Richard David Precht

Ma io, chi sono?

Garzanti, Milano 2009
Nietzsche (pp. 19-26)

SILS MARIA

Animali intelligenti nell'universo Che cos'è la verità?

«C'era una volta - in qualche angolo sperduto in mezzo allo sfarfallio di innumerevoli sistemi solari sparsi per l'universo - un pianeta in cui degli animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu l'attimo più presuntuoso e più ipocrita della "storia universale": ma fu solo un attimo. Dopo pochi respiri della natura quel pianeta si irrigidì e gli animali intelligenti morirono.

Inventare una fiaba del genere non basterebbe certo per dire quanto misero, vago e fugace appaia l'intelletto umano in mezzo alla natura, come un fenomeno qualunque senza alcuno scopo. Per un'eternità non c'è stato, e quando scomparirà non succederà nulla di grave. Quell'intelletto infatti non ha nessuna missione che vada al di là della vita umana. Esso è soltanto umano, e solo il suo proprietario e produttore lo considera in modo tanto patetico come se fosse il perno intorno al quale ruota il mondo intero. Se fossimo in grado di parlare con una zanzara, scopriremmo che anche lei nuota nell'aria con lo stesso pathos e si sente il centro volante del mondo.»

L'uomo è un animale intelligente che, però, si sopravvaluta molto. Il suo intelletto, infatti, non è rivolto alle grandi verità, ma alle piccole cose della vita. Pochi testi della storia della filosofia hanno costretto l'uomo a guardarsi allo specchio con tanta forza poetica e in modo tanto spietato. Quello riportato qui sopra è forse l'esordio più bello mai scritto per un libro di questo genere. Si tratta dell'incipit di un testo del 1873 dal titolo Su verità e menzogna in senso extramorale. A scriverlo fu un giovane professore di filologia classica dell'università di Basilea: all'epoca aveva appena 29 anni.

Friedrich Nietzsche, però, decise di non pubblicare questa storia sugli animali intelligenti e presuntuosi. Era rimasto profondamente ferito dalle osservazioni sulla sua ultima opera, un libro sui fondamenti della cultura greca. I critici lo avevano presentato come un insieme di speculazioni sconclusionate e tutt'altro che scientifiche, e per molti versi probabilmente avevano ragione. Si parlava del fallimento di un bambino prodigio, e la sua reputazione come filologo classico era ormai compromessa.

E pensare che tutto era cominciato sotto i migliori auspici. Il piccolo Fritz, nato nel 1844 in un paesino sassone chiamato Rócken e cresciuto a Naumburg an der Saale, era considerato un allievo estremamente dotato che apprendeva con grande facilità. Suo padre era un pastore luterano e anche la madre era molto religiosa. Ancora bambino, a quattro anni, subisce la perdita del padre, e poco dopo quella del fratello minore. La famiglia si trasferisce a Naumburg e Fritz cresce circondato da sole donne. Alla Knabenschule e, più tardi, al Domgymnasium, gli insegnanti notano presto il suo talento. Nietzsche frequenta il rinomato collegio Schulpforta e nel 1864 si iscrive alla facoltà di Filologia classica dell'università di Bonn. Inizia a studiare anche teologia, ma la abbandona subito dopo il primo semestre. Fin troppo volentieri avrebbe fatto alla madre il piacere di diventare un buon pastore protestante, ma gli manca la fede. Il «piccolo pastore», come lo chiamavano i compagni di Naumburg per prenderlo in giro, ha rinnegato la fede. La madre, la canonica e la religiosità sono una prigione da cui è evaso, ma questo cambiamento lo logorerà per tutta la vita. Un anno più tardi, Nietzsche si trasferisce insieme a Friedrich Ritschl, suo professore, a Lipsia. Il suo nuovo padre lo stima al punto da proporlo come professore all'università di Basilea. Nel 1869, ancora venticinquenne, diventa professore straordinario. I diplomi, il dottorato di ricerca, l'abilitazione alla libera docenza che ancora gli mancavano, gli vengono conferiti su due piedi dall'università. In Svizzera, Nietzsche conosce gli eruditi e gli artisti dell'epoca, tra cui Richard Wagner e sua moglie Cosima, che aveva già incontrato a Lipsia. Il suo entusiasmo per Wagner e per la sua musica patetica lo spinge, nel 1872, alla pubblicazione di un libro altrettanto patetico, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, che si rivela un grande insuccesso.

Il libro di Nietzsche venne liquidato alla svelta. La contrapposizione tra la musica, considerata «dionisiaca», e l'arte figurativa, che si credeva «apollinea», era nota sin dal primo romanticismo, ma non era altro che una mera speculazione priva di ogni fondamento storico. Del resto, l'intellighenzia europea in quel momento era alle prese con la nascita di una tragedia ben più importante. Un anno prima, il famoso botanico inglese Charles Darwin, laureato in teologia, aveva pubblicato il libro L'origine dell'uomo. Benché l'idea che l'uomo potesse essere il risultato dell'evoluzione di forme di vita precedenti e più primitive fosse nota da almeno dodici anni - Darwin stesso nel suo libro L'origine delle specie aveva infatti annunciato che le sue teorie avrebbero gettato una «luce significativa» anche sull'uomo -, il testo andò a ruba. Negli anni Sessanta dell'Ottocento, molti scienziati erano arrivati a conclusioni simili, posizionando l'uomo nel regno animale vicino al gorilla, che era stato scoperto poco prima. La chiesa, soprattutto quella tedesca, lottò fino alla prima guerra mondiale contro Darwin e i suoi seguaci. Ma sin dall'inizio fu chiaro che non era rimasta nessuna possibilità di ritorno alla vecchia visione del mondo. Dio (come creatore e guida personale degli uomini) era morto. Le scienze della natura celebrarono il proprio trionfo con un'immagine dell'uomo nuova e ben più sobria: ormai si prestava più attenzione alla scimmia che a Dio. La sublime certezza dell'essere umano visto come creatura uguale a Dio si spezzò in due: da una parte l'Altissimo, che non era più considerato degno di fede, dall'altra la semplice verità dell'uomo visto come animale intelligente.

Nietzsche accolse questa nuova visione del mondo con grande entusiasmo. «Tutto ciò che ci serve», scrisse più tardi, «è una chimica delle idee morali, religiose ed estetiche e di tutti quegli impulsi che avvertiamo in noi nel grande e piccolo circolo della cultura e della società e perfino quando siamo soli con noi stessi.» Ed è proprio su questa «chimica» che svariati scienziati e filosofi lavorano nell'ultimo trentennio del XIX secolo: una dottrina biologica dell'essere in cui non c'è nessun dio. Nietzsche, però, si tiene ben lontano da questa discussione. La questione che gli sta a cuore è un'altra: cosa significa questa sobria visione delle scienze per la coscienza che ha di sé l'uomo? Essa lo rende più grande o più piccolo? Egli ha perduto tutto o guadagna qualcosa di nuovo per il fatto di vedere meglio sé stesso? In questo frangente, Nietzsche scrive il saggio Su verità e menzogna, forse il suo testo più bello.

Alla questione se l'uomo sia diventato più grande o meno, Nietzsche risponde secondo i suoi capricci e sbalzi di umore. Quando stava male - e spesso stava male -, si sentiva oppresso e contrito e predicava un vangelo della sporcizia. Quando era di buonumore, invece, veniva colto da un impeto di fierezza che lo induceva a sognare il superuomo. Le sue fantasie, che volavano alto, e il tuonante orgoglio dei suoi libri erano in orripilante contrasto con la sua fisionomia: un uomo basso, un po' grassottelle, delicato. I baffi caparbi, delle vere spazzole, dovevano dare un po' di vigore al volto morbido e renderlo più maschile, ma le numerose malattie che lo avevano colpito lo facevano sembrare (e sentire) debole. Era fortemente miope, soffriva di disturbi gastrici e di gravi attacchi di cefalea. A 35 anni si sentiva fisicamente uno straccio e terminò la sua attività didattica a Basilea. Sembra che più tardi, a finirlo, sia stata un'infezione sifilitica più volte ipotizzata.

Nell'estate 1881, due anni dopo il congedo dall'università, Nietzsche scoprì quasi per caso il suo paradiso personale: il piccolo villaggio di Sils Maria nell'alta valle dell'Engadina, in Svizzera. Un paesaggio fantastico che lo ispirò e lo entusiasmò all'istante. Negli anni successivi vi ritornò varie volte, fece lunghe passeggiate solitarie e forgiò nuove idee patetiche. Nei periodi invernali, mentre si trovava a Rapallo o sulla costa mediterranea, a Genova o a Nizza, metteva per iscritto molte di queste riflessioni. La maggior parte di questi scritti mostra Nietzsche come un critico intelligente, spietato ed esigente sul piano letterario, che metteva il dito nelle piaghe della filosofia occidentale. Quanto alle sue proposte personali per una nuova teoria della conoscenza e per una nuova morale, egli si appassiona a un darwinismo sociale immaturo e spesso si rifugia in un kitsch imbarazzante. Più i suoi testi si fanno energici, e più lui, con grandi scene, sbaglia il tiro. «Dio è morto», scrive a più riprese, nonostante la maggior parte dei suoi contemporanei lo abbia già saputo da Darwin e da altri.

1887. Nietzsche contempla per la penultima volta le vette innevate di Sils Maria, e riscopre il tema degli animali intelligenti affrontato nel suo vecchio saggio sul problema della conoscenza limitata degli umani. Il suo libello Genealogia della morale comincia con le seguenti parole: «Non ci conosciamo, noi che conosciamo: noi non conosciamo noi stessi. E ciò per una buona ragione: non abbiamo mai cercato noi stessi - e come dovrebbe un giorno avvenire che trovassimo noi stessi?». Come tante altre volte, Nietzsche parla di sé stesso al plurale, quasi spiegasse una specie animale molto particolare da lui descritta per primo: «Il nostro tesoro si trova laddove stanno le arnie della nostra conoscenza. Siamo sempre in cammino verso di esse, come animali nati con le ali, raccoglitori del miele dello spirito; in realtà c'è una sola cosa di cui ci occupiamo con tutto il cuore: portare a casa qualcosa». Non gli resta molto tempo per farlo. Due anni dopo, a Torino, Nietzsche ha un esaurimento nervoso. Sua madre va a prendere il quarantaquattrenne in Italia e lo porta in una clinica a Jena. Più tardi resterà a vivere da lei, ma non metterà più nulla per iscritto. Otto anni dopo la morte della madre, il figlio dalla mente gravemente ottenebrata viene trasferito a casa della non troppo amata sorella. Il 25 agosto 1900 Nietzsche muore a Weimar, all'età di 55 anni.

Nei suoi scritti, egli convinse sé stesso a nutrire una grande autostima: «Conosco la mia sorte. Un giorno, il mio nome sarà legato alla memoria di qualcosa di terribile». Ma in che cosa Nietzsche fu così terribile da diventare, dopo la sua morte, il filosofo più influente del XX secolo?

La grandezza di Nietzsche fu nella sua critica, tanto spietata quanto vivace. Come nessun filosofo prima di lui, evidenziò in modo appassionato la presunzione e l'ignoranza con cui l'uomo giudicava il mondo circostante secondo la logica e la verità della propria specie, quella umana. Gli «animali intelligenti» credono di possedere uno status esclusivo. Nietzsche invece difese con veemenza la tesi secondo cui l'uomo è davvero un animale, condizione, questa, che ne determina anche il pensiero: attraverso impulsi e istinti, attraverso la sua volontà primitiva, attraverso le sue limitate possibilità conoscitive. Di conseguenza, la maggior parte dei filosofi occidentali aveva torto quando concepiva l'uomo come qualcosa di eccezionale, come una sorta di computer dell'autocoscienza ad altissima prestazione. Può infatti l'uomo conoscere davvero sé stesso e la realtà oggettiva? Ha veramente questa capacità? La maggior parte dei filosofi non ne aveva mai dubitato. Altri non si erano nemmeno posti il problema. Avevano dato per scontato che il pensiero umano fosse di per sé una sorta di pensiero universale. In effetti, non consideravano l'uomo un animale intelligente, ma un essere di livello superiore. Avevano sistematicamente negato l'eredità proveniente dal regno animale, un'eredità che però continuava a osservarli con lo stesso ghigno inequivocabile: la mattina, nello specchio, quando si facevano la barba, e dopo il lavoro, quando si infilavano sotto il piumone. Uno dopo l'altro, questi filosofi avevano scavato un profondo fossato tra uomo e animale. L'intelletto e l'intelligenza umani, la capacità di pensare e di giudicare, erano l'unico criterio salvifico per giudicare la natura animata. E condannarono ciò che era «soltanto» fisico e corporale come qualcosa di assolutamente secondario.

Per essere certi che le loro idee sublimi sulla propria natura fossero giuste, i filosofi dovevano supporre che Dio avesse provvisto l'uomo di un apparato conoscitivo impeccabile. Grazie a esso potevano leggere nel «libro della natura» la verità sul mondo. Ma se era vero che Dio era morto, anche questo apparato non doveva essere messo molto meglio. Esso, infatti, non poteva che essere un prodotto della natura e, quindi, come tutto ciò che esiste in natura, un po' imperfetto. Questa convinzione Nietzsche l'aveva mutuata da Arthur Schopenhauer: «Dopo tutto siamo degli esseri puramente temporali, finiti, transitori, onirici, che volano via come ombre». E cosa se ne farebbero esseri del genere di un «intelletto che captasse dei rapporti infiniti, eterni, assoluti»? La capacità conoscitiva dello spirito umano, come intuirono Schopenhauer e Nietzsche, dipende direttamente dalle esigenze dell'adattamento evolutivo. L'uomo è capace di conoscere soltanto nei limiti delle possibilità del suo apparato conoscitivo, che si è formato nella lotta per la sopravvivenza. Come ogni altro animale, egli modella il mondo secondo le conoscenze acquisite grazie ai suoi sensi e alla sua coscienza. Una cosa, infatti, è evidente: tutto quello che sappiamo dipende in prima battuta dai nostri sensi. Ciò che non sentiamo con l'udito o con il tatto, con l'olfatto o con il gusto, ciò che non vediamo, non lo percepiamo e quindi non fa parte del nostro mondo. Perfino per le cose più astratte abbiamo bisogno di leggerle o di vederle sotto forma di segni per riuscire a immaginarcele. Per arrivare a una visione del tutto oggettiva del mondo, all'uomo servirebbe un apparato di sensi davvero sovrumano, capace di esaurire tutta la gamma delle percezioni sensoriali: i superocchi dell'aquila, l'olfatto dell'orso, il sistema di organi laterali dei pesci, la capacità di avvertire le scosse sismiche di un serpente e così via. Ma tutto ciò non è alla portata degli uomini, e pertanto una visione complessiva e oggettiva delle cose resta di fatto impossibile. Il nostro mondo non è mai il mondo così com'è «in sé», proprio come non lo è il mondo di un cane, di un gatto, di un uccello o di un coleottero. «Il mondo», spiega papà pesce al figlio mentre nuotano nell'acquario, «è una grande cassa piena d'acqua.»

Lo sguardo spietato di Nietzsche sulla filosofia e sulla religione ha dimostrato quanto sia forzata la maggior parte delle definizioni che l'uomo dà di sé stesso. (Il fatto che lui in prima persona abbia a sua volta attuato delle forzature è tutto un altro discorso.) La coscienza umana non fu plasmata dall'impellente domanda: «Cos'è la verità?». Più importante fu senz'altro il quesito: «Cos'è meglio per la mia sopravvivenza?». Tutto ciò che non contribuiva a risolvere questa problematica aveva - pare - poche possibilità di incidere in maniera determinante sull'evoluzione della specie umana. Nonostante ciò, Nietzsche nutriva la vaga speranza che proprio questa autocoscienza dell'uomo lo potesse rendere più acuto e forse trasformarlo addirittura in un «superuomo», in grado di ampliare davvero la propria capacità di conoscere. Anche in questo caso, però, la cautela è senz'altro una ricetta migliore rispetto al pathos. Infatti, tutta la nostra conoscenza della mente umana e della sua «chimica», che dai tempi di Nietzsche ha fatto - come vedremo - passi da gigante, e perfino gli strumenti di misurazione più raffinati possibili e le osservazioni più perspicaci non cambiano il dato di fatto che l'uomo non può giungere a una conoscenza completamente oggettiva.

Ma questa incapacità è davvero un problema così serio? Non sarebbe forse ben più grave se l'uomo sapesse tutto sul proprio conto? Abbiamo davvero bisogno di una verità che si elevi libera e indipendente sopra le nostre teste? A volte la via è già di per sé una bella meta, soprattutto quando il sentiero è emozionante come quello che, attraverso viottoli tortuosi, ci conduce a noi stessi. «Non abbiamo mai cercato noi stessi - e come dovrebbe un giorno avvenire che trovassimo noi stessi?» Questa era la domanda posta da Nietzsche nella Genealogia della morale. Cerchiamo allora, nei limiti delle nostre possibilità attuali, di trovare noi stessi. Quale via dobbiamo imboccare? Quale metodo dobbiamo applicare? Che aspetto potrebbe avere ciò che troveremo? Se tutta la nostra conoscenza dipende dal nostro cervello di vertebrati e si svolge al suo interno, è bene cominciare proprio da questo cervello. Ed ecco che emerge la prima domanda: da dove viene? Perché è fatto nel modo in cui è fatto?