Lou Andreas-SaloméFriedrich NietzscheSE, Milano 2009Recensione della dott.ssa Lisa Cecchi |
La letteratura su Nietzsche è vasta e, nella maggior parte dei casi, si concentra sull’analisi dei singoli temi affrontanti dal filosofo come l’eterno ritorno, il superuomo, la volontà di potenza, il nichilismo ecc., spesso di difficile comprensione e, a volte, di scoraggiante complessità. Il saggio di Lou Salomé, al contrario, cerca di tracciare, attraverso i numerosi rimandi alle sue opere, un percorso più intimo e personale di Nietzsche. L’opera, il cui titolo originale è “Friedrich Nietzsche in seinen Werken” è suddiviso in tre capitoli dedicati rispettivamente alla personalità, alle metamorfosi e al “sistema Nietzsche”. Con l’esclamazione di Nietzsche “Mihi ipsi scripsi!”, Lou Salomé inaugura il libro a lui dedicato per rimarcare che “egli in fondo pensava soltanto per sé, scriveva per sé, giacché descriveva soltanto se stesso, volgeva pensieri al proprio io”. Lou Salomé sostiene, infatti, che in Nietzsche “si è verificata una piena coincidenza tra le sue opere e la sua biografia”. In questo senso riporta, proprio nelle prime pagine, una famosa citazione di Nietzsche: “Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires” (Al di là del bene e del male). Il libro di Lou Salomé fu pubblicato nel 1894, quando ormai Nietzsche, distante dagli anni del loro legame intellettuale e affettivo, era già caduto nel buio della follia. L’autrice insiste molto sull’“afflato religioso”predominante nella scrittura di Nietzsche, tant’è vero che l’intuizione che fa da guida alla descrizione del suo profilo è l’esegesi in senso religioso di tutta la sua personalità filosofica, che lo condurrà, alla fine, a un misticismo messianico. Nel diario che teneva per l’amico Paul Rée, Lou Salomé scrive: “All’inizio dei miei rapporti con Nietzsche, quand’ero in Italia, scrissi a Malwida [von Meysenbug] che egli era una natura religiosa, cosa che la lasciò assai scettica. Oggi, sottolineerei doppiamente questa formula. Il carattere fondamentalmente religioso delle nostre nature è il nostro punto in comune e può darsi che esso sia in noi così pronunciato perché noi siamo dei liberi pensatori nel senso più estremo del termine.” Ricca di testimonianze e citazioni, nonché molto suggestiva, è la postfazione di Domenico M. Fazio. A proposito di Lou Salomé e di Nietzsche, egli scrive: “Friedrich Nietzsche e Lou Salomé si erano conosciuti a Roma alla fine di aprile del 1882 in casa dell'idealista Malwida von Meysenbug. Nietzsche, allora trentottenne, una volta professore di filologia e a quel tempo fugitivus errans, aveva da poco pubblicato Aurora e stava portando a termine La gaia scienza. Lou Salomé era una studentessa di lettere di appena ventun anni. Nata a Pietroburgo il 12 febbraio 1861 da una famiglia di ebrei francesi che si erano messi al servizio degli zar, Louise von Salomé aveva compiuto i suoi studi sotto la guida di un precettore di grande valore, il pastore Hendrik Gillot. Questi aveva saputo suscitare in lei l'interesse per la cultura e l'aveva avviata non soltanto alla lettura dei classici della letteratura francese e tedesca, ma anche allo studio delle opere di alcuni dei maggiori filosofi del Sette e dell'Ottocento: Leibniz, Rousseau, Voltaire, Kant, Fichte, Kierkegaard e Schopenhauer. Dal settembre del 1880 la diciannovenne Lou, accompagnata dalla madre, la vedova del generale von Salomé, si era trasferita a Zurigo per completare i suoi studi nell'università della città sulle rive della Limmat, una delle poche in Europa che concedessero anche alle donne il diritto all'immatricolazione. Nella città svizzera ella aveva frequentato, tra le altre, le lezioni dello storico dell'arte Gottfried Kinkel, uno dei leader della rivoluzione tedesca del 1848, il quale aveva avuto modo di apprezzarne le non comuni doti intellettuali. Ed era stato proprio Kinkel a metterla in contatto con Malwida von Meysenbug quando, forse per l'eccessiva fatica intellettuale, la ragazza si era ammalata gravemente e le era stato consigliato un radicale cambiamento di clima. Nata nel 1816, Malwida von Meysenbug era una paladina delle lotte per l'emancipazione femminile e una fervida sostenitrice degli ideali umanitari: amica di rivoluzionari come Garibaldi e Mazzini, di scrittori come Alexander Herzen e, poi, Romain Rolland, scrittrice di un certo successo ella stessa, faceva parte della cerchia più intima di Richard Wagner. In quest'ambito, il 22 maggio 1872, in occasione del cinquantanovesimo compleanno del maestro e della storica cerimonia della posa della prima pietra del teatro di Bayreuth, aveva avuto modo di fare la conoscenza di Nietzsche, il professore di filologia che con la pubblicazione della Nascita della tragedia era divenuto l'intellettuale di punta del movimento wagneriano in Germania, e in breve aveva stretto con lui un saldo vincolo di amicizia. Così, quando la malattia di Nietzsche aveva fatto la sua comparsa, ella si era offerta di prendersi cura di lui e, dall'ottobre 1876 al maggio 1877, aveva vissuto a Sorrento con Nietzsche, con il suo allievo Albert Brenner e con Paul Rèe, il giovane autore delle Osservazioni psicologiche, in una sorta di comunità di studi e di ideali, «una specie di convento per spiriti liberi».” (pp. 195-196) Di norma si attribuisce a Nietzsche una certa avventatezza nel chiedere la mano di una ragazza appena conosciuta e, senza dubbio, si può intravedere in questo comportamento un carattere ingenuo e sprovveduto. Pochi, tuttavia, sarebbero rimasti indifferenti se due tra i propri migliori amici (quali erano Paul Rée e Mawilda von Meysenbug) avessero alimentato curiosità e aspettative, con la forte determinazione di far conoscere una donna dalle doti straordinarie, come effettivamente era Lou Salomè. Fazio continua nella sua postfazione: “Rimasto affascinato, e non soltanto dalle doti intellettuali della giovane russa, Rèe ne scrisse a Nietzsche, che si trovava a Genova. La lettera di Rèe non è tramandata: il suo tenore, tuttavia, si può indovinare dalla risposta di Nietzsche, che porta la data del 21 marzo 1882: «Saluti da parte mia questa Russa, se la cosa ha in qualche modo un senso: sono avido di questo genere di anime. Anzi, ne andrò a caccia assai presto - ne ho bisogno in vista di quello che intendo fare nei prossimi dieci anni. Un capitolo assolutamente diverso è il matrimonio - potrei accondiscendere al massimo a un matrimonio di due anni, e anche in tal caso solamente in considerazione di quello che ho da fare nei prossimi dieci». È giunta invece fino a noi la lettera che, sempre a proposito di Lou, Malwida scrisse a Nietzsche qualche giorno dopo: «Una fanciulla molto singolare (credo che Rèe Gliene abbia già scritto), [...] mi sembra giunta nel pensiero filosofico agli stessi risultati a cui è giunto Lei, cioè all'idealismo pratico, con l'eliminazione di ogni presupposto metafisico e di qualsiasi preoccupazione per la spiegazione dei problemi metafisici. Rèe ed io concordiamo nel desiderare di vederLa un giorno insieme con questo essere straordinario, ma purtroppo non mi sento di consigliarLe di venire a Roma, poiché qui le condizioni di vita non dovrebbero essere favorevoli per lei». Alla fine di marzo, Nietzsche si imbarcò alla volta di Messina. Qui lo raggiunse una nuova lettera di Rèe nella quale si legge: «Roma non sarebbe adatta per Lei. Ma bisogna assolutamente che conosca la Russa». Così, il 23 o il 24 aprile, quando Nietzsche arrivò finalmente a Roma, era pieno di aspettative per la giovane Lou. Anche il loro primo incontro è narrato nelle memorie di Lou Andreas-Salomé: «Eravamo allegri e spensierati perché tutti volevamo bene a Malwida, e Nietzsche era spesso così animato da far dimenticare il suo carattere riservato, o meglio un po' solenne. Ricordo questa solennità già dal nostro primo incontro, avvenuto a San Pietro dove Paul Rèe stava lavorando seduto in un confessionale particolarmente luminoso, e dove Nietzsche era stato perciò mandato. Mi salutò con queste parole: "Da quali stelle siamo caduti per incontrarci qui?"». Gli avvenimenti che seguirono sono assai noti: gli anticonformistici progetti di vita e di studio in comune dei tre amici, ossia la «trinità», come scherzosamente li chiamavano; la maldestra proposta di matrimonio rivolta a Lou da Nietzsche, per il tramite di Rèe, che della donna era innamorato e neppure tanto segretamente; il rifiuto di Lou; la partenza da Roma della comitiva composta dalla vedova del generale von Salomé, dalla piccola Lou, dal giovane Rèe e dal professor Nietzsche; la sosta sul lago d'Orta e il «mistero» del Monte Sacro, se cioè Lou, quella volta, abbia veramente baciato Nietzsche; la visita a Lucerna; il celeberrimo dagherrotipo del fotografo Jules Bonnet, che ritrae Lou assisa su un carretto nell'atto di frustare Rèe e Nietzsche; il pellegrinaggio all'«isola dei beati», la casa di Wagner a Tribschen dinanzi alla quale, stando a quanto la stessa Lou ha narrato, Nietzsche pianse al ricordo dell'amico di un tempo; la seconda proposta di matrimonio, anch'essa respinta. A Lucerna, dopo aver confermato i progetti della loro «trinità», gli amici si separarono: Rèe accompagnò Lou e la madre a Zurigo e proseguì verso la tenuta di famiglia a Stibbe, facendosi promettere da Lou che l'avrebbe raggiunto quanto prima; Nietzsche, fatta una breve sosta a Basilea, continuò il viaggio per Naumburg, non prima di aver a sua volta strappato a Lou la promessa che, dopo essersi recata al festival di Bayreuth per incontrare Malwida, avrebbe trascorso qualche giorno anche presso di lui. Così, dopo aver soggiornato per qualche tempo dai Rèe a Stibbe e dopo aver assistito in compagnia di Malwida e della sorella di Nietzsche alla prima rappresentazione del Parsifal, che aveva avuto luogo a Bayreuth, il 7 agosto, accompagnata da Elisabeth Nietzsche, Lou giunse finalmente a Tautenburg, nella Selva Turingia, dove Nietzsche la attendeva. Vi rimase fino al 26 agosto. Fu in quei giorni di straordinaria intimità spirituale, fatta di passeggiate solitarie nella pace dei boschi e di colloqui e discussioni interminabili, che Lou ebbe modo di conoscere la personalità e il pensiero di Nietzsche come forse nessun altro. Ed è da quei colloqui che nacque, qualche tempo dopo, il primo nucleo del profilo che ella avrebbe successivamente dedicato al filosofo di Zarathustra. Del soggiorno a Tautenburg, Lou ha tenuto un diario per Paul Rèe che in gran parte ci è tramandato. Nelle sue memorie, poi, è tornata a narrare di quella che indubbiamente dev'essere stata per lei un'esperienza intellettuale indimenticabile, ma lo ha fatto quasi con reticenza, limitandosi a ricordare di essere riuscita, allora, « a quanto non fosse riuscita a Roma o in viaggio », e informandoci di particolari che appaiono oggi poco significativi. Dal diario per Rèe ha estrapolato, per inserirlo nelle sue memorie, soltanto il seguente brano: «Da tre settimane siamo immersi in una interminabile discussione e ora è capace di passare anche dieci ore parlando. È strano che le nostre conversazioni ci portino involontariamente di fronte a quegli abissi vorticosi dove ci si era spinti a volte da soli per guardare in basso. Abbiamo scelto di camminare sui sentieri dei camosci e se qualcuno ci avesse ascoltato avrebbe potuto credere che fossero due diavoli a parlare». Nel diario per Rèe, invece, Lou si sofferma lungamente a narrare di Nietzsche tratteggiandone la personalità con fine comprensione psicologica. Scrive Lou Salomé, descrivendo a Rèe l'atmosfera delle sue discussioni filosofiche con Nietzsche: «Mi ero ripromessa di annotare ogni nostro colloquio, ma è praticamente impossibile; i nostri discorsi spaziano dalle più lontane alle più vicine regioni del pensiero e non si prestano a formulazioni singole e precise. In realtà il contenuto dei nostri discorsi non è tanto in quello che viene espresso a parole, ma proprio in quel misterioso venirsi incontro dello spirito dell'uno e dell'altro»”. (pp. 195-200, passim) Si riporta, di seguito, una breve antologia che ripercorre i temi ricorrenti del saggio di Lou Salomé. L’uomo e la sua naturaLe due foto che compaiono in questo libro ritraggono Nietzsche nel suo ultimo decennio di sofferenze. Ed è certo questo il periodo in cui la sua fisionomia e tutto il suo aspetto esteriore paiono ricevere l'impronta più caratteristica: il periodo in cui ogni sua espressione era già tutta pervasa da una vita interiore profondamente agitata, che si dava a vedere anche in ciò che egli cercava di trattenere o di nascondere. Vorrei dire che questo elemento nascosto, il presentimento di una solitudine silenziosa, era quel che in un primo momento e con forza colpiva nell'aspetto di Nietzsche, ciò che affascinava in lui. All'osservatore frettoloso la sua figura non presentava infatti nulla che desse nell'occhio: l'uomo di media statura, dagli abiti estremamente semplici, ma anche estremamente curati, dai tratti distesi e dai capelli castani pettinati all'indietro, poteva facilmente passare inosservato. Il contorno della bocca, sottile e quanto mai espressivo, veniva quasi interamente nascosto dai grossi baffi pettinati in avanti; aveva una risata sommessa, un modo di parlare senza fragore, un'andatura cauta e meditabonda con le spalle che un po' s'incurvavano; era difficile immaginarsi un uomo del genere in mezzo a una folla: portava su di sé il segno di chi resta in disparte, di chi sta da solo. Di incomparabile bellezza e di tale nobiltà di forma da attirare involontariamente lo sguardo erano invece le mani di Nietzsche, delle quali egli stesso credeva che rivelassero il suo spirito. In Al di là del bene e del male si trova un'annotazione a riguardo: «Esistono uomini che inevitabilmente hanno spirito, comunque vogliano tergiversare e tenere le mani dinanzi agli occhi rivelatori (- come se la mano non fosse rivelatrice! -)». Anche gli occhi di Nietzsche erano rivelatori. Benché semiciechi, non possedevano nulla di quel carattere indagatore, ammiccante, involontariamente importuno che è proprio di molti miopi; parevano semmai, i custodi e i guardiani di autentici tesori, di muti segreti che nessuno sguardo indiscreto avrebbe dovuto violare. La debolezza della vista conferiva ai suoi tratti un incanto del tutto particolare poiché, invece di riflettere le impressioni esteriori e cangianti, restituiva soltanto quel che egli traeva da dentro di sé. Questi occhi guardavano verso l'interno e al tempo stesso - ben oltre gli oggetti più vicini - lontano o, meglio, al suo interno come in una lontananza. In fondo tutta la sua ricerca altro non fu che un esplorare l'anima umana in direzione di mondi da scoprire, verso «le sue non ancora fino in fondo esaurite possibilità» (Al di là del bene e del male) che egli, inesausto, creava e ricreava di continuo. Quando poi si dava a vedere così com'era, nel corso di una conversazione a quattr'occhi che lo agitava, allora una luce commovente poteva comparire e poi sparire nei suoi occhi; ma se era di umore tetro allora era la solitudine cupa, quasi minacciosa, che parlava da quegli occhi come da profondità inquietanti - quelle profondità in cui restò sempre solo, che non poteva dividere con nessuno, innanzi alle quali anche lui stesso talvolta provava orrore e in cui, alla fine, sprofondò il suo animo. Anche il contegno di Nietzsche suscitava la stessa impressione di segretezza e riservatezza. Nella vita di ogni giorno era di una grande cortesia e di una mitezza quasi femminile, di un'equanimità duratura e benevola; traeva diletto da forme signorili di relazione con gli altri e vi attribuiva una grande importanza. Ma vi era sempre in ciò anche il gusto del travestimento - mantello e maschera per una vita interiore quasi mai messa a nudo. Mi ricordo che quando parlai per la prima volta con Nietzsche - era un giorno di primavera, nella chiesa di San Pietro a Roma - nei primi istanti fui colpita e tratta in inganno dalla sua compitezza ricercata. Ma una tale compitezza non poteva ingannare a lungo in quel solitario che portava la maschera con gli stessi modi maldestri con cui chi viene dai monti o dal deserto indossa la giacca dell'uomo di mondo. Ben presto si affacciò la domanda che egli stesso avrebbe poi compendiato nelle parole: «In occasione di tutto quello che un uomo rende manifesto, si può domandare: che cosa nasconderà? Da che cosa deve distogliere lo sguardo? Quale pregiudizio deve suscitare? E poi ancora: fino a che punto giunge la sottigliezza di questa dissimulazione? E, così facendo, in che cosa costui s'inganna?» [Aurora]. Questo aspetto rappresenta soltanto l'altro lato di quella solitudine alla cui luce deve essere intesa tutta la vita interiore di Nietzsche - un autoisolamento e un relazionarsi soltanto a se stesso che crescevano di continuo. (pp. 20-22 passim) Su null'altro Nietzsche ha invero meditato più a lungo e più a fondo che su questo autentico enigma della sua natura, e su null'altro le sue opere ci informano con altrettanta dovizia come su questo tema: per lui, in fondo, tutti gli enigmi della conoscenza non erano null'altro che ciò. Tanto più a fondo si conosceva, tanto più palesemente tutta la sua filosofia diventava un gigantesco riflesso del suo autoritratto - e tanto più ingenuamente egli attribuiva ciò all'immagine riflessa. Come tra i filosofi gli astratti autori di sistemi hanno universalizzato i propri concetti sino a farne un sistema di leggi che regola il mondo, così Nietzsche universalizza la sua anima ad anima del mondo. Una certa comprensione di essa è già possibile a questo punto dell'esposizione, dove Nietzsche viene considerato soltanto in riferimento alle sue doti intellettuali. La ricchezza di queste predisposizioni era troppo variegata perché a Nietzsche riuscisse di conservarla secondo un ordine preciso; la vitalità e la volontà di potenza di ciascun talento e degli impulsi del suo spirito condussero necessariamente a una rivalità mai messa a tacere tra le diverse doti. Fianco a fianco, senza mai conoscere pace e tiranneggiandosi a vicenda, convivevano in Nietzsche un musicista di grande talento, un pensatore dallo spirito libero, un genio religioso e un poeta nato. Egli stesso tentò di spiegare su questa base la particolarità della sua personalità intellettuale e si pronunciò spesso sul tema nel corso di approfondite conversazioni. (p.29) La solitudine della vita interiore nella quale lo spirito vuole giungere al di là di se stesso non è mai più profonda e dolorosa di quanto lo sia nella sua fase conclusiva. Si potrebbe dire che il muro più compatto tra quelli che Nietzsche costruì intorno a sé sia quello di una parvenza dolce, divina, scintillante che gli aleggia attorno, un miraggio che ne sfuma e dilegua i confini. Ogni via verso l'esterno torna sempre alle profondità di questo io che alla fine deve diventare Dio e mondo, paradiso e inferno - ogni via conduce un passo più in là, verso l'ultima profondità e il tramonto. Questi tratti di fondo della natura di Nietzsche danno conto di quell'elemento, al contempo raffinato ed esaltato, che al pari di una spezia piccante è mescolato a ciò che di grande e significativo vi è nella sua filosofia. Esso viene gustato nel modo più intenso dai palati non corrotti di menti giovani e sane o anche da chi, nella pace tranquilla di concezioni fideistiche, non ha mai sperimentato sulla propria pelle tutte le lotte infuocate e tremende di uno spirito libero con aneliti religiosi. Ma è anche questo, in buona misura, che ha fatto di Nietzsche il filosofo del nostro tempo. In lui ha infatti assunto una forma tipica ciò che agita nel profondo la nostra epoca, quell'«anarchia negli istinti» delle forze creatrici e religiose che vogliono saziarsi con troppa irruenza per potersi accontentare delle briciole che cadono per loro dal tavolo della conoscenza moderna. Che non possano accontentarsi delle briciole, ma che al tempo stesso non possano venir meno nel loro atteggiamento nei confronti della conoscenza - insaziabili nella loro brama appassionata, quanto instancabili nello stento e nella privazione: ciò costituisce il tratto maestoso e impressionante della filosofia di Nietzsche. Questo è anche ciò che essa esprime in formulazioni sempre nuove: una serie di poderosi tentativi di risolvere questo problema della tragedia moderna, questo enigma della sfinge moderna per poi gettarla nell'abisso. Ma proprio per questa ragione è sull'uomo e non sul teoreta che dobbiamo indirizzare il nostro sguardo al fine di trovare una via tra le opere di Nietzsche; l'acquisizione, il risultato delle nostre considerazioni non consisterà perciò in una nuova immagine teorica del mondo che ci si darà a vedere nella sua verità, ma nell'immagine di un'anima umana nella sua combinazione di grandezza e malattia. La rilevanza filosofica delle metamorfosi nietzscheane sembra in un primo momento venire ridotta dal fatto che in esse avviene esattamente ogni volta lo stesso processo. Essa viene invece rafforzata e accentuata dal fatto che il mutare delle concezioni coinvolge sempre la sua natura. A mutare non sono cioè soltanto le linee di fondo di una teoria, ma anche ogni suo stato d'animo, l'aria, la luce, mutano insieme a loro. Mentre intendiamo pensieri confutarsi l'un l'altro, scorgiamo mondi sprofondare e mondi nuovi emergere. Proprio su ciò riposa l'autentica originalità dello spirito di Nietzsche: attraverso il medium della sua natura, che riferisce ogni cosa a se stessa e ai suoi bisogni più intimi, ma che pure a ogni cosa si abbandona, gli si schiudono esperienze e fatti di universi speculativi che noi invece sfioriamo soltanto con l'intelletto senza mai coglierne l'autentica profondità, né dunque trarne impulsi creativi. Da un punto di vista teoretico egli si richiama a maestri e modelli a lui estranei, ma i loro elementi fecondi e le loro acquisizioni sono per lui soltanto lo stimolo per dispiegare la sua vera produttività. Il minimo turbamento avvertito dal suo spirito basta a produrre in lui una pienezza di vita interiore e di esperienza di pensieri. Una volta ebbe a dire: «Esistono due specie del genio; quello che soprattutto procrea e vuole procreare e quello che si lascia volentieri fecondare e partorisce» (Al di là del bene e del male, 248). Nietzsche apparteneva senza dubbio alcuno alla seconda specie. Nella sua natura spirituale vi era - in notevoli dimensioni - qualcosa di femminile, ma egli era in certa misura un genio perché gli risultava quasi indifferente da dove provenisse lo stimolo. Se noi proviamo a raccogliere tutto quel che ha fecondato la sua terra, allora ci ritroviamo davanti a qualche modesto seme di grano; ma se entriamo nella sua filosofia, allora prende a stormirci attorno una foresta di alberi che regalano ombra, ci avviluppa la prodiga vegetazione di una natura grandiosa e selvaggia. La sua superiorità consisteva nel fatto di offrire a ogni singolo seme che cadeva sul suo terreno interiore quel che egli stesso aveva indicato come il contrassegno dell'autentico genio: «Un nuovo e fecondo terreno germogliante con una forza fresca di foresta vergine e non sfruttata» (Il viandante e la sua ombra, 118). (pp.41-43) Se seguiamo Nietzsche dalla sua infanzia ai suoi anni di formazione e quindi al lungo periodo della sua attività di filologo, vediamo chiaramente anche in questo caso come fin dall'inizio la sua evoluzione, persino da un punto di vista meramente esteriore, si svolgesse all'insegna di una certa autocostrizione. Già la rigorosa formazione filologica doveva costituire una costrizione per l'ardore di questo giovane spirito la cui copiosa creatività non trovava di che nutrirsi. Questo vale in particolare per l'indirizzo seguito dal suo maestro Ritschl. Questi rivolgeva principalmente l'attenzione, tanto dal punto di vista del metodo che da quello dei problemi, sulle relazioni formali e sui nessi esteriori, mentre l'intimo significato delle opere letterarie restava sullo sfondo. Ciò lasciò tuttavia un segno sul particolare modo di procedere di Nietzsche il quale, successivamente, trasse esclusivamente i suoi problemi dal mondo interiore, con la propensione a subordinare l'elemento logico a quello psicologico. Ciò nondimeno fu proprio qui, con questa rigida disciplina e su questo terreno pietroso, che il suo spirito produsse così precocemente frutti maturi e prodotti eccezionali. Una serie di eccellenti ricerche filologiche costella la sua strada dagli anni di formazione fino alla cattedra di Basilea. Non è inverosimile supporre che uno scatenamento troppo precoce di tutto il patrimonio intellettuale di Nietzsche attraverso lo studio della filosofia o delle arti lo avrebbe da subito sviato verso quella sfrenatezza a cui sembrano approssimarsi alcune delle sue ultime opere. Il freddo rigore della scienza filologica gli offrì invece, per un certo lasso di tempo, quel legame che univa e teneva insieme i suoi « molteplici impulsi», pur rivelandosi anche una catena per molte delle cose che in lui stavano assopite. Proseguendo nei suoi studi specialistici egli ebbe però modo di avvertire in che misura la forza di talenti fino ad allora trascurati lo tormentasse e lo inquietasse non meno di un profondo dolore. Era in particolare l'impulso verso la musica da cui non riusciva a distogliersi e spesso gli capitò di tendere l'orecchio verso note musicali, mentre avrebbe voluto porsi in ascolto di pensieri. Le note lo accompagnarono lungo gli anni come un lamento in musica, finché la sua emicrania gli rese impossibile ogni esercizio musicale. Ma per quanto grande possa essere stato il contrasto tra il Nietzsche filologo e quello che si occupa di filosofia, non mancano certo numerosi elementi di mediazione che da un periodo conducono all'altro. Proprio la direzione di ricerca seguita da Ritschl, che pareva rendere più acuto questo contrasto, veniva invece incontro a una certa particolarità dello spirito di Nietzsche, rafforzando e consolidando la sua propensione a produrre. Nell'indirizzo del maestro si rinveniva l'aspirazione a una certa perfezione artistica dal punto di vista formale e a una trattazione virtuosistica delle questioni scientifiche resa possibile da una loro rigorosa delimitazione e dal soffermarsi su di un aspetto ben determinato. In Nietzsche, l'esigenza di limitarsi volontariamente e di concentrarsi su di un compito, di portarlo a termine in modo puramente artistico, è in stretto rapporto con l'impulso fondamentale della sua natura, quello cioè di andare ogni volta al di là di ciò che egli ha prodotto, di allontanarlo da sé come una faccenda sbrigata, come qualcosa che appartiene al passato. (pp. 49-50) Il filologo non si occupa mai di qualcosa mettendo in gioco ciò in cui crede, la sua umanità, non lo assimila in alcun modo e vi rimane vincolato solo finché gli è di qualche utilità per risolvere il suo problema. Per Nietzsche, al contrario, occuparsi di un problema significa prima di ogni altra cosa conoscere, cioè, farsi scuotere; e convincersi di una verità vuol dire per lui venire sopraffatto da un'esperienza, «essere mandato gambe all'aria», come ebbe a dire in un'occasione. Egli si faceva carico di un pensiero come di un destino che coinvolge tutta la persona e la tiene in sua balia; viveva il pensiero molto più di quanto non lo pensasse, ma lo faceva con un fervore così appassionato, con una dedizione così smisurata, che finiva per esaurirvi tutto se stesso; e, al pari di un destino vissuto fino in fondo, il pensiero si staccava nuovamente da lui. Soltanto in quella dimensione di sobrio distacco che segue naturalmente a emozioni di questo genere egli consentiva a una conoscenza ormai lasciata alle spalle di agire su di lui in modo puramente intellettuale, soltanto allora le si consacrava con la lucidità e la calma del suo intelletto indagatore. Il suo notevole impulso al mutamento nell'ambito delle conoscenze filosofiche era condizionato dall'impulso smisurato verso emozioni sempre nuove di natura oltre modo spirituale; la somma chiarezza era così per lui soltanto il fenomeno che sempre si accompagna alla sazietà e all'estenuazione. Ma i suoi problemi non lo abbandonavano nemmeno in questa estenuazione, e la sazietà concerneva soltanto le soluzioni che occultavano temporaneamente la fonte dell'inquietudine. La soluzione a cui perveniva era quindi ogni volta il segno di un mutamento di stato d'animo; soltanto così, infatti, il problema poteva essere conservato e la soluzione cercata ogni volta da capo. Se la prendeva allora con autentico odio contro tutto quel che stava dietro la soluzione, che lo aveva condotto a essa, che gli era stato d'aiuto per trovarla. Dal momento che «una cosa, quando è spiegata, cessa di interessarci», Nietzsche, in fondo, non voleva sapere nulla della soluzione definitiva di un problema, e qualsiasi parola esprimesse all'apparenza la completa risoluzione di un pensiero valido rappresentava per lui la tragedia della sua vita; non voleva infatti che un giorno i problemi della sua ricerca potessero smettere di interessarlo; voleva invece che continuassero a smuoverlo nel più profondo dell'animo ed era in certa misura adirato verso la soluzione che lo derubava del problema; quindi le si gettava ogni volta addosso con tutta la finezza e la raffinatezza della sua scepsi e la costringeva , provando gioia per il male altrui – contento della propria sofferenza e del danno che così si arrecava ! – a restituirgli di nuovo il suo problema. Si può perciò affermare fin da ora con un certo diritto che ciò che tratteneva a lungo lo spirito appassionato di Nietzsche all'interno di un indirizzo speculativo, di un modo di considerare le cose, ciò che ne rendeva impossibile un ulteriore cambiamento e trasformazione, doveva restare per lui, in ultima istanza, qualcosa di inspiegabile; doveva resistere alla forza di tutti i tentativi di trovare una soluzione, estenuare la sua intelligenza con enigmi mortali, quasi crocifiggerlo a questi enigmi. Allorché infine, procedendo lungo questa via, l'eccitazione del suo animo era divenuta più intensa della forza intellettuale che essa spronava con violenza, soltanto a quel punto non vi era più per lui alcuna via di scampo e di fuga. La fine del cammino si perdeva allora necessariamente nell'oscurità, nel dolore e nel segreto, con i sentimenti mossi che assillavano i pensieri, abbattendosi su di essi come un mare in tempesta. Chi intenda seguire fino in fondo il sentiero zigzagante di Nietzsche, giungerà al punto in cui questi, colto da orrore innanzi all'ultima spiegazione e all'ultima soluzione del problema, si getta al fondo dell'eterno enigma della mistica. Ma lo spirito di Nietzsche si distingueva per due altre doti che, in ugual misura, tornarono utili al filologo e, in seguito, al filosofo. La prima era il suo talento per le sottigliezze, la sua genialità nel trattare le cose più fini, quelle che richiedono una mano delicata e sicura per non essere distrutte o deturpate. E questa la dote che, a mio avviso, avrebbe fatto successivamente di lui uno psicologo ancor più raffinato che grande, o meglio: il più grande nel cogliere e dar forma alle finezze. Quanto mai significativa è l'espressione che egli utilizzò una volta (Il caso Wagner) per indicare il modo in cui le cose si presentano agli occhi dell'uomo della conoscenza: «La filigrana delle cose». Connessa a questo aspetto è l'inclinazione a seguire le tracce di ciò che è nascosto e recondito, a portare alla luce quel che si cela; il colpo d'occhio per ciò che è oscuro insieme all'intuizione e alla sensibilità che colmano istintivamente le lacune lasciate dal sapere: su ciò poggia gran parte della genialità di Nietzsche e questo è strettamente legato alla sua gran de potenza artistica in cui lo sguardo su quel che è unico e distinto si slarga magnificamente in un'ampia e libera visione del contesto generale, del quadro d'insieme. (pp. 51-53) [Nietzsche] s'immerge in profondità sotto questo mondo di macerie, mina e scalza ancora una volta le sue fondamenta, e scruta con occhi avvezzi alle tenebre i tesori nascosti e i segreti del sottosuolo. Un secondo Trofonio che con astuzia entra ed esce sgattaiolando e che riesce ancora a far luce sul mondo là fuori e sui suoi enigmi. (p. 75) Il suo elemento caratteristico fin dall'inizio [sono] le lotte e le ferite messe in conto per appropriarsi di una nuova visione del mondo, la profonda malattia da cui egli infine plasmò la sua nuova salute. La sua originalità dovette perciò palesarsi molto meno nelle idee e nelle teorie che andava elaborando che nella forza con cui si separò dal vecchio ideale per poterle concepire. Non arrivò cioè, come succede a molti, alla consapevolezza di una maggiore autonomia e di un'attività spirituale più personale attraverso un'evoluzione intellettuale fredda e indifferente nei confronti dei pensieri acerbi che essa si lascia alle spalle. Ci arrivò soltanto attraverso una ribellione violenta contro il proprio passato, in cui i fattori intellettuali furono un elemento concomitante più che decisivo. Notiamo perciò come, in un primo momento, Nietzsche accetti sempre i nuovi pensieri così come li trova, con una certa mancanza di autonomia, accogliendoli cioè dapprima in modo acritico. Nel frattempo, infatti, tutta la sua energia è assorbita dalle esperienze più intime, e le nuove teorie in quanto tali - per ricorrere a un'espressione a lui cara - costituiscono soltanto una provvisoria « filosofia di proscenio » [Al di là del bene e del male, 289], mentre dietro le quinte, nascosta, si svolge la lotta dell'anima, il vero processo che conta. Nietzsche non trova mai sufficienti parole per fustigare l'orgoglio di chi si ritiene un'eccezione rispetto alla generalità: «E’ fantasticheria credere di essere un miglio di strada avanti e che l'intera umanità segua la nostra via. [...] Non bisogna pronunciare così facilmente la parola dell'orgoglioso isolamento» (Umano, troppo umano, 1, 375). Il più delle volte, infatti, questa fantasticheria si basa su di una fatua illusione riguardo ai motivi di quel che facciamo e non facciamo; il vero pensatore sa che un'accentuazione tanto marcata delle differenze di rango tra gli uomini non è giustificata e che l'«umano», anche nei suoi sentimenti più nobili e alti, resta pur sempre qualcosa di «troppo umano». (p. 86) Alla genialità di Nietzsche corrispondeva il fuoco che ardeva vivace dietro i suoi pensieri e che li faceva brillare di una luce la cui potenza essi non avrebbero mai potuto acquisire grazie soltanto alla comprensione logica (p. 93) Nietzsche creò, in certa misura, un nuovo stile nella filosofia che fino a quel momento aveva inteso soltanto il tono della trattazione scientifica o il discorso poetante dell'entusiasta: egli creò lo stile del caratteristico, che esprime il pensiero non soltanto in quanto tale, ma con tutta la ricchezza di tonalità emotive della risonanza della sua anima, con tutti i nessi del sentimento, sottili e segreti, che una parola o un pensiero possono risvegliare. Con questa sua particolarità Nietzsche non padroneggia soltanto il linguaggio, ma si innalza anche al di sopra dei limiti di quel che non può essere espresso in maniera adeguata attraverso di esso, facendo risuonare nella tonalità emotiva quel che altrimenti sarebbe rimasto muto nella parola. In nessun altro spirito, come in quello di Nietzsche, il mero contenuto del pensiero riusciva a mutarsi in modo così completo in qualcosa di veramente vissuto, giacché la vita di nessun altro individuo si risolse così integralmente nell'idea di diventare creativo nell'ambito del pensiero, ma con tutta la propria interiorità di uomo. I suoi pensieri non si distinguevano, come accade di solito, dalla vita reale e dalle sue vicende: costituivano piuttosto l'autentico e il solo evento della vita di questo solitario. E, di fronte a questo fatto, anche l'espressione più viva che egli riusciva a trovare per descriverlo, gli sembrava pallida e fiacca: «Ahimè, che cosa siete mai voi, miei pensieri scritti e dipinti! » si lamenta nel bell'aforisma finale di Al di là del bene e del male (296). (p. 98) Poiché Nietzsche aveva bisogno di ideali assoluti per poterli adorare e per potervisi dedicare con tutto se stesso, non appena il suo ideale di verità si contrasse sino ad assumere dimensioni eccessivamente modeste, egli cercò aiuto nell’ideale opposto, nella smodatezza della vita affettiva più esasperata. (p. 122) Se Nietzsche, in origine, era passato dai misteriosi bagliori del giardino incantato della metafisica al sobrio mondo intellettuale della ricerca empirica, adesso si smarrisce nel labirinto di una vegetazione selvaggia, buia e impenetrabile che circonda questo mondo dell'intelletto. E proprio il fatto che in essa non sia ancora tracciato alcun sentiero - che tutto sia ancora senza legge né padrone, e che il poderoso verdetto della volontà abbia spazio per qualsiasi creazione-, è proprio questo carattere di avventura pericolosa ad apparirgli come la migliore conferma di avere imboccato la retta via, quella che conduce al cuore della vita, al cuore delle sue forze primitive. «Ebbri di enigmi e lieti alla luce del crepuscolo», così chiamava infatti Zarathustra i suoi discepoli, «voi, le cui anime suoni di flauto inducono a perdersi in baratri labirintici: - giacché voi non volete con mano codarda seguir tentoni un filo; e dove siete in grado di indovinare vi è in odio il dedurre» (Così parlò Zarathustra, «La visione e l'enigma»). «Anche nel conoscere io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire » (ivi, « Sulle isole Beate »); « Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito» (ivi, «Dei dispregiatori del corpo»), giacché la vita dice: « E anche tu, uomo della conoscenza, non sei che un sentiero e l'orma della mia volontà: in verità, la mia volontà di potenza cammina anche sulle gambe della tua volontà di verità» (ivi, «Della vittoria su se stessi»). Nietzsche, che aveva così a lungo fatto uso di un modo di pensare freddo e sobrio per acquietare e tenere a freno una vita interiore profondamente agitata, sperimenta ora su di sé quel che un tempo aveva descritto a mo' di monito e presagio: «Se si è applicato lo spirito ad acquistare il dominio sulla smoderatezza delle passioni, ciò accade magari con la spiacevole conseguenza che si trasferisce la smoderatezza nello spirito e che si eccede in avvenire nel pensare e nel voler conoscere» (Umano, troppo umano). Nell'impeto di un tale bisogno di eccedere, egli crea per sé un nuovo motto: «Nulla è vero, tutto è permesso!» (Genealogia della morale) ed esalta il valore dell'illusione, della finzione volontaria, di quel che non è logico e «non è vero» in quanto forze che in fondo sostengono la vita e accrescono la volontà. Nietzsche si delizia dell'idea che siamo noi stessi, come creatori, a introdurci dentro all'immagine del mondo che ci siamo costruiti intorno, con tutta la particolarità del nostro animo - e che il nostro conoscere non sia in ultimo altro che una «umanizzazione delle cose» - fino al punto in cui il mondo si dilegua in un'immagine di sogno che ciascun individuo può ideare in base al proprio arbitrio. (pp. 123-125) La sua dolorosa «molteplicità di anime», la sua violenta «scissione» in una parte che si sacrifica e che adora e in un'altra che domina e viene divinizzata, stanno alla base del suo quadro complessivo dell'evoluzione del genere umano. Ovunque parli di schiavi e signori, bisogna tener bene a mente che egli parla di se stesso, mosso dallo struggimento di una natura dolente disarmonica per un'indole opposta alla sua, e dal desiderio di poter guardare a essa come al proprio Dio. E il suo io quello che descrive, quando dice dello schiavo: «Il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio» (Genealogia della morale, 1, 10); e nella natura signorile, nel primordiale uomo dell'azione, attivo, felice, sicuro dei propri istinti, incurante, egli descrive la figura contraria alla sua. Ma facendo dell'uno il presupposto dell'altro, facendo della natura umana in quanto tale lo scenario su cui si incontrano ogni volta questi due elementi opposti per superarsi a vicenda, egli li concepisce come stadi evolutivi all'interno dello stesso essere, i quali, dal punto di vista storico, permangono antitetici, ma nel singolo ente, dal punto di vista psicologico, risultano come una scissione essenziale all'interno dell'uomo che si evolve. La sua concezione della lotta storica tra schiavi e signori, in tutta la sua portata, non è dunque altro che una grossolana illustrazione di quel che accade in ogni uomo superiore, del crudele processo psichico attraverso cui questi deve scindersi in Dio del sacrificio e in animale del sacrificio. (p. 147) Ciò che egli respinge nel modo più risoluto lungo il suo cammino, alla fine lo utilizza per annetterlo alla sua meta finale, al suo scopo. Si può anzi essere certi del fatto che dove Nietzsche si accanisce e disprezza qualche cosa con un astio tutto particolare, là vi è qualcosa che in un modo o nell'altro si nasconde nel profondo, nel cuore della sua filosofia o della sua vita. E questo vale sia per le persone, sia per le teorie. E’ lo stesso Nietzsche, peraltro, ad ammettere che l'oggetto con cui ingaggia la sua lotta ha posseduto un qualche valore come momento dello sviluppo verso la concezione da lui proposta. (pp. 153-154) Nietzsche ha pronunciato una volta la frase paradossale: «Ridere significa essere maligni con tranquilla coscienza» (La gaia scienza). Una malignità superiore, che si allieta del proprio male, che è anzi in grado di infliggerselo, corre attraverso tutta la vita e tutta la sofferenza di Nietzsche come un'eroica autocontraddizione e un'eroica risata. Ma nella possente forza d'animo con cui riuscì a porsi così in alto sopra di sé, vi era, a volerla vedere da psicologi, un'intima giustificazione del suo considerarsi come una dualità mistica: in ciò è racchiuso per noi il senso e il valore più profondo della sua opera. Dal suo sorriso giunge anche a noi un duplice suono che ci commuove: la risata di un folle e il riso del vincitore. (pp. 191-192) Il pensieroNietzsche distingue due grandi insiemi di caratteri: quello in cui i diversi sentimenti e i diversi istinti si trovano in armonia tra loro, formando una sana unità, e quello in cui gli istinti e i sentimenti si reprimono e si combattono vicendevolmente. Paragona la situazione del primo insieme - a livello del singolo individuo - a quella dell'umanità al tempo del branco, prima dell'emergere di una forma di stato: come in quella situazione l'individuo possiede la propria individualità e il proprio sentimento di potenza solo nella cerchia ristretta del branco, così avviene per i singoli istinti nel chiuso della personalità di cui costituiscono la quintessenza. Le nature che appartengono al secondo insieme, invece, vivono nella propria interiorità così come vivrebbero gli uomini durante una guerra di tutti contro tutti: la personalità stessa, in certa misura, si dissolve in un aggregato di personalità istintuali dispotiche, in una molteplicità di soggetti. (p. 29) Non è tuttavia necessario seguire Nietzsche in tutte le sue spiegazioni e nella sua interpretazione della storia talvolta arrischiata, perché il vero significato di questa concezione per la sua filosofia si trova in luoghi diversi da quelli in cui lo si cerca d'abitudine. Spinto dal bisogno di generalizzare il più possibile e di trovare un fondamento scientifico, Nietzsche ha tentato [193] di ricavare dalla storia del genere umano e di introdurre in essa qualcosa la cui importanza risiedeva per lui in una recondita problematica psicologica. Il fatto che si confonda il corso dei pensieri nietzscheani, insistendo oltre il dovuto sull'aspetto errato della questione - quello della scientificità - è perciò degno di riprovazione. Anche per queste ipotesi di Nietzsche infatti, e in modo quanto mai particolare per esse, vale il principio in base a cui non è lecito appropriarsene per via teoretica per poi ricavarne il nucleo originale. La questione fondamentale di Nietzsche non riguardava la storia dell'anima umana, ma il modo in cui la storia della sua propria anima poteva essere intesa come quella dell'umanità intera. In nettissimo contrasto con lo scrupolo filologico con cui nel suo primo periodo, e per l'essenziale anche nel periodo successivo, aveva interpretato la storia e la filosofia, la precisione della ricerca scientifica non svolgeva adesso più alcun ruolo accanto alle sue idee e alle sue intuizioni geniali - e non poteva peraltro più svolgerne alcuno, dal momento che qualsiasi lavoro scientifico gli risultava ormai impossibile. Per tutti i lavori che ancora avrebbe voluto vergare, valgono dunque le parole tratte da La gaia scienza, secondo cui noi restiamo «sempre in nostra compagnia» anche quando presumiamo di estrarre dalle cose qualcosa di estraneo: «Tutto ciò che è della mia specie nella natura e nella storia, mi parla, mi loda, mi spinge innanzi, mi consola: il resto non lo intendo o lo dimentico subito». «Limiti del nostro udito. Si odono solo le domande alle quali si è in condizione di trovare una risposta» (ivi, 196). «Per quanto grande sia l'avidità della mia conoscenza, non potrò estrarre dalle cose null'altro che già non mi appartenga - mentre ciò che appartiene ad altri resta nelle cose» (ivi, 242). Trattando in modo così arbitrario il materiale delle sue ipotesi filosofiche, egli si allontanò alquanto dall'osservazione spassionata e dalla fondazione scientifica, divenne più soggettivo nelle sue conclusioni e nelle sue deduzioni di quanto non fosse stato negli anni in cui si limitava ancora consapevolmente alla propria esperienza vissuta. Quel che assume significato nella sfera intima diventò quel che decide e impone le sue leggi sul mondo esterno, e Nietzsche stesso divenne il «grande despota», il «mostro accorto che, esercitando la sua clemenza e inclemenza, costringe e fa violenza a tutto il passato: fino a farlo diventare il suo ponte, e presagio e araldo e canto del gallo» (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove»). (pp. 144-145) Egli assegna il diritto di esistere agli impulsi disprezzati, temuti, maltrattati, alle passioni dell’uomo «naturale» non ancora messo in riga da nessuna morale. Convinto del fatto che ciò non conduca a una divisione in forze buone e cattive, ma a un rafforzamento e al massimo incremento della forza vitale in generale – sicché la vita possa realizzare di sé il suo scopo supremo -, egli è disposto a concedere che «all’uomo sono necessarie le sue cose peggiori per le migliori, -- che tutto quanto è peggiore in lui è anche la sua migliore energia e la pietra più dura per il supremo artefice; e che l’uomo deve diventare migliore e peggiore» (Così parlò Zarathustra, «Il convalescente»). (p. 149) Del tutto a torto e con un fraintendimento grossolano gli è stato rimproverato il fatto che il suo «superuomo» possiede i tratti di un Cesare Borgia o di un depravato essere inumano, invece di quelli di un Gesù. Ma l'essere «inumano» non è in verità il modello, ma soltanto il piedistallo per il «superuomo»; rappresenta, per così dire, il blocco di granito grezzo necessario all'innalzamento della statua di una divinità. Ma nella forma e nella sostanza questa statua divina dell'ideale del superuomo non è soltanto diversa, bensì è anche l'opposto del piedistallo. E l'antitesi è concepita in modo così profondo e marcato come non accade nemmeno nel caso della morale ascetica. Ogni morale aspira soltanto a un miglioramento e a un abbellimento di ciò che è umano, mentre Nietzsche muove dal presupposto che debba essere creata una nuova specie, una specie superiore. Concepisce perciò come una rottura completa, come la lotta di elementi opposti ostili, quel che finora era stato inteso come un passaggio da qualcosa di più basso a qualcosa di più alto in cui l'immagine ideale che fungeva da meta conservava i tratti tipici di ciò che è umano: quel che era soltanto una differenza di grado tra l'uomo «naturale» e l'uomo « morale » all'interno di una comune essenza umana, diventa per Nietzsche un contrasto assoluto di essenze tra l'uomo di natura e il superuomo. Si può dunque affermare che se si considera la via morale imboccata da Nietzsche, il tratto che la connota più di ogni altro è quello antiascetico, dal momento che essa non è simile al sentiero erto e pietroso della rinuncia a se stessi, ma conduce in mezzo a una foresta tropicale di godimento spensierato di sé. Se invece si osserva con attenzione la meta morale di Nietzsche, allora essa si rivela di natura interamente ascetica, dal momento che non intende soltanto elevare l'uomo, ma oltrepassarlo completamente, non soltanto purificarlo, ma superarlo (aufheben) del tutto. Da un lato dunque Nietzsche combatte la morale corrente per via del suo fondamentale carattere ascetico, per via del suo disprezzo e della sua condanna dei bassi desideri umani, a cui assegna invece un valore alto in quanto fonti di forza per l'uomo; dall'altro, tuttavia, combatte con impeto non minore la morale dominante laddove essa non è ancora per lui sufficientemente ascetica. Si rivolta contro la sua fede ottimistica secondo cui l'uomo potrebbe essere fatto avvicinare a una meta ideale attraverso una determinata forma di purificazione: l'uomo infatti, secondo Nietzsche, non ne è capace, e ogni tentativo di nobilitarlo poggia su di un mero indebolimento della forza vitale elementare. «Li avevo visti nudi una volta ambedue, il più grande e il più piccolo degli uomini: troppo simili l'uno all'altro, - anche il più grande, ancora troppo umano! » (Cosìparlò Zarathustra, «Il convalescente»). Il tentativo compiuto da ogni morale per rendere l'essere umano simile a un essere ideale si rivela soltanto un'imitazione fittizia a danno della vera forza; ogni trasformazione morale è perciò solo una sorta di camuffamento estetico di una natura umana infiacchita, ma peraltro completamente immutata. «Come? Un grand'uomo? Ma io non vedo che un commediante del suo proprio ideale » (Al di là del bene e del male, 97). «Cercavo uomini grandi e trovai soltanto le scimmie del loro ideale» (Crepuscolo degli idoli, «Sentenze e frecce», 39). A questa concezione pessimistica dell'uomo corrisponde il tratto di fondo radicalmente ascetico posseduto dalla meta ideale della filosofia nietzscheana: essa può infatti essere raggiunta soltanto attraverso il tramonto dell'uomo. E questo tratto fondamentale emerge in modo tanto più estremo quanto più Nietzsche si sforza di sconfessare e di ripudiare ogni forma di ascetismo. Quanto più esclusivamente si richiede fin dall'inizio la crescita della forza egoistica, tanto più immane appare, alla fine di questa evoluzione, la richiesta di rinunciare al proprio sé perché possa crearsi spazio per il superuomo. Se prima si diceva: l'uomo è qualcosa che deve diventare cattivo, selvaggio e crudele, alla fine si dice: «l'uomo è qualcosa che deve essere superato» - ogni forma di crudeltà e ferocia esiste solo per rivolgersi contro l'uomo e annientarlo. I due aspetti dell'etica di Nietzsche divergono in modo tanto inconciliabile da far sì che egli li raccolga in un unico precetto, nella prima e unica legge morale che deve essere incisa sulle nuove tavole di valori: «Divenite duri! » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove» e Crepuscolo degli idoli, «Parla il martello»). Nella esortazione: «Divenite duri!» si mostra chiaramente il carattere ancipite della morale di Nietzsche, con i suoi tratti di crudeltà totalmente tirannica e di rinuncia ascetica. Diventare duri vuole infatti dire, in un caso, forza di resistenza contro tutti i moti dell'animo teneri e benevoli, impietrirsi in un godimento egoistico, insomma: durezza contro gli altri, buona volontà per l'esercizio di un potere dispotico; nell'altro caso, invece, significa durezza verso se stessi, vuol dire: la durezza vi rende nobili così come nobilita la pietra che l'artista trasforma in una grande opera d'arte. Tutto vi è concesso tranne una cosa: non potete cedere, non potete sbriciolarvi durante il suo lavoro altrimenti tutta la vostra umanità, per quanto in alto possa risultare agli occhi della vecchia morale, è buona solo per l'immondezzaio, è da spazzare via, è rifiuto e materiale guasto. In questa prospettiva la cosa più infame sembra la spaurita tenerezza del sentimento, la tentennante esitazione di fronte a ciò che è terribile e decisivo. Infatti, così canta Zarathustra, il creatore dell'avvenire: «La mia ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l'uomo; così il martello viene spinto verso la pietra. Ah, uomini, nella pietra è addormentata un'immagine, l'immagine delle mie immagini! Ah, che essa debba dormire nella pietra più dura e più informe! E ora il mio martello infuria crudelmente contro la sua prigione. Dalla pietra un polverio di frammenti: che mi importa? » (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). Siamo così giunti di fronte all'enigma e al mistero delle dottrine di Nietzsche, di fronte alla questione: come è in generale possibile la nascita dell'essere superumano da quello inumano se entrambi devono essere concepiti come due opposti inconciliabili. La risposta a questo interrogativo ricorda involontariamente una vecchia ricetta per la salute morale che recita più o meno così: «Per liberarsi da un difetto, gli si ceda e lo si esageri finché esso non prenda a spaventarci con la sua esagerazione e il suo eccesso». La ricetta per la salute morale che Nietzsche prescrisse all'umanità, giacché per se stesso non conosceva nulla di più efficace, presenta una certa somiglianza con essa. In effetti, attraverso lo scatenamento di tutti gli impulsi più selvaggi, egli voleva fare approdare l'uomo a una situazione in cui il godimento egoistico, per eccesso ed esagerazione, si mutasse in un dolore per se stessi. (pp. 150-152) A una comprensione più profonda dello Zarathustra si giunge dunque meno seguendo la filosofia di Nietzsche che la sua psicologia, seguendo le tracce dei moti nascosti del suo animo che determinano le idee etiche e religiose che sono alla base della sua mistica singolare. In tal modo si vede allora come le teorie nietzscheane scaturiscano tutte dal bisogno di una redenzione di se stesso [Selbsterlösung], dall'anelito di fornire alla propria interiorità dolente e inquieta quel sostegno che il credente trova nel suo Dio. Questo desiderio e questa aspirazione violenti ottengono infine, a forza, il loro soddisfacimento: si crea il Dio, o comunque una divina entità superiore in cui viene proiettato e trasfigurato il rovescio della propria immagine. L'immagine duplice che Nietzsche fornì di se stesso, e in cui egli si contemplava come in un «secondo io», è incarnata nel suo Zarathustra, cammina con lui, per così dire, sulle sue gambe. (pp. 157-158) La dottrina nietzscheana dell'eterno ritorno non è mai stata messa in rilievo e apprezzata a sufficienza, sebbene in certa misura costituisca sia le fondamenta sia il coronamento dell'edificio concettuale di Nietzsche, e sia stata l'idea da cui egli ha preso le mosse nella sua concezione della filosofia dell'avvenire, così come quella con cui la concluse. Nietzsche non sopportava il fatto di mantenere un silenzio totale su quel che riempiva e agitava la sua mente. Ma parlare di questa nuova conoscenza lo inquietava al punto da inserire il suo pensiero del ritorno come un'idea innocua tra le altre, senza dare affatto nell'occhio, sicché chi lo legge non coglie il nesso con la solenne considerazione finale: Incipit tragoedia - « così segretamente che nessuno vi badi, che nessuno badi a noi» (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione»). Esso sta dunque in mezzo agli altri pensieri - avvolto da un velo più fitto di quello degli altri - e lo spirito di Nietzsche, così ricco e felice di segreti, ha trovato di che divertirsi, malgrado la profonda inquietudine, con un raffinato scherzo di carnevale: nascondere al meglio qualcosa lasciandolo scoperto e senza veli. Egli rimuginava quel pensiero come una fatalità inevitabile che voleva «fargli subire una metamorfosi e stritolarlo»; cercava affannosamente il coraggio di confessarlo a se stesso e agli uomini, in tutta la sua portata, come una verità irrefutabile. Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante. La quintessenza della dottrina del ritorno, la sfavillante apoteosi della vita che Nietzsche enunciò più tardi, costituisce un'antitesi così profonda al suo tormentato modo di sentire la vita stessa, da darci l'impressione di una maschera sinistra. Diventare l'annunciatore di una dottrina che risulta sopportabile solo nella misura in cui l'amore per la vita prende il sopravvento, che può avere un effetto esaltante solo laddove il pensiero umano s'innalza fino alla divinizzazione della vita, doveva in verità rappresentare una contraddizione tremenda per il suo più intimo modo di sentire - una contraddizione che in ultimo lo ha stritolato. Tutto quel che Nietzsche ha pensato, sentito e vissuto dalla nascita del pensiero del ritorno in poi, origina da questo dissidio del suo animo, oscilla tra il «maledire digrignando i denti il demone dell'eternità della vita» e l'attesa di quell'« attimo immenso » che dà la forza di dire: « Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina! ». Quanto più in alto egli si spingeva, come filosofo, esaltando in modo totale la magnificazione della vita, tanto più profondamente soffriva, come uomo, della sua stessa dottrina. A quell'epoca, come già detto, l'idea del ritorno non era ancora diventata una convinzione per Nietzsche, ma solo un timore. Aveva intenzione di darne l'annuncio nel caso fosse riuscito a fornirne una giustificazione scientifica. Ci scambiammo una serie di lettere a questo proposito e dalle affermazioni di Nietzsche emergeva sempre l'opinione erronea che fosse possibile acquisire un saldo fondamento scientifico basandosi su studi di fisica e sulla dottrina degli atomi. Fu allora che decise di studiare per dieci anni esclusivamente scienze naturali, all'università di Vienna o di Parigi. Soltanto dopo anni di silenzio assoluto, nel caso avesse riportato il temuto successo, avrebbe voluto fare la sua comparsa tra gli uomini come il maestro dell'eterno ritorno. È risaputo che le cose andarono in modo del tutto diverso. Motivi di natura interna ed esterna impedirono il lavoro che Nietzsche aveva progettato e lo spinsero di nuovo verso il Sud, nella solitudine. Ma il decennio di silenzio diventò il decennio più eloquente e fecondo di tutta la sua vita. Uno studio superficiale bastò a mostrargli che la fondazione scientifica della dottrina del ritorno sulla base della teoria atomistica non era realizzabile; il suo timore - che si potesse fornire una dimostrazione inconfutabile dell'esattezza del pensiero fatale - non pareva trovare conferma e Nietzsche sembrò liberato dal compito di doverne dare l'annuncio, da questo destino atteso con orrore. Ma a questo punto accadde qualcosa di particolare: lungi dal sentirsi liberato da ciò che era riuscito a scoprire, adottò addirittura un comportamento opposto; nel momento in cui la paventata fatalità parve allontanarsi da lui, se ne fece risolutamente carico e portò la sua dottrina tra gli uomini; nel momento in cui la sua allarmata congettura risultò indimostrabile e insostenibile, come per magia essa acquistò per lui la solidità di una convinzione inconfutabile. Quella che doveva diventare una verità dimostrata scientificamente assunse il carattere di una rivelazione mistica, e da allora in poi Nietzsche assegnò alla sua filosofia, quale fondamento definitivo, invece di una base scientifica, l'ispirazione interiore, la sua personale ispirazione. Che cosa, nonostante le resistenze opposte dalla paura da un lato, e la mancanza di una dimostrazione dall'altro, esercitò su di lui un'influenza tale da fargli mutare avviso? Soltanto la soluzione di questo enigma ci consente di gettare uno sguardo sulla vita spirituale recondita di Nietzsche, sulle cause che originarono le sue teorie. Una nuova e più profonda significatività delle cose, un nuovo mettersi in cerca e porre domande intorno ai problemi ultimi e sommi: tutto ciò che Nietzsche come metafisico aveva avuto modo di conoscere e di cui come essere empirico avvertiva dolorosamente la mancanza, fu questo a spingerlo dentro alla mistica della sua dottrina dell'eterno ritorno. Per quanto essa potesse risultare collegata a nuovi tormenti dell'animo, per quanto potesse addirittura stritolarlo, egli preferì farsi carico del dolore della vita piuttosto che seguitare a privarla del suo aspetto divino e spirituale. Al di là di questo, riusciva a venire a capo di tutti i suoi dolori: non li sopportava soltanto, ma era anche in grado di stimolare e incitare il suo spirito verso di loro poiché gli insegnavano a indagare e a cercare in modo incessante un senso, il più profondo senso recondito della vita. (pp. 162-166 passim) L'ultima filosofia di Nietzsche rappresenta l'esatto contrario della sua prima visione filosofica del mondo: la metafisica schopenhaueriana con la sua magnificazione dell'ideale buddhistico dell'ascesi, dell'annientamento della volontà e del rifiuto della vita. L'antica dottrina indiana di un'eterna rinascita nella trasmigrazione delle anime, come maledizione che si abbatte su chi non sia giunto sino alla negazione di se stesso, viene addirittura rovesciata da Nietzsche. Non la liberazione dalla costrizione del ritorno, ma la felice conversione a essa è infatti per lui la meta della suprema aspirazione morale; non nirvana, ma samsàra è il nome dell'ideale supremo. Questa correzione dell'elemento pessimistico in uno ottimistico è la vera differenza tra il primo pensiero di Nietzsche e quello della maturità, e rappresenta nell'evoluzione di questo solitario dolente un'eroica vittoria del superamento di sé. Inesorabilmente presi al laccio del ciclo della vita, legati a esso per l’eternità, noi dobbiamo imparare a dire «sì» a tutte le sue manifestazioni per poterle sopportare; soltanto attraverso la forza e la gioia di un simile «sì» ci riconciliamo con la vita identificandoci con essa. Allora prendiamo a sentirci come una parte creativa del suo essere, anzi come questo essere stesso nella sua forza e nella sua pienezza insaziabili e traboccanti. L'amore senza riserve per la vita, basato sulla forza vitale, è quindi l'unica sacra legge morale del nuovo legislatore; V esaltazione della vita scatenata fino all' ebbrezza prende il posto dell' innalzamento religioso, anzi di un culto della divinità. (pp. 168-169 passim) L'importanza della figura di Zarathustra per l'animo di Nietzsche si palesa interamente nel momento in cui questa fa la sua comparsa per affermare la dottrina dell'eterno ritorno; egli la credeva contenuta in se stesso come un essere mistico, separata però dalla sua forma di esistenza naturale e umana in quanto Nietzsche. Nel suo aspetto esteriore contingente, legato al tempo, condizionato dalle circostanze e dalle peripezie della sua vita transitoria, Nietzsche si considerava infatti un «decadente» come gli altri, meritevole di perire e quindi a ciò destinato. D'altro canto, però, si riteneva il medium, necessariamente predisposto alla malattia, attraverso cui l'eternità di tutti i tempi diventa consapevole di se stessa e del proprio senso, il genio dell'umanità fattosi carne in cui il passato scioglie per il presente l'enigma di ogni futuro. Credeva così di impersonificare ciò che aveva descritto come il significato più alto della decadenza umana: si sentiva malato dei dolori del parto che spettano a un essere superumano, a qualcuno che deve tramontare e spezzarsi in favore di una nuova e suprema creazione che avrebbe redento il mondo. (pp. 172-173) La genialità umana, secondo Nietzsche, viene cagionata in misura sempre minore dalla conoscenza o dall'avere acquisito una sensibilità per ciò che è storicamente avvenuto; la pienezza degli eventi si trova già nell'uomo e può essere rievocata e riportata alla coscienza attraverso una più profonda immersione in se stessi. Già in Umano, troppo umano Nietzsche menziona quella proprietà delle passioni di ridestare in noi cose assopite che appartengono a vicende passate: «Tutti gli stati d'animo più forti portano con sé una risonanza di sentimenti e disposizioni affini: essi sommuovono per così dire la memoria». Ma ciò non vale soltanto per il passato individuale con le sue passioni, ma anche per pensieri e sensazioni andate perdute nel corso dell'evoluzione dell'umanità; l'individuo ne è infatti un prodotto e ne contiene in sé i differenti gradi in modo duraturo. (pp. 175-176) Nietzsche aveva cominciato presto a lambiccarsi il cervello sull'importanza della follia come possibile fonte di conoscenza e sul significato che poteva essere riposto nel fatto che gli antichi vedessero in essa un segno di elezione. A tal riguardo, in La gaia scienza egli dichiara: «Solo chi spaventa dirige», e in Aurora si trovano queste parole degne di nota che riportano alla mente la sua successiva idea di un genio dell'avvenire che incarna in sé tutto il passato dell'umanità: «Nelle esplosioni della passione e nei vaneggiamenti del sogno e della follia, l'uomo riscopre la sua preistoria e quella dell'umanità [...]; la sua memoria affonda, allora, abbastanza lontano nel passato, mentre la sua condizione di civilizzato si evolve a partire dall'oblio di quelle esperienze originarie, dunque dall'indebolirsi di quella memoria. Chi, come un immemore di altissima schiatta, è restato sempre molto lontano da tutto questo, non comprende gli uomini» (Aurora). Come in Aurora vengono spesso chiariti o confutati pensieri che hanno già preso ad agire in segreto su Nietzsche, così anche questa descrizione mostra in quale misura gli stati di ebbrezza gli sarebbero successivamente sembrati la prova di una condizione eletta. Egli muoveva dallo sconforto e dall'orrore per tutto ciò che esiste, da una caricatura della realtà che era nata in lui da una caricatura del positivismo, e voleva creare al loro posto qualcosa di nuovo e di magnifico. Ma dal momento che questa creazione poggiava esclusivamente su Nietzsche, essa stava e cadeva insieme alla sua fiducia - in sé non aveva alcuna sussistenza. I dubbi che lo angustiavano dovevano perciò essere migliaia, non appena si perdeva d'animo anche solo per un momento; implacabile pur tuttavia il desiderio, in questa umanità vacillante e dubbiosa, di distinguere se stesso da un essere sicuro di sé da un'eternità, di distinguere Nietzsche da Zarathustra: se al primo potevano toccare in sorte anche le cose più tremende nel tramonto che il tempo gli assegnava, per il secondo ciò era un segno di elezione e di innalzamento; se il primo poteva dover sprofondare in una condizione di terribile caos sino a divenire una bestia, per il secondo ciò era soltanto l'espressione di una capacità di tenere tutto in sé, anche quel che è infimo e profondissimo. (p. 181) Di fronte alle ultime opere di Nietzsche - quelle in cui all'apparenza egli erige con la massima indipendenza il proprio sistema - si ha così spesso la sensazione che egli stia con lo sguardo e il volto rivolti all'indietro, che si riaccosti di nuovo ai luoghi andati delle sue antiche metamorfosi, sebbene se ne allontani il più possibile nell'autonomia di ipotesi raggiunte in modo del tutto individuale. La chiave di questa contraddizione sta nel fatto che egli trae dalle sue convinzioni precedenti solo ciò in cui trova espressione la sua natura individuale, il suo segreto volere, ciò che in tutte le teorie ricavate da altri pensatori era dovuto in fondo servire a questo spirito appassionato come pretesto inconsapevole, come opportunità involontaria per la sua evoluzione interiore. Giunto alla fine, egli si concentra sul carattere unitario della sua vita interiore, la scruta e la osserva in trasparenza mettendone in risalto la coerenza sottesa a tutte le sue trasformazioni, con la stessa enfasi con cui un tempo sottolineava soltanto la sua capacità di trasformazione. Come qualcuno che abbia in mente d'intraprendere un viaggio senza ritorno, come qualcuno che intenda accomiatarsi e che perciò raduni attorno a sé tutto quel che un tempo era suo, così vediamo ora Nietzsche raccogliere dalle varie fasi spirituali che ha attraversato ciò che gli appartenne. Egli compie una «valutazione di quel che si è raggiunto e voluto, una somma della vita» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale»): «Ecco che torna indietro, ecco che finalmente torna a casa - il mio me stesso, e insieme tutto quanto per lungo tempo era stato in terra straniera e disperso tra tutte le cose e le casualità» (Cosìparlò Zarathustra, «Il viandante»). Questo lo rende ingiusto nei confronti dei suoi compagni di un tempo e dei loro convincimenti; voleva dimenticare quanto spesso avevano determinato la direzione del suo pensiero: «Quando la casa è costruita, bisogna togliere le impalcatare» (Il viandante e la sua ombra, 335). È questa la «Morale per costruttori di case»: questo egli pensava, ignorando che per la sua costruzione c'erano sempre volute delle impalcature. (p. 188) Nell'autunno del 1888, dopo aver portato a termine il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori (La volontà di potenza), che non è ancora stato pubblicato, Nietzsche credette di aver concluso, almeno in via provvisoria, il proprio lavoro. Il Crepuscolo degli idoli, infatti, la cui prefazione porta la data del 30 settembre 1888, è stato palesemente scritto in uno stato d'animo di compiutezza e di attesa della fine. Indicativo di ciò è il fatto che il primo titolo di questo scritto recitasse Ozio di uno psicologo e che nella prefazione esso venga addirittura definito «uno svago». Si tratta tuttavia di un ozio quanto mai interessante, uno di quei libri di Nietzsche in cui egli si rivela maggiormente e spiattella i segreti della sua anima. (p. 190) La solitudineCon l'aumentare della solitudine, ogni forma di esteriorità si muta in parvenza, in semplice velo ingannatore che la profondità solitaria tesse intorno a sé per farsi superficie che lo sguardo umano possa intendere. «Gli uomini che pensano profondamente appaiono a se stessi commedianti nei rapporti con gli altri, perché allora, per essere capiti, devono sempre simulare una superficie» (Umano, troppo umano). Persino i pensieri di Nietzsche, nella misura in cui vengono formulati in guisa teoretica, potrebbero essere messi in conto a questa superficie dietro la quale, profonda e muta come l'abisso, sta la vita interiore da cui sono emersi, simili a una « scorza che tradisce l'esistenza di qualcosa, ma ancor di più la nasconde» (Al di là del bene e del male); infatti, egli scrive: «O si nascondono le proprie opinioni o ci si nasconde dietro le proprie opinioni» (Umano, troppo umano). Trova poi una bella definizione di se stesso allorché parla di quanti stanno «nascosti sotto mantelli di luce» (Al di là del bene e del male), di chi si fa velo della chiarezza dei propri pensieri. In ogni fase della sua evoluzione intellettuale noi troviamo Nietzsche alle prese con qualche forma di mascheramento, ed è sempre una di queste forme a caratterizzare effettivamente il livello di sviluppo che le corrisponde: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera. [...] Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera » (Al di là del bene e del male). «- Chi sei tu, viandante? [...] Riposati qui. [...] Ristorati! [...] Che cosa ti serve per ristorarti? [...]- "Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh curioso che sei, che vai mai dicendo? Ma dammi ti prego..." - Cosa? Cosa? Parla! - "Una maschera ancora! Una seconda maschera! "...» (Al di là del bene e del male). E non potrà non colpirci il fatto che nella misura in cui la sua solitudine e la sua arzigogolata relazione con se stesso si fanno esclusive, anche il significato del travestimento si fa più profondo e la vera natura e il vero essere si rendono sempre meno visibili, retrocedendo dietro le forme esteriori o l'apparenza che sta in primo piano. Già in Il viandante e la sua ombra Nietzsche tratta de «La mediocrità come maschera». «La mediocrità è la maschera più felice che lo spirito superiore possa portare, poiché essa non fa pensare alla gran massa, cioè ai mediocri, che si tratta di mascheramento: e tuttavia egli la mette su proprio per loro, per non irritare loro, anzi non di rado per compassione e bontà». Questa maschera innocua si sarebbe poi mutata in una maschera tremenda che avrebbe nascosto cose ancora più tremende: «E talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo» (Al di là del bene e del male), - e infine in un'ingannevole istantanea della risata divina che anela a trasfigurare il dolore in bellezza. Nel quadro della sua ultima mistica filosofica Nietzsche è così andato gradualmente affondando in un'estrema solitudine nel cui silenzio ci è impossibile seguirlo, di cui null'altro ci resta - quali simboli e accenni - se non le maschere ridenti dei suoi pensieri e la loro interpretazione; Nietzsche, invece, è già divenuto per noi ciò che una volta si firmò in una lettera: «Smarrito per sempre» (lettera dell'8 luglio 1881 da Sils-Maria). Questa intima solitudine, questo isolamento, rappresentano la cornice immutabile dalla quale, attraverso tutte le sue metamorfosi, il volto di Nietzsche ci guarda. Per quanto si travesta, egli porta sempre con sé «il deserto e la sacra invalicabile zona di frontiera, dovunque vada» (Il viandante e la sua ombra). E in una lettera dall'Italia del 31 ottobre 1880, indirizzata a un amico, trova espressione anche il bisogno che la sua esistenza esteriore possa corrispondere a quest'intima solitudine: «La solitudine, la perfetta solitudine, mi si mostra con sempre maggior evidenza come il rimedio, così come una passione naturale - e la condizione in cui possiamo realizzare le nostre cose migliori la dobbiamo creare anche a costo di molti sacrifici». (pp. 22-24) Già guidare me stesso m'è odioso! Mi piace, come gli animali del bosco e del mare, Smarrirmi per un buon tratto di tempo, Almanaccando intanarmi in un labirinto soave, E finalmente, dalle lontananze, attirare me stesso a casa, E sedurre me stesso a me stesso! (La gaia scienza, «Scherzo, malizia e vendetta») Questi versi sono intitolati Il solo, vale a dire colui che se ne sta il più possibile appartato dalle pretese e dalle battaglie del mondo; chi conduce una vita del genere diventa sempre meno bellicoso nei confronti del mondo esterno, nella misura in cui la sua sfera interiore viene stordita e scossa dalle guerre, le vittorie, le sconfitte e le conquiste che hanno luogo nei suoi istinti. Nell'isolamento di chi è immerso in se stesso e nell'ampliamento dei propri confini, questa vita cerca invece un manto che la risparmi e la protegga dalle vicende della vita esteriore con il loro clamore e il loro pericolo - ma ciò nondimeno essa si trova sempre in lotta e viene sempre ferita; a quest'uomo della conoscenza ben si attaglia la descrizione: «Un uomo che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta, spera, sogna cose fuori dall'ordinario; che viene colto dai suoi stessi pensieri quasi dal di fuori [...], come da quel genere di avvenimenti e di fulmini che è suo proprio » (Al di là del bene e del male, 292). (pp. 32-33) Quanto più le sofferenze fisiche costringevano Nietzsche alla solitudine, e quanto più doveva vivere isolato, lontano da tutti gli uomini per potere sopportare queste sofferenze, tanto più struggente era il desiderio di vedere l'amico [Paul Rée] capace di fare della sua solitudine una «solitudine a due» [Zwei-samkeit]: «Dieci volte al giorno vorrei essere da Lei, con Lei» (lettera da Basilea, dicembre 1878). In spirito continuo a legare il mio futuro al Suo» (da Ginevra, maggio 1879). «Ho dovuto rinunciare a molti desideri, ma non ancora a quello di vivere insieme a Lei - non ho rinunciato al mio "giardino di Epicuro"» (da Naumburg, l'ultimo giorno d'ottobre del 1879). I violenti dolori e le crisi di cui Nietzsche soffriva risvegliarono in lui pensieri di morte che conferivano a ogni incontro un significato profondo: « Quanta felicità mi ha regalato, mio amico caro, straordinariamente caro!» esclama dopo uno di questi incontri. (p. 79) In questi anni i due svilupparono opinioni tanto più concordanti, quanto più comuni erano i loro studi. Per lo più Rèe procurava a Nietzsche i libri di cui aveva bisogno, leggeva a voce alta per l'amico dagli occhi dolenti e viveva con lui una relazione e un continuo scambio di pensieri sia epistolare, sia diretto. «Mio carissimo amico [...]»- scrive Nietzsche dopo una separazione piuttosto lunga - «Per quando saremo insieme - se m'è dato provare ancora questa felicità - ho pronte molte cose dentro di me. E per quel momento è pronta anche una cassettina di libri intitolata Réealia, ci sono anche delle buone cose che Le faranno piacere. Può mandarmi un libro istruttivo, possibilmente di autore inglese,2 ma tradotto in tedesco e con bei caratteri grandi? Io vivo assolutamente senza libri, cieco per nove decimi come sono, ma dalle Sue mani accetterò volentieri il frutto proibito. - Evviva la coscienza, ora che avrà una sua storia e che il mio amico se ne è fatto lo storico ! Fortuna e prosperità sul suo cammino. Vicino a Lei con tutto il cuore, il Suo Friedrich Nietzsche» (p. 80) La malattiaFu la sofferenza fisica che lo costrinse a mutare la sua solitudine interiore in una esteriore quasi altrettanto perfetta, che lo allontanò dagli uomini e che rese possibile solo a grandi intervalli anche lo scambio con amici - raro e sempre a quattr'occhi. Sofferenza e solitudine, sono dunque questi i due grandi segni del destino nell'evoluzione intellettuale di Nietzsche, segni che si fanno tanto più marcati quanto più ci si approssima alla fine. E sino alla fine essi mostrano un singolare e duplice aspetto che li fa apparire come un caso della vita, ma anche come uria necessità intimamente voluta e condizionata da quanto accadeva nella sua anima. Anche la sua sofferenza fisica infatti, non diversamente dalla sua riservatezza e dalla sua solitudine, era il riflesso e il simbolo di qualcosa di profondo - e ciò in modo cosi immediato da far sì che egli l'accettasse, anche nelle sue vicende esteriori, come un buon amico o un compagno di strada che il destino gli aveva tenuto in serbo. In una lettera di condoglianze da Sils-Maria, di fine agosto 1881, scrisse queste parole: «Mi affligge sempre sapere che Lei soffre, che Le manca qualcosa, che ha perso qualcuno: in me, invece, la sofferenza e la privazione fanno parte della sostanza e non, come nel Suo caso, di quel che di non necessario e di non ragionevole vi è nella vita». A questo motivo sono da ricondurre i singoli aforismi, sparsi nelle sue opere, sul valore del dolore per la conoscenza. In essi Nietzsche descrive l'influsso sul pensiero degli stati d'animo dell'uomo malato e dell'uomo tornato alla salute, segue con finezza il trascorrere di questi stati d'animo nella più alta sfera spirituale. Una malattia che torna periodicamente a manifestarsi, quale era quella di Nietzsche, divide costantemente un momento della vita dall'altro, una fase speculativa da quella che la precede. Questa doppia vita consente di conoscere e avere consapevolezza di una duplice natura delle cose. Fa sì che ogni cosa possa apparire sempre nuova allo spirito - prenda «un nuovo sapore» come Nietzsche ebbe a dire una volta in modo quanto mai appropriato (Crepuscolo degli idoli, «Morale come contronatura»), - e consente uno sguardo del tutto nuovo su ciò che è più consueto e quotidiano. Quel che esiste da sempre acquista così qualcosa della freschezza e della lieve rugiada dell'aurora, poiché una notte lo separa dal giorno precedente. Ogni guarigione diventa dunque per Nietzsche una palingenesi di se stesso e al contempo della vita attorno a lui e sempre di nuovo la sofferenza viene «inghiottita nella vittoria». Se è lo stesso Nietzsche ad accennare al fatto che la natura della sua sofferenza fisica si riflette in certa misura nelle sue opere e nei suoi pensieri, lo stretto legame tra pensiero e sofferenza emerge in modo ancor più chiaro quando si prende in esame l'insieme della sua produzione e del suo sviluppo intellettuale. Qui non ci si trova infatti di fronte a quei graduali cambiamenti della vita intellettuale attraverso i quali passa chiunque cresca fino a raggiungere la forma che gli è naturale, ai mutamenti di una normale crescita, bensì a mutamenti e variazioni repentine, ad alti e bassi della condizione mentale che paiono quasi seguire un loro ritmo e che, in ultima istanza, non sembrano corrispondere ad altro che a un ammalarsi e a un guarire del pensiero. Solo muovendo dall'indigenza più estrema di tutta la sua indole, soltanto prendendo le mosse dalla più tormentata brama di guarigione, gli si schiudono nuove conoscenze. Ma non appena vi si consacra per intero, appena trova in esse un attimo di requie e le assimila alle proprie energie, allora viene colto come da un nuovo attacco febbrile, come da un inquieto e impellente eccesso di energia interiore che volge in ultimo il suo aculeo contro di sé e fa di lui stesso la sua malattia. «Soltanto una sovrabbondanza di forza è la dimostrazione della forza», afferma Nietzsche nella prefazione del Crepuscolo degli idoli; in questa sovrabbondanza la sua forza si cagiona sofferenza, si sfoga in lotte dolorose, si eccita in tormenti e commozioni di cui il suo animo vuole divenire fecondo. Affermando con orgoglio: «Quel che non mi uccide, mi rende più forte » (Crepuscolo degli idoli, « Sentenze e frecce») egli si flagella non fino a uccidersi, non fino alla morte, ma proprio fino a quelle febbri e a quelle ferite di cui ha bisogno. Questa esigenza del dolore corre attraverso l'intera evoluzione di Nietzsche e ne costituisce l'autentica fonte spirituale; essa trova l'espressione più adeguata nelle parole: «Spirito è la vita che taglia nella propria carne: nel suo patire essa accresce il suo sapere - lo sapevate? E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? [...] Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per l'incudine che lo spirito è, e nemmeno per la crudeltà del suo maglio! » (Così parlò Zarathustra, «Dei saggi illustri»). «Quel tendersi dell'anima nella sventura, [...] il suo brivido allo spettacolo della grande rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell'interpretare, nell'utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia, grandezza a essa toccò in dono - non lo ricevette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore? » (Al di là del bene e del male). In questo modo di procedere viene ancora una volta alla luce con particolare evidenza qualcosa di duplice: da un lato l'intimo nesso, nella natura nietzscheana, tra vita speculativa e vita interiore, la dipendenza della sua mente dai bisogni e dalle emozioni della sua sfera intima; dall'altro, però, la peculiarità per cui da questa stretta connessione devono nascere sempre nuovi patimenti; ogni volta che si deve attingere la somma chiarezza, la chiara luce della conoscenza, l'anima deve prendere ad ardere di un fuoco che, tuttavia, non può mai defluire in calore benefico, ma deve invece ferire con vampate abbacinanti e fiamme che guizzano; anche in questo caso, come ebbe a dire nella lettera menzionata in precedenza, vi è «la sofferenza come sostanza» della vita. Come la sofferenza fisica fu all'origine dell'isolamento esteriore di Nietzsche, così è nella sua sofferenza psichica che va colta una delle cause più profonde del suo spiccato individualismo, della sua tenace insistenza sul «singolo» come «solitario» nella specifica accezione nietzscheana. La storia del «singolo» è senz'altro una storia di dolore e non può essere paragonata ad alcuna forma di individualismo generico. Il suo contenuto mira assai meno all'« autosufficienza » che all'«autosopportazione». Nei dolorosi alti e bassi del suo spirito, si può leggere la storia di altrettante ferite che egli si infligge; Nietzsche tenta di occultare quest'eroica lotta con se stesso allorché pone al di sopra della propria filosofia queste audaci parole: «Questo pensatore non ha bisogno di nessuno che lo confuti: a ciò gli basta se stesso» (Il viandante e la sua ombra). La sua straordinaria capacità di venire ogni volta a capo del più duro superamento di sé, di sentirsi sempre a casa in mezzo a nuove conoscenze, sembra esistere soltanto per rendere ancora più impressionante la separazione da quel che ha appena acquisito. «Arrivo! Abbatti la tua capanna e vienimi incontro!» gli impone lo spirito; e con mano caparbia egli si priva del rifugio e si pone di nuovo in cerca delle tenebre, dell'avventura e del deserto, con il lamento sulle labbra: «Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le più belle cose che non mi seppero trattenere uno sguardo irato - giacché non mi seppero trattenere» (La gaia scienza). Non appena un modo di considerare le cose gli diviene congeniale, eccolo porre in pratica le sue stesse parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa» (Al di là del bene e del male). Il mutamento delle opinioni e l’impulso alla trasformazione sono dunque profondamente radicati nella filosofia di Nietzsche, sono d'importanza decisiva per il tipo di conoscenza a cui essa perviene. Non a caso, nel canto finale di Al di là del bene e del male, egli si definisce come «un lottatore che troppe volte se stesso ha domato [...]. Troppe volte ha conteso con la sua stessa forza, ferito e impedito dalla sua stessa vittoria » [«Da alti monti. Epodo»]. Nel quadro di questa eroica disponibilità a rinunciare alle proprie convinzioni, questo impulso al mutamento prende addirittura il posto, nell'animo nietzscheano, della fedeltà alle proprie convinzioni. In Il viandante e la sua ombra egli afferma: «Noi non ci faremmo bruciare per le nostre opinioni: non siamo abbastanza sicuri di esse. Ma ci faremmo forse bruciare per poter avere e per poter cambiare le nostre opinioni». E nelle pagine di Aurora questo proposito viene espresso con le belle parole: «Mai trattenere o tacere a te stesso qualcosa che può essere pensato contro il tuo pensiero! Promettilo a te stesso! Ciò rientra nella prima rettitudine del pensare. Ogni giorno devi anche muovere contro te stesso la tua campagna di guerra. Una vittoria e una trincea conquistata non sono più faccende tue, ma della verità, - ma anche la tua sconfitta non è più affar tuo!». Le frasi sono precedute dal titolo «In che senso il pensatore ama il suo nemico». Ma questo amore per il nemico nasce dall'oscuro presentimento che in quello possa essere celato un amico futuro e che nuove vittorie attendano soltanto colui che cade sconfitto; nasce dal presentimento che questo processo psichico di autotrasformazione, sempre uguale e sempre doloroso, rappresenti per Nietzsche l'inaggirabile presupposto di ogni energia creatrice: «È lo spirito che ci salva, perché non bruciamo e ci carbonizziamo completamente [...]. Liberati dal fuoco, procediamo allora, sospinti dallo spirito, di opinione in opinione [... ] come nobili traditori di tutte le cose» (Umano, troppo umano); «noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà; abbandonare sempre di nuovo i nostri ideali». Nella misura in cui si chiudeva in se stesso, questo solitario doveva per così dire moltiplicarsi, smembrarsi in una miriade di pensatori; soltanto così egli riusciva ad avere una vita spirituale. L'istinto che lo spingeva a ferirsi era solo un aspetto del suo istinto di autoconservazione: soltanto gettandosi sempre di nuovo nella sofferenza riusciva a sottrarsi al proprio dolore. «Solo al tallone io sono invulnerabile. [...] E solo dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni. - Così cantò Zarathustra» (Così parlò Zarathustra, «Il canto dei sepolcri»); lui, a cui una volta la vita «ha confidato questo segreto»: «Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa» (Così parlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi»). (pp. 24-28) Ora, è proprio questa la sua tipica esperienza interiore, che sempre ritorna, da cui egli sempre si risollevò, innalzandosi sopra di sé, nella quale infine sprofondò e andò in rovina. Ma in una tale esperienza non poteva che rovinare. Nel medesimo processo che sempre di nuovo gli assicurava guarigione ed esaltazione, si celava già infatti il momento patologico di questo tipo di evoluzione intellettuale. Ciò non balza subito all'occhio. Si poteva anzi supporre che, in una forza capace di curarsi in questo modo, dovesse essere racchiusa tanta salute quanta se ne trova nella pacata tranquillità con cui le forze si dispiegano armoniose. O addirittura una salute ancora più grande, giacché è in grado di rafforzarsi e dare prova di sé anche in quelle situazioni che cagionano febbri e ferite; poiché è in grado di trasformare lotte e malattie in uno stimolo per la vita e per la conoscenza, in sprone e perspicacia rispetto ai suoi scopi: una salute dunque che abbraccia, senza ricevere danno, lotta e malattia. E così Nietzsche, soprattutto in ultimo, soprattutto nel momento in cui era più malato, avrebbe voluto che la storia della sua sofferenza venisse intesa come la storia di una guarigione. Questa natura possente riusciva senz'altro a curarsi e a ritrovarsi nel suo ideale conoscitivo anche tra dolori e contrasti. Appena raggiunta la guarigione, essa aveva però nuovamente bisogno di lotte e sofferenze, di febbre e ferite. Era lei che, dopo essere riuscita a guarire, le chiamava di nuovo a sé, si volgeva contro se stessa, quasi traboccando, per scivolare in una nuova situazione di malattia. Sopra ogni obiettivo della conoscenza raggiunto, sopra ogni gioia legata a una guarigione, stavano le parole: «Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa», infatti «troppa fu la sua gioia per non mutarsi in fastidio » (La gaia scienza, «Scherzo, malizia e vendetta»); e Nietzsche si sentiva «ferito dalla sua gioia» (Così parlò Zarathustra, «Il fanciullo con lo specchio»). «Causarsi dolori. La spregiudicatezza di pensiero è spesso segno di uno stato interno agitato che desidera stordimento» (Umano, troppo umano). La salute non è dunque l'istanza superiore e soverchiante che trasforma l'elemento patologico, in quanto secondario, in un suo strumento, ma entrambe - salute e malattia - si condizionano e sono addirittura racchiuse l'una nell'altra: insieme rappresentano una peculiare scissione di se stessi all'interno di un'unica vita spirituale. È quest'intima scissione che si trova alla base del processo spirituale descritto finora. All'apparenza, la poliedricità, la «molteplicità di soggetto» della natura che desidera in modo disarmonico dovrebbe venire superata [aufgehoben] in una unità superiore, in un fine che indichi la direzione. Ma all'interno dell'anima multiforme questo processo si attua in modo tale per cui è un solo istinto a sottomettere tutti gli altri; per dirla altrimenti: la poliedricità viene ridotta a una scissione che si fa sempre più profonda. Come la salute riesce solo in misura ridotta a contenere, soverchiandolo, l'elemento malato, altrettanto poco l'istinto dominante riesce a contenere e controllare effettivamente tutta la sfera interiore nel momento in cui la pone al servizio della conoscenza: con i suoi occhi spirituali, l'uomo della conoscenza guarda certamente a se stesso come a una seconda natura, ma resta pur sempre prigioniero della propria; è soltanto in grado di scinderla, non di coglierla nel suo insieme. Ben lungi dall'essere un potere che unisce, quello della conoscenza è quindi piuttosto un potere che divide, ma la profondità della scissione crea l’apparenza che la meta di tutti gli impulsi si trovi al loro esterno. A causa di questa autoillusione, tutte le forze premono con entusiasmo in direzione della conoscenza, come se in tal modo potesse riuscir loro di sottrarsi a se stesse e alla loro scissione. Ma, nonostante una gratificazione elevata, addirittura liberatrice, che cosa si ricava da una forma di autoinganno così palese? Che cosa fa sì che un'illusione sia in grado di rendere felice e trasfigurare l'intero esistente nonostante continue malattie e ferite? Con questa domanda siamo giunti all'autentico «problema Nietzsche»; essa ci rimanda innanzi tutto alla segreta relazione esistente in lui tra l'elemento sano e quello patologico. Mentre infatti la pluralità dei singoli istinti non legati tra loro si scinde, per così dire, in due entità che si fronteggiano a vicenda delle quali una domina e l'altra serve - per l'uomo viene a crearsi la possibilità di percepire se stesso non soltanto come un essere diverso, ma anche come un essere superiore. Nel momento in cui sacrifica a se stesso una parte del proprio io, egli si trova a un passo dall’ esaltazione religiosa. Nei turbamenti del suo spirito, in cui immagina di realizzare l'ideale eroico della rinuncia e della dedizione autentiche, fa erompere in se stesso un afflato religioso. Fra tutte le grandi doti di Nietzsche non ve n'era nessuna, più di quella del genio religioso, che fosse legata in modo tanto inesorabile e profondo alla totalità del suo spirito. In un'altra epoca, in un altro periodo culturale, una dote simile non avrebbe certo consentito a questo figlio di un pastore protestante di diventare un pensatore. Ma sotto le spinte del nostro tempo, il suo spirito religioso prese la via della conoscenza, pur riuscendo a realizzare ciò che desiderava con l'urgenza dell'istinto, quale espressione naturale della sua salute, soltanto in modo malato; vi riuscì cioè soltanto attraverso una relazione con se stesso, invece che con una potenza vitale esterna e più grande di lui. In tal modo egli ottenne esattamente il contrario di ciò a cui aspirava: non una più alta unità del suo essere, ma la sua più intima scissione, non la fusione di tutti i sentimenti e gli istinti in un individuo indiviso, ma il loro dissidio in un « dividuo». Aveva pur sempre raggiunto una salute, ma con i mezzi della malattia; una vera forma di adorazione, ma con i mezzi dell'inganno; una vera autoaffermazione e autoesaltazione, ma solo arrecando a se stesso delle ferite. (pp. 35-38) Appena raggiunto il punto più alto del suo percorso, Nietzsche accenna però il primo passo che lo avrebbe inevitabilmente fatto cadere verso il basso. Egli sembra dunque rovesciare del tutto la realtà dei fatti quando, anni dopo, nel suo ingiusto libello intitolato Il caso Wagner, sostiene: «La più grande esperienza della mia vita fu una guarigione. Wagner appartiene semplicemente alle mie malattie» {Il caso Wagner, «Prefazione»). La sua evoluzione assume infatti un carattere patologico soltanto molto tempo dopo la sua rottura con Wagner; del suo periodo wagneriano si potrebbe anzi dire, in un certo senso, che appartiene ai suoi momenti alti di salute. Ciò nondimeno, non si può non prestare ascolto a quanto di vero contiene l'affermazione precedente, vale a dire al fatto che Nietzsche, in quell'epoca, non aveva ancora raggiunto il punto più alto della sua evoluzione per quanto sano e felice avesse potuto essere in quegli anni. Una tale salute poteva però essere mantenuta soltanto a costo della grandezza. Perché il discepolo divenisse maestro, doveva fare ritorno a se stesso; ma poiché nel suo intimo egli desiderava, con l'urgenza della necessità, diventare un discepolo nel senso religioso del termine, non gli restò altra possibilità se non quella di riunire in se stesso discepolo e maestro, non fosse altro che per trarne sofferenza e per precipitare in una patologica fusione dei due ruoli. Per questo suo sentiero della grandezza valgono le parole dello Zarathustra: «Vetta e abisso - è ora saldato in unità! » [Così parlò Zarathustra, «Il viandante»]. Il distacco di Nietzsche da Wagner è stato interpretato nei modi più vari, andando alla ricerca di motivazioni puramente ideali - un irresistibile anelito di verità - o sulla base di motivi umani, troppo umani. In questa vicenda, in realtà, le due cause s'intrecciano in modo del tutto analogo a quanto già riscontrato in occasione del suo distacco dalla fede. Proprio il fatto di aver trovato un pieno soddisfacimento, la quiete dell'anima e una patria per il suo spirito, proprio il fatto che la visione del mondo di Wagner gli risultava morbida e liscia come una «pelle sana», lo stuzzicava a togliersela di dosso, gli faceva apparire «la sua somma felicità come un disagio», lo faceva sentire «ferito dalla sua felicità». Alla nascita del suo «spirito libero» può così essere applicata in generale la sua «supposizione sull'origine del libero pensiero» umano da un eccesso di beatitudine dei sensi nel quadro di una visione del mondo già data: « Come i ghiacciai ingrossano quando nelle zone equatoriali il sole dardeggia sui mari con più ardore di prima, così può ben darsi che anche un assai forte e dilagante libero pensiero sia testimonianza del fatto che in qualche punto l'ardore del sentimento è straordinariamente cresciuto» (Umano, troppo umano). Soltanto in mezzo alla sofferenza cercata e voluta il suo spirito si formò la dura e pugnace corazza, armato della quale sarebbe poi sceso in campo contro i suoi antichi ideali. Rinunciando a ciò che è bello e edificante, e sciogliendo al contempo l'ultima forma di dipendenza, egli provò senz'altro un senso di liberazione, una liberazione che rappresentava tuttavia anche un gesto di rinuncia di cui ebbe a soffrire come di una ferita, pur essendosela inferta da sé. (pp. 69-70) La sofferenza fisica più intensa di Nietzsche venne a coincidere con il suo distacco interiore ed esteriore dal wagnerismo e dalla filosofia di Schopenhauer. In quegli anni visse tra crisi e dolori fisici e psichici che lo condussero vicino alla «morte del corpo e dell'anima». La sua malattia si manifestò negli anni di massima produttività, di un confronto eccessivamente variegato ed estenuante con ricerche scientifiche e problemi filosofici, con i movimenti culturali a lui contemporanei, con l'arte di Wagner e la sua musica. Non è certo un caso che anche l'ultimo e fatale attacco di emicrania si sia manifestato sul finire degli anni ottanta, ancora una volta dopo un incredibile periodo di creatività e produttività intellettuale. Quando si sentiva in forma e in salute, in possesso di tutte le sue forze vitali, allora si trovava sempre a un passo dalla malattia; e i periodi di ozio e di quiete involontaria gli procuravano sempre sollievo e rallentavano l'incombere della catastrofe. Da un punto di vista puramente fisico, in ciò si rispecchia qualcosa di quegli aspetti tipicamente patologici dell'«eccesso di salute» della sua vita intellettuale che, [88] dopo aver raggiunto il suo apice, era solita traboccare nella malattia. Da questa condizione, tuttavia, con la forza tenace della sua natura fuori dal comune, egli riusciva sempre a riconquistare la salute. Finché riusciva a dominare i dolori e a sentirsi in pieno possesso della sua capacità di lavorare, la sofferenza non riusciva ancora a essere di detrimento alla sua resistenza vitale e alla sua capacità di affermarsi. Ancora il 12 maggio 1878, egli scriveva con animo tranquillo in una lettera da Basilea: «La salute è malferma e pericolante, ma - stavo quasi per dire: "che m'importa della mia salute?"». Il 14 dicembre dello stesso anno, tuttavia, segue un accenno al ritiro dall'insegnamento, che egli reputa necessario: «La mia condizione è un limbo misto ad atroci tormenti, non posso negarlo. Probabilmente è finita la mia attività accademica, forse anche qualsiasi attività, e possibilmente... ecc.». E quindi l'amaro lamento: «Sembra che non ci sia più rimedio, i dolori sono stati davvero pazzeschi». «Ma l'ordine è sempre questo: "Sopporta! Rinuncia!". Ahimè, viene a noia anche la pazienza. Ci vuole pazienza ad aver pazienza! ». Da ultimo, con il tono di una resa tranquilla, una lettera da Ginevra del 15 maggio 1879: «Io non sto bene, ma sono allenato da tempo a sopportare il dolore e continuerò a trascinare il mio fardello - ma non più per molto, spero! ». Poco dopo rinunciò al suo incarico di professore e la solitudine lo avvolse per sempre. La rinuncia all'attività didattica gli riuscì penosa - era in fondo la rinuncia a ogni lavoro scientifico in senso stretto. Testa e occhi - egli si definisce «un malato che ora è anche cieco per nove decimi e che non riesce più a leggere se non per un breve quarto d'ora e soffrendo» gli impedirono d'allora in poi di sviluppare quantitativamente i suoi pensieri attraverso studi di più vasta portata. (pp. 72-73) Vediamo così il sacrificio e la violenza su di sé, il voluto tormento della discordia, non soltanto elevati fino alla sommità dello spirito, ma tratti dentro a quel che vi è di più personale. L’intero corso dei pensieri di Nietzsche culmina sempre più in un atto di autodistruzione tramite il quale, agendo e soffrendo di persona, ha luogo la redenzione. (p. 182) La fedeNel potente afflato religioso da cui origina ogni conoscenza di Nietzsche si trovano dunque indissolubilmente intrecciati in un nodo sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole l’annientamento e brama di autodivinizzazione, infermità dolente e convalescenza vittoriosa, ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza. Si avverte in esso la connessione degli opposti che dipendono senza tregua l'uno dall'altro; si avverte il traboccare e lo spontaneo precipitare nel caos, nelle tenebre e nell'orrore, di forze eccitate e tese allo spasimo e poi ancora un insistere verso la luce, la tenerezza: l'insistere di una volontà che «si libera dall'oppressione della pienezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi» («Tentativo di autocritica», nuova edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica) - un caos che vorrebbe far nascere il Dio, che lo deve far nascere. «Nell'uomo creatura e creatore sono congiunti: nell'uomo c'è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell'uomo c'è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e c'è anche un settimo giorno... » (Al di là del bene e del male). E in queste parole si dà a vedere come una continua sofferenza e una continua autodivinizzazione si condizionino a vicenda, come l'una crei sempre da capo il suo opposto, non diversamente da quello che Nietzsche trova espresso nella storia del re Vicvamitra, «che da millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una tale fiducia in se stesso da intraprendere la costruzione di un nuovo cielo [...].(Genealogia della morale) (p. 38) Un’indagine corretta su Nietzsche è in effetti nella sostanza un'indagine di psicologia religiosa; è solo nella misura in cui si riesce a far luce sull'ambito della psicologia della religione che partono chiari fasci di luce sul significato del suo carattere, sulla sua sofferenza e sulla sua autobeatificazione. Tutta la sua evoluzione procede in certa misura dal fatto che egli perse la fede, dall'«emozione per la morte di Dio», questa emozione tremenda che riecheggia ancora fin nell'ultima opera che Nietzsche compose già sulla soglia della follia, fin nella quarta parte cioè del suo Così parlò Zarathustra. La possibilità di trovare nelle forme più diverse della divinizzazione di se stesso un surrogato «per il Dio perduto »: è questa la storia del suo spirito, delle sue opere, della sua malattia. È la storia dell'«inclinazione religiosa nel pensatore», che conserva la sua forza anche dopo la distruzione del Dio a cui era rivolta e alla quale possono essere applicate queste parole di Nietzsche: «Il sole è già tramontato, ma il cielo della nostra vita arde e risplende ancora di esso, sebbene non lo vediamo più» {Umano, troppo umano). Nel suo ultimo periodo di creatività, Nietzsche fornisce a se stesso la risposta a questo sfogo di tormento e nostalgia, con le parole di Zarathustra: «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva» (Così parlò Zarathustra, «Della virtù che dona»); parole queste con cui diede espressione al più intimo fondamento spirituale della sua filosofia. La nostalgia di Dio, con il suo tormento, divenne un impulso alla creazione di Dio, e ciò dovette necessariamente esprimersi nella divinizzazione di se stesso. Con sguardo felice Nietzsche colse nel fenomeno religioso l'eccezionale soddisfacimento dell'aspirazione più individuale, la volontà di trarre da sé la più sublime felicità. Questo individualismo, che è il cuore nascosto di ogni fenomeno religioso, questo «sublime egoismo », che fluisce in modo libero e spontaneo in tutto quel che è religioso nel momento in cui crede di essere in relazione con una forza vitale o divina che proviene dall'esterno, in Nietzsche, l'«uomo della conoscenza», fu risospinto su di sé. Egli giunse così a far propria nel suo intimo l'empietà che l'intelletto gli imponeva con forza insieme alla sua ardita conclusione: «Se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dèi» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). (pp. 39-41 passim) La prima trasformazione a cui approdò Nietzsche nella sua vita spirituale risale agli albori della sua infanzia o, quanto meno, della sua fanciullezza. Si tratta della rottura con la fede cristiana, una separazione di cui si parla di rado nelle sue opere. Ciò nonostante essa può essere considerata come il punto di partenza delle sue trasformazioni poiché getta una luce particolare sugli aspetti caratteristici della sua evoluzione. Le affermazioni in materia, che ho avuto modo di discutere con lui in modo particolarmente approfondito, riguardavano principalmente i motivi che provocarono questa rottura. Nella maggior parte dei casi, infatti, sono motivi intellettuali quelli che spingono gli uomini di inclinazione religiosa ad abbandonare, attraverso dolorosi conflitti, la loro fede. Ma allorché, in casi più rari, il distacco origina dalla vita interiore, il processo si svolge allora senza conflitti né sofferenze: l'intelletto disgrega infatti solo quel che è già morto da tempo, un cadavere. Nel caso di Nietzsche ebbe luogo un singolare intreccio di queste due possibilità: non furono soltanto motivi intellettuali a liberarlo dalle idee inculcategli fin dai primi anni di vita, né la vecchia fede svanì in risposta ai bisogni del suo animo. Egli invece insisteva sempre sul fatto che il cristianesimo della parrocchia dei suoi genitori avesse aderito alla sua anima in modo «liscio e morbido» «come una pelle sana», e che l'osservanza di ogni precetto cristiano gli fosse risultata facile come il seguire una propria predisposizione. Nietzsche considerava questo suo «talento» per ogni religione, quasi innato e inalienabile, come una delle ragioni della simpatia che i cristiani seri gli riservavano ancora quando un profondo abisso spirituale già lo separava da loro. L'istinto oscuro che per la prima volta lo spingeva fuori da una cerchia di pensieri che gli stavano a cuore si risvegliò proprio in seno a questa calda sensazione di «sentirsi a casa» da cui l'indole di Nietzsche si sentiva avvolta. Per conquistare se stesso attraverso una poderosa evoluzione, il suo spirito richiedeva lotte dell'anima, dolori ed emozioni; aveva bisogno che il suo animo attuasse la separazione da questa quieta situazione di pace perché la sua forza creatrice dipendeva dall'eccitazione e dall'esaltazione della sua sfera interiore: l'esigenza del dolore nella «natura decadente» si manifesta per la prima volta nella vita di Nietzsche. «In tempi di pace l'uomo guerriero si scaglia contro se stesso» (Al di là del bene e del male) e si esilia nell'estraneità di pensieri in cui egli, da quel momento in poi, è destinato a vagare eternamente senza sosta né requie. Ma in questa irrequietezza prende a vivere per Nietzsche un'insaziabile nostalgia che guarda indietro al paradiso perduto, mentre la sua evoluzione intellettuale lo spinge ad allontanarsi sempre più da esso in linea retta. Discutendo dei mutamenti che si era già lasciato alle spalle, Nietzsche ebbe a dire una volta quasi scherzando: «Sì, così adesso inizia e va avanti il cammino - fino a dove? Quando sarà stato percorso fino in fondo, dove si andrà allora? Se si esaurissero tutte le possibili combinazioni, cosa ne seguirebbe? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede cattolica? ». (pp. 47-48) Soltanto all'inizio dell'ultima filosofia nietzscheana si mostra dunque con assoluta chiarezza fino a qual punto l'impulso fondamentale che domina la sua natura e la sua conoscenza sia quello religioso. Le diverse filosofie sono per Nietzsche altrettanti surrogati di Dio che lo devono aiutare a poter fare a meno di un ideale mistico di Dio al di fuori di se stesso. Le sue ultime dottrine confessano che non vi riuscì. E proprio per questo motivo nelle sue ultime opere noi ci imbattiamo ancora una volta in una lotta tanto appassionata contro la religione, la fede in Dio e il bisogno di salvezza: perché egli era così pericolosamente vicino a tutto questo. Nelle sue parole trova espressione un astio per l'angoscia e l'amore con cui vorrebbe convincersi della sua forza divina, non facendo parola della sua miseria umana. Scorgiamo allora attraverso quale autoillusione e quale astuzia segreta Nietzsche riesca a risolvere il tragico conflitto della sua vita, - il conflitto di avere bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare. Modellando cioè dapprima, con fantasia ebbra di struggimento, sognando estasiato come in una visione, il mistico ideale del superuomo per poi, al fine di salvarsi da se stesso, tentare con un balzo mostruoso di identificarvisi. Egli finisce così per diventare una figura doppia, per metà uomo malato e sofferente, per metà superuomo redento e sorridente. L'uno lo è come creatura, l'altro come creatore, l'uno come realtà, l'altro come una realtà superiore misticamente concepita. Sovente però, ascoltando i suoi discorsi, si avverte con orrore che egli ha elevato a oggetto di culto qualcosa che in verità non esiste nemmeno per lui, e si riflette sulla sua frase: «...E chissà che fino a oggi in tutti i grandi avvenimenti non si sia verificata appunto la stessa cosa: che la moltitudine [148] abbia adorato un dio - e che il "dio" sia soltanto una povera vittima sacrificale! » (Al di là del bene e del male). «Dio come vittima sacrificale» è davvero un titolo che potrebbe essere apposto sull'ultima filosofia di Nietzsche, rivelando nel modo più palese l’intima contraddizione che essa contiene, quella esaltazione di gioia e dolore che confluiscono l’una nell’altra senza distinguersi. (pp. 112-113) La suprema divinizzazione di sé festeggia la sua completa vittoria mistica solo nell'annientamento più profondo, nella resa e nel tramonto dell'uomo della conoscenza. Dei due animali simbolici che sono intorno a Zarathustra, il serpente della conoscenza e dell'intelligenza e l'aquila dell'ambizioso orgoglio regale, soltanto quest'ultimo gli resta fedele: «Fossi più intelligente! Più intelligente in ogni fibra, come il mio serpente! Ma ciò che chiedo è impossibile: perciò prego il mio orgoglio di seguire sempre la mia intelligenza! E se un giorno la mia intelligenza mi abbandonerà [...] possa almeno il mio orgoglio volar via con la mia follia! - Così cominciò il tramonto di Zarathustra» (Così parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»). Lo spirito di Nietzsche si dilegua così per noi in un mistero di tramonto e di elevazione, in un'oscurità solcata dal volo delle aquile. In tutto questo c'è qualcosa che tocca e commuove, come in un bimbo stanco che fa ritorno alla patria della sua fede perduta dove non ha bisogno di alcun discernimento per prendere parte alle benedizioni e alle rivelazioni più alte. Dopo avere percorso ogni circolo ed esaurito ogni possibilità senza trovare contento, lo spirito ne entra infine in possesso attraverso il sacrificio supremo, il sacrificio di se stesso. Rammentiamoci allora di quelle parole di Nietzsche citate nella seconda parte di questo mio libro: «Quando tutto sarà stato percorso fino in fondo, dove si andrà allora? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede cattolica? A ogni modo il circolo potrebbe essere più probabile della stasi». (p. 186) |