Il Nietzsche di Homo laicus (articoli vari)

BIOGRAFIA DI NIETZSCHE

Friedrich W. Nietzsche nacque nel 1844, nel presbiterio di Rocken, in una regione della Turingia annessa alla Prussia. Da parte di madre, come da parte del padre, la famiglia era di pastori luterani. Il padre, pastore lui stesso, muore nel 1849 (rammollimento cerebrale o encefalite). N. è allevato a Naumburg in un ambiente femminile, con la sorella Elisabeth. Studia a Pforta, poi a Bonn e a Lipsia, dedicandosi alla filologia anziché alla teologia; già a quell'epoca la filosofia lo assilla, attraverso la figura di Schopenhauer, pensatore solitario.

I lavori filologici su Teognide, Simonide e Diogene-Laerzio gli procurano la nomina di professore di filologia classica all'Università di Basilea.

Ha inizio nel frattempo la sua amicizia con Wagner, che aveva incontrato a Lipsia: N. afferma che quelli furono forse i giorni più belli della sua vita, anche se non trascorsero senza qualche inquietudine, in quanto spesso N. ha l'impressione che Wagner si serva di lui e che si appropri della sua concezione del tragico; altre volte è convinto di poter portare Wagner a conoscenze che da solo non potrebbe raggiungere.

Il suo professorato lo ha fatto diventare cittadino svizzero; nel 1870 è infermiere durante la guerra e in quest'occasione perde un certo nazionalismo e una certa simpatia per Bismark e per la Prussia che lo caratterizzavano. Da questo momento non accetta più l'identificazione della cultura con lo stato e non considera la vittoria delle armi come un segno per la cultura. Nasce in lui un grande disprezzo per la Germania e l'incapacità di vivere in mezzo ai tedeschi. In N. l'abbandono delle vecchie credenze non produce una crisi (a produrre crisi è anzi l'ispirazione, la rivelazione di una nuova idea), non ha problemi di rinuncia e, come affermerà in "Ecce Homo", l'ateismo gli fu naturale e istintivo, nonostante la sua eredità.

Mentre sprofonda nella solitudine scrive, nel 1871, "La nascita della tragedia", libro che viene male accolto dai filologi per le sue posizioni in contrasto con il pensiero accademico: è in questa situazione che egli sente di essere inattuale e scopre l'incompatibilità tra il pensatore privato e il professore accademico.

Nella quarta "Considerazione inattuale" (su Wagner) esplicita le sue riserve su Wagner e inizia il dissidio con l'amico di un tempo. La sua salute comincia a dare segni di peggioramento, caratterizzata da frequenti mal di testa, disturbi agli occhi e difficoltà di parola; gli amici si rendono conto di questo suo cambiamento, che ne muta in particolare il carattere.

Grazie a Overbeck, il più fedele dei suoi amici, egli ottiene nel 1878 da Basilea una pensione. Da questo momento inizia i suoi viaggi alla ricerca di un clima favorevole e in alloggi modesti, attraverso la Francia, l'Italia, la Svizzera, accompagnato a volte da qualche amico fidato. Il suo ultimo incontro con un Wagner ormai divenuto razionalista avviene a Sorrento.

Sempre nel 1878 inaugura la su grande critica dei valori con l'opera "Umano, troppo umano", e questo gli provoca diverse critiche da parte dei suoi amici; Wagner non riesce a comprendere le sue posizioni e lo attacca. Nel frattempo le sue condizioni di salute si aggravano (del resto la sua vita, da questo momento in avanti, sarà caratterizzata proprio da un costante peggioramento dello stato di salute); la malattia è presente nell'opera di N. come un elemento determinante dello sviluppo della sua filosofia, una malattia, spesso viene definita anche follia, che non è mai fonte di ispirazione (N. non concepisce la filosofia come se questa potesse provenire dal dolore o dalla sofferenza, dalla malattia o dall'angoscia, in quanto accettare questa concezione vorrebbe dire ricadere in quel meccanismo che è alla base del pensiero cristiano). La malattia è per lui un punto di vista sulla salute, così come la salute è un punto di vista sulla malattia (nel senso che la malattia è tale se riferita alla salute e viceversa). N. non si considera malato, ma anzi si ritiene in piena salute, perché ha conquistato quello stato che gli permette di guardare alla salute dalla malattia, ponendosi quindi al di sopra di essa in uno stato di grande salute.

In N. tutto è maschera: la salute è una prima maschera per il suo genio; le sue sofferenze sono una seconda maschera per il suo genio e per la sua salute. Egli non crede nell'unità dell'Io, ma avverte sottili rapporti fra Io diversi che si nascondono, ma che esprimono anche forze di un'altra natura, forze di pensiero, forze della vita. Il concetto di maschera in N. lo si incontra molto spesso, tanto che egli dice di aver vissuto Wagner, Schopenhauer e altri amici solo come maschere: anche la follia che lo porterà alla morte sarà solo l'ennesima maschera che egli indosserà.

Dopo il 1878 N. ha proseguito la sua opera di critica totale con "Il viandante e la sua ombra" (1879) e "Aurora" (1880). Mentre prepara "La gaia scienza" in lui succede qualcosa di nuovo: le sue sofferenze continuano, ma dominate spesso da un entusiasmo che colpisce il suo stesso corpo, ed egli prova allora i suoi momenti più esaltanti, legati ad un sentimento di minaccia. Nel 1881 ha la rivelazione dell'eterno Ritorno, quindi l'ispirazione dello Zarathustra, i cui quattro libri egli scriverà fra il 1883 e il 1885, oltre a diverse note che dovrebbero esserne la continuazione. La critica diviene in questo momento un'arma per la transvalutazione di tutti i valori, una specie di No al servizio di un'affermazione superiore (Al di là del bene e del male, 1886; Genealogia della morale, 1887).

Nonostante l'entusiasmo che lo coglie in molti momenti, N. prova angosce e vive contrarietà: nel 1882 aveva avuto un'avventura sentimentale con Lou Salomè, una giovane russa che viveva con il suo amico Paul Ree e che era sembrata al filosofo una discepola ideale, degna d'amore. Seguendo uno schema affettivo che egli aveva già sperimentato, N. la chiede in moglie: egli vuole realizzare un suo vecchio sogno, in cui N.-Dioniso sposa Arianna con l'approvazione di Teseo; Teseo è l'uomo superiore, una figura paterna, come lo era stato Wagner (di cui egli aveva desiderato la compagna Cosima, non avendo però osato chiedergliela espressamente). Dioniso è superiore a Teseo, N. è superiore all'uomo superiore Teseo, e quindi vuole anche la sua donna, ma il gioco fallisce e Arianna preferisce sempre Teseo. In questa vicenda però è fondamentale il ruolo della sorella del filosofo, Elisabeth, la quale era molto gelosa e possessiva: N. era molto condizionato dai suoi giudizi severi.

Nel 1885 Elisabeth sposa Forster, un wagneriano, antisemita, nazionalista prussiano nei confronti del quale N. è insofferente; la sua vita procede attraverso momenti di gioia e di depressione.

Il 1888 è l'anno di alcune importanti opere, come Il crepuscolo degli idoli, Il caso Wagner, L'Anticristo e Ecce homo. E' come se le energie creative di N. avessero un ultimo sussulto di grandezza prima del crollo finale: il tono di queste opere è molto violento, ma anche umoristico e sferzante.

Il 3 gennaio 1889 a Torimo inizia la crisi e l'amico Overbeck lo viene a prendere per internarlo a Basilea, dove la diagnosi è di paralisi progressiva (a Jena successivamente si avanzò anche l'ipotesi, mai confermata, di un'infezione sifilitica). Muore a Weimar nel 1900. Le ultime cose scritte da N. appartengono alla fase della follia. A diffondere tutte le opere del filosofo contribuì la sorella Elisabeth, la quale organizzò anche il Nietzsche-Archiv a Weimar; la sorella ha anche però una grave responsabilità, e cioè quella di aver messo il pensiero del fratello al servizio del nazismo.

Sintesi

1. Nasce in un periodo di crisi della società prussiana e dell'idealismo hegeliano. Nel biennio '48-'49 erano fallite in Prussia le rivoluzioni borghesi. La filosofia che andava per la maggiore (ma non a livello universitario) era quella pessimistica di Schopenhauer, cui anche il giovane N. si sente attratto.

2. Il suo primo libro, La nascita della tragedia, viene accolto molto male dal mondo accademico, perché N., per la prima volta, rifiuta di considerare l'ellenismo come un mondo di razionalità ed equilibrio. Secondo N. la decadenza della civiltà greca inizia col prevalere dell'elemento apollineo, cioè col prevalere della scienza sull'istinto, della metafisica e teologia sulla tragedia e la passione, col prevalere di Socrate e Platone su Eschilo e Sofocle, che rappresentano l'elemento dionisiaco. Dioniso è il dio della passione, della sregolatezza, dell'arbitrio...

3. Secondo N. la filosofia moderna è ancora caratterizzata dal prevalere dell'apollineo (naturalmente con la mediazione del cristianesimo). Solo in Wagner egli vede, per la prima volta, l'artefice della rinascita della tragedia, perché Wagner sostituisce alla libertà morale quella artistica (musicale in particolare).

4. Con le Considerazioni inattuali N. critica la cultura occidentale, razionalista, utilitarista, repressiva. L'istinto deve secondo lui prevalere su morale, commercio, scienza e tecnica. N. è ostile anche al fatto di leggere la storia secondo lo schema di causa/effetto. La vita per lui sfugge ad ogni interpretazione. Lascia definitivamente l'Università.

5. La sua grande critica dei valori morali, religiosi e metafisici tradizionali avviene con Umano troppo umano. Qui N. affida all'uomo il compito di dare significato alla propria esistenza, rinunciando a qualunque forma di oggettività (il mondo è caos originario, Dio è morto, non ci sono fatti ma solo interpretazioni, la verità è opinione, la scienza è convenzionale...).

6. La verità sta nel senso vitale dell'uomo, che è potenza e paura: la potenza deve vincere la paura (che viene alimentata da religione e morale).

7. In altri testi (Aurora, Gaia scienza, Così parlò Zarathustra, Al dil à del bene e del male e La volontà di potenza) N. delinea la critica della civiltà cristiano-borghese e il suo nichilismo attivistico, vitalistico, volontaristico.

8. N. condanna di questa società ogni forma di morale, di legge, ogni valore, inclusi quelli di democrazia, uguaglianza, lavoro manuale... (transvalutazione di tutti i valori). N. dirà anche che lo spirito dell'industria ha sostituito quello militare e aristocratico.

9. N. rifiuta i concetti di Dio, Essere, Divenire. Nella vita, nella storia, nell'universo non c'è alcun fine, ma solo eterno ritorno (di bene e male, di cose che si creano e si distruggono...).

10. "L'uomo è qualcosa che va superato", in vista della creazione del superuomo, dotato di volontà di potenza, che è una struttura psicologica e cosmologica: è aggressione e conquista, ma anche controllo di se stessi. Essa non può appartenere alle masse, ma a individui singoli, superiori, al massimo a un popolo (non però quello tedesco, che N. criticava). N. sosteneva anche che i popoli europei dovevano dominare il mondo.

11. N. avrebbe rifiutato l'identificazione nazista di Stato e popolo, né gli interessava il potere dei grandi capitalisti, e rifiutava l'antisemitismo della borghesia tedesca. Disprezzava il cristianesimo (religioni da schiavi, forma isterica dell'onestà), la democrazia (preferisce l'aristocrazia) e il socialismo (ne condivide l'appello alla potenza, ma per lui gli operai sono strati inferiori del popolo, che non devono essere educati alla vendetta dovuta a risentimento; inoltre se gli operai diventassero padroni, non ci sarebbe più nessuno disposto a lavorare con sacrificio). Non credeva nei diritti dell'uomo (tanto meno in quelli della... donna). Non a caso il nazismo si è richiamato ai suoi insegnamenti.

Bibliografia

L'opera completa di N. è stata pubblicata, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, dalla casa editrice Adelphi. Gli stessi autori non si sono limitati a tradurre (hanno curato anche l'edizione tedesca e inglese) ma hanno anche raccolto i frammenti, cercando di mettere ordine in essi per evitare, come è accaduto in passato, che la loro manipolazione permettesse di interpretare il pensiero di N. in modo inadeguato.

Giuseppe Cantarelli

Nietzsche e l’irrazionalismo

NIETZSCHE: QUANDO L'ATEISMO È FOLLIA

Dopo Hegel la filosofia europea s'era improvvisamente accorta di non aver più nulla da dire sul piano "filosofico": bisognava agire, fare qualcosa che non fosse semplicemente una critica all'idealismo oggettivo e storicistico.

Hegel aveva come concluso tutta la filosofia occidentale, scoprendo le leggi della dialettica, ma lasciando i filosofi con l'amaro in bocca: non poteva essere la Prussia junkeriana la realizzazione della dialettica. Ecco perché già coi suoi discepoli più radicali (la sinistra) si cominciò a smascherare il lato conservatore della sua politica e i compromessi con la teologia.

A lato di questo bailamme di contestatori (Feuerbach, Stirner, Marx, Engels, Bauer, Strauss...) ne spuntano altri due, decisamente favorevoli a riporre nella volontà soggettiva un primato assoluto, superiore alla stessa ragione: Schopenhauer e Nietzsche. La volontà pura, di vita, di potenza, diventa l'essenza dell'essere e della cosa in sé, il compito trascendentale dell'uomo.

Per loro non si trattava più, come nel caso di Feuerbach, di trasformare il teismo in ateismo (la teologia in antropologia), ma di porre l'ateismo come punto di partenza, fondando su di esso la costruzione dell'uomo nuovo. La morte di dio (qualunque esso fosse) andava data per scontata, grazie appunto all'opera di demolizione compiuta dai filosofi. Non era più il caso di parlarne come di un "problema".

Tuttavia, fu proprio su questo punto, come prima Marx rispetto a Feuerbach sulla questione della natura del materialismo, che Nietzsche decise di staccarsi da Schopenhauer per affermare un volontarismo assoluto, come vero e proprio atto di potenza.

Posto che la volontà è la forza cieca della natura, l'istinto primordiale che sostanzia l'essere umano, come si può dimostrarne concretamente l'esistenza? E' su questa domanda che si gioca la diversità tra l'irrazionalismo quietistico dell'aristocratico Schopenhauer, che si accontentò di fare il professore universitario, e quello tragico di Nietzsche. Se dio è morto, non ha senso essere indifferenti a tutto: bisogna superare lo stesso uomo indifferente e creare un vero e proprio Superuomo, il cui dio è la terra da cui proviene.

Un problema eminentemente pratico, che Nietzsche racchiudeva in questa domanda: "come può l'uomo diventare dio finché resta uomo?". E la soluzione che dà è incredibilmente tragica: "perché si possa prospettare il Superuomo, è necessaria l'estrema malvagità", dirà nello Zarathustra, che ogni ufficiale tedesco doveva tenere nello zaino già durante la prima guerra mondiale e che farà suo personale vangelo nella seconda.

Per negare l'impotenza umana, bisogna anzitutto togliere all'essenza umana qualunque aspetto di umanità. Finché l'uomo continua ad avvertire scrupoli kantiani, dubbi cartesiani, sensi cristiani di colpa, pietà buddistica per i deboli, valori democratici e quant'altro, non diventerà mai un dio.

L'umanità inferiore (il gregge) va spazzata via: non è solo questione di ghigliottinare la teologia, la metafisica, la filosofia, l'etica... E' il pensare stesso che va abolito, specie quando non coincide con la volontà di potenza, che non sopportare limitazioni di sorta.

Lo sanno i sostenitori di Nietzsche che chi s'azzarda a interpretarlo continua a restare "umano", perdendo il suo tempo? Lo sanno che se non riescono a diventare Superuomini, devono comunque mostrarne la necessità ad ogni costo, sino al supremo sacrificio di sé?

Sotto un certo aspetto l'ateismo nicciano si poneva come una nuova religione, con l'aggravante però della follia senza senso, per quanto lui stesso diceva in Aurora che è proprio la follia ad aprire la strada al nuovo pensiero. Si può davvero essere atei senza essere umani? Non è forse questa pretesa un favore che si fa alla cultura e al potere religioso?

"Caro signor professore - così scriveva a J. Burckhardt, poco prima d'essere ricoverato nel manicomio di Torino -, alla fin fine avrei preferito essere un professore di Basilea piuttosto che Dio. Ma non ho osato spingere il mio personale egoismo fino al punto di astenermi dalla creazione del mondo".

E pensare che la sua prima opera, Nascita della tragedia, conteneva spunti di critica così interessanti che se fossero stati svolti all'interno dell'umanesimo, avrebbero dato un grande contributo alla causa della non-credenza.

Nietzsche e il Cristianesimo

IN MARGINE ALL'ANTICRISTO DI NIETZSCHE

(Si fa riferimento al volume edito da Newton, Roma 1992)

Premessa

Anticristo. Maledizione del cristianesimo è un titolo polemico, volutamente provocatorio: in realtà Nietzsche non è "contro" Cristo come persona, ma solo contro quella parte di vita o della persona di Cristo falsificata dai vangeli (per quanto Nietzsche abbia di tali falsificazioni un'opinione tutt'altro che scientificamente motivata).

Nietzsche infatti ritiene che un'altra parte di Cristo -quella ovviamente conforme alla sua filosofia irrazionalistica- non sia stata manipolata, ovvero che sia sopravvissuta nonostante le falsificazioni. In altre parole Nietzsche non propone un vero e proprio "Anticristo", cioè un soggetto antitetico al Cristo, ma un'ennesima interpretazione di quest'ultimo e del cristianesimo in generale.

La critica esegetica più avanzata oggi ritiene sia inutile dare un'interpretazione adeguata del "vero Cristo", in quanto non solo i vangeli ma tutte le fonti neotestamentarie sono tendenziose e fuorvianti, al punto che è praticamente impossibile individuare quali aspetti della vita di Cristo possono essere considerati senza dubbio autentici e quali no. (Si pensi soltanto che oggi è quasi unanime il giudizio sull'origine ellenistica ed anche essenica di tutti i sacramenti della chiesa cristiana. Persino il battesimo di Gesù ad opera di Giovanni viene considerato come un tentativo di riconciliare sul piano religioso due gruppi in origine politicamente contrapposti: cristiani e battisti).

Naturalmente Nietzsche, che si basava sulla critica demitizzante di Strauss e della Scuola di Tubinga, non poteva arrivare a una conclusione così perentoria. Ma il fatto che oggi i critici più radicali si astengano dal formulare giudizi di attendibilità storica (in relazione alla vita di Cristo), non deve farci dimenticare l'esigenza di continuare a discutere su un fenomeno così complesso come quello delle origini del cristianesimo, anche se questa discussione dovesse limitarsi al solo campo delle ipotesi.

D'altra parte i fatti dimostrano che oltre certe ipotesi non si può andare, pena il rischio di usare le proprie interpretazioni per identificarsi con quella parte di Cristo che secondo noi merita d'essere salvata (ciò che appunto ha fatto Nietzsche).

Nell'Anticristo infatti sussiste un paradosso davvero singolare: da un lato Nietzsche usa lo strumento della critica per distruggere ogni certezza tradizionale del cristianesimo; dall'altro chiede al lettore di servirsi del proprio coinvolgimento emotivo per poter credere in una nuova certezza, quella secondo cui Nietzsche e Cristo in fondo non sono che la stessa persona. Identificazione, questa, che si ritrova -seppure ovviamente su un altro versante- anche in tutti i santi e martiri soggetti a fanatismo religioso (a partire dal protomartire Stefano). Anche tanti filosofi e teologi più o meno irrazionalisti hanno avuto analoghe pretese, siano essi di religione cattolica o protestante (come p.es. Pascal o Kierkegaard). Nietzsche in fondo è stato il primo che ha cercato di identificarsi col Cristo a partire da posizioni ateistiche.

Questo a testimonianza che il rischio dell'irrazionalismo non può essere superato né con la fede religiosa in sé, né con la sua negazione. Qui è l'individualismo sotteso a queste interpretazioni che dovrebbe essere messo in questione; in particolare è l'illusione di credere che una verità acquisita razionalmente possa garantire all'individuo isolato un'esistenza più significativa di quella che può vivere un collettivo che crede in una verità tradizionale, superata dal tempo e dalla storia.

Quando un critico della religione come Nietzsche scrive, nella Prefazione, che il pamphlet è "riservato a pochissimi", e lo dimostra scegliendo anche un linguaggio involuto, estremamente sintetico, sicuramente ricercato, egli si preclude, con ciò stesso, la possibilità d'esser capito e apprezzato. Il che se non può certo essere lo scopo di chi, scrivendo qualcosa di edificante, desidera che venga pubblicato, può però rientrare in quella assurda volontà d'identificarsi col Cristo frainteso e quindi crocifisso dai poteri e dalle masse.

La posizione individualista, a sfondo irrazionalista, si palesa invero anche in questa drammatica doppiezza: da un lato l'esigenza di farsi conoscere per dimostrare la propria "diversità"; dall'altro l'incapacità di farsi apprezzare per dimostrare che la propria "diversità" è realmente alternativa allo stato di cose presente. In tal senso Nietzsche rappresenta il fallimento di una qualunque critica illuministica della religione che non tenga conto: 1) delle radici storico-sociali di tale fenomeno; 2) della necessità di distinguere tra "religione" e "credente" e quindi tra "religione" e "politica".

Le conseguenze della sua doppiezza saranno non solo la follia vissuta a titolo personale, ma anche la realizzazione dei suoi principi più amorali (come forza, istinto, potenza, superuomo...) proprio in quella civiltà borghese ch'egli tanto disprezzava, anzitutto ad opera del nazifascismo. Esattamente come la rivoluzione comunista avvenne nella Russia contadina e non -come Marx ed Engels avevano prospettato- nell'Europa capitalistica.

Il ruolo della Prussia e la critica dell'idealismo

Nella Prussia ottocentesca, dall'idealismo assoluto di Hegel all'assoluto irrazionalismo di Nietzsche, fu avvertita con una coscienza molto acuta, drammatica, l'esigenza di superare i limiti della società aristocratico-feudale in decadenza, senza però voler rischiare di cadere in quelli della borghesia capitalistica (i cui effetti si erano già visti in Francia e in altri paesi europei). La Prussia avvertì più di ogni altro paese europeo questo problema sul piano teorico, ma non ebbe la capacità di risolverlo sul piano pratico, cioè i governi preferirono continuare sulla strada dell'egemonia politica aristocratica, mentre la società si stava irreversibilmente sviluppando secondo l'economia borghese (che ovviamente restava più commerciale che industriale). 

Il risultato fu che quando le forze produttive vennero a scontrarsi coi rapporti produttivi sempre più inadeguati, la Prussia sarà costretta a far scoppiare due guerre mondiali per poter recuperare, al cospetto delle altre potenze capitalistiche, il tempo perduto. La Germania infatti sarà l'ultima in Europa occidentale a resistere al capitalismo (insieme all'Italia, se di questa si esclude il regno sabaudo), e sarà anche la prima a scatenare i due conflitti mondiali, al fine di diventare più "capitalista" delle altre nazioni borghesi.

E' curioso il fatto che la rinuncia ai valori pre-capitalistici abbia seguito in Europa occidentale una direzione da ovest verso est, nel senso che la prima a rinunciarvi fu l'Inghilterra, poi l'Olanda, la Francia, la Germania e l'Italia, infine la Russia. La direzione seguì anche un percorso da nord a sud, conformemente alla separazione dell'Europa in protestantesimo e cattolicesimo. La Polonia costituisce un'eccezione e comunque essa, al pari dei paesi Baltici, è interamente spiegabile col concetto di "colonialismo religioso medievale".

Andrebbe però precisato che nessun paese cattolico europeo fu alieno dall'usare la modalità di prassi borghese. I Comuni italiani erano borghesi prima ancora di qualunque altra città europea; Spagna e Portogallo, alla fine del XV sec., erano due grandi nazioni marittime e commerciali.

E' indubbio tuttavia che solo là dove si era intrapresa con decisione la strada della riforma protestante, la società civile era divenuta profondamente capitalistica. La Germania, in tal senso, costituì un'eccezione (e sino alla fine dell'800), ma proprio perché essa credeva, illudendosi, che per poter superare il Medioevo fosse sufficiente una rivoluzione intellettuale (prima nella coscienza religiosa, secondo la Riforma, poi nel pensiero filosofico, secondo l'idealismo assoluto).

La cosa più stupefacente della Germania è che ha sempre avuto un forte idealismo come "nazione", non solo come "individualità singole". Essa, in tal senso, assomiglia molto alla Grecia classica.

Viceversa, l'Italia, intesa come "nazione", ha avuto solo pochi momenti idealistici: il Risorgimento, il Fascismo e la Resistenza (si può aggiungere anche la contestazione operaia-studentesca iniziata nel 1968-69 e, ma non per tutta la nazione, il Biennio rosso degli anni '20). Probabilmente questa differenza è dipesa dal fatto che mentre in Germania la religione è sempre stata subordinata allo Stato, in Italia invece essa ha sempre preteso un certo ruolo politico, ostacolando la formazione del senso dell'unità nazionale, dello Stato e della patria.

La filosofia degli istinti

Nietzsche deve essere considerato un idealista quando, contrapponendo gli istinti alla ragione borghese e alla fede cristiana, fa degli istinti un idolo da adorare, indipendentemente dal modo in cui vengono vissuti. D'altra parte questi "istinti primordiali", per essere veri, non devono - secondo Nietzsche - rendere conto a nessuno. Inutile dire che così facendo Nietzsche obbliga gli istinti a isolare il soggetto dalla società, facendogli perdere il criterio che legittima le istanze degli stessi istinti. Per Nietzsche la società è tutta malata, per cui gli istinti non hanno interesse a contrapporsi a una parte di essa.

In tal senso Nietzsche è molto vicino a Stirner, il capostipite dell'anarchismo filosofico moderno. Politicamente il miglior Nietzsche dovrebbe anzi essere considerato un anarchico; il peggior Nietzsche un nazista. La differenza sta nel fatto che il nazismo vuole porsi un compito politico-istituzionale e vuole imporlo con ogni mezzo a tutta la società e addirittura al mondo intero. Nietzsche invece era prigioniero del proprio individualismo.

Che molta parte della verità (se non tutta) stia nell'istinto, anche Rousseau l'aveva detto e lo dirà anche Freud, col suo concetto di "pulsione", e a dir il vero l'hanno supposto anche tutti coloro che, in maniera più velata, hanno voluto privilegiare l'intuizione sulla ragione (Schelling, Bergson ecc.). Tuttavia nessuno s'era mai sognato, prima di Nietzsche, di porre risolutamente l'istinto in netta antitesi alla ragione, di fare cioè dell'istinto una "seconda ragione".

L'essere umano può essere definito prevalentemente istintivo o quando non ha un'adeguata età cronologica o quando, avendola, non ha la corrispettiva maturità mentale. Neppure l'uomo primitivo può essere definito "meramente istintivo". Recuperare il giusto valore dell'istinto, specie in una società intellettualistica come quella occidentale, è possibile solo in una forma sociale che non neghi valore alla ragione. Se la ragione dominante è - come vuole Nietzsche - in décadence, non è certo col solo istinto che la si può rinnovare. Occorre una nuova ragione, che sappia ovviamente tener conto delle istanze emancipative dell'istinto.

L'istinto può apparire più vero perché più primordiale, ma di per sé l'istinto non racchiude tutta la complessità della specie umana (come invece avviene per quella animale). E' inutile illudersi che una vita istintiva sia da considerarsi più felice di una vita riflessiva o etica. Quando lo è, lo è alla maniera animale, cioè in forme del tutto inconsce. L'animale non si chiede come dover essere felice. Ogniqualvolta l'essere umano vuol porre l'istinto in antitesi alla ragione cade in una contraddizione insolubile, poiché il voler porre qualcosa contro qualcos'altro fa già parte di un'operazione della coscienza razionale. Il non rendersi conto di questo porta l'uomo a vivere i propri istinti peggio che gli animali.

Nietzsche ha ragione quando afferma che la cultura dominante censura gli istinti vitali semplicemente perché li teme, cioè ha ragione nel sostenere che tale cultura, in sé contraddittoria, non ha alcun diritto di negare l'esistenza all'istinto, ma ha torto quando crede che in virtù degli istinti repressi si possa creare una controcultura. Il primato degli istinti sulla ragione porta sempre alla nascita di una subcultura. In tal senso Nietzsche rappresenta, al pari di Freud, l'anticipazione di quella parte più anarchica del movimento studentesco del '68 (che poi ha trovato sviluppi nel pansessualismo, in certi generi artistici autoreferenziali, fino alla tragedia del terrorismo politico). Anche in Marx esiste qualcosa di analogo sia nel primato assoluto concesso all'economia (su ogni altro aspetto della vita sociale), sia nel concetto di "spontaneità rivoluzionaria del proletariato", conseguente al gap tra forze e rapporti produttivi. Questo a testimonianza della grande difficoltà che caratterizza la civiltà occidentale nel trovare una valida alternativa alla prassi borghese.

Nietzsche in sostanza può essere sì considerato un filosofo radicale, estremista, ma è anche un filosofo superficiale, poiché ogni posizione unilaterale, che dell'essere umano valorizza solo alcuni particolari aspetti, diventa necessariamente limitata. Il più grande "filosofo" della civiltà europea di tutti i tempi, orientale e occidentale, resta Hegel, almeno sino a quando Marx non arrivò a dire che la realizzazione della filosofia hegeliana equivaleva al suo superamento da parte del proletariato: cosa che s'incaricò di dimostrare politicamente, in maniera conseguente, solo Lenin.

Lenin non fece dell'istinto un modo per riaffermare il valore di un'ideologia borghese in declino (come invece è accaduto nel corso delle dittature nazifasciste), per quanto nel suo concetto di "primato assoluto della politica" (primato non solo sull'economia, com'era giusto che fosse, ma anche sull'uomo in generale) egli non vada del tutto esente dai limiti di un'ideologia a sfondo irrazionalistico.

E' una caratteristica tipica di quest'epoca decadente quella di attribuire all'istinto o all'inconscio l'ultimo barlume di verità che alberga nell'essere umano. La sfiducia nei confronti della ragione è così grande che si preferisce guardare con simpatia tutto ciò che la precede o che la nega: appunto i sensi, l'istinto, l'immediatezza, l'intuizione - l'inconscio, direbbe Freud. Anche in Schelling c'è questa tendenza, ma essa viene mitigata dallo scrupolo religioso. Se vogliamo la tendenza è presente anche in Fichte, ma resta mediata dall'impegno politico-intellettuale. Solo in Nietzsche essa è presente senza religione e senza politica.

Sotto questo aspetto Nietzsche ha anticipato lo stile di vita di buona parte della gioventù contemporanea, ma anche lo stile di vita delle società civili che portarono alla prima e alla seconda guerra mondiale. Nietzsche anticipa ogni tipo di dittatura reazionaria e ogni forma di anarchismo ribellistico.

Egli non avrebbe mai accettato l'idea di conferire "verità" ai sensi in un contesto in cui anche la ragione ha la propria "verità", con la quale questa pretende di giudicare la verità dei "sensi". A suo giudizio, infatti, i sensi acquisiscono la "verità" contrapponendosi alla "verità" della ragione. Non c'è possibilità di compromesso: la ragione "ufficiale", "istituzionale" deve necessariamente cedere il passo alla "ragione" dei sensi. Nietzsche voleva l'uomo a "una dimensione", come un adolescente che vede il mondo in bianco e nero, che usa l'istinto come criterio di verità o al massimo l'intelletto per "dividere" e mai la ragione per "unire". Nietzsche è rimasto bloccato a uno stadio adolescenziale, quello in cui si vagheggia la purezza dell'ideale assoluto (vedi ad es. il superomismo) e, nel contempo, si lotta con acredine contro tutto ciò che sembra contraddire tale obiettivo. Il risultato è che Nietzsche nega l'evidenza di cose tipicamente umane, che non dipendono da alcuna particolare religione (come p.es. il senso di colpa, l'autocritica...).

E' vero, tanti principi morali sono stati completamente inventati o distorti, ma tanti altri traggono la loro origine recondita proprio nella coscienza del limite, ossia nella capacità di distinguere il bene dal male. Nietzsche avrebbe voluto un uomo che andasse al di là di tale distinzione, cioè che non si ponesse, prima di agire, il problema di dover compiere un'azione giusta o ingiusta. Nietzsche voleva un uomo "tutto istinti", che agisse sempre conformemente alla propria natura, senza dover rendere conto a nessuno. Un uomo del genere, se mai esisterà, potrà essere il frutto di una società molto matura, che abbia già superato i conflitti sociali antagonistici. Prima di allora, la teoria istintuale di Nietzsche fa solo il gioco del sistema borghese, che, per sopravvivere, ha bisogno di cittadini che non pensino.

Nietzsche è così astratto quando critica il concetto di "compassione" che non si rende mai conto quanto possa essere nichilista anche il concetto di "istinto" (che lui chiama "volontà di potenza", "affetto tonico", "sentimento vitale" ecc.).

Infatti se all'istinto non si dà un fine politico o sociale anti-borghese (ma anche anti-aristocratico), il suo porsi non farà che gli interessi delle classi dominanti, esattamente come la compassione. La differenza starà nel fatto che l'istinto si pone in maniera egoistica e la compassione in maniera altruista (astrattamente parlando), ma di fatto né l'una né l'altro, prese in sé, servono alla causa dell'emancipazione.

Promuovendo la compassione o aiutando il cristianesimo a svilupparla, i governi borghesi vengono da sempre incontro alle esigenze delle persone "di coscienza", quelle che soffrono di fronte al dolore altrui. Favorendo invece l'istinto i medesimi governi appagano le esigenze di coloro che vogliono "godersi" la vita e che credono nel darwinismo sociale. Sono due facce della stessa medaglia, che nella storia si alternano continuamente.

La compassione può avere un senso se nel contempo si lotta per la giustizia; l'istinto può avere un senso contro l'ipocrita morale borghese se nel contempo si lotta per una morale alternativa, veramente sociale.

Il non aver capito, da parte di Nietzsche, che la compassione è stata usata da Schopenhauer per rifiutare anche l'altruismo sociale della compassione cristiana, è stato grave. Nietzsche ha rischiato di lottare semplicemente contro il cristianesimo dei filosofi e del clero, ignorando del tutto l'esistenza del cristianesimo sociale.

Materialismo volgare

E' il destino di tutti i filosofi individualisti quello di far derivare l'originalità dell'essere umano, rispetto all'animale, da motivazioni di tipo psicologico. L'uomo -dice Nietzsche- "è l'animale più forte, perché il più astuto: la sua spiritualità ne è una conseguenza"(par. 14). La differenza quindi tra l'animale e l'uomo sarebbe solo quantitativa. La volpe o il lupo hanno quasi la stessa spiritualità umana.

Gli atei come Nietzsche difficilmente si rendono conto che, a causa di questo rozzo materialismo, ogni loro ragione, di fronte ai mille torti di una fede religiosa, s'infrange contro un muro invalicabile. Paradossalmente, pur guardando sempre verso il futuro e verso quello che per lui doveva essere il prodotto migliore: il "superuomo", Nietzsche esprime una forma di ateismo assai vicina a quella illuministica francese (vedi p.es. La Mettrie).

In effetti, ogniqualvolta l'ateismo parte da posizioni individualistiche, il volgare anticlericalismo diventa inevitabile, anche perché si è incapaci di fare una vera distinzione tra "ideologia" e "politica". Sul piano politico difficilmente atei del genere collaborerebbero coi credenti. Loro stessi d'altra parte sarebbero i primi a sostenere che è fatica sprecata andare a cercare intese politiche con chi professa ideologie oscurantiste. E così, invece di realizzare dei progetti comuni che potrebbero col tempo portare a mutamenti di coscienza, ci si rinchiude entro i limiti angusti del proprio settarismo.

Il rispecchiamento della realtà

Quando Nietzsche sostiene che i sogni rispecchiano la realtà, mentre la religione la falsifica, non s'accorge d'aver compiuto un errore volontario e uno involontario. Quest'ultimo è dovuto al fatto che solo a partire da Freud si dirà che l'io nevrotico può falsificare la realtà anche nei sogni, o anche che nel sogno l'io può sublimare le proprie frustrazioni, impedendo al Super-io d'essere meno severo. (Freud, in verità, dirà che questo è un modo di "liberarsi". In realtà un soggetto alienato tende a esserlo anche nei sogni, cioè tende appunto a "deformare" la realtà e non a "rispecchiarla" o, al massimo, tende a "rispecchiare" la propria realtà "alienata").

L'errore volontario è ovviamente più grave, ed è relativo al fatto che Nietzsche nutre troppi pregiudizi per poter accettare l'idea che la religione, nonostante i suoi grandi limiti, sia pur sempre un rispecchiamento della realtà. In questo senso anche i sogni "rispecchiano" la realtà. Qui però bisogna intendersi: religione e sogni "rispecchiano" la realtà solo nel senso che nelle loro falsificazioni debbono pur sempre trarre spunto dalla realtà. Quando si dice che uno può scambiare i propri desideri con la realtà, in sostanza si dice che teoria e prassi sono due cose molto diverse (p.es. può esserci una teoria apparentemente giusta e una prassi, da quella derivata, sostanzialmente errata).

Solo con molta difficoltà si riesce a elaborare una teoria che di volta in volta sia capace di riflettere in maniera adeguata, obiettiva, una prassi giusta. Tuttavia nessuno si sognerebbe di dire che la teoria di una persona psichicamente normale, per quanto soggettiva sia, non può riflettere assolutamente la realtà. Persino le teorie dei folli, se prese per un certo verso, possono offrirci degli input interessanti per comprendere la realtà. Foucault l'ha detto a più riprese.

La storicità dell'esserci è sicuramente una realtà da conquistare soggettivamente, con l'impegno in un progetto di liberazione, poiché la storia altro non è che il processo della libertà verso la piena umanizzazione; ma la storicità è anche un dato oggettivo al quale l'esserci non può sottrarvisi, neanche formulando le teorie più assurde, neanche trasferendosi nel deserto più remoto: in questi casi la storicità verrà vissuta in maniera deformata, ma verrà comunque vissuta.

Esaminando scientificamente il fenomeno religioso si può quindi arrivare a comprendere, naturalmente per approssimazione, il sistema di vita di una data compagine sociale. Nietzsche si è sempre precluso questa possibilità, in quanto non è mai riuscito a "storicizzare" la religione, esaminandola nelle sue coordinate spazio-temporali.

La religione per Nietzsche costituiva il concentrato di tutte le cose peggiori della vita, destinate a essere perennemente odiate a morte. Chi esamina un fenomeno sociale con un tale coinvolgimento personale, non potrà mai essere obiettivo, o comunque non potrà mai vestire i panni del ricercatore.

Nei confronti della religione Nietzsche aveva un atteggiamento sostanzialmente nevrotico, che poi si trasformerà in maniaco-depressivo negli ultimi anni della sua vita. Si ha qui la netta impressione che Nietzsche assomigli molto a quei credenti fanatici che cercano nella loro religione l'ispirazione per vivere in maniera adeguata ogni più piccola azione quotidiana.

L'ateismo non è in sé migliore della fede, né questa, solo perché fede in un assoluto, è migliore dell'ateismo. Il primato va sempre concesso alla prassi, che è l'unica in grado di offrire un qualche criterio di verità sufficientemente fondato. E' solo osservando da vicino le realizzazioni pratiche che si può sapere se una teoria è migliore di un'altra, se una teoria è migliore della persona che la professa, se è la persona a essere migliore della sua teoria. A questi importanti distinguo Nietzsche non è mai arrivato.

Che la religione rifletta parzialmente la realtà è anche dimostrato dal fatto che è possibile "laicizzare" i suoi concetti, come appunto ha fatto tutta la filosofia borghese a partire da Cartesio. La filosofia borghese non è nata come "rovesciamento" della religione, ma come "laicizzazione", cioè "trasformazione" o "rielaborazione" (più o meno opportunistica) di molti suoi concetti. Quelli che non trovavano più alcun riscontro nella realtà sono stati definitivamente abbandonati. P.es. la fede nella Rivelazione è diventata la fede nella Ragione. La Ragione dei filosofi è stata considerata come la Fede del clero cattolico, nel senso che, attribuendo a quest'ultima ogni sorta di pregiudizio, si è fatta della Ragione una vera e propria divinità (senza rendersi conto che la Fede medievale poggiava anche su fattori sociali di certo non peggiori di quelli che il capitalismo imporrà di vivere: si veda p.es. il primato che si concedeva al valore d'uso rispetto a quello di scambio). Nel periodo più rivoluzionario della storia della borghesia: quello francese di fine '700, alla Ragione non s'innalzeranno forse degli "altari"?

Sotto questo aspetto vien quasi da pensare che il vero umanesimo laico non potrà mai essere antecedente al socialismo democratico, ma solo conseguente. La scienza infatti non è un dogma, ma un'acquisizione connessa alla storicità degli eventi, che sono in perenne evoluzione. E se in questa evoluzione non si trova la strada per uscire dal conflitto antagonistico che separa l'uomo dall'uomo, le interpretazioni che si daranno del fenomeno religioso rischieranno sempre di essere riduttive. L'individualismo condiziona anche le menti migliori.

Per fortuna si ha la possibilità di un progressivo avvicinamento alla verità, anche in condizioni di difficile vivibilità. Sia Nietzsche che Marx, p.es., hanno capito che la religione è il "sospiro della creatura oppressa" (vedi il par. 15 dell'Anticristo). Nietzsche tuttavia lega il sentimento della frustrazione all'incapacità personale di far valere i propri istinti naturali; Marx invece la fa dipendere dall'incapacità di metterla in relazione con le contraddizioni sociali. Anche Marx potrebbe accettare l'idea di far valere i propri "istinti naturali" (che la religione ha represso), ma chiederebbe di fare questo solo dopo aver visto compiere una rivoluzione politica. Questo perché egli era perfettamente consapevole che la vera radice dell'alienazione religiosa sta unicamente nel sistema di vita, nella "formazione sociale".

Nietzsche non avrebbe mai accettato l'idea di affrontare l'alienazione religiosa partendo dall'alienazione sociale: per lui (come per molti intellettuali della Sinistra hegeliana) il processo emancipativo doveva partire da basi opposte.

Quando Nietzsche sostiene che la religione "affonda le radici nell'odio per ciò che è naturale" (par. 15), non dice una cosa che il marxismo avrebbe potuto rifiutare, ma non dice neppure una cosa che si dovrebbe accettare a occhi chiusi, poiché il concetto di "natura", per Nietzsche, si riferisce esclusivamente a tutto ciò che riguarda gli aspetti istintivi, irriflessi, primordiali dell'essere umano, considerato peraltro, quest'ultimo, come mera individualità. Gli "istinti" non necessariamente rappresentano un modo "naturale" di vivere la ragione, in grado di ovviare ai rischi della conflittualità sociale o di superarne i limiti. Al contrario, nella filosofia di Nietzsche gli "istinti" servono per affermare una volontà di dominio con cui riscattarsi di un torto subìto.

Nietzsche non ha fatto altro che trasformare, in nome dell'istinto, la "ragione" hegeliana in "sragione" post-hegeliana. Non ha fatto che denudare le ipocrisie (di matrice religiosa) delle società aristocratico-borghesi portandole verso l'esasperazione, inducendole a reagire con l'irrazionalismo tipico di chi non vede alternative. Nietzsche è una conseguenza del formalismo hegeliano, ma al negativo, poiché il rifiuto dell'idealismo non è servito per opporsi alla società divisa in classi, ma, al contrario, per confermarla senza inibizioni di sorta.

Morale aristocratica e risentimento plebeo

La morale di Nietzsche è irrazionalistica semplicemente perché vuole restare "aristocratica" in una società (quella prussiana) sempre più orientata verso la democrazia borghese. Anche la morale di Hegel era aristocratica, ma non degenerò nell'irrazionalismo, perché l'idealismo allora si era illuso di poter superare le contraddizioni del capitalismo sul piano filosofico, facendo leva sulla "rivoluzione del pensiero", o comunque servendosi delle istanze superiori della ragion di stato (nella Filosofia del diritto Hegel tende a subordinare l'idea filosofica di "ragione" a quella politica di "ragion di stato", per cui si possono qui ravvisare delle tracce di irrazionalismo, che Nietzsche può aver ripreso in chiave individualistica, anticipando, in questo, la formazione politica del nazifascismo).

Forse si può sostenere che Nietzsche è la prosecuzione (inevitabilmente irrazionalistica) di quell'idealismo filosofico che non vuole rassegnarsi alla fine della civiltà feudale-aristocratica. La ragione, invece di recuperare le istanze sociali di giustizia, avverte di non avere altra risorsa che quella di affidarsi all'istinto, alla "volontà di potenza", che non ha un contenuto razionale specifico, e che comunque non cerca forme di compromesso (tipiche della mediazione hegeliana), e coltiva, per questo, un odio mortale contro il genere umano.

Nietzsche è sicuramente nel giusto quando rifiuta i compromessi che l'aristocrazia prussiana era costretta a subire da parte della sempre più forte borghesia, al fine di salvaguardare, più o meno indenne, il tradizionale potere. Egli probabilmente s'era reso conto dell'inutilità di questi compromessi, ovvero della fine ineluttabile della civiltà pre-capitalistica, dotata ancora di potere politico ma sempre più priva di quello economico. Per questa ragione egli pretendeva una reazione estrema dell'aristocrazia, al fine di tutelare gli ideali di patria e onore, razza e sangue (non fu forse questa l'angoscia dell'ultimo Hegel?).

In questo senso, ma solo in questo senso, Nietzsche ha anticipato il nazismo. Egli in sostanza ha voluto salvare l'idealismo usando gli strumenti dell'irrazionalismo, e in questo tentativo si sentiva completamente isolato: qui la principale differenza tra lui e gli ideologi espliciti del nazismo, che seppero dare una veste politica alle loro illusioni.

Nietzsche in fondo ha pagato il prezzo di una posizione filosofica estremista che non voleva tradursi politicamente: il suo irrazionalismo è diverso da quello nazifascista non nelle conseguenze, ma nelle forme impiegate. Il fine della sua "volontà di potenza" non è tanto quello di costruire una società di "uomini nuovi", ma semplicemente quello di far "crescere" questa stessa volontà, di portala all'autosviluppo e di farle superare degli ostacoli più "interiori" che esteriori, più di "coscienza" che di vita sociale.

Che Nietzsche sia un inguaribile individualista lo si comprende anche da questo, ch'egli considera come nemico principale della sua civiltà aristocratica non tanto il capitalismo bensì il cristianesimo.

La contrapposizione che Nietzsche pone tra morale aristocratica e risentimento plebleo è la contrapposizione tra il privilegio perduto del singolo aristocratico ateo e il privilegio acquisito dalle masse cristiane giunte al potere.

Nietzsche non oppone i principi democratici al cristianesimo di stato, poiché ritiene che il cristianesimo sia salito al potere proprio in forza di tali principi. Egli non chiede al cristianesimo di dimostrare nella prassi la coerenza coi propri ideali, ma chiede, in nome di un altro privilegio, già uscito sconfitto dalla lotta contro il cristianesimo, di rinunciare all'idea di un cristianesimo di stato.

Nietzsche vuole maggiore laicità, ma anche maggiore discriminazione sociale, più nette differenze di classe, più grande aristocraticismo morale. Si meraviglia del risentimento cristiano e non s'accorge ch'esso era causato proprio dalle ingiustizie sociali e dalle discriminazioni di classe.

Peraltro Nietzsche applica al cristianesimo a lui coevo lo stesso risentimento che il cristianesimo nutriva al tempo di Cristo - il che è assurdo, in quanto il cristianesimo al potere non fece mai del proprio risentimento un'occasione per creare un sistema di vita più democratico (anche se indubbiamente vi furono dei progressi dallo schiavismo al colonato e da questo al servaggio, che la chiesa in qualche modo sanzionò sul piano culturale).

Il cristianesimo al potere, semmai, continuò a provare forte ostilità nei confronti di tutti quei movimenti (che con molta superficialità e timore giudicava "ereticali") che ponevano all'ordine del giorno il problema di una precisa coerenza tra i principi ideali e le realizzazioni concrete. Il cristianesimo non ha mai nutrito un sentimento di disprezzo verso la classe aristocratica, se non da parte di esponenti privi di potere o comunque eccezionali rispetto allo standard consueto delle gerarchie (forse si può escludere da questo trend il cristianesimo apostolico).

Nietzsche qui è ancora una volta limitato dalle proprie astrattezze filosofiche. L'aristocraticismo di cui si fa vanto non ha alcun riscontro storico; forse esso è esistito nella fase pre-cristiana della Prussia, ma di sicuro esso non era ateo, poiché l'ateismo ha cominciato ad essere un'acquisizione delle classi borghesi che lottavano contro i pregiudizi clericali, sostenuti anche, per opportunismo, dall'aristocrazia feudale.

Per Nietzsche in realtà l'aristocraticismo morale è un concetto metafisico, poiché va al di là del tempo e dello spazio, per cui, in tal senso, esso sembra molto più consono alla filosofia e alla psicologia che non alla sociologia o alla storia. I nobili -dice al par. 56- sono i "filosofi" e i "guerrieri".

Aristocratico è Cristo -al dire di Nietzsche- ma anche Pilato, che irride il Cristo sul concetto di verità; aristocratico è Zarathustra e in parte Buddha. Aristocratico è chiunque sia scettico, chiunque nutra in se stesso un'opposizione contro le certezze del mondo. Aristocratico è l'uomo rinascimentale, al pari del nobile greco-romano o del vikingo scandinavo.

A questo punto è difficile seguire Nietzsche, poiché egli non compie alcuna analisi storica o sociologica, ma, al contrario, preferisce crearsi una sorta di idealtypus atipico il cui scopo è quello di valere come modello assoluto, cui devono fare riferimento alcuni soggetti concreti, situati storicamente, ma rimodellati secondo le esigenze personali dello stesso Nietzsche, il quale p.es. è assai favorevole all'ordinamento per caste del codice indiano di Manu (par. 57).

Ateismo naturalistico e filosofico

Interessante la differenza che Nietzsche pone tra l'ateismo degli scienziati della natura e il proprio, che è di tipo non solo filosofico ma anche esistenziale, perché frutto di un lavoro tormentato su di sé.

In effetti, l'ateismo degli scienziati, essendo troppo spontaneo e irriflesso, è poco efficace nella lotta culturale contro la superstizione e nella lotta politica contro il clericalismo.

Tuttavia, ciò che di positivo Nietzsche afferma sul piano teorico, viene purtroppo smentito nella prassi, in quanto è difficile pensare che un ateismo, quale il suo, così marcatamente individualista e irrazionalista, sia più efficace di quello "naturale" degli scienziati nella battaglia anti-religiosa.

Molti dei problemi personali di Nietzsche risalgono all'educazione religiosa ricevuta nell'ambiente familiare, il cui peso egli si è trascinato per tutta la vita (al pari di Kierkegaard). Sotto questo aspetto è senza dubbio molto più ateo quell'individuo che nei confronti della religione assume un atteggiamento indifferente, cioè quell'individuo che tiene separata la religione da tutto il resto, evitando di criticarla pubblicamente o aderendovi solo formalmente. E' la classica posizione agnostica (da Cicerone a Croce), ed è la posizione dominante in Italia, dove nei confronti della religione si assume solo un atteggiamento politico, evitando di entrare nel merito dei contenuti teologici, che andrebbero criticati dal punto di vista ateistico.

La critica scientifica viene fatta più in Germania che in Italia (il grande Bultmann tuttavia non ha mai messo in discussione l'esistenza di dio). Il fatto è purtroppo che ancora si teme che una posizione esplicitamente ateistica sia foriera di idee e atteggiamenti che, sul piano politico, potrebbero portare al socialismo.

Come noto, la sinistra italiana, al fine di evitare questo rischio, ha sempre limitato il discorso sulla religione a una posizione meramente politica (non ideologica), precisando, giustamente, che l'ateismo non può essere considerato uno strumento per acquisire consensi politici, ma finendo anche con l'assumere atteggiamenti equivoci e tendenzialmente strumentali. Avendo infatti rinunciato all'idea di poter trasformare in maniera rivoluzionaria la società, cioè avendo rinunciato all'idea che un cattolico possa aderire a questo progetto non in quanto cattolico ma in quanto lavoratore sfruttato, la sinistra, pur di andare al governo o di essere legittimata come forza di governo, ha elaborato la tesi dell'inevitabile compromesso storico con le forze cattoliche (senza il cui consenso è certo difficile governare restando nell'ambito del capitalismo italiano), e ha rinunciato a qualunque battaglia culturale a favore dell'umanesimo laico e dell'ateismo scientifico.

Classicità e Rinascimento

Odiando mortalmente la sua epoca, Nietzsche, come spesso succede agli idealisti, era tutto proiettato verso il futuro, ma, poiché in una tensione così estrema alla lunga non si può reggere, egli, di tanto in tanto, con spirito nostalgico, amava rievocare quelli che per lui erano stati i momenti aurei del passato: il mondo greco-romano e soprattutto il rinascimento. Da un lato quindi bramava di poter superare il presente in un futuro immediato, dall'altro, conscio di questa grande difficoltà, si limitava a idealizzare alcuni periodi storici del passato, o alcune individualità da lui ritenute eccezionali. In tal modo stravolgeva completamente il significato dei fatti storici.

Nietzsche aveva senza dubbio ragione quando sosteneva che il concetto borghese di "progresso" è un'"idea sbagliata", in quanto contiene degli automatismi ingiustificati, ma poi, quando si trattava di dare un contenuto (soprattutto "sociale") alla sua idea di progresso, egli non faceva altro che pensare al "superuomo", dotato di qualità superiori, di virtù eccezionali, ecc.

In tal modo non si rendeva conto che:

a) nel rinascimento individui del genere non sono mai esistiti, soprattutto in considerazione del fatto che gli intellettuali hanno sempre rifiutato di organizzare una rivoluzione politica contro il potere clerico-feudale (gli intellettuali erano eccezionali sul piano artistico, ma in politica essi accettarono ogni sorta di compromessi; tra l'altro il concetto di "virtù" che avevano i rinascimentali era stato elaborato da una cultura laico-borghese che voleva emanciparsi da quella cattolico-aristocratica. Non solo quindi era un concetto più "teorico" che "pratico" o, se vogliamo, più "individuale" che "sociale", ma apparteneva anche a una classe sociale odiata profondamente da Nietzsche: la borghesia, che se ne serviva per affermare dei valori tutt'altro che spirituali o ideali);

b) Nietzsche inoltre non s'è mai reso conto che nel mondo greco e soprattutto romano il "superuomo" altro non era che il frutto maturo di una società interamente basata sullo schiavismo, cioè sulla "sotto-umanità" della maggior parte dei lavoratori. Non è molto difficile per chi detiene i mezzi produttivi sentirsi "superuomini" e non c'è bisogno di dimostrare alcuna vera "virtù", a meno che non si debbano considerare tali quelle che occorrono nel momento in cui bisogna reprimere i rivoltosi (non fu forse considerato "virtuoso" il Crasso che sterminò i 50.000 seguaci di Spartaco, facendone crocifiggere altri 6.000 lungo la via da Capua a Roma?).

L'idea di Cristianesimo

L'idea che di cristianesimo ha Nietzsche è di tipo psicologico, non storico. Quand'egli infatti dice che il cristianesimo "s'è schierato dalla parte di tutto ciò che è debole, miserabile, malriuscito"(par. 5), dimentica sempre di aggiungere che il cristianesimo ha predicato questo in teoria, mentre in pratica, a partire almeno dalla svolta costantiniana, ha fatto esattamente il contrario.

Inoltre Nietzsche non comprende una cosa di fondamentale importanza: se il cristianesimo, predicando un'ideologia della rassegnazione o meglio della compassione, è riuscito a vincere l'ideologia del mondo greco-romano (che allora era considerato la quintessenza dell'umanità), ciò significa che tale mondo aveva delle contraddizioni così grandi che al suo interno, con gli strumenti teorico-pratici a disposizione, non vi era alcuna possibilità di risolverle. A ben guardare, in fondo, quasi tutto l'umanesimo predicato dal cristianesimo era già stato teorizzato dalla filosofia stoica ad esso precedente, eppure tale umanesimo era rimasto patrimonio dei soli ceti intellettuali, tra i quali vi furono anche dei "martiri", come p. es. Seneca. Quale fu la ragione di questo elitarismo della cultura umanistica classica? Non fu forse dovuto al fatto che tra teoria e prassi il vuoto era incolmabile?

Di quell'antico mondo Nietzsche vede solo gli aspetti psicologici della forza, della potenza ecc., e non vede assolutamente quelli socioculturali dell'ingiustizia, dello schiavismo, della discriminazione tra etnie, sessi, lingue, religioni... Non riesce neppure a collegare i due diversi aspetti.

Il fatto che il cristianesimo abbia introdotto i concetti di libero arbitrio e di coscienza personale del peccato, non dovrebbe essere considerato di per sé un regresso rispetto al fatalismo amorale della civiltà classica. Se l'uso che il cristianesimo fece di questi concetti non fosse stato, ad un certo punto, solo per fini di potere politico, probabilmente la civiltà europea avrebbe fatto grandi passi in avanti.

Ecco perché, in tal senso, sarebbe stato meglio contestare il cristianesimo sulle sue contraddizioni fra teoria e prassi e soprattutto sul tradimento politico del messaggio originario del Cristo. Nietzsche cioè sarebbe dovuto giungere alla conclusione che il cristianesimo è incapace di realizzare i valori che professa proprio perché nella sua culla vi è una profonda falsificazione del messaggio di Cristo ("falsificazione" vuol dire che nell'operarla non si è potuto fare a meno di tener conto di alcuni aspetti dell'"originale". La falsificazione non è mai una "totale negazione", poiché, se così fosse, il cristianesimo sarebbe stato frutto di una mera leggenda e non avrebbe certo surclassato i grandi miti pagani).

Si badi: se non si affronta la questione in maniera storica, si finisce col banalizzare anche l'analisi psicologica, perché se da un lato può essere vero che il cristianesimo è stato "la rovina di Pascal" (par. 5), in quanto il giovane Pascal era uno scienziato di grande talento; dall'altro però è difficile negare che il Pascal cristiano avesse raggiunto, proprio in virtù del cristianesimo, una maturità di pensiero particolarmente elevata, che in quanto scienziato sicuramente non aveva. Che poi tale acquisizione religiosa abbia portato Pascal anche a degli eccessi mistici, questo è un altro discorso: i limiti della sua vita e del suo pensiero religiosi non vanno imputati a lui più di quanto non debbano esserlo al cristianesimo in generale, a prescindere dalle diverse esperienze di fede (che nel suo caso furono gianseniste). Pascal resta senza dubbio molto meno irrazionalista di Kierkegaard. Lo stesso Nietzsche, pur col suo istinto ateistico, non si può dire che sia stato meno irrazionalista di Pascal. Religione e ateismo, presi astrattamente, come due idee che si escludono a vicenda, garantiscono ben poco sul piano umanistico.

La formazione del cristianesimo primitivo

Nietzsche ha in sostanza invertito il processo logico che ha generato l'elaborazione dei vangeli. A suo giudizio, infatti, Cristo non era un rivoluzionario ma una sorta di Buddha. Siccome però morì in croce, che era il patibolo - dice Nietzsche - dei malfattori (singolare che qui egli non abbia scorto la natura politica del processo e della condanna), i discepoli pensarono di addebitarne la causa all'"ebraismo al potere"(par. 40). Così, in sostanza, i discepoli divennero "rivoluzionari" contro le intenzioni originarie del Cristo-Buddha.

Essi cioè rifiutarono la morte in croce perché non si sentivano in grado di seguire gli insegnamenti del Cristo: non riuscivano ad essere "buddisti" come lui. Quando cominciarono a predicare il "regno dei cieli", facendo del Cristo un polemista antigiudaico e l'unico vero figlio di dio, privandolo quindi di ogni caratteristica umana, non si rendevano conto che il "regno" era già venuto con la morte in croce, accettata dal Cristo in maniera stoica, senza risentimenti di sorta.

Queste tesi oggi sono incredibilmente superate e per una semplice ragione: il Cristo era anzitutto un politico, non un filosofo. I discepoli non lo trasformarono in "teologo" perché non lo capirono come "filosofo", ma perché lo tradirono come "politico", in quanto non riuscirono a proseguire il suo messaggio di liberazione.

Nietzsche, anche quando evidenzia un ateismo "progressista" nella filosofia del Cristo, non riesce mai a collegarlo a un'istanza politica rivoluzionaria. Egli non ha mai considerato l'idea che la divinizzazione del Cristo, operata dal cristianesimo, sia stata una risposta all'esigenza che la comunità primitiva aveva di dare un senso alla propria incapacità di proseguire politicamente il messaggio originario del nazareno.

Viceversa, Nietzsche ha perfettamente ragione quando considera una "risposta spaventosamente assurda"(par. 41) quella che i cristiani diedero al dilemma della croce: "Dio offrì suo figlio come vittima per la remissione dei peccati"(ib.). Nel senso cioè che la morte in croce, essendo gli uomini irrimediabilmente traviati a causa del peccato d'origine, non poteva che essere vista come una necessità ineluttabile.

Dunque la croce non come ipotesi possibile (peraltro molto probabile per gli schiavi ribelli), ma come unica garanzia per rimuovere dalla coscienza di un dio vendicativo l'ira dovuta alla disobbedienza adamitica. Come noto, il responsabile principale di questa colossale falsificazione dell'interpretazione della croce del Cristo è stato Paolo. Nietzsche tuttavia ha dimenticato di precisare che Paolo poté formulare questa tesi proprio perché trovò in qualche modo il terreno già pronto, quello preparato dalle incertezze politiche dello staff dirigenziale del movimento nazareno. Non dimentichiamo che Pietro svolgerà sino alla definitiva consacrazione delle tesi paoline il compromesso tra il nazionalismo politico-religioso degli ebrei (nettamente ostili ai romani) e l'universalismo etico-religioso di Paolo, disposto all'intesa col potere dominante. Non a caso sarà Paolo che trasformerà una volta per tutte il concetto laico-umanistico di "figlio dell'uomo", usato dal Cristo, nel concetto teologico di "figlio di dio", che inizialmente verrà usato contro quello ebraico di "popolo eletto" e che dopo il 70 verrà usato contro la divinizzazione romana della figura dell'imperatore.

Nietzsche non ha visto nella falsificazione di Paolo, che quand'era fariseo lottava per il nazionalismo politico-religioso contro quei cristiani che, dichiarando Gesù il messia morto in croce, demoralizzavano le masse, il dramma di una coscienza che non poteva continuare a sostenere l'obiettivo di una liberazione nazionale senza riuscire in alcun modo a conseguirlo. Paolo -come molti seguaci del nazareno- si rendeva certamente conto che la liberazione nazionale non sarebbe potuta dipendere da una guerriglia sparuta, da stragi terroristiche, dall'estremismo degli zeloti... Occorreva un coinvolgimento delle masse, che però di fatto non ci fu.

Nietzsche ha ragione quando afferma che il cristianesimo falsificò la storia di Israele considerando l'ebraismo un'anticipazione del cristianesimo. Tuttavia qui bisogna precisare: dal punto di vista politico (che a Nietzsche però non interessa) il cristianesimo va considerato come una sorta di tradimento dell'ebraismo, anche se da un punto di vista etico ne è un superamento, poiché ha tolto il concetto di dio dagli angusti confini nazionali che aveva.

Come avrebbe dovuto realizzarsi il vero superamento dell'ebraismo? Compiendo la liberazione nazionale, ma slegando la politica dai lacci della religione: in tal modo il messaggio politico avrebbe potuto essere recepito anche dai non-ebrei.

Ai tempi del Cristo, mentre i galilei riuscivano a opporsi ai romani senza per questo considerare le tradizioni ebraiche (relative al sabato, al tempio, alle abluzioni, ai cibi ecc.) come assolutamente intoccabili, e in questo mostravano una certa propensione al cosmopolitismo, i giudei invece erano convinti che per resistere meglio ai romani occorreva accentuare il rispetto formale della legge e delle tradizioni orali e scritte, sicché la sudditanza politica dell'ideologia nazionalista e integralista nei confronti dell'imperialismo romano veniva sentita con un'esasperazione assai maggiore.

I giudei in sostanza si trovavano a dipendere non solo da Roma ma anche dai sacerdoti collaborazionisti, i quali s'illudevano di poter conservare l'integrità delle leggi e delle tradizioni culturali nonostante il progressivo avanzare dei romani sul terreno politico-militare. Il popolo più combattivo della storia rischiava di diventare il più autolesionista.

Dai vangeli si comprende molto bene che solo i galilei riuscivano a coinvolgere nella lotta antiromana anche quei gruppi e ceti sociali che in Giudea invece sarebbero stati considerati indegni di considerazione, perché "impuri", "peccatori" ecc. Un rabbino, uno scriba, un fariseo non si sarebbero mai sognati di pranzare insieme ai pubblicani, o di farsi lavare i piedi o ungere il capo da una ex-prostituta. Ciò che noi consideriamo relativamente normale, allora doveva suscitare tra i fanatici integralisti uno scandalo incredibile.

E' vero che nella fase iniziale il cristianesimo ha raccolto -come dice Nietzsche- "tutti i malriusciti, tutti quanti rimuginano la rivolta, ecc." (par. 43) -si noti, en passant, l'equazione di "feccia" e "rivoltosi"-, ma è anche vero:

1. che il cristianesimo paolino poteva andar bene solo alla schiavo rassegnato (vedi la Lettera a Filemone), che sa comprendere e accettare giustificazioni di tipo religioso sulla propria condizione servile;

2. che il cristianesimo primitivo non poteva chiedere agli schiavi la rassegnazione senza offrire, nel contempo, un certo miglioramento per la loro situazione sociale (comunione dei beni, solidarismo fraterno);

3. che il cristianesimo, in generale, si presenta come una religione più per i ceti medi che per quelli bassi, poiché la sua teoria consolatoria dell'aldilà può essere accettata, in ultima istanza, solo da chi non ha bisogno di particolari soddisfazioni sulla terra, in quanto conduce un'esistenza relativamente tranquilla.

Questo ovviamente non significa che il cristianesimo non venisse percepito come una teoria eversiva. Il potere politico-economico dell'impero romano ci mise tre secoli prima di capire che la teoria dell'uguaglianza delle "anime" e quella della disuguaglianza dei "corpi", cioè delle condizioni di vita materiale, potevano tranquillamente coesistere.

Un ritardo di questo genere fu dovuto, oltre al fatto che le origini del cristianesimo erano del tutto popolari, anche al fatto ch'esso si presenta come una religione ambigua, che dietro la predicazione dell'uguaglianza astratta non solo tende a salvaguardare il regime del privilegio, ma può anche nascondere degli elementi a favore dell'uguaglianza concreta: che sono poi quegli elementi cui si aggrappano, di volta in volta, i ceti più marginali quando vogliono contestare le istituzioni. La svolta costantiniana fu, in tal senso, decisiva: i ceti dominanti erano divenuti perfettamente consapevoli che per conservare i loro privilegi dovevano rischiare di concedere al cristianesimo l'egemonia culturale.

L'origine psicologica del fenomeno religioso

Notevole è stato il disprezzo che Nietzsche ha nutrito per il sentimento della "debolezza" e della "precarietà" umana. Egli l'ha sempre considerato come "non-umano".

E' vero che nella storia i potentati economici, politici, religiosi... hanno sempre cercato di sfruttare questo sentimento per imporre la loro egemonia, ma è anche vero che la condizione della "debolezza", della "dipendenza" da qualcosa è intrinseca alla natura umana, come una sorta di legge oggettiva.

Nella sua critica della religione cristiana, che si sarebbe servita del sentimento della "debolezza" per soggiogare moralmente gli uomini, Nietzsche non riesce ad accettare l'idea che l'oppresso, per riscattarsi, non abbia bisogno di diventare come l'oppressore.

Le manifestazioni di potenza dell'uomo non possono trovare la loro ragion d'essere nel fatto che qualcuno le dovrà subire perché più debole. La forza dell'uomo sta appunto nel vivere con dignità la propria debolezza, alla quale, per natura, nessuno può sottrarsi.

In tal senso l'origine psicologica del fenomeno religioso, come l'ha delineata Nietzsche, è completamente sbagliata. Il mondo greco-romano credeva forse in molte divinità per il fatto che si sentiva "forte"? A Nietzsche sfugge del tutto il contenuto di classe implicito nelle religioni delle civiltà schiavistiche. Cioè egli non vede come la necessità di darsi degli dèi astratti sia stata in realtà un'esigenza delle classi superiori per dominare quelle inferiori. Gli dèi che "consolano" servono appunto per tranquillizzare gli afflitti che subiscono i rapporti antagonistici, mentre gli dèi che "minacciano" e "castigano" servono per controllare quelli che non vogliono più subire quei rapporti.

E' inverosimile pensare che un umile lavoratore avesse bisogno di credere, oltre che in un "dio buono", anche in un "dio cattivo", pieno di "ira, vendetta, derisione, astuzia e violenza" (par. 16). Un dio di questo genere non poteva essere creato che da intellettuali (i sacerdoti) al servizio dei potenti.

E' più facile credere nell'esistenza di un "dio buono", proprio perché l'uomo avverte con naturalezza il senso della propria precarietà. Non c'è da stupirsi, in tal senso, che esistessero delle religioni anche presso quei popoli che non avevano conosciuto lo schiavismo.

Il fatto è però che in una società divisa in classi è molto facile sfruttare questo sentimento religioso istintivo (dovuto all'ignoranza), al fine di indurre gli uomini a credere nell'esigenza di stare sottomessi all'autorità, considerata unica mediatrice tra dio e il popolo.

Il bisogno di avere degli dèi cattivi, che puniscono severamente, è stato appunto il frutto di una elaborazione concettuale delle classi egemoni, allorché si cominciò ad avvertire che il potere stava vacillando. In tal senso il passaggio dagli dèi classisti e razzisti del mondo greco-romano, che punivano l'umile lavoratore e soprattutto lo schiavo anche nell'aldilà, al dio-padre che perdona chiunque si penta dei propri peccati, permettendo a tutti di godere la felicità eterna, è stato un passaggio positivo, che ha portato all'umanizzazione dei rapporti sociali.

Certo, il cristianesimo non era più in grado di opporsi politicamente al potere delle classi egemoni (al massimo riuscirà a minacciarle reintroducendo -questa volta contro gli oppressori- l'idea della "vendetta divina", terrena o ultraterrena), ma resta comunque vero che sul piano etico gli schiavi avevano più motivi di credere in un dio che negava (almeno nell'aldilà) le differenze di censo, di casta, di condizione sociale, di origine etnica, ecc. che non in una molteplicità di dèi i cui rappresentanti terreni si erano arricchiti proprio sulla base di quelle differenze.

Non si può insomma considerare la "bontà" come un segno di debolezza e la "cattiveria" come un segno di forza. Nessuna società si reggerebbe in piedi per molto tempo su principi del genere. Non si può disprezzare il cristianesimo per aver detto il contrario, anche perché nessuna religione è nata e si è sviluppata partendo dal presupposto che il "male" è un "bene".

E' assurdo pensare che il cosmopolitismo del cristianesimo abbia potuto affermarsi dopo che era entrato in crisi il carattere nazionalistico delle religioni pagane, o che in tale passaggio vi sia stato non un progresso ma solo un regresso, in quanto gli dèi bellicosi del paganesimo si erano trasformati in un dio mansueto e disposto al perdono.

L'universalismo del cristianesimo rappresentò un'autentica rivoluzione rispetto alla limitatezza geografica degli dèi pagani, che i fedeli consideravano sempre ostili tra loro. D'altra parte gli stessi imperatori romani cercarono a più riprese, senza però riuscirvi, di ideare una sorta di religione universale che andasse al di là di ogni culto locale. Non vi riuscirono appunto perché il loro dio universale aveva, in nuce, le stesse caratteristiche degli dèi locali, la prima delle quali era la discriminazione delle classi più umili. Era un dio che doveva riflettere semplicemente la volontà di dominio universalista dell'imperatore e non l'esigenza dell'uomo di emanciparsi da una vita oppressiva.

Nietzsche ha fatto un errore che spesso commette chi difetta di senso storico: ha guardato il passato con gli occhi del presente. Cioè ha disprezzato il cristianesimo primitivo perché lo ha ritenuto simile a quello del suo periodo, a quello della sua Prussia, senza peraltro considerare che in ogni epoca storica, a partire almeno dalla svolta costantiniana, il cristianesimo ufficiale (l'unico ammesso), ha dovuto sempre scontrarsi con un cristianesimo ufficioso, marginale, di idee ancora radicali, "eretiche", le quali, pur non essendo riuscite a imporsi a livelli istituzionali, hanno comunque influenzato la formazione di quei movimenti laici che lotteranno contro la chiesa non più solo dall'interno ma anche dall'esterno.

Cristianesimo e Buddhismo

Nel confronto ch'egli pone tra cristianesimo e buddhismo, Nietzsche non si rende conto di una differenza abbastanza importante fra le due religioni, in virtù della quale si è soliti definire il cristianesimo una religione "storica" e il buddhismo una religione "naturale". La differenza consiste in questo: nella "lotta contro il peccato" - per stare alla terminologia usata da Nietzsche - il cristianesimo è attivo, in maniera sostanzialmente etico-teologica e sociale. Viceversa nella lotta "contro il dolore", il buddhismo è passivo, in maniera sostanzialmente amorale, filosofica e individualistica.

A Nietzsche ovviamente piace più l'indifferenza etica del buddhismo, che non l'impegno morale del cristianesimo, anche se, ovviamente, non può apprezzare del buddhismo il concetto di "rassegnazione" (che si ritrova anche in Schopenhauer e, se vogliamo, nello stesso Zarathustra, entrambi rifiutati dal Nietzsche maturo).

Del buddhismo Nietzsche usa quello che gli serve per sostenere le proprie tesi e per criticare il cristianesimo. Non fa la stessa cosa nei confronti del cristianesimo per contestare il buddhismo o altre religioni e filosofie. Questo modo di procedere è schematico, poiché non tiene conto che in ogni religione e in ogni filosofia esistono aspetti positivi che hanno contribuito allo sviluppo del genere umano e che per questa ragione andrebbero valorizzati.

P.es. Nietzsche non è riuscito a cogliere uno degli aspetti più positivi del Buddhismo, che per certi versi neppure il cristianesimo occidentale ha mai sviluppato in maniera adeguata: il rispetto della natura, cioè l'esigenza di conformare tempi, ritmi e modalità socio-esistenziali alle caratteristiche fondamentali della natura.

L'amore che Nietzsche nutriva nei confronti della natura era di tipo intellettuale, filosofico (al pari di Schelling) e comunque sempre funzionale al primato ch'egli concedeva ai sensi, all'istinto... ritenuti più "puri" della stessa natura. Per Nietzsche la natura doveva evocare, pena la sua inutilità, un passato bellicoso, eroico, del genere umano, certo non un atteggiamento contemplativo, arcadico, né la necessità di riconsiderare la fatica del lavoratore agricolo o pastorale.

Peraltro Nietzsche -a differenza p.es. di Weber- non compie mai alcuna analisi storico-sociologica sull'origine e lo sviluppo delle religioni filosofiche orientali. Se l'avesse fatto, si sarebbe facilmente accorto, p.es., che il buddhismo, pur essendo nato in polemica col concetto induista della divisione in caste, non si è mai posto il problema di come condurre una lotta per il superamento di questo anacronismo feudale. Anzi, esso rappresentò un modo, alquanto sofisticato, di non affrontare proprio le contraddizioni di quel retaggio.

Nietzsche invece ha pienamente ragione quando lascia capire che il cristianesimo occidentale, rispetto al buddhismo, s'è dimostrato storicamente molto più intollerante, in quanto costantemente preoccupato di affermare la propria ideologia a livello planetario. D'altra parte quando una religione cosiddetta "storica" diventa "integralista", è facile che il proselitismo si trasformi in una forma di odiosa egemonia. Anche l'islam e l'ebraismo sono stati caratterizzati da questo limite e per molti aspetti lo sono ancora oggi.

Al buddhismo si può semmai rimproverare il contrario, e cioè la chiusura nazionalistica, l'incapacità di misurarsi col "diverso".

Del tutto esagerata è la critica che Nietzsche rivolge al cristianesimo quando lo paragona alla sapienza esoterica orientale (indobuddhista), nonché a Platone, secondo i quali ciò che conta non è la "verità delle cose" ma la fede che in essa deve avere il credente.

Nietzsche non solo legge il cristianesimo del passato sulla base di quello ch'egli vede nel presente, ma, anche nel suo presente, egli non fa alcuna distinzione tra "gerarchia" e "fedeli". E' difficile pensare che per quest'ultimi sia più importante che "l'uomo si senta peccatore" e non che lo sia veramente (par. 23). Un atteggiamento del genere è più facile riscontrarlo nella gerarchia e neppure in tutti i suoi rappresentanti.

Il riferimento a Platone, peraltro, pare del tutto inadeguato: meglio avrebbe fatto Nietzsche a citare la filosofia opportunistica dei sofisti, che meglio si presta alla critica di relativismo gnoseologico e valutativo. Questo poi senza considerare che non tutti gli atteggiamenti scettici sono amorali: possono anche essere "problematici", teleologicamente sospensivi... Non appare forse così l'Ecclesiaste di Qoelet?

Cristianesimo e ateismo

Nietzsche è così astratto nella sua analisi del fenomeno religioso che neppure si accorge quanto il cattolicesimo, rispetto all'ortodossia, rappresenti un uso molto più strumentale (specie per fini politici) della fede religiosa e che, proprio per questa ragione, esso ha indirettamente contribuito allo sviluppo di una cultura ateistica e scientifica (soprattutto a partire dalla riscoperta accademica dell'aristotelismo). Forse è il caso di dire che mentre per i cattolici l'uso strumentale della fede avviene prima per motivi politici, poi economici, per i protestanti invece la motivazione è opposta, in considerazione del fatto che gli interessi politici dei protestanti o coincidono con quelli dello Stato in cui vivono o vengono rivendicati per tutelare quelli economici.

Il cattolicesimo romano ha cominciato ad opporsi alla scienza più che altro per motivi politici, poiché era consapevole che se avesse perduto la battaglia ideologica contro la borghesia, avrebbe poi dovuto ridimensionare le sue pretese economiche. Il cattolicesimo romano ha favorito la scienza fino al momento in cui s'è reso conto che l'uso delle scoperte scientifiche stava portando la borghesia a un'autonomia troppo grande nei confronti del tradizionale autoritarismo ecclesiastico.

Nondimeno è fuor di dubbio che tutta l'elaborazione teologica della Scolastica rappresenta un involontario passo avanti in direzione dell'ateismo, proprio a motivo del suo modo astratto, tipicamente filosofico, di affrontare le questioni religiose. La religione, quella nell'accezione più classica del termine, è più che altro un fenomeno delle culture pre-schiavistiche, forse neppure di tutte. Lo schiavismo infatti fu una realtà talmente dura che in un certo senso si fu costretti a passare dalla ingenua religione animistica alle rappresentazioni antropomorfiche della divinità (nella forma politeistica), sino alla sofisticata metafisica cristiana, la quale non poteva sorgere che dall'ebraismo, l'unica religione monoteistica tra le tante religioni politeistiche.

Che il cattolicesimo abbia contribuito allo sviluppo dell'ateismo è stato relativamente compreso dal protestantesimo (specie nella sua versione calvinista), il cui ateismo si manifesta proprio in quel concetto di "dio interiore", assolutamente soggettivo e individualistico, che sfugge a una verifica più propriamente socio-ecclesiale.

Dunque l'ateismo non è solo una prerogativa dei filosofi anti-cristiani, almeno non più di quanto lo sia per il cattolico-romano rispetto all'ortodosso o del protestante rispetto allo stesso cattolico. La differenza sta piuttosto nel diverso livello di consapevolezza. Persino i primitivi cristiani, col loro concetto di "figlio di dio", applicato unilateralmente al solo Cristo, venivano tacciati di ateismo, in quanto veniva negata la figliolanza divina all'imperatore e il carattere sovrumano alle altre divinità dell'Olimpo.

Nietzsche ha amato molto l'Italia, e il Rinascimento in particolare, ma non ha mai capito il motivo storico-culturale per cui la politica e la scienza moderna sono nate proprio in un paese profondamente cattolico. Cioè non ha capito come sia stato proprio il cattolicesimo, nella sua lotta spietata contro l'ortodossia orientale (greco-bizantina prima e slavo-russa dopo), a generare il "mostro" che poi gli si sarebbe rivoltato contro.

Il vero atteggiamento religioso, infatti, non è quello cattolico legato al potere, ma quello spiritualistico, profetico, strettamente legato alla tradizione dei Padri, quello ascetico, mistico, contemplativo, teologicamente apofatico. E' questo il cristianesimo più profondo, più serio e rigoroso, ed anche quello più difficile da combattere (sul piano ateistico), poiché può essere vinto solo se si dimostra, in maniera pratica, che le contraddizioni su cui esso poggia la propria ragion d'essere possono essere risolte.

Una religione che riesce a stare legata a una tradizione bimillenaria, senza assumere atteggiamenti particolarmente autoritari nei confronti di altre religioni e nei confronti dell'ateismo (se si esclude quello dei sovrani bizantini e slavi che usarono la religione come instrumentum regni), è una religione con cui può anche intavolare una discussione, per quanto un ateo non dovrebbe mai dimenticare che suo compito è quello di creare una società in cui non vi sia bisogno di alcuna religione.

Comunque solo un filosofo individualista come Nietzsche poteva pensare che il protestantesimo sia più difficile da combattere del cattolicesimo. Se Nietzsche avesse esaminato la religione cristiana in maniera storica, avrebbe visto ch'essa è più un fenomeno sociale che intellettuale: il sociale ha un primato sul logico-razionale (specie nella variante cattolico-ortodossa), al punto che mentre la base cristiana mostra di credere nei dogmi, gli intellettuali invece spesso sono scettici e fanno professione di doppiezza per mero opportunismo.

Questo significa che il cristianesimo non potrà mai uscire sconfitto nella lotta tra "fede" e "scienza", se questa lotta viene condotta coi criteri e metodi tipici dell'illuminismo borghese. Non bastano "la filosofia e la medicina" -come vuole Nietzsche- per vincere il cristianesimo; occorrono anche una diversa organizzazione della società, una democrazia strettamente legata al socialismo.

La scienza, fino ad oggi, ha potuto vincere la religione solo perché il capitalismo s'è dimostrato più forte del feudalesimo, ma se in futuro il capitalismo subirà un tracollo mondiale, nessuno ci potrà assicurare che non torneremo a un Medioevo dominato dalla religione. Per scongiurare tale eventualità, occorre che gli uomini, già da adesso, si mettano a costruire una società alternativa al capitalismo, capace di guardare avanti, memore degli errori passati.

La superstizione non è solo prerogativa di ogni religione (tanto che si potrebbe dire che ogni religione è, in ultima istanza, una superstizione), ma è anche un limite in cui può cadere chiunque assuma un atteggiamento dogmatico nei confronti della propria concezione del mondo.

In tal senso il "peccato originale" non è stato tanto l'aver voluto acquisire la scienza contro la dimensione della fede, ma l'aver voluto affermare una verità soggettiva contro la tradizione di una verità collettiva: è stato l'appropriarsi privatamente di un bene comune. Il "peccato originale" è il simbolo dello sviluppo delle società antagonistiche in antitesi a quelle basate sul collettivismo. In tale diatriba il valore della scienza e della fede sono alquanto relativi, poiché le società collettive non erano affatto basate sul primato della religione, come d'altra parte non si può dire che le società individualistiche siano prevalentemente basate sulla ragione scientifica. Si pensi solo alla cieca fede con cui si crede alla tecnologia, al benessere, al consumismo, allo sviluppo, al militarismo...

L'ebraismo ha avuto una consapevolezza straordinaria di ciò che gli uomini avevano perduto scegliendo la strada dell'individualismo e della rottura delle tradizioni comunitarie. Esso non ha mai ridotto la questione in termini di lotta tra "scienza" e "fede". Gli elementi veri dello scontro sono sempre stati quelli di "individualismo" e "collettivismo".

Cristianesimo e Nichilismo

Quanto sia vera la tesi secondo cui nessuno è in grado d'interpretare adeguatamente se stesso, è dimostrato anche dal fatto che Nietzsche considera nichilista il cristianesimo, quando tutta la sua filosofia (se si escludono le primissime opere) lo è e lo vuole essere. In psicologia si direbbe che le persone intolleranti esorcizzano i propri difetti attribuendoli ad altri.

Resta comunque vero che il cristianesimo -quale religione della consolazione- ha un fondamento di nichilismo, ma se vogliamo guardare le cose sotto questo aspetto, dobbiamo dire che mentre il nichilismo cristiano è "contemplativo" in teoria e "intollerante" nella pratica (salvo eccezioni), quello di Nietzsche è "aggressivo" nella teoria e "autodistruttivo" nella pratica. E se col primo nichilismo il dialogo, forse, non è aprioristicamente impedito, col secondo certamente lo è.

Se vogliamo essere più precisi dovremmo dire che mentre il nichilismo cristiano è "passivo" per le masse e "aggressivo" per i vertici politici (specie nell'area del cattolicesimo romano), che si servono delle masse per realizzare le loro aspirazione di dominio, viceversa quello di Nietzsche non riesce a trasformare la propria "aggressività" con la dovuta coerenza, in quanto limitato dal perimetro dell'individualità isolata (ciò che invece gli riuscirà di fare al partito nazionalsocialista). (Che il cristianesimo sia "aggressivo" è dimostrato dal fatto che i suoi livelli istituzionali non hanno mai voluto opporsi decisamente al nazifascismo, pensando, in questo, di fare il bene della propaganda anticomunista. In tal senso è forse azzardato sostenere che il cristianesimo occidentale contribuì, seppur indirettamente, alla scatenamento della seconda guerra mondiale?).

Ora, il fatto che l'irrazionalismo di Nietzsche, proprio a motivo dell'isolamento con cui egli ha vissuto la propria esistenza, non abbia prodotto effetti equivalenti a quelli dell'ideologia nazista, non può certo essere considerato un motivo sufficiente per ritenere del tutto illegittimi i nessi culturali se non addirittura le dipendenze che legano il nazismo alla filosofia di Nietzsche.

Paganesimo e Cristianesimo

Dovendo scegliere tra paganesimo e cristianesimo, Nietzsche, al pari del giovane Hegel, non aveva dubbi nel preferire il paganesimo. Hegel amava il mondo greco-romano perché s'era reso conto che il cristianesimo del suo tempo era del tutto conservatore. In quel periodo di rivolgimenti epocali (si pensi alla rivoluzione francese) essere sovversivi significava necessariamente essere anti-cristiani e quindi, per chi non riusciva ad accettare le inevitabili conseguenze delle rivoluzioni borghesi e preferiva rifugiarsi nel limbo delle idee astratte, diventare filo-ellenisti o neo-classici. Per molti intellettuali tedeschi fu una strada quasi obbligata, entro i limiti dello status quo, con cui si poteva mostrare il proprio dissenso in materia di rapporti con la religione ufficiale.

Hegel vagheggiava un ritorno al costume e alle tradizioni della polis, all'interno dei quali una parte di rilievo doveva continuare a svolgere la religione. Come noto, Hegel fu un moderato persino nella fase più "rivoluzionaria" della sua vita.

Al contrario Nietzsche, come Marx, ha sempre nutrito un'antipatia istintiva per la religione: in tal senso la sua nostalgia per il mondo classico era rigorosamente delimitata entro i confini dell'ateismo. Tuttavia, a differenza di Marx, Nietzsche ha continuato per tutta la sua vita ad affrontare il cristianesimo in modo psicologico, individualistico, senza mai scorgere il nesso organico che lega una religione alla società divisa in classi.

Sia Nietzsche che Hegel non hanno mai capito, p. es., il fatto che il paganesimo rappresentava, rispetto al cristianesimo, la sovrastruttura culturale di una società molto più antagonistica di quella feudale. Questo perché entrambi non hanno mai messo in discussione l'esistenza di una società divisa in classi contrapposte.

Hegel arrivò addirittura ad apprezzare il cristianesimo nella maturità, quando cominciò ad elaborare una filosofia meramente "interpretativa" delle contraddizioni sociali, cioè quando si accorse che la religione cristiana avrebbe potuto essere utilizzata dalla filosofia per giustificare il presente.

Nessun filosofo tedesco arrivò mai a sostenere che il cristianesimo aveva velocizzato la transizione dal sistema schiavistico a quello feudale; nessuno riuscì a comprendere il motivo per cui il cristianesimo ortodosso aveva promosso una forma di feudalesimo meno oppressivo di quello realizzato sotto la religione cattolico-romana; nessuno riuscì a capire perché quell'imponente moto di ribellione chiamato dagli storici "riforma protestante" si produsse solo nell'area occidentale dell'Europa.

Limitando la sua analisi del fenomeno religioso alla teoria del mero rispecchiamento delle contraddizioni sociali, neppure Marx riuscì a fare passi significativi in questa direzione. E' stato giusto porre uno stretto legame tra struttura (storico-sociale) e sovrastruttura (teorico-culturale), ma si è dovuto aspettare Gramsci perché il marxismo andasse al di là della mera impostazione di metodo.

Ora, uno studioso obiettivo non può non ammettere che il ruolo del cristianesimo (sia nel passaggio dallo schiavismo al feudalismo, sia in quello dal feudalesimo al capitalismo) è stato di grande rilievo. Ai tempi dello schiavismo, fino alla svolta costantiniana, il cristianesimo è stato una religione perseguitata: esso ha contribuito alla suddetta transizione senza ancora essere diviso in "cristianesimo ufficiale" e "cristianesimo marginale".

Certo, il cristianesimo, sin dal suo sorgere, aveva eliminato le correnti politiche più radicali e progressiste, ma anche così esso restava di gran lunga più democratico di qualunque religione pagana, che, proprio in quanto "religione", si sentiva estranea alle problematiche sociali. Il miglior paganesimo, infatti, è stato quello legato alle tradizioni rurali, ai ritmi delle stagioni e della natura, ecc.

Il feudalesimo, cioè il trionfo politico del cristianesimo sul piano socioculturale, comincerà ad affermarsi con Teodosio, allorché diventerà unica religione di stato, cioè nel momento stesso in cui esso non aveva più nulla di eversivo. Non per questo tuttavia vanno dimenticati o ridimensionati i tre secoli di persecuzioni, poiché è stato proprio in quel periodo che si maturò l'esigenza di un superamento dello schiavismo.

Nel '500 invece il cristianesimo occidentale dovette scindersi nettamente in due tronconi opposti per poter ancora svolgere un'opera di rinnovamento, questa volta in funzione anti-feudale. La chiesa cattolica ufficiale, infatti, si era servita a piene mani del potere secolare per reprimere duramente i molti movimenti ereticali che cominciarono ad apparire intorno al Mille, senza i quali non ci sarebbe stata alcuna "riforma".

Il protestantesimo fu progressivo agli inizi, rispetto al cattolicesimo, ma poi finì col promuovere una società, quella capitalistica, che, per molti versi, risulterà peggiore del feudalesimo. Il protestantesimo da un lato ha ridimensionato di molto le pretese temporali del cattolicesimo, dall'altro però, invece di indirizzarsi verso una maggiore democrazia sociale, si è velocemente adeguato alle caratteristiche della società borghese, accentuandole quanto mai. Insomma si è gettato il bambino con l'acqua sporca. La chiesa romana, generalmente intesa, non è mai riuscita ad abbandonare gli ideali di liberazione con la stessa disinvoltura. Non si è mai sognata di legittimare l'individualismo più assoluto prendendo a pretesto la corruzione dei vertici ecclesiastici. L'unica figura assolutamente individualistica, che svolge non a caso funzioni equivalenti a quelle di un monarca è, nella chiesa romana, quella del pontefice.

Oltre a ciò, resta ancora da chiarire il tipo di contributo che può aver dato l'ortodossia est-europea alla realizzazione del socialismo. Qui infatti nessuno può mettere in dubbio che nel realizzare il socialismo, la maggioranza degli intellettuali di sinistra era di idee ateistiche o comunque non faceva delle proprie idee religiose un cavallo di battaglia contro l'oppressione sociale.

L'ortodossia andrebbe forse valorizzata in due direzioni:

1) se sul piano sociale essa contribuì effettivamente alla realizzazione di un feudalesimo meno contraddittorio di quello euroccidentale, allora bisogna dire che fu proprio per questa ragione che in Europa orientale non si avvertì il bisogno di una "riforma protestante"; ma allora l'esigenza del socialismo è stata avvertita più fortemente in Europa orientale appunto perché qui gli ideali dell'ortodossia erano così forti che non avrebbero permesso una soluzione "capitalistica" alla crisi del feudalesimo;

2) se sul piano politico, nonostante la relativa positività di tale confessione, i rivoluzionari socialisti non avvertirono il bisogno di ispirarsi alla religione per abbattere i loro regimi feudali consolidati (nonché quelli borghesi incipienti), allora questo forse significa che l'ortodossia contribuì, molto meglio del cattolicesimo, a tenere distinti lo Stato dalla chiesa, il politico dal religioso (non a caso i cattolici hanno sempre rimproverato agli ortodossi di essere politicamente soggetti al potere statale, cioè di non essere abbastanza integralisti).

Ma allora il contributo che ha dato l'ortodossia alla causa del socialismo non va ricercato in maniera diretta (qui anzi la storia ci dice che l'ortodossia si oppose nettamente alla rivoluzione, e quei tentativi, da parte di alcuni soggetti rivoluzionari, di unificare il socialismo alla migliore religione, si sono rivelati del tutto illusori e controproducenti). Il contributo suddetto va invece cercato in maniera indiretta, cioè nella capacità che il socialismo leninista ha avuto di far propri i valori dell'ortodossia senza neppure accorgersene.

Il leninismo in tal senso rappresenta non solo una laicizzazione dell'ortodossia, ma anche un suo superamento, per quanto, in questo tentativo l'obiettivo non sia stato raggiunto in maniera adeguata, essendo il primato assoluto concesso alla politica lesivo, in ultima istanza, degli interessi globali dell'uomo. Il primato dell'uomo dev'essere considerato superiore ad ogni altro primato, e questo il leninismo non l'ha sempre compreso adeguatamente o non l'ha sempre realizzato praticamente. Lo dimostra il fatto che nei confronti del populismo Lenin tenne un atteggiamento troppo radicale. E' vero che il populismo cercava di laicizzare i valori dell'ortodossia (questa volta consapevolmente!), senza avere grandi capacità rivoluzionarie, ma è anche vero che l'ideologia populista era patrimonio di milioni di contadini, anche se di essa, ufficialmente, si facevano carico poche centinaia di intellettuali.

In conclusione, quando si esamina un fenomeno come quello religioso, non bisogna solo considerare le posizioni ufficiali della chiesa al potere (le quali inevitabilmente risultano ostili a qualunque rivoluzione), bisogna esaminare anche il contributo positivo che ha dato quella religione, coi suoi valori di fondo, alla realizzazione di una società a misura d'uomo. Questo è un lavoro tipicamente culturale, che può aiutare molto a non commettere degli abusi politici o amministrativi nella gestione di eventi rivoluzionari.

Ebraismo e Cristianesimo

Quando il cristianesimo primitivo chiedeva di separare Dio da Cesare faceva sostanzialmente "politica" contro quell'integralismo romano che non separava mai le questioni religiose da quelle civili, considerando la religione un naturale strumento nelle mani dello Stato, ma anche contro quella sorta di teocrazia laica che ad un certo punto cominciò a vedere nell'imperatore una sorta di divinità in carne ed ossa. Ecco perché i cristiani furono subito accusati non solo di essere "atei", in quanto col loro monoteismo venivano a negare qualunque ragion d'essere a una miriade di divinità, ma anche di essere dei "sovversivi", in quanto con la loro diarchia sembravano minare le fondamenta di un impero assolutistico.

Come noto, la pretesa autonomia della chiesa nei confronti dello Stato porterà nell'alto Medioevo dell'Europa occidentale alla costituzione di uno Stato della chiesa vero e proprio: cosa che nell'area ortodossa e slavo-bizantina non avverrà mai, o comunque non nelle stesse forme istituzionali e autoritarie del cattolicesimo-romano.

L'ebraismo, dal canto suo, almeno dal momento dell'istituzione della monarchia sino all'esilio babilonese, ha sempre avuto nella persona del monarca la sintesi delle tre principali funzioni del potere, come spesso accadeva nelle religioni di quel tempo: regale, sacerdotale e profetica. Questo nella religione cristiana non si è mai verificato, perché accanto alla chiesa cristiana c'è sempre stato lo Stato cristiano (concreto nella persona del sovrano, oppure astratto, nella forma istituzionale moderna). La chiesa cristiana ha sempre riconosciuto la funzione regale al sovrano (o addirittura la concedeva): al massimo avocava a sé le altre due funzioni.

Questo perché il cristianesimo, a differenza dell'ebraismo, non ha mai ritenuto possibile un'effettiva liberazione dell'uomo dalle contraddizioni sociali. Il regno di dio poteva essere solo "nei cieli". Anche quando la chiesa cattolico-romana ha preteso di dominare il mondo a partire dalla svolta di Gregorio VII, essa non si è mai posta l'obiettivo di realizzare la liberazione sociale degli uomini. L'unico vero obiettivo era stato quello di sottomettere il potere politico dell'imperatore al potere religioso, realizzando così l'integralismo politico-religioso della fede, cioè la teocrazia: cosa che generò conflitti interminabili.

L'ebraismo esprime una fede più ingenua di quella cristiana e, forse per questo, più vera. Il cristianesimo infatti, a fronte di un'esigenza di liberazione sociale e nazionale, manifestata dal Cristo e politicamente tradita dagli apostoli, si è sentito indotto ad elaborare una religione particolarmente astratta, una sorta di filosofia della religione, che l'ebraismo, pur essendo la religione del "libro" per eccellenza, non ha mai conosciuto se non in termini molto riduttivi (l'Ecclesiaste p.es. rappresenta una filosofia della religione, ma è un testo del tutto marginale nell'economia dell'Antico Testamento). L'ebraismo è piuttosto la religione del diritto.

Quando il cristianesimo cade nel giuridismo della fede e dell'esperienza religiosa, quando cade nell'integralismo politico-religioso della fede, esso risente dell'influenza ebraica, ma in maniera negativa, poiché le esigenze sono mutate: non solo perché in luogo del nazionalismo è subentrato l'universalismo, ma anche perché al primato della legge il cristianesimo, in via di principio, dovrebbe opporre quello dell'amore.

L'influenza dell'ebraismo va in tal senso considerata negativa, anche se, ai tempi d'oro della sua affermazione storica, quegli aspetti erano positivi, in quanto avevano permesso un'esperienza più liberatoria di quella che permettevano le religioni pagane (egizia, babilonese ecc.). Si può in un certo senso dire che il diritto è entrato nella storia grazie agli ebrei, che usarono la legge in contrapposizione all'arbitrio del potere politico.

Ma il migliore cristianesimo dunque qual è? Quello che ha voluto separare Dio da Cesare, rivendicando una propria autonomia religiosa, attraverso la quale si voleva sostenere l'impossibilità di realizzare sulla terra un'effettiva liberazione umana, oppure quello che ha voluto riunificare Dio e Cesare in nome del Cristo e quindi del suo vicario, il pontefice, lasciando così credere che una tale liberazione fosse possibile anche sulla terra? Oppure è quello che, pur conservando la separazione dei poteri, permette al cristiano di lottare politicamente come laico (ciò che si è appunto verificato nei paesi socialisti)? Quest'ultimo cristianesimo è davvero sostenibile alla lunga? Pare di no, in quanto troppo contraddittorio con le sue premesse, che restano pessimistiche nei confronti delle possibilità emancipative della politica.

La prima forma di cristianesimo, che è anche quella più antica, è forse stata la migliore, poiché ci si è limitati a rivendicare una piena autonomia della religione dallo Stato, che voleva imporre una propria religione o un proprio modo di considerare la religione in sé.

Tuttavia, con Costantino prima e Teodosio dopo, il cristianesimo ha accettato di lasciarsi strumentalizzare politicamente, ottenendo in cambio il privilegio d'essere considerato l'unica religio licita.

Mentre prima di questa svolta la politica cristiana era limitata a un obiettivo: eliminare l'integralismo politico-religioso dello Stato romano (che era tollerante nei confronti di ogni religione solo a condizione che si riconoscesse il primato degli interessi politici di Roma, per i quali ogni religione doveva considerarsi come instrumentum regni), con Teodosio invece la politica imperiale si fa "cristiana" a tutto campo, sebbene le gerarchie ecclesiastiche non abbiano mai accettato di conferire o di riconoscere al monarca le tre suddette funzioni tradizionali del potere.

Con la riforma di Gregorio VII la chiesa romana ha preteso addirittura di considerare la politica del monarca uno strumento a disposizione degli interessi temporali ecclesiastici: cosa che naturalmente mai nessun sovrano accetterà e che si concluderà, dopo la lotta per le investiture, con un compromesso politico, col quale la chiesa potrà rivendicare un primato politico solo nell'ambito del proprio territorio. Al di fuori dei confini dello Stato della chiesa gli Stati nazionali si serviranno del cristianesimo per realizzare i loro progetti politici, che poi sostanzialmente saranno quelli dei proprietari di terre e capitali.

Sul piano pratico, in duemila anni di storia, il cristianesimo non è mai riuscito a realizzare alcuna rivoluzione politica tendente alla liberazione sociale. Sia nella fase pre-costantiniana che in quella successiva, il cristianesimo non ha mai chiesto la fine dei rapporti schiavistici o di servaggio o di salariato. L'unica politica cristiana è stata quella di appoggiare gli Stati cristiani, oppure quella di ostacolarli quando, col socialismo, essi hanno smesso d'essere cristiani.

Quando rivendica il potere, il cristianesimo pretende di acquisire dei privilegi, non mira certo a realizzare una liberazione sociale. Poiché esso si regge in piedi sul falso presupposto che ogni progetto di liberazione è destinato a fallire, il cristianesimo è peggiore del migliore ebraismo, anche se neppure il migliore ebraismo, sul piano pratico, è mai riuscito a realizzare una liberazione sociale.

L'antisemitismo di Nietzsche è spropositato e va di pari passo col suo acceso nazionalismo. Anzi quest'ultimo è ancora più acceso, poiché, in nome di esso, Nietzsche è anche disposto a valorizzare sopra ogni cosa persino la monarchia giudaica di Davide e Salomone: infatti un dio nazionale -egli sostiene- è "forte" e "coraggioso", ed è sempre meglio di un dio cosmopolita che esalta l'amore del prossimo. L'amore, per Nietzsche, è un concetto decadente, poiché con esso si permette ai deboli di sopravvivere.

Il cristianesimo non avrebbe fatto altro che trasformare un ebraismo nazionalistico in crisi in un ebraismo mondiale aggressivo. Ma aggressivo contro cosa? Contro la "potenza", la "bellezza", la "natura"... In pratica l'ebraismo, col cristianesimo, si sarebbe preso la rivincita su quelle forze nemiche (ora simbolicamente considerate) che gli avevano impedito di affermarsi come nazione.

Gli ebrei, infatti, per natura, non sarebbero dei decadenti, appunto perché legati ai concetti di "nazione", "popolo eletto" ecc. Ma -prosegue Nietzsche- siccome non sono riusciti nell'impresa di imporsi all'attenzione del mondo intero, seguendo la logica della forza pura, essi hanno pensato di farlo, col cristianesimo, seguendo la logica della "debolezza". E per poterlo fare, il cristianesimo ha dovuto trasformarsi in una religione antisemita.

I principali protagonisti di tale svolta sono stati -secondo Nietzsche- i "preti" giudaici. Essi sono stati i primi a introdurre nell'ebraismo concetti estranei, a sfondo moralistico, come "premio e castigo", "peccato e tentazione", "rivelazione e sacrificio"... E, perché questi principi fossero accettati dal popolo, hanno dovuto falsificare la Bibbia in più parti: cioè "hanno tradotto in chiave religiosa il proprio passato di popolo"(par. 26). La figura del sacerdote ha sostituito quella del monarca e la religione ha sostituito la natura.

La lotta tra ebraismo e cristianesimo è stata in realtà -dice Nietzsche- la lotta tra i sacerdoti che volevano restare legati all'ebraismo in crisi (e che naturalmente fruivano di certi privilegi) e i preti che invece pensavano di sprovincializzare l'ebraismo, facendolo diventare una religione ancora più astratta, ancora più "antitetica alla vita" (par. 25).

Nietzsche non vede una contrapposizione di principio tra il nazionalismo politico-religioso dell'ebraismo e il cosmopolitismo etico-religioso del cristianesimo ("etico" sino alla svolta costantiniana, poi anch'esso si trasformerà in "politico"). Egli inoltre è convinto che la religione abbia contaminato il nazionalismo ebraico e che quella stessa religione, portata a un livello di maggiore astrazione, abbia poi determinato la formazione del cristianesimo, il quale, del tutto privo di connotazioni politiche, ha dovuto rinunciare all'idea di nazionalismo. Il cristianesimo avrebbe fatto "politica" solo nel momento in cui ha cercato di liberarsi del potere giudaico; ma per il fatto che Cristo non ha fatto nulla per non morire in croce, occorre sostenere -dice Nietzsche- che il cristianesimo è "apolitico".

Queste tesi sono davvero singolari: da un lato Nietzsche condivide la critica neotestamentaria di Strauss, sostenendo addirittura, non senza ragione, che usare "il metodo scientifico, quando non esistono altri documenti, è una pura oziosità da eruditi"(par. 28), ma, dall'altro, non fa che ribadire l'immagine di Cristo tramandataci dai vangeli. Cioè invece di proseguire criticamente il discorso di Strauss, si vanta di averlo superato e, così facendo, si ritiene più libero di costruirsi una propria "psicologia del redentore"(par. 28), la quale, guarda caso, non è molto diversa da quella elaborata dai primi cristiani di origine ebraica.

In sostanza Nietzsche non fa che spostare la falsificazione del cristianesimo dai vangeli alle lettere di Paolo, quando, in realtà, il processo è stato inverso: i vangeli cioè sono nati dopo che la comunità primitiva aveva definitivamente acquisita la falsificazione paolina. I vangeli non sono che una rilettura della vita e delle opere di Cristo alla luce della teologia spiritualistica e cosmopolita di Paolo.

Dunque, mentre nella sua analisi dell'ebraismo Nietzsche non ha capito che se il periodo giudaico-monarchico è stato quello politicamente più significativo, esso è stato anche quello più caratterizzato dai conflitti sociali di classe. Le idee più originali l'ebraismo le aveva espresse molto tempo prima della fase monarchica e le esprimerà di nuovo, molto tempo dopo, per bocca dei profeti, nel periodo esilico e post-esilico; nella sua analisi del cristianesimo invece Nietzsche non ha capito che nel "vangelo" di Gesù (che traspare appena in quelli di Marco e Giovanni) i concetti di "nazionalismo" e "universalismo" non erano affatto in antitesi: ciò che andava superato era solo il concetto elitario e fatalista di "popolo eletto", che i sacerdoti avevano escogitato per salvaguardare un potere delegittimato, al fine di convincere il popolo che prima o poi Jahvé, dopo averli messi per tanto tempo a dura prova, li avrebbe "magicamente" liberati grazie all'intervento di un messia politico-militare.

Nel vangelo di Marco (il primo a essere stato scritto) si può leggere tra le righe che Cristo non considerava più gli ebrei, solo perché "ebrei" (cioè per definizione), un popolo migliore di altri popoli. Ma questo non significa che tale popolo non dovesse continuare a lottare per una propria autonomia nazionale. E' da escludere che il "vangelo" di Cristo abbia avuto un carattere eminentemente spirituale o etico-religioso o che l'attività politica sia stata una conseguenza indiretta, incidentale, non voluta.

La crocifissione, che peraltro non avrebbe avuto senso in relazione a un movimento meramente spiritualistico, in quanto esecuzione inflitta a schiavi ribelli, fu accettata dal Cristo non per spirito di abnegazione o di eroismo o per altri motivi di carattere religioso, ma semplicemente per ragioni di opportunità, cioè per dare al popolo ebraico, in primis ai seguaci del movimento nazareno, la possibilità di riprendere le fila del discorso "rivoluzionario" dopo il tradimento di Giuda e la mancata insurrezione nella capitale. La croce è stata accettata contro l'avventurismo irresponsabile di quanti, fra gli apostoli, avrebbero voluto usare i metodi estremisti degli zeloti o dei sicari.

Viceversa, per Nietzsche i nazareni non avrebbero dovuto attaccare l'ordine giudaico costituito, perché, sebbene corrotto, esso costituiva l'ultima possibilità che gli ebrei avevano di concepirsi come "popolo eletto". Nietzsche è del tutto estraneo alle ingiustizie sociali che il clero di Gerusalemme, specie quello sadduceo, operava ai danni della popolazione ebraica, favorendo persino ogni intesa coi romani.

Infatti, secondo Nietzsche i nazareni attaccarono non la "corruzione" dell'alto clero giudaico, ma -essendo essi dei "marginali"- il ruolo in sé del clero, la sua posizione di prestigio. Cioè Gesù altri non era che un "santo anarchico che riscosse il popolino, i reietti..."(par. 27), quel popolino che spesso nutre sentimenti di invidia e gelosia, essendo appunto escluso dalle leve di comando.

Il Cristo dunque sarebbe morto in croce per un atto di "irresponsabilità personale": "morì per sua colpa" non per "colpa d'altri"(ib.) - quella irresponsabilità che appunto si ritrova nei concetti di "non resistenza al male", "amore universale" ecc. Il Cristo predicava l'astratto amore universale perché in realtà -dice Nietzsche- odiava il concreto mondo in cui viveva. La sua religione odia il dolore, che ogni lotta per l'affermazione di sé deve necessariamente prevedere, poiché ogni lotta implica momenti di sconfitta. La sua religione ha paura della vita e dei conflitti che la caratterizzano: ecco perché predica una filosofia consolatoria.

Tuttavia Nietzsche pone una certa riserva sul contenuto dei vangeli, nel senso che l'immagine di un "Cristo anarchico" potrebbe anche essere il prodotto della fantasia degli evangelisti; il vero Cristo, secondo Nietzsche, doveva assomigliare di più a un "Buddha" (par. 31). Cioè molto probabilmente il Cristo non era avverso nei confronti dell'alto clero più di quanto non lo fosse nei confronti di chiunque non accettasse il suo messaggio.

Insomma Gesù Cristo, per il Nietzsche che qui non può esimersi da un malcelato tentativo d'identificazione, era un "libero spirito", che visse senza fare progetti politici, senza scrivere una riga, senza usare formule ideologiche di appartenenza ad una causa. Non fece miracoli, né promesse, non diede ricompense né si servì delle Scritture per dimostrare la propria autorevolezza.

Per un verso si deve dar ragione a Nietzsche: il Cristo era contrario a "tutto quanto è fisso"(par. 32); per un altro però lo si deve subito smentire: il Cristo non "parla solo di ciò che è intimo"(ib.). Il fattore umano (l'aspetto dialettico) e quello politico (l'aspetto pubblico del suo messaggio) non sono fattori che possono essere disgiunti nel vangelo. Il Cristo non era un filosofo come Socrate.

Nietzsche sostiene che il Cristo era un filosofo per istinto, non per cultura, perché "la cultura non gli era nota nemmeno per sentito dire"(ib.); egli "stava fuori da ogni religione, da ogni concetto di culto, da ogni storia, da ogni scienza naturale, da ogni esperienza del mondo, da ogni conoscenza, da ogni politica, da ogni psicologia, da ogni libro, da ogni arte"(ib.). Insomma, il Cristo non era neppure un uomo, ma uno spettro, come quello che gli apostoli credettero di vedere mentre qualcuno camminava sulle acque del lago Tiberiade. Un Cristo così è più falso di quello dei vangeli, lo è così tanto che non ci sarebbe neppure stato bisogno, da parte degli evangelisti, di falsificarlo. Si prestava da solo ad essere considerato come un mito.

Un Cristo alias Buddha che si disinteressa completamente del mondo avrebbe dovuto ritirarsi in un monastero e qui mettersi a cercare la sua "luce interiore". Se il suo disinteresse per la vita era così forte, perché mettersi a predicare? Non è forse singolare considerare che nella Palestina di allora persino i monaci esseni si fossero ritirati nel deserto per prepararsi meglio spiritualmente alla scontro decisivo coi romani e il clero collaborazionista?

Il Cristo di Nietzsche dovremmo considerarlo come uno psicopatico o come una persona incline al suicidio, poiché non si riesce a spiegare il motivo per cui un uomo sano di mente dovrebbe farsi valere come profeta o come maestro di vita interiore se non avesse nulla da dire, cioè se la sua "dottrina non è nemmeno in grado di contraddire"(ib.).

Si può capire un Cristo lontano da ogni religione e da ogni concetto moralistico di "colpa", "punizione", "pentimento", "redenzione", ma come si può accettare l'idea di un Cristo amorale e spoliticizzato? Non si riuscirebbe a capire nemmeno il processo e la croce.

Nietzsche insomma non ha fatto altro che delineare l'immagine di un Cristo funzionale alla sua incipiente follia, al suo qualunquismo politico-sociale, alla sua totale estraniazione dalla vita pubblica. 

Egli rifiuta sia il Cristo teologo dei vangeli (quello che predica il dio-persona, il regno dei cieli, il giudizio universale ecc.), sia il Cristo politico censurato dagli stessi vangeli. Al massimo egli arriva ad accettare un Cristo che si oppone, col suo semplice agire, cioè senza una lotta vera e propria, alle regole convenzionali del clero giudaico. Il suo Cristo è filosofico, atarassico, interiorizzato, è un mistico che vive già nel paradiso della sua coscienza, che cammina non sul mare -come dicono i vangeli-, ma sulle nuvole.

Un aspetto singolare nell'analisi dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo è il fatto che Nietzsche se da un lato si dimostra abbastanza disposto a difendere il nazionalismo ebraico contro l'universalismo spiritualistico del cristianesimo, dall'altro però è del tutto insofferente al sacerdozio ebraico, che ieri come oggi è sempre stato favorevole a una commistione di politica e religione: cosa che d'altra parte lo stesso Nietzsche riconosce.

Non si può dar torto a Nietzsche quando sostiene che il nazionalismo politico-religioso dei tempi di Davide e Salomone era molto diverso da quello dei sommi sacerdoti al tempo del Cristo, in cui si era cercato coi concetti aristocratici di "popolo eletto" e "nazione santa" di illudere la popolazione che un giorno si sarebbe ricostituito l'antico regno davidico. Ma la differenza era davvero sostanziale?

Per quale motivo Nietzsche sostiene che il cristianesimo da un lato lottò contro il clero ebraico dominante e, dall'altro, ne ereditò, rendendola ancora più astratta, la filosofia di vita?

Nietzsche su queste cose non ha le idee molto chiare perché non ha letto l'intera vicenda della formazione del cristianesimo primitivo in chiave politica. La realtà infatti è che il cristianesimo si avvicinò all'ebraismo religioso (non politico), e quindi a quell'ebraismo influenzato dall'ellenismo, quando cominciò a rinunciare all'istanza politica di liberazione (nazionale); nondimeno, avendo al tempo di Cristo già acquisito tale istanza come un dato di fatto, poiché comunque il cristianesimo è un prodotto uscito dai seguaci del Cristo, esso non poteva riavvicinarsi all'ebraismo come se nulla fosse, cioè fingendo di non sapere che questo, col proprio estremismo politico, aveva contribuito alla disfatta dell'idea nazarena di liberazione: da un lato quindi il cristianesimo si sentì indotto (e questo fu il suo "peccato originale") a rinunciare al progetto di liberazione nazionale, scontrandosi soprattutto coi farisei, che cominciarono a perseguitarli apertamente; dall'altro esso non si sentiva più in dovere di accettare tutte le tradizioni dell'ebraismo, che già l'ideologia politica del Cristo aveva messo seriamente in discussione.

Il cristianesimo di Pietro -il primo ad essere stato elaborato- viaggiava, in sostanza, su due binari: uno portava ad affermare che il messia era già venuto e che le autorità giudaiche, strumentalizzando quelle romane, l'avevano ucciso, per cui al progetto politico di liberazione bisognava rinunciare definitivamente; l'altro binario veniva invece usato per tentare di riaffermare, almeno in parte, il messaggio di Cristo, senza dover per questo cercare inutili pretesti per alimentare l'inimicizia del clero giudaico contro le prime comunità cristiane.

Pietro aveva scelto una soluzione di compromesso: sul piano politico, è vero, rinunciava alla lotta di liberazione, ma sul piano religioso, facendo leva sull'omicidio di stato del Cristo, poteva pretendere una relativa autonomia, p.es. su certe tradizioni alimentari, sul rapporto coi gentili ecc. Un'autonomia però che non sarà mai tollerata dall'alto clero ebraico, il quale non accettando neppure l'idea che il messia liberatore fosse già morto sulla croce, si sentiva in obbligo di perseguitare i leaders cristiani, tanto che Pietro fu costretto a espatriare, lasciando a Giacomo la guida della comunità di Gerusalemme che, a partire da quel momento, pur continuando a rifiutare la lotta politica, prese ad accettare nuovamente tutte le tradizioni religiose dell'ebraismo. 

L'alto clero però neppure in questo caso si rassegnò, poiché l'idea di un Cristo morto e risorto lo scandalizzava enormemente, e cominciò a perseguitare anche Giacomo, seppure in maniera meno violenta rispetto a come invece si comportò nei confronti degli ebrei-ellenisti divenuti cristiani (Stefano e successivamente Paolo), che negavano ogni primato al tempio e alla capitale giudaica.

Il cristianesimo primitivo di certo quindi non ha ereditato lo spirito politico dell'ebraismo, che era però limitato a un acceso nazionalismo; ed ereditandone lo spirito religioso, lo ha fatto solo in relazione ad alcune forme esteriori (applicate ai riti), non in relazione alla sostanza delle cose, poiché se è vero che in definitiva esso ha abbandonato, soprattutto dopo il 70, ciò che per un ebreo faceva e fa ancora oggi parte integrante dell'essenza della propria religione: la legge mosaica, la circoncisione, il culto del sabato, il ritualismo dietetico, il primato del tempio di Gerusalemme, le principali feste dell'anno liturgico, ecc., è anche vero che esso ha considerato tutto questo come una sorta di prefigurazione della nuova religione, la quale, a sua volta, avrebbe avuto nuovi dogmi, riti, sacramenti e festività.

Grazie al messaggio originario del Cristo (pur stravolto politicamente) ogni cosa dell'ebraismo ha potuto essere ripensata, riformulata e riproposta in modalità e forme differenti.

Il cristianesimo ha ereditato l'ebraismo soprattutto per quanto concerne l'illusione implicita in ogni religione, tanto è vero che si è appropriato anche di molti miti provenienti dalle religioni politeistiche o pagane, rielaborandoli in maniera creativa. Il cristianesimo ha anche ereditato dall'ebraismo il senso del collettivismo, del mutuo soccorso ecc., ma questi aspetti non riescono mai, a causa dei limiti di ogni religione, a trasformare qualitativamente la realtà sociale in direzione della democrazia e dell'uguaglianza.

In tal senso ebraismo e cristianesimo si presentano entrambi come "oppio", di un popolo l'ebraismo (sia esso in patria o nella diaspora), di tutti i popoli il cristianesimo.

Nietzsche dunque ha ragione quando sostiene che occorreva una maggiore capacità di astrazione per assicurare il passaggio dall'ebraismo al cristianesimo, però ha torto quando considera i risultati conseguiti dal cristianesimo come un regresso rispetto al migliore ebraismo. Dal punto di vista dei principi religiosi il cristianesimo resterà sempre superiore al migliore ebraismo, mentre dal punto di vista politico il migliore ebraismo non è molto dissimile dal peggiore cristianesimo, poiché quando l'ebraismo lotta politicamente per una liberazione nazionale tende a realizzare un nazionalismo politico-religioso avente caratteristiche non meno negative di quelle che hanno caratterizzato il cristianesimo a partire dal momento in cui ha preso a delegare tale compito allo Stato (vedi il decreto di Teodosio del 381), o, peggio ancora, quando tale compito ha cominciato ad assumerselo in proprio (p.es. con la svolta di papa Gregorio VII). Anzi il cristianesimo, essendo una religione universalistica, è mille volte più pericoloso del più fanatico ebraismo: non a caso è diventato una religione mondiale collusa prima col feudalesimo, poi (specie nella variante protestante) col capitalismo.

D'altra parte una religione che, come religione, lotta politicamente per la liberazione, porta fatalmente al nazionalismo e, nel caso del cristianesimo, a imporre tale nazionalismo (quello appunto della nazione tutta cristiana) al mondo intero. Perché il cristianesimo, sul piano politico, non porti all'integralismo, occorre che rinunci alla sua dimensione politica e che accetti la possibilità che il credente faccia politica non come credente ma come cittadino laico. (Ovviamente è sempre possibile fare una politica "integralistica" anche da posizioni laiche, in quanto non sono certo le definizioni teoriche che tutelano la libertà umana dagli errori che può commettere). Tuttavia, una posizione duale come questa difficilmente potrebbe essere accettata dal cattolicesimo-romano, che delle tre principali confessioni cristiane è sicuramente quella più fondamentalista, né da religioni come l'ebraismo o l'islam (quest'ultimo, per molti aspetti, si presenta come un ebraismo i cui riti sono stati semplificati dagli influssi del cristianesimo).

Il primo a rendere possibile una posizione dualista fu proprio il Cristo, il quale chiedeva ai suoi seguaci d'impegnarsi politicamente, considerando la religione affare meramente privato. Alla religione dominante in nessuna parte dei vangeli egli oppone una religione alternativa. Tutto quanto di religioso si trova nei vangeli è stato chiaramente aggiunto dal cristianesimo postpasquale.

Ora, è indubbio che un cristianesimo che rinunciasse alla dimensione della politica sarebbe costretto ad affermare: o che esso non possiede alcun vero progetto di liberazione (e senza gli strumenti della politica non si cambia la realtà), oppure che tale progetto possono realizzarlo i credenti in maniera laica. In entrambi i casi il cristianesimo deve ammettere il proprio limite in politica.

L'ebraismo invece non ha un limite di questo tipo, poiché esso non ha mai rinunciato a collegare religione e politica. Il suo limite sta semmai sul piano pratico, quanto tenta e non vi riesce di realizzare un progetto politico di liberazione. La religione ebraica infatti è incredibilmente superata rispetto alla coscienza laica e civile del mondo occidentale. Esattamente come quella islamica. Nessuna istanza politica di liberazione potrebbe far proprie queste due religioni se non provenisse da queste medesime religioni.

Il cristianesimo è senza dubbio, sotto questo aspetto, una religione più moderna dell'ebraismo: esso tuttavia ha il limite di non avere un autentico progetto politico di liberazione. Ha tentato di realizzarlo nel Medioevo euroccidentale a partire dalla svolta carolingia, ma è stato un fallimento, poiché il cristianesimo di per sé non ha elementi teorici sufficienti per risolvere le contraddizioni sociali.

La battaglia che Nietzsche ha condotto contro il cristianesimo ha un certo sapore medievale, nel senso cioè che ricorda molto da vicino l'atteggiamento polemico degli eretici medievali.

Egli ha voluto ricondurre tutta la filosofia idealistica alle radici cristiane, ma in tal modo ha assunto una posizione per così dire "integrista", limitando lo scontro tra la sua filosofia e quella idealistica a uno scontro, piuttosto prosaico, tra religione e ateismo.

Per uscire da questo impasse Nietzsche avrebbe dovuto fare due cose:

a) denunciare, caso per caso, i condizionamenti del cristianesimo nell'ambito della filosofia moderna;

b) portare la filosofia a sganciarsi da tali condizionamenti, trasformandola in politica (o comunque in attività sociale antiborghese).

Il primo aspetto caratterizzerà tutta l'opera di Feuerbach; il secondo quella di Marx, parzialmente, e di Lenin, totalmente.

Questo perché se si fa solo il discorso sul fatto che le radici della filosofia moderna sono cristiane, si finisce col dimenticare che tale filosofia è nata anche in opposizione al cristianesimo (specie nella sua versione tardo-scolastica), e che se essa non ha saputo liberarsi completamente di tale condizionamento, è stato appunto perché era "borghese", cioè di classe, destinata quindi al compromesso con altre forze sociopolitiche egemoni. La filosofia borghese è sì rivoluzionaria, ma fino a un certo punto.

CONSIDERAZIONI CRITICHE SU ALCUNI ASPETTI DELLA FILOSOFIA DI NIETZSCHE

Nietzsche ha condiviso con Marx e con Freud, come con altri pensatori del passato che hanno messo in discussione le basi del sistema di valori e del pensiero occidentali, un comune destino di censura, di fraintendimento e di distorsione. Egli ha posto in discussione in modo radicale le categorie e i sistemi di valori del pensiero borghese, cercando di distruggerne persino il linguaggio (l'aforisma, il genere letterario preferito da Nietzsche, è un modo di rifiutare la tradizione filosofica precedente). A differenza di Marx e Freud però, i quali hanno delineato in modo abbastanza chiaro la via per superare il pensiero dominante, Nietzsche non è altrettanto chiaro in proposito, e lascia aperti diversi spazi per una interpretazione del suo pensiero. Nietzsche scopre l'impossibilità di pensare secondo le categorie teoriche e morali del pensiero borghese, ma non produce un nuovo pensiero. E' proprio questa impossibilità di pensare secondo i valori della teoria e della morale borghese che il pensiero dominante ha censurato in Nietzsche, mistificando il pensiero di "colui che dice no in misura inaudita" ("Ecce homo") a tutti i valori, trasformandolo nel pensiero di chi dice di sì ai valori più aberranti e mistificanti, ai valori prodotti dal nazismo. Doppi censura quindi: prima nella falsificazione, poi nel ripudio acritico di Nietzsche per quello che il filosofo non ha mai detto.

Il pensiero di Nietzsche è stato oggetto di diverse interpretazioni. Fra le tante ne emergono due che si scontrano tra loro: una è quella di Heidegger, secondo la quale bisogna leggere Nietzsche come un pensatore essenzialmente metafisico, in quanto egli pone al centro della propria attenzione il problema dell'essere; l'altra interpretazione, che fa capo a Dilthey, considera Nietzsche da un punto di vista letterario e culturale, e lo colloca accanto ad altri filosofi-scrittori che danno della vita una spiegazione non metodica, bensì espressiva e suggestiva, la cui filosofia può essere definita una filosofia della vita.

Questi problemi interpretativi ci fanno capire che è difficile collocare Nietzsche all'interno di una scuola di pensiero (anche se appare ormai consolidata la visione che lo pone all'interno di un filone di pensiero che va da Schleiermacher, attraverso Dilthey e lo storicismo tedesco, sino ad Heidegger e all'ermeneutica di Ricoeur, Gadamer e Pareyson), anche se è più che noto l'enorme influsso che la sua filosofia ha avuto sul pensiero contemporaneo.

Tra le tante questioni legate al pensiero di Nietzsche vi è quella di un'ipotetica derivazione dell'ideologia nazista dalla sua filosofia. Si tratta di un luogo comune ancora molto diffuso, ma sul quale è stata ormai fatta ampia luce. Le eventuali responsabilità di questo fenomeno sono da addebitare alla sorella di Nietzsche Elisabeth (di carattere molto possessivo, aveva spesso condizionato le scelte del fratello; sposò un antisemita nazionalista), la quale dopo la morte del fratello si occupò della pubblicazione dei vari scritti, oltre che alla cura dei frammenti che Nietzsche aveva lasciato: fu in questa situazione che fu possibile manipolare certi contenuti del pensiero del filosofo in funzione nazista. Nietzsche, come risulta da alcune corrispondenze, dal suo pensiero ufficiale e dai frammenti pubblicati postumi, non era antisemita e nemmeno nazionalista, anzi giunse spesso a disprezzare il popolo tedesco perché non lo riteneva all'altezza dei compiti che secondo lui avrebbe dovuto svolgere la nuova umanità.

Un'altra questione aperta del pensiero di Nietzsche è il suo rapporto con il cristianesimo, rapporto che molti hanno liquidato sbrigativamente considerando Nietzsche come un acerrimo nemico della religione cristiana. Secondo alcune teorie e ad una lettura più attenta, è possibile scorgere che la critica di Nietzsche si rivolge anche ai valori cristiani, ma soprattutto alla chiesa e ai suoi rappresentanti.

L'ateismo di Nietzsche

L'ateismo di Nietzsche, pur partendo da una giusta critica della vuota religiosità borghese, conduce alla follia, perché è circoscritto nell'ambito di un soggettivismo anarchico, disperato, che non accetta alcuna mediazione sociale.

Nietzsche vuol mettere in crisi tutto, o meglio: concepisce tutta la società borghese come caratterizzata da una profonda crisi, senza però riuscire a proporre un'alternativa altrettanto globale. Anticipa nel pensiero una fine, senza riuscire a realizzare nell'esperienza una vera novità. Vuole contrapporre radicalmente l'individuo alla società per dimostrare che l'unica vera novità deve cominciare con l'esperienza individuale. Nietzsche è sempre stato un filosofo aristocratico.

La sua follia è la testimonianza più eloquente che la contrapposizione individuale (non sociale) al sistema borghese porta alla follia, porta anzi a legittimare ulteriormente il sistema, che impara a difendersi meglio dall'anarchismo, e anzi a servirsene contro quei movimenti socio-politici a carattere rivoluzionario. Di qui l'uso strumentale che il nazismo ha potuto fare della filosofia di Nietzsche.

Una visione soggettivistica della realtà porta a deformare i contorni di ogni suo aspetto. Nietzsche contrappone arbitrariamente il passato al presente, la vita alla storia, la volontà di potenza alla scienza... Rifiutò il dogmatismo degli hegeliani e dei positivisti (nonché dei credenti), per ricadere in un'altra forma di dogmatismo, quella del superuomo.

Nietzsche considerava Schopenhauer e Wagner come Kierkegaard considerò il pastore luterano Adler, cioè come non essenzialmente determinati in carattere, in "tragicità", per meglio dire. Proprio nel momento in cui egli si poneva il compito di superare la crisi del sistema borghese, ne riproduceva la sostanza valorizzando il tema della tragicità. In effetti, è proprio l'assurdità del sistema borghese che porta l'individuo consapevole a valorizzare la tragicità -ma da questa bisogna uscire per costruire un'alternativa.

Nietzsche si è soltanto opposto alle illusioni, ai miti, alle false certezze della sua epoca, col senso del tragico, dell'istintività, della forza bruta del superuomo... In luogo di un facile ottimismo o di un pessimismo di maniera, superficiale, egli ha voluto porre un pessimismo radicale, cosmico (che avesse però la forza di scardinare dalle fondamenta ogni cosa).

Purtroppo Nietzsche ha dato un pessimo contributo all'idea di ateismo, poiché l'ha connessa all'idea di "amoralismo" e quindi ad un atteggiamento irrazionale. Distruggendo -peraltro giustamente- l'idea metafisica di morale, egli ha finito col distruggere ogni concezione del bene, poiché non ha mai voluto cercare delle mediazioni storiche, sociali, culturali. Nietzsche anzi ha preteso di affermare l'ateismo come criterio discriminante fra un individuo e l'altro.

Egli in sostanza ha preteso di anticipare arbitrariamente, a livello individuale e intellettuale, ciò che, al massimo, potrà essere solo una conquista lenta e progressiva della storia.

L'intellettuale dotato di talento deve misurare le proprie capacità nella concreta vita quotidiana, in una lotta incessante contro le contraddizioni sociali del suo tempo. Non può pretendere di porsi al di sopra di tale concretezza, di sottrarsi a tale compito facendo leva sulla sua presunta esclusività. Anche perché, se è vero che non esiste una verità metafisica, è anche vero che la "propria" verità va sempre dimostrata. E' la prassi il criterio della verità.

Certo, i fatti non parlano da soli: occorre sempre qualcuno che li interpreti. Ma la verità della "non-verità" non esiste, è pura follia. La verità di un'interpretazione, rispetto a un'altra, va sempre ricercata: è un obiettivo cui bisogna tendere se si vuole evitare che ogni interpretazione diventi inutile. Per quale ragione l'uomo dovrebbe "giudicare" la storia e "servirsene" -come vuole Nietzsche-, se poi nel presente egli vive un'esistenza dove il giudizio di verità non esiste?

Nietzsche voleva un'esistenza che non avesse il bisogno di dirsi "vera" per esserlo, voleva un'esistenza simile a quella dell'uomo primitivo, in cui ci si accontentava dell'evidenza della verità. Solo che voleva questo attraverso la speculazione filosofica, quella dell'uomo che dall'alto del suo aristocraticismo critica i disvalori della società borghese.

Nietzsche aveva capito che prima di essere "liberi" bisogna combattere contro i meccanismi culturali che rendono "schiavi" (religione, idealismo ecc.), ma non è riuscito a capire che nel mentre si lotta per tale libertà non si può fare a meno d'essere condizionati da strutture di tipo socio-economico e politico. Probabilmente questo limite fu dovuto al fatto ch'egli combatté da solo la sua battaglia contro la metafisica, ignorando i legami che uniscono quest'ultima all'economia borghese.

Sul concetto di tempo storico

La concezione di Nietzsche relativa all'eterno ritorno o quella di Kierkegaard sulla contemporaneità del singolo a Cristo, non sono altro che una forma di soggettivismo esasperato, incapace di assumersi la responsabilità del bisogno sociale, collettivo, incapace di accettare l'evoluzione storica, il ruolo del proprio tempo: non è che una fuga dalle responsabilità che si devono assumere nel presente.

Ma anche la teoria storicistica della successione per cicli, che aveva Vico, è una teoria senza speranza, poiché essa fa nascere una società dalle rovine della precedente, senza che di questa si sia riusciti a conservare il meglio.

Così pure la concezione pitagorica del circolo chiuso, secondo cui vi è un eterno ritorno al punto di partenza, è una teoria priva di senso storico, poiché non aiuta a capire il finalismo dell'umanità.

Si badi, non si vuole qui escludere a priori un ritorno (ovviamente simbolico) alle origini (anche la vecchiaia è un ritorno all'infanzia): ciò che si vuole escludere è appunto che tale ritorno possa avvenire così come il tutto era iniziato (il vecchio torna sì bambino ma restando "vecchio", cioè con una consapevolezza delle cose vissute). Altrimenti tutto sarebbe vano e inutile, assolutamente indifferente e uguale a se stesso.

Ancor peggio è la concezione regressiva (che il fascismo ha sempre appoggiato) secondo cui lo sviluppo storico procede in linea decrescente, a partire da una mitica "età dell'oro" (vedi Seneca, Esiodo e, più di recente, J. Evola). Qui addirittura si istituzionalizza la rassegnazione, il fatalismo e, come reazione al progressivo degrado della civiltà, si auspica l'imporsi di una dittatura, con la quale si dovrebbe almeno rallentare questo irreversibile processo decadente.

Sull'irrazionalismo

Se si riuscisse a dimostrare che l'irrazionalismo post-hegeliano non è solo l'esito di una contrapposizione all'idealismo, nell'ambito dell'ideologia borghese, ma anche l'esito di uno svolgimento coerente di talune fondamentali posizioni della filosofia borghese, e che il marxismo, in questo senso, rappresenta l'unica vera "rottura" nei confronti della filosofia occidentale, si sarebbe poi costretti ad affermare tre importanti conseguenze:

1) la filosofia ha anticipato a livello teoretico (e nel caso di Nietzsche anche a livello individuale) quell'irrazionalismo che nell'Europa occidentale (o comunque nell'Occidente capitalistico) si è poi storicamente affermato con le due guerre mondiali e l'esperienza del nazi-fascismo, e che tale irrazionalismo, in assenza di alternative praticabili (in quanto in Occidente il marxismo è rimasto fermo al livello di riflessione teorica), è destinato a riproporsi a livello politico-istituzionale;

2) per evitare questo svolgimento delle cose, bisognerebbe cominciare a giudicare il valore "storico" della filosofia occidentale (a partire da quella greca), anche in relazione agli effetti irrazionalistici ch'essa, più o meno consapevolmente, ha prodotto. E' ora cioè di collegare in un rapporto più stretto (più funzionale e strutturale) le riflessioni filosofiche con le vicende storiche delle collettività sociali, al fine di togliere la storia della filosofia dal limbo concettuale in cui i filosofi l'hanno collocata e in cui ancora l'ideologia borghese la vuole tenere;

3) se l'irrazionalismo è parte integrante della filosofia occidentale, il marxismo, che da questa filosofia ha cercato di emanciparsi, non può essere considerato solo come l'erede della parte positiva di tale filosofia, e cioè l'umanesimo laico e razionale, ma anche come un'ideologia che, di per sé, non va esente dal rischio di cadere nell'irrazionalismo. Ogniqualvolta il marxismo si ritiene "definitivamente" emancipato dalla filosofia borghese, cioè ogniqualvolta esso nega il sacrosanto principio che "la prassi è il criterio della verità", esso, di fatto, è già piombato nell'irrazionalismo, fosse anche solo sul piano teoretico.