo ha ereditato la credenza che ci siano cose uguali (solo l'esperienza foggiata attraverso la più alta scienza contraddice questa proposizione). La credenza originaria di ogni essere organico è, forse, sin dall'inizio addirittura che tutto il resto del mondo sia uno e immoto. Il pensiero della causalità è lontanissimo da quel primo gradino di logicità: anzi ancora adesso noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti di volontà libera; quando osserva se stesso, l'individuo senziente considera ogni sentimento, ogni mutamento, come qualcosa di isolato, cioè di incondizionato, di privo di connessione: essi affiorano in noi senza collegamento con un prima o un dopo. Noi abbiamo fame, ma originariamente non pensiamo che l'organismo vuole essere conservato, quella sensazione sembra farsi valere senza motivo e scopo, essa si isola e si considera volontaria. Dunque: la credenza nella libertà della volontà è un errore originario di ogni essere organico, antico come l'epoca da cui esistono in questo moti di logicità; la credenza in sostanze incondizionate e in cose uguali è del pari un errore originario, altrettanto antico, di ogni essere organico. In quanto perciò ogni metafisica si è di preferenza occupata di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell'uomo - però come se fossero verità fondamentali».

11 Cfr. GS 357,229: «l'ateismo assoluto, onesto, è una vittoria finale e faticosamente conquistata della coscienza europea, in quanto è l'atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria educazione alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce la menzogna della fede in Dio [...]. Si vede che cosa fu propriamente a vincere sul Dio cristiano: la stessa moralità cristiana [...]».

12 Cfr. anche WS 350: «All'uomo sono state poste molte catene, affinché egli disimpari a comportarsi come un animale; e veramente egli è divenuto più mite, spirituale, gioioso, assennato di tutti gli animali. Ma ora soffre ancora del fatto di aver portato per tanto tempo le catene [...]. Solo quando anche la malattia delle catene sarà superata, la prima grande mèta sarà raggiunta: la separazione dell'uomo dagli animali [...]».

13 Si ricordi che La gaia scienza uscì, nella prima edizione del 1882, in soli quattro libri (fino all'aforisma 342); il quinto libro fu aggiunto nell'edizione del 1887, così come la prefazione e l'appendice poetica («Canti del principe Vogelfrei»).

14 Lo si veda riportato integralmente a p. 154.

15 In questo senso, tra le interpretazioni recenti, si muove soprattutto la lettura di F. Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Bologna 1978.

III. LA FILOSOFIA DI ZARATHUSTRA

1 La suddivisione tra una «filosofia di Zarathustra» e un pensiero dell'ultimo Nietzsche è fatta, per esempio, da AUR. Montinari, Che cosa ha veramente detto Nietzsche, Roma 1975,che però non discute esplicitamente questioni di periodizzazio-ne. Per quanto riguarda La volontà di potenza, l'opera pubblicata con questo titolo - in prima edizione nel 1901 (a cura di P. Gast e di E. e A. Horneffer; editore Naumann; comprendeva 483 appunti) e poi, in seconda edizione, nel 1906 (a cura di Gast e della sorella di Nietzsche; comprendeva 1067 testi; ristampata con lievi modifiche nella edizione Kròner del 1911, che rimase l'ed. definitiva) - fu composta dagli editori sulla base di uno dei tanti progetti di sistemazione (e di titolazione) formulati da Nietzsche negli appunti degli ultimi anni. Ma, come hanno mostrato definitivamente Colli e Montinari (cfr. le note conclusive dei voli. VI, 3; VIII, 1 e 2 della loro edizione delle Opere), nell'agosto del 1888 Nietzsche abbandonò definitivamente il progetto di pubblicare un'opera con questo titolo. Molto del materiale che aveva redatto in vista di essa, lo pubblicò negli scritti editi degli ultimi anni, come L'anticristo e il Crepuscolo degli idoli.

2 Cfr. la Vita di Nietzsche, più volte citata.

3 Era Nietzsche che aveva coniato questo pseudonimo per Kòselitz (il quale voleva imporsi come compositore di opere liriche), pensando che esso potesse riuscire più accettabile dal pubblico e favorire la diffusione della sua fama. Cfr. Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. II, p. 62.

4 La lettera è citata da Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. II, p. 65; tutto il capitolo di Janz documenta il clima di trasformazione e di eccitazione «profetica» che caratterizza la vita di Nietzsche in quei mesi.

5 Nel mio Il soggetto e la maschera, cit., ho proposto di tradurre Uebermensch con «oltreuomo» per marcare la differenza tra questa umanità sognata da Nietzsche e l'uomo della tradizione precedente; l'oltreuomo non è un potenziamento dell'umanità del passato.

5bis Si veda l'appunto nella ed. tedesca di Colli e Montinari, voi. VII, t. 1, Berlin 1977, p. 545; manca ancora il voi. corrispondente nell'ed. italiana.

6 Su ciò, cfr. Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. II, pp. 344-45, 350-51.

7 Cfr. le lettere a Paul Deussen e a Georg Brandes citate in Montinari, Che cosa ha veramente detto Nietzsche, cit., p. 127.

8 Cfr. su questo la nota conclusiva di Colli e Montinari al voi. VIII, 2 delle Opere (p. 426), e al voi. VIII, 1 (p. 328); e Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. II, p. 549.

9 Cfr. K. Lowith, Nietzsche e l'eterno ritorno (1934, 1956), trad. it., Roma-Bari 1982.

10 Al significato del meriggio in Nietzsche è dedicato il libro di K. Schlechta, Nietzsche e il grande meriggio ( 1954), trad. it„ Napoli 1982. Per l'inquadramento della tesi di Schlechta, e in generale del problema del significato del meriggio nietzscheano, cfr. l'ampia introduzione di Ugo AUR. Ugazio.

11 Cfr. Lowith, Nietzsche e l'eterno ritorno, cit., p. 108.

12 Si veda tutto il cap. IV del citato libro di Lowith, specialmente pp. 122-25.

13 Per il significato del concetto di metafisica in Heidegger, e per una più ampia illustrazione della sua interpretazione di Nietzsche, Mi permetto di rimandare ai miei libri Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Torino 1963; e Introduzione a Heidegger, Roma-Bari 19823.

14 Proprio in quel periodo, si era fatto mandare da Overbeck, in prestito dalla biblioteca di Basilea, il volume della Storia della filosofìa di K. Fischer in cui si parla di Spinoza. Cfr. Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. II, pp. 67-68.

15 Cfr. la lettera a Overbeck citata in Janz, Vita di Nietzsche, cit., voi. II, p. 68.

16 Cfr. il mio già citato Il soggetto e la maschera, pp. 249 sgg.; in quel testo, è richiamata una bella pagina sul tempo dello scritto su La filosofìa nell'epoca tragica dei Greci, a cui rimando.

17  Per un quadro completo del problema della «dimostrazione» della dottrina dell'eterno ritorno si può vedere il recente, ampio lavoro di B. Magnus,Nietzsche's Existential Imperative, Bloomington (Ind.) 1978, spec. il cap. IV.

18 Cfr. Montinari, Che cosa ha veramente detto Nietzsche, cit., pp. 91-3; riprendendo un'indicazione di H. Lichtenberger, La philosophie de Nietzsche, Paris 1898, Montinari segnala tra l'altro un importante «precedente» della dottrina nietzscheana del ritorno nell'opera di A. Blanqui, L'éternité par les astres, pubblicata nel 1872; che però Nietzsche conobbe solo, a quanto risulta dai taccuini, nel 1883, quando dunque l'idea del ritorno si era già formata in lui.

19 Ne ho tentato uno altrove; cfr. Il soggetto e la maschera, cit., pp. 195 sgg.

20 Non si dimentichi che Nietzsche attribuisce al nichilismo un duplice possibile senso: un senso passivo o reattivo, nel quale il nichilismo riconosce l'insensatezza del divenire e di conseguenza sviluppa un senso di perdita, di vendetta e di odio per la vita; e un nichilismo attivo che è proprio dell'oltreuomo, il quale si installa esplicitamente nell'insensatezza del mondo dato per creare nuovi valori. Su ciò, si cfr. ancora Il soggetto e la maschera, cit.; e cfr. per esempio frammenti come quello dell'autunno 1887,9 [35], in VIII, 2, pp. 12-14.

21 Sull'opposizione attivo-reattivo è impostata, in gran parte, l'interpretazione di Nietzsche data da G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962), trad. it., Firenze 1978. Il problema dei «criteri» è stato posto, nei termini che anche noi seguiamo qui, da D. C. Hoy, in una relazione letta al Colloquio Internazionale su «Nietzsche come pensatore affermativo», tenutosi a Gerusalemme presso il S. H. Bergman Center for Philosophical Studies nell'aprile 1983. La relazione di Hoy, Is Nietzsche 's Genealogy a Feasible Philosophical Method Today?, è in corso dì pubblicazione negli Atti di quel Colloquio.

22 Così sembra intenderla D. Hoy nella relazione sopra citata.

23 Si veda su ciò un illuminante saggio di AUR. Cacciari, L'impolitico nietzschiano, in appendice a F. Nietzsche, // libro del filosofo (con saggi di Cacciari, F. Masi-ni.S. Moravia e G.Vattimo), a cura di AUR.Beer e AUR.Ciampa, Roma 1978.

24 Altrove ho illustrato l'importanza dell'arte come punto di riferimento per intendere l'essenza della volontà di potenza, evitando le aporie delle letture «tecnicistiche» e «neorazionalistiche» di questa nozione, che estremizzano l'interpretazione heideggeriana di Nietzsche: cfr. G. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1980,cap.IV.

25 Sul problema del «grande stile» in Nietzsche, e sui suoi riflessi nella cultura e nella letteratura del Novecento, ha di recente richiamato l'attenzione C. Magris, L'anello di Clarisse,Torino 1984, cap. I.