Thomas MannSaggi - Schopenahauer, Nietzsche, FreudMondadori, Milano1980 |
Saggi pp. 59-105)Vorspruch zu elner musikalischen Nietzsche‑Feier (Discorso introduttivo a un concerto in onore di Nietzsche). Pronunciato il 1 ottobre 1924, per l'800° anniversario della nascita del filosofo, fu pubblicato nei 1925 e raccolto in Beinuhungen e in Altes und Neues. Ci tengo ad assicurarvi subito che la prosaica parola non interromperà a lungo il linguaggio dei suoni. Il mio compito non è già quello ‑ e ne ringrazio Iddio ‑ di offrirvi qualcosa che possa assomigliare anche lontanamente a una disquisizione, a una conferenza critico-letteraria su Nietzsche. L'incarico che ho ricevuto rispetta il fatto spirituale che le nostre facoltà razionali si rifiutano, che profonde inibizioni di pudore e di timidezza ci strozzano la parola in bocca nel tentativo di trattare, in un pubblico discorso, dandogli un'acconcia veste formale, un argomento che costituisce una delle esperienze fondamentali del nostro spirito, un'esperienza di determinante, plasmatrice efficacia. No, l'incarico cui tutt'al più potevo sobbarcarmi non pretende altro, da me, che illustrarvi in poche parole il significato della nostra manifestazione odierna, esporre il pensiero o il sentimento che ne sta alla base e ne giustifica la forma. Dire, però, perché abbiamo deciso di celebrare la memoria dell'ardito spirito che profeticamente ci educa e ci regge, e nel cui nome siamo qui raccolti, non già con discorsi ma con la musica, significa attestare, al tempo stesso, che cosa egli significa, oggi, per noi, e soprattutto in che cosa noi ora, in questo preciso momento tedesco ed europeo, lo sentiamo come il nostro maestro morale. Egli ha amato la musica come nessun altro: lo diciamo per giustificare la nostra decisione. Egli era un musicista. Nessun'altra arte era vicina al suo cuore come questa: tutte le altre la seguivano a grande distanza nel suo cosciente interesse. Egli distingueva gli uomini in visivi e uditivi, e si annoverava tra i secondi. Di arti figurative ci ha parlato pochissimo cd evidentemente non ne ha mai ricevuto folgorazioni decisive. Il linguaggio e la musica furono il campo delle sue esperienze, delle sue avventure d'amore e di scoperta, e della sua produttività. La sua lingua stessa è musica e rivela una finezza di udito interno, un così magistrale senso della battuta, del ritmo, della cadenza nel suo apparentemente libero fluire, quale nella prosa tedesca, e probabilmente europea, non si era avuto fino allora l'eguale. Non è solo l'affinità e l'intima interdipendenza tra lirica e critica che vien dimostrata dal fenomeno Nietzsche, questo fenomeno di lirismo concettuale; esso ci dimostra insieme in modo genialmente personale, la cui creatività vive e opera ancora in noi, il particolarissimo abbinamento, l'intima unione fra critica e musica. Ma la critica non è che distinzione e decisione, e fu proprio alla musica che si ricollegarono le più alte decisioni del suo spirito e della sua anima, della sua sovrana coscienza profetica. In una parola: i suoi rapporti con la musica furono quelli della passione. Ma che cos'è la passione? Com'è che l'elemento del "patire" entra in questa parola, in questo concetto? Che cos'è mai, che fa patire l'amore? E’ il dubbio. Nietzsche, una volta, ha detto che l'amore del filosofo per la vita è l'amore verso una donna che ci ispira dei dubbi. La stessa cosa avrebbe potuto dire circa il suo amore per la musica. Esso fu un amore con l'aculeo del dubbio, che lo convertì in passione; e se mai la passione fu definita un amore dubbioso, tale definizione porta la sua impronta. Continuiamo il nostro esame. Di dove vennero mai, a lui profeta e maestro, le esitazioni di coscienza che diedero al suo amore per la musica l'aculeo del dubbio e della problematicità? Dal fatto, cerchiamo di rispondere, ch'egli, da buon tedesco, equiparava la musica, grosso modo, all'elemento romantico, e ch'era il destino, la missione del suo eroismo di affermare se stesso di contro a questo poderoso complesso spirituale ricco del pia alto fascino, di contro all'elemento romantico‑musicale e musicale‑romantico, di contro, sto per dire, all'elemento tedesco per eccellenza. Ma il suo eroismo consistette proprio nel vincere se stesso. Per amor della vita egli ha combattuto con tutto il suo genio gl"ideali ascetici"; ma egli stesso, dal canto suo, fu un eroe di quell'interiore ascesi terrestre che costituisce la forma etica della rivoluzione. Egli, come Wagner, dal quale si distacca attraverso ii giudizio della propria coscienza, ma che non cessò di amare sino alla morte, fu, per la sua origine, un tardo figlio del romanticismo. Ma il fatto che Wagner fosse un poderoso e felice esaltatore e appagatore, Nietzsche invece un rivoluzionario superatore di se stesso, è quello che fa si che il primo sia rimasto l'ultimo celebratore e incantevole perfezionatore di un'epoca, mentre l'altro è divenuto un veggente e una guida verso un nuovo avvenire dell'umanità. Questo egli è per noi: un amico della vita, il veggente di una nuova umanità, una guida verso il futuro, un maestro che c'insegna a vincere tutto ciò che in noi si oppone alla vita e all'avvenire, cioè l'elemento romantico. II romanticismo, infatti, è il canto della nostalgia per tutto ciò che è passato, la magica canzone della morte, e il fenomeno Wagner, che Nietzsche ha così infinitamente amato e che il suo spirito sovrano dovette superare, non fu altro che il fenomeno paradossale ed eternamente interessante di un'ebbrezza di morte capace di soggiogare il mondo intero. So bene quanta parte di voi, di noi stessi si ribelli, nonostante Nietzsche, nonostante lo stesso Goethe, all'idea di vedere nel romanticismo la malattia, la riluttanza alla vita. Non è forse quanto di più sano e gradevole ci sia al mondo, l'amabilità stessa, nata dalle più schiette profondità dell'anima popolare? Si, senza dubbio. Senonché è un frutto il quale, fresco e sanissimo un attimo fa e anche ora, inclina straordinariamente alla corruzione, e alla dissoluzione, e, purissimo ristoro dell'anima se gustato al momento giusto, l'istante successivo diffonde putredine e veleno tra coloro che lo assaggiano. E’ un frutto di vita generato dalla morte e gravido di morte. E’ un miracolo dell'anima: il più alto, forse, agli occhi di una bellezza priva di coscienza, e da essa benedetto, ma visto con diffidenza, e con ragione, dall'occhio di chi ama la vita con responsabilità ed impegno morale, e oggetto dei nostri sforzi di superamento secondo il ptù alto imperativo della nostra coscienza. Si', ancor oggi per vincere tale amore è probabile che occorra vincere innanzi tutto se stessi: per distaccarsi, dico, da quest'incantesimo dell'anima così pregno di oscure conseguenze. Noi tutti siamo ancora suoi figli e conosciamo il suo potere. Un magico artista di questo sortilegio dell'anima poté dare a quel nostalgico canto proporzioni gigantesche e soggiogar con esso l'universo. Su questo mondo di sentimenti si poterono fondar degli imperi, imperi terreni, fin troppo terreni, robusti e progressivi e in fondo tutt'altro che malati di nostalgia, imperi in cui quel canto, se così posso esprimermi, degenerò in musica sonata col grammofono elettrico. Ma il suo miglior figlio è forse proprio stato colui che, per noi tutti, consumò la sua vita e morì per superarlo, avendo sulle labbra la parola ch'egli non sapeva quasi ancor pronunciare, che neppur noi sappiamo ancora balbettare, la profetica parola dell'amore alla vita e dell'avvenire. Ma chi vince se stesso sembra quasi sempre che tradisca se stesso, che tradisca anzi in genere. Anche la grande, rappresentativa vittoria su se stesso di Nietzsche, la cosiddetta apostasia da Wagner, fece quest'impressione. I suoi amici dicevano, sospirando, che doveva per forza andare a finir male uno che passava il tempo a segare il ramo sul quale sedeva, e un capitolo del più bel libro che sia stato scritto su di lui, quello di Bertram, è intitolato Giuda. Ma il fatto che Nietzsche sia diventato un Giuda è appunto quello che fa giurare nel suo nome ‑ e non già in quello dell'imperiale romantico Wagner ‑ chiunque crede nel futuro, e che ha fatto di lui l'evangelista di una nuova alleanza tra terra e uomo. Alla musica, dicevamo, si ricollegarono le più alte decisioni della sua coscienza. Il suo eroismo si affermò di contro ad essa, e insieme trovò in essa riscatto e liberazione. "Musica e lacrime" scrisse una volta "per me sono quasi una cosa sola." Non è dunque ben fatto che celebriamo la sua memoria con la musica, con altissima musica, evocata dallo spirituale maestro di quello strumento sul quale anche Nietzsche, a quanto ci viene assicurato, sapeva magistralmente improvvisare Sono lieto di poter ammutolire per ascoltare con voi: e di pensare, intanto, ch'egli ascolti con noi. La filosofia di Nietzsche Questo saggio fu pubblicato in Neue Studien dall'editore Bermann-Fischer a Stoccolma nel 1948. Nello stesso anno usci l'edizione americana presso la Library of Congress di Washington col titolo: Nietzsche's Philosophy in the Light of Contemporary Events. (Versione di Bruno Arzeni) Quando al principio del 1889 da Torino e da Basilea si sparse la notizia del crollo mentale di Federico Nietzsche, forse più d'uno di coloro che, qua e là in Europa, già sapevano qualchecosa della fatale grandezza dell'uomo, avrà ripetuto fra sé il lamento di Ofelia: "Oh, quale nobile intelletto è qui offuscato" E anche molte immagini dei versi seguenti che compiangono l'orrenda sventura per cui un intelletto così alto e sovrano "inaridito dal soffio della demenza", "blasted by ecstasy", manda ormai suoni discordi come rovinata campana si adattano esattamente a Nietzsche, non ultima la frase con cui Ofelia riassume le sue lodi: "la mira di tutti gli sguardi" ("the observ'd of all observers"). Noi useremo la parola "affascinante". E invero, in tutta la letteratura mondiale e in tutta la storia dello spirito invano cercheremmo una figura più "affascinante" di quella del solitario di Sils Maria. Ma è un fascino simile a quello che, attraverso i secoli, muove dall'eroe di Shakespeare, dal melanconico principe danese. Nietzsche, il pensatore e lo scrittore, "il modello d'ogni nobile forma" come Ofelia lo chiamerebbe, fu fenomeno di straordinaria pienezza e complessità spirituale, compendio ed epilogo di cultura europea, accogliente in sé molto del passato, che il passato in un riecheggiamento e in un'imitazione più o meno consapevole ricordò, ripeté, fece miticamente attuale. E io non dubito: nel tragico dramma della vita che egli presentò, vorrei quasi dire organizzò, egli che tanto amava la maschera amletica, di quell'imitazione ebbe sicuramente coscienza. Per quel che riguarda me, uomo della generazione immediatamente successiva, lettore e "osservatore" commosso di questa vita, dirò che sentii ben presto l'affinità tra le due figure e che provai quel misto di sentimenti che appunto per un animo giovane ha qualche cosa di cosI nuovo, sconvolgente, e profondo; quel misto cioè di rispetto e di compassione che poi m'è sempre rimasto. E’ la tragica pietà per un'anima troppo oberata, troppo tesa, chiamata ma non propriamente nata al sapere e che, come Amleto, in questo dissidio si spezzò; anima fine, delicata, benevola, bisognosa di amore, tutta aperta alle nobili amicizie e non fatta in alcun modo per la solitudine e a cui invece proprio, questa fu imposta: e la più profonda, la più gelida, quella che circonda il delinquente. E, insieme con essa, una spiritualità pervasa di pietas profonda, legata a pie tradizioni, spiritualità che il destino trascinò come per i capelli in una selvaggia ed ebbra demenza profetica, nemica d'ogni pietas, contraria alla propria natura, esaltante la forza barbaramente turgida, l'indurita coscienza, il male, infine. Bisogna gettare uno sguardo sulle origini di questo spirito, indagare le influenze che contribuirono, senza che la sua natura le sentisse minimamente estranee, alla sua formazione, per comprendere tutta l'avventurosità inverosimile, lo svolgersi assolutamente imprevedibile della linea della sua vita. Nato nella rustica quiete della Germania centrale nel 1844, quattro anni prima del tentativo di una rivoluzione borghese tedesca, Nietzsche deriva per parte di padre e di madre da due stimate famiglie di pastori protestanti. E’ un'ironia del caso che di suo nonno ci sia conservato uno scritto intitolato: La perenne continuità del cristianesimo, considerazioni per la tranquillità delle coscienze nella crisi attuale. Suo padre fu una specie di cortigiano, precettore delle principesse prussiane, e al favore di Federico Guglielmo IV dovette la sua parrocchia. Senso per forme aristocratiche, severità di costumi, sentimento dell'onore, meticoloso amore per l'ordine erano innati nella famiglia dei suoi genitori. Dopo l'immatura morte del padre il fanciullo vive a Naumburg, cittadina d'impiegati, devota alla Chiesa ed al re. Ci viene descritto come un ragazzo "straordinariamente gentile", come un figliuolo modello, noto per la sua serietà morale e per il suo pathos religioso che gli procura il nome di "piccolo pastore". E’ conosciuto il caratteristico aneddoto: come durante un acquazzone egli tornasse a casa da scuola a passi misurati e dignitosi, perché i regolamenti scolastici prescrivevano ai fanciulli un contegno moderato e corretto per la strada. Compie brillantemente i suoi studi ginnasiali nella disciplina claustrale della famosa scuola di Schulpforta. Ha tendenza per la teologia, per la musica, ma si decide per la filologia classica e la studia a Lipsia sotto la guida severamente metodica di Ritschl e con tanto successo che, terminato appena il servizio militare come artigliere, quasi ancora giovinetto, viene chiamato a una cattedra universitaria, e precisamente nella seria e pia città di Basilea, che i patrizi governano. L'immagine che ci si presenta è quella di una nobile normalità, fornita di alte doti, che sembra destinata a percorrere, mantenendosi a un dignitoso livello, una carriera regolare e corretta. E invece, pur movendo da questi principi, quale errare tormentoso per vie senza mèta! Quale smarrirsi salendo troppo in alto, verso tragiche vette! La parola "smarrirsi troppo in alto" deriva dal linguaggio degli alpinisti e designa la situazione in cui scalando le alte rocce si arriva a un punto dove non si può andare avanti né indietro, e l'alpinista è perduto. Usare questa parola per l'uomo che non solo è il più grande filosofo della fine del secolo XIX ma anche uno dei più intrepidi eroi che siano mai apparsi nel regno dello spirito, ha qualche cosa di filisteo. Ma Jacob Burckhardt, a cui Nietzsche guardava come ad un padre e che non era certo un filisteo, notò ben presto nel giovane amico questa tendenza, questa volontà di "smarrirsi troppo in alto", mortalmente sviarsi, e saviamente si distaccò da lui e lo lasciò andare per il suo cammino con una certa indifferenza, la quale altro non era che goethiana autodifesa. Che cosa dunque spinse Nietzsche per vie inaccessibili e senza mèta, lo spronò a salire lassù, fra tormenti e dolori, e gli fece morir la morte del martire sulla croce del pensiero? Il suo destino, ma il suo destino era il suo genio. Questo genio ha però anche un altro nome: malattia. E la parola non va presa in quel senso vago e generico in cui facilmente si unisce al concetto di genio, ma in un senso cosI specifico e clinico che ci sentiamo nuovamente esposti al sospetto di filisteismo e al rimprovero di voler con ciò svalutare quasi l'opera creativa di un genio che, come artista della parola, pensatore, psicologo, ha mutato tutta l'atmosfera ‑della sua età. Ma sarebbe un equivoco. Spesso è stato detto, ed io lo ripeto, che la malattia è solo qualche cosa di formale; tutto dipende dall'elemento con cui si lega e di cui si riempie, tutto sta a vedere chi è malato: se un mediocre sciocco qualsiasi, in cui la malattia è priva di aspetti spirituali e morali, o un Nietzsche, un Dostoievskij. L'aspetto medico‑patologico è solo uno degli aspetti della verità, quello per così dire naturalistico, e chi ama la verità nella sua interezza e intera vuole onorarla non negherà certo per spirituale schifiltosità un punto di vista da cui essa verità può venir considerata. Al medico Moebius è stato molto rimproverato di aver scritto un libro in cui, dal punto di vista medico, rappresenta l'evoluzione di Nietzsche come la storia di una paralisi progressiva. Non ho mai potuto condividere lo sdegno di molti al proposito. Quello scienziato dice, a modo suo, una verità indiscutibile. Nel 1865 il ventunenne Nietzsche racconta a un amico di studi, a Paul Deussen, il futuro famoso sanscritologo e studioso dei Vedanta, una strana storia. Il giovane ha fatto da solo una gita a Colonia e colà ha preso un cicerone perché gli mostri le cose notevoli della città. Cos{ passa tutto il pomeriggio e finalmente, verso sera, Nietzsche lo prega d'indicargli un buon albergo. Ma quel briccone, che per me ha assunto la figura di un sinistro nunzio del destino, lo conduce in una casa di piacere. Il giovinetto, puro come una fanciulla, tutto spirito, tutto dottrina, tutto candore e timidezza, si vede d'un tratto, come egli racconta, circondato da una mezza dozzina di figure coperte di veli e di orpelli, che lo guardano piene di aspettazione. Il giovane musico, filologo, adoratore di Schopenhauer, passa attraverso quella schiera dirigendosi istintivamente verso un pianoforte che egli scorge nel fondo di quel salone diabolico e in cui vede (sono le sue parole) "l'unico essere della compagnia che avesse un'anima" e intona alcuni accordi. Questo scioglie l'incantamento,quella sua immobilità stupefatta; ed egli esce fuori, può scappar via. Il giorno dopo avrà narrato al suo camerata, certamente fra risa, questa piccola avventura. Ma dell'impressione prodotta sul suo animo non ebbe coscienza. Tuttavia essa fu, né più né meno, ciò che gli psicologi chiamano "trauma", una scossa le cui conseguenze, che crebbero con gli anni e non abbandonarono più la sua fantasia, testimoniano della sua sensibilità di santo verso il peccato. Ma nella quarta parte dello Zaratustra, nato venti anni dopo, nel capitolo Tra le figlie del deserto, si trova una poesia di carattere orientale, la cui stridula giocosità tradisce, con una penosa mancanza di gusto e un già manifesto rilassarsi di freni, una sensibilità mortificata. In questa poesia delle due graziosissime amiche, delle due morbide gattine, Dudu e Suleica, una specie di sogno ad occhi aperti di forzata giocondità, ricompaiono ancora, sempre ancora presenti, le vesticciole tutte orpelli e svolazzi di quelle professioniste del piacere vedute un giorno a Colonia. Le "figure coperte di veli e di orpelli" di un tempo hanno evidentemente servito da modelli alle voluttuose figlie del deserto. E non trascorre molto tempo, solo ancora quattro anni, da quel primo incontro con esse fino al giorno in cui in una clinica di Basilea egli fa registrare nell'ananmesi clinica di aver contratto due volte, negli anni precedenti, un'infezione specifica. La cartella clinica di Jena segna come la prima di quelle fatali disavventure l'anno 1866. Un anno, dunque, dopo che era fuggito da quella casa di Colonia, egli ritorna, senza diabolica guida questa volta, in un tal luogo e contrae ‑ alcuni dicono intenzionalmente, per punirsi ‑ quella malattia che sconvolgerà ma anche eleverà straordinariamente la sua vita, e da cui emanerà su un'epoca intera un fascino in parte salutare, in parte morboso. Il motivo per cui alcuni anni dopo desidera di abbandonare la sua cattedra di Basilea è, insieme con l'infermità crescente, il bisogno di libertà, che è in fondo la stessa cosa. Ben presto il giovane seguace di Schopenhauer e di Wagner aveva invocato come veraci guide della vita l'arte e la filosofia; contro la storia, di cui la materia che egli insegnava, la filologia, è un ramo. Egli se ne distacca. Per motivi di salute si lascia pensionare e vive da allora in poi senza legame alcuno in luoghi di soggiorno internazionali, nella Francia meridionale, in Italia, nelle alte montagne della Svizzera, dove scrive i suoi libri di uno stile abbagliante, di una psicologia sempre pia radicale, scintillante di ardite offese contro il suo tempo e dai quali irraggia una bianca luce che abbacina. Nelle lettere egli chiama se stesso "un uomo che nulla tanto desidera quanto di perdere ogni giorno una qualche fede tradizionale e sicura e che in questo affrancarsi sempre più grande dello spirito cerca e trova la sua felicità. Forse io voglio essere uno spirito libero, perfino ancor più libero di quel che io posso!". Questa è una confessione fatta molto presto, già nel 1876, è un'anticipazione del suo destino, del suo crollo, il presagio di un uomo che nel campo della conoscenza sarà spinto a caricarsi di pesi più crudeli e gravi di quelli che il suo animo possa sostenere e che offrirà al mondo lo spettacolo straziante di un'autocrocifissione. Sotto la sua opera egli avrebbe potuto porre, come quel pittore, le parole: "In doloribus pinxi". In più d'un senso, sia spirituale che fisico, egli avrebbe con ciò detto la verità. Nel 1880, confessa al dottor Eiser: "La mia esistenza è un peso orribile; l'avrei già da tempo gettata via, se proprio in questo stato di dolore e di quasi assoluta rinunzia non facessi le prove e gli esperimenti più istruttivi nel campo spirituale e morale... Dolore continuo, molte ore del giorno trascorse in una sensazione molto simile a quella del mal di mare, una mezza paralisi in cui il parlare mi riesce oltremodo difficile; con questo stato si alternano attacchi violenti (l'ultimo mi costrinse a vomitare tre giorni e tre notti, anelai la morte)... Se riuscissi a descriverle la continuità di queste condizioni, l'incessante dolore e il peso che sento al cervello, sugli occhi, quella sensazione generale come di paralisi che mi tiene dalla testa fino alla punta dei piedi…” La sua, apparente completa ignoranza ‑ e quella dei suoi medici per di più ‑ sulla natura e sulle origini della sua malattia, è difficilmente comprensibile. Che essa derivi dal cervello egli ne acquista però a poco a poco certezza e crede trattarsi di malattia ereditaria; suo padre, egli pensa, fini per rammollimento cerebrale, ciò che sicuramente non è vero. Il pastore Nietzsche mori per un semplice incidente: una lesione cerebrale provocata da una caduta. Questa completa ignoranza, o meglio, dissimulata ignoranza sull'origine della sua malattia si può spiegare coi fatto che essa era intimamente stretta e congiunta con il suo genio, e che questo si sviluppò insieme con essa, e che anche per un geniale psicologo tutto può diventare oggetto di conoscenza che smaschera ogni segreto, tutto, salvo il proprio genio. La malattia è per lui piuttosto oggetto di una stupita ammirazione, di un esaltante sentimento di sé, di una hybris cieca. Con piena ingenuità Nietzsche esalta l'altro aspetto della sua sofferenza, quello che gli procura altissime gioie, quegli stati di euforia che lo ricompensano e risarciscono ad usura e che fan parte del quadro stesso della malattia. E ciò avviene nella maniera più grandiosa nell'ultima opera che quasi non conosce più alcun ritegno, in Ecce homo, là dove egli loda lo stato di elevazione spirituale e fisica in cui, in un tempo incredibilmente breve, scrisse il poema di Zarathustra. La pagina è stilisticamente un capolavoro, un vero tour de force del linguaggio artistico, paragonabile forse soltanto con la meravigliosa analisi della sinfonia dei Maestri Cantori in Al di là del bene e del male e con la dionisiaca visione del cosmo alla fine della Volontà di potenza. "Ha nessuno mai" si domanda in Ecce homo "alla fine del secolo XIX un'idea di ciò che poeti di età forti chiamavano ispirazione? Se nessuno lo sa, io voglio descriverlo." E comincia la descrizione di quelle illuminazioni, rapimenti, voci misteriose, sensazioni di forza e di potenza divine, che egli non può fare a meno di sentire come qualche cosa di atavico, di un'antica demonicità appartenente ad altri stadi della vita umana "più forti" e più vicini al divino, qualche cosa fuori delle possibilità psichiche della nostra età debole e razionale. Ed egli fa una descrizione "secondo verità" ‑ ma che cos'è verità la nostra esperienza, o la medicina che la interpreta? - di quel pernicioso stato di eccitazione che suol precedere, quasi a scherno, il collasso paralitico. Ciascuno converrà essere febbrili eccessi di una troppo tesa coscienza di sé, segni di un fuorviarsi della ragione, quando egli chiama lo Zarathustra un'azione al cui confronto ogni altra azione umana sembra povera e limitata, quando afferma che un Goethe, uno Shakespeare, un Dante non potrebbero respirare neppure un momento alle altezze di quel libro e che lo spirito e la bontà di tutte le grandi anime prese insieme non sarebbero capaci di creare nemmeno uno solo dei discorsi di Zaratustra. Naturalmente deve essere un gran piacere scrivere cose simili, ma non lo credo lecito. Del resto, può darsi che io stabilisca soltanto i miei limiti quando procedo oltre e confesso che il rapporto di Nietzsche con il poema di Zarathustra mi sembra esser quello di una cieca sopravvalutazione. Per l'atteggiamento biblico esso è divenuto "il più popolare" dei suoi libri, ma non è perciò di gran lunga il suo migliore. Nietzsche fu soprattutto un grande critico e filosofo della cultura, un saggista e prosatore europeo di primissimo ordine, educato alla scuola di Schopenhauer, e il cui genio toccò il suo vertice al tempo di Al di là del bene e del male e della Genealogia della morale. Un poeta può forse valer meno di un critico, ma a questo "meno" egli non arrivò, o arrivò solo in singoli momenti lirici, non per un'opera estesa di creativa originalità. Zarathustra, questo maligno spirito senza volto e figura, quest'uomo alato con la ridente corona di rose sull'inconoscibile capo, con il suo motto: "Diventate duri!" e le sue gambe di ballerino, non è una creazione poetica. E’ retorica, eccitata impertinenza, tormentosa voce e dubbia profezia, un fantasma d'impotente grandezza, spesso commovente e più spesso ancora penoso; una figura senza figura, oscillante ai confini del ridicolo. Così dicendo, ricordo la disperata crudeltà con cui Nietzsche ha parlato di molte cose, propriamente di tutto ciò che venerava: di Wagner, della musica in genere, della morale, del cristianesimo; avrei quasi aggiunto: anche del germanesimo, e come egli, pur negli attacchi critici più irosi contro questi valori e queste potenze sempre alte e venerate nell'intimo, non avesse evidentemente la coscienza di offenderle davvero ma, come sembra, sentisse invece le ingiurie più terribili che scagliava contro di loro come una specie di omaggio. Su Wagner ha detto, cose tali che poi si stenta a credere ai propri sensi quando in Ecce homo improvvisamente parla dell'ora sacra in cui Riccardo Wagner morì a Venezia. Come mai, ci chiediamo, lacrime negli occhi? Come mai quest'ora della morte può diventare a un tratto sacra, se Wagner era quel turpe istrione, quel corrotto corruttore, come Nietzsche lo ha descritto centinaia di volte? Con il suo amico, il musico Peter Gast, si scusa della continua polemica contro il cristianesimo: è proprio il cristianesimo, egli dice, il miglior esempio di vita spirituale che egli abbia veramente conosciuto. Infine egli è pur il discendente d'intere generazioni di sacerdoti cristiani e crede nel "suo cuore di non essere mai stato volgare con il cristianesimo" No, ma con una voce quasi soffocata dall'ira lo ha chiamato "l'eterna macchia d'infamia dell'umanità" non senza beffarsi nello stesso tempo di chi vorrebbe che i germani fossero in un certo modo preparati e predestinati per il cristianesimo. Che cosa hanno a che fare i germani, fannulloni, pigri, eppure desiderosi di guerre e di preda, amanti della caccia e sensualmente freddi, gran bevitori di cervogia, che non sono riusciti a creare nulla più di una semplice religione primitiva e che mille anni fa immolavano ancora vittime umane, che cosa hanno a che fare con l'altissima sottigliezza morale, resa ancor pin acuta dall'intelletto rabbinico, con l'orientale finezza del cristianesimo? La sua scala dei valori è chiara e divertente. Alla sua autobiografia egli, l'anticristo, dà il titolo più cristiano: Ecce homo. E nell'ultima lettera, scritta quando la pazzia s'impadronisce di lui, si firma: "il crocifisso". Si può dire che il rapporto di Nietzsche con gli oggetti preferiti dalla sua critica fosse senz'altro quello della passione: di una passione priva dì un contrassegno determinato, perché passa continuamente dal negativo al positivo. Ancora poco prima della sua fine spirituale scrive sul Tristano una pagina vibrante dì commozione. D'altro lato, già nel tempo in cui la sua devozione di discepolo verso Wagner sembrava assoluta, prima di comporre lo scritto celebrativo destinato al pubblico - Riccardo Wagner a Bayreuth -, manifestò ad amici di Basilea giudizi sui Lohengrin di un'acutezza critica cosI distanziata da precorrere di due lustri e mezzo quelli contenuti nei Caso Wagner. Nei rapporti di Nietzsche con Wagner non c'è alcuna frattura, per quanto si dica e si voglia. Il mondo vuolvedere sempre una "frattura" nella vita e nell'opera di grandi uomini, nel cui sviluppo dominano invece una continuità e una logica ininterrotte. Ma per quanto la sua opera nella più gran parte aforistica rifletta le mille luci colorate di un prisma, per quante contraddizioni si possano trovare alla sua superficie, fin da principio egli è interamente in essa, sempre il medesimo, e negli scritti del giovane professore, nelle Considerazioni inattuali, nella Nascita della tragedia e nella dissertazione del 1878 Ii filosofo, si trovano nor solo i germi dei suo futuro messaggio pedagogico, ma il messaggio intero, una lieta novella come egli crede, già pronto e completo. Ciò che cambia è l'accento, sempre più frenetico, l'intonazione sempre più stridula, il gesto sempre più grottesco e minaccioso. Ciò che cambia è lo stile che, sempre altamente musicale, da una dignitosa disciplina e sostenutezza di tradizione tedesco‑umanistica, leggermente intinta di dottorale arcaicità, degenera a poco a poco in un giornalismo di alta classe, sinistramente mondano e febbrilmente allegro e che alla fine si orna del berretto a sonagli del buffone: il buffone non di una corte, ma del mondo. Ma non mai abbastanza si deve sottolineare la perfetta unità e compiutezza della sua opera. Seguace di Schopenhauer, di cui restò discepolo anche quando l'aveva rinnegato da molto tempo, egli ha, durante la vita, variato, sviluppato, ribadito propriamente un solo pensiero, presente da per tutto, che in principio si mostra in piena salute e con una indiscutibile giustificazione critica rispetto al proprio tempo, ma che poi, nel corso degli anni, diventa preda di un dionisiaco furore così che la storia di Nietzsche si può ben dire la storia della tragica evoluzione di questo pensiero. Quale pensiero? Bisogna, per comprenderlo, scomporlo nei suoi elementi, nelle sue parti fra loro in contrasto! Esse si chiamano, citandole alla rinfusa: vita, cultura, coscienza e conoscenza, arte, aristocratica distinzione, morale, istinto. In questo complesso d'idee predomina il concetto di cultura. Esso è posto quasi allo stesso livello del concetto di vita: cultura è l'aristocrazia della vita e ad essa, come sue sorgenti e condizioni, son congiunti arte ed istinto, mentre, come mortali nemiche e distruttrici della vita e della cultura, figurano la coscienza e la conoscenza, la scienza e infine la morale. La morale, che come custode della verità si oppone alla vita, perché questa si fonda essenzialmente sull'apparenza, l'arte, l'inganno, la prospettiva, l'illusione, e il padre della vita è l'errore. Da Schopenhauer egli ha ereditato il principio che "la vita soltanto come rappresentazione, meramente contemplata o ripetuta dall'arte è uno spettacolo interessante", la proposizione cioè che la vita può giustificarsi soltanto come fenomeno estetico. La vita è arte e apparenza, non altro; e perciò superiore alla verità (che è di pertinenza della morale) è la saggezza (che è di pertinenza della cultura e della vita); una tragica, ironica saggezza che per istinto artistico, per amor di cultura, pone limiti alla scienza e difende il valore più alto di tutti, la vita, contro due nemici: il pessimismo che la nega e patrocina l'aldilà e il Nirvana, e l'ottimismo che adora la ragione e il progresso e favoleggia di felicicità e di giustizia per tutti, così preparando la ribellione socialista degli schiavi. A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso. Il nome del dio ebbro appare per la prima volta in quell'opera estetico‑mistica della sua giovinezza che s'intitola La nascita della tragedia dallo spirito della musica in cui l'elemento dionisiaco come disposizione artistico‑psichica è contrapposto al principio artistico dell'apollineo distanziarsi e obiettivarsi, in modo molto simile a quello con cui Schiller nel famoso saggio contrappone "l'ingenuo" al "sentimentale". Qui ricorre per la prima volta l'espressione "uomo teorico" e viene assunta la posizione polemica contro Socrate, il prototipo di quest'uomo teorico: contro Socrate, lo spregiatore dell'istinto, l'esaltatore della coscienza, colui che insegnava essere bene soltanto ciò che è cosciente, il nemico di Dioniso e il distruttore della tragedia. Da lui deriva, secondo Nietzsche, una cultura scientifica alessandrina, pallida, dottorale, estranea al mito, estranea alla vita, una cultura in cui hanno vinto l'ottimismo e la fede nella ragione, l'utilitarismo pratico e teorico che, come la democrazia stessa, è un sintomo della stanchezza psicologica e del decader della forza. L'uomo di questa cultura socratica, antitragica, l'uomo teorico non vuol possedere più nulla nella sua interezza, con tutta la naturale crudeltà delle cose. Il suo atteggiamento ottimistico lo ha svigorito. Ma l'età dell'uomo socratico, così crede d'esser convinto il giovane Nietzsche, è passata. Una nuova generazione eroica, audace, sprezzatrice di tutte le dottrine della debolezza, occupa la scena. Nel nostro mondo attuale, nel mondo cioè del 1870, si può constatare un graduale risveglio dello spirito dionisiaco: dalle profondità dionisiache dello spirito tedesco, della musica tedesca, della filosofia tedesca avviene la rinascita della tragedia. Più tardi egli s'è tragicamente beffato di quella sua fede di allora nello spirito tedesco, e di tutto ciò che egli aveva messo in quello spirito, cioè di se stesso. E infatti egli stesso è già completamente in questo prologo ancora mitemente umano, ancor pieno di entusiasmo romantico, ed anche la sua prospettiva del mondo, il suo sguardo su tutta la cultura occidentale è già in questo scritto. Ma a lui interessa soprattutto la cultura tedesca nella cui alta missione ha fiducia, e che vede in grandissimo pericolo di andar perduta a causa della fondazione del nuovo stato egemonico di Bismarck, della politica, dei compromessi democratici e della compiaciuta sazietà dopo la vittoria. La sua splendida diatriba contro il libro senile e soddisfatto del teologo David Strass La vecchia e la nuova fede è l'esempio immediato per questa critica di un filisteismo saturo e fiacco, che minaccia di privar lo spirito tedesco di tutta' la sua profondità. Ed è qualche cosa di commovente vedere come già qui il giovane pensatore getta profetici sguardi nel suo futuro destino, che sembra stargli aperto davanti come un tragico curriculum vitae. Mi riferisco a quel passo dello scritto in cui deride la viltà etica del volgare illuminista che dal suo darwinismo, dal suo bellum omnium contra omnes e dal diritto del più forte non sa derivare norme morali per la vita ma si compiace soltanto a sferrare i suoi attacchi contro preti e miracoli, attacchi che raccolgono sempre l'applauso di tutti i filistei. Egli stesso, e di ciò nel suo profondo è consapevole, tenterà il passo estremo e non temerà nemmeno l'assurdo, pur di avere contro di sé i filistei. E la seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Vantaggi e svantaggi della storia per la vita in cui si trova preformato nella maniera più compiuta, sebbene ancora in una veste specificamente critica, quel pensiero fondamentale della sua vita che sopra ho ricordato. Il mirabile saggio è, in fondo, un'unica, grande variazione delle parole di Amleto: "Il vivo, naturale colore della risolutezza ammorbato dal pallor del pensiero". Il titolo non è esatto, in quanto non si parla dei vantaggi della storia, e tanto meno dei suoi svantaggi per la vita, la preziosa, la sacra vita, giustificata esteticamente. Il secolo XIX è stato chiamato il secolo della storia ed esso, in verità, ha per primo creato e sviluppato il senso storico di cui precedenti culture, appunto come culture, cioè come sistemi di vita artisticamente in sé chiusi, non sapevano nulla, o ben poco. Nietzsche parla addirittura della malattia storica che paralizza la vita e la sua spontaneità. Cultura è oggi cultura storica. Ma i greci non conobbero cultura storica, e nessuno tuttavia oserebbe dirli senza cultura. La storia per puro amore di conoscenza, non esercitata ai fini della vita e senza il contrappeso della "dote plastica" della spontaneità creatrice, è suicidio, è morte. Un fenomeno storico riconosciuto come tale è un cadavere. Una religione, per esempio, scientificamente riconosciuta ha finito di vivere, è al suo termine. La trattazione storico‑critica dei cristianesimo, dice Nietzsche con una preoccupazione da conservatore, dissolve questo in una semplice conoscenza del cristianesimo. "Nell'esame critico dei cristianesimo" egli dice "vengono alla luce cose che necessariamente distruggono quell'atmosfera di pia illusione in cui solamente può vivere tutto ciò che vuole vivere. Solo nell'amore, all'ombra dell'illusione dell'amore, l'uomo crea. Per diventare culturalmente creatrice la storia dovrebbe venir trattata come arte, ma ciò sarebbe in contrasto con la tendenza analitica e antistorica del tempo. La storia scaccia gli istinti. Formato o, meglio, deformato dalla storia, l'uomo non è più capace di "rilassare le briglie" e di agire spontaneamente, fidando nella "divina animalità". La storia sottovaluta sempre ciò che è in divenire e paralizza l'azione; questa deve sempre offendere sentimenti di pietà e di rispetto. Quel che la storia insegna e crea è la giustizia. Ma la vita non ha bisogno di giustizia, bensì d'ingiustizia, è essenzialmente ingiusta. "Ci vuoi molta forza" egli dice (e noi dubitiamo che egli si credesse capace di tal forza) "per poter dimenticare, in quanto vivere ed essere ingiusti sono una stessa cosa." Ma tutto dipende dal poter dimenticare. Egli vuole ciò che appunto non è storico: l'arte è la forza di poter dimenticare e chiudersi in un limitato orizzonte; un desiderio più facile ad esprimersi che ad appagarsi, verrebbe voglia di aggiungere. Con un orizzonte infatti già limitato veniamo al mondo; volersi però chiudere artificialmente in esso è una mascheratura estetica e un rinnegamento del destino, da cui può difficilmente nascere qualche cosa di vero e di giusto. Ma Nietzsche, in maniera molto nobile e bella, vuole ciò che è al disopra e al dil à della storia, che distoglie il nostro sguardo dal divenire elevandolo a quello che dà carattere di eternità e di essere all'esistenza, ossia all'arte e alla religione. Il nemico è la scienza, essa vede .e conosce solo la storia e il divenire, ma non l'essere, l'eterno; odia l'oblio come la morte del sapere e cerca di abbattere tutte le barriere che limitano l'orizzonte., Ma tutto quanto vive ha bisogno di un'atmosfera che lo difenda, di una misteriosa caligine, del velo dell'illusione. Una vita dominata dalla scienza è molto meno vita di quella che non sia dominata dalla scienza ma dagli istinti e da gagliarde illusioni. "Gagliarde illusioni"... Queste parole ci fanno pensare a Sorel e al suo libro Sur la violence in cui il sindacalismo proletario e il fascismo sono ancora una cosa sola, e il mito delle masse, indipendentemente dalla sua verità o falsità, vien proclamato l'indispensabile motore della storia. Noi ci domandiamo se non sarebbe meglio tenere le masse nei rispetto della ragione e della verità e onorare così anche la loro esigenza di giustizia, piuttosto che inventare il mito delle masse e scatenare sull'umanità onde dominate da gagliarde illusioni. Chi fa oggi questo, e a che scopo? Ai fini della cultura certamente no. Ma Nietzsche non sa nulla e non vuoi saper nulla delle masse. "Al diavolo le masse" egli dice "e la statistica." Egli vuole, e se ne fa banditore, un'età in cui, senza storia e al disopra della storia, ci si astenga saviamente da tutte le costruzioni di un processo evolutivo del mondo o anche di una storia dell'umanità; non considera più affatto le masse, ma solo i grandi, che sono fuori del tempo perché di ogni tempo, e che sopra il brulicar della storia conducono il loro alto colloquio di spiriti. Lo scopo dell'umanità, egli dice, non si trova alla fine dei suo sviluppo, ma nei suoi più alti esemplari. Questo è il suo individualismo, un culto estetico del genio e dell'eroe, culto che egli ha derivato da Schopenhauer, insieme con il fermo convincimento che la felicità è impossibile e che l'unica cosa possibile e degna dell'uomo è una vita eroica; essa, unita con l'adulazione della vita bella e forte, crea l'estetismo eroico che egli pone sotto il segno protettore di Dioniso, il dio della tragedia. È appunto questo estetismo dionisiaco che farà in seguito di Nietzsche il più grande critico e psicologo della morale che la storia della cultura conosca. Egli è nato psicologo, la psicologia è la prima delle sue passioni; conoscenza e psicologia sono in fondo un'unica e stessa passione, ed è un segno di tutta l'intima contradditorietà di quel grande e decoroso spirito che egli, per cui la vita vale ben più della conoscenza, sia completamente e irrimediabilmente dato alla psicologia. Psicologo egli è già in forza di quell'asserto schopenhaueriano che non è l'intelletto a creare la volontà, ma viceversa; che non è l'intelletto l'elemento primario e predominante, ma la volontà, con cui l'intelletto è in un rapporto solo di sudditanza. L'intelletto come strumento a servizio della volontà: questa è la sorgente originaria d'ogni psicologia sospettosa e smascheratrice, e Nietzsche, come avvocato della vita, si getta nelle braccia della psicologia della morale. Egli sospetta che tutti i "buoni" istinti derivino da cattivi e i "cattivi" proclama nobili e vitali. Questo è il "capovolgimento di tutti i valori". Ciò che prima veniva chiamato socratismo ‑ "uomo teorico", coscienza, malattia storica ‑ ora si chiama senz'altro "moralità" e più particolarmente "moralità cristiana", che viene smascherata come qualche cosa di assolutamente velenoso, pieno di rancori, nemico della vita. Ma la sua critica della morale, non bisogna dimenticano, è, in parte, impersonale, ha caratteri comuni a tutta l'epoca. E l'epoca sul finire del secolo, l'epoca in cui l'intelligenza europea lancia i primi attacchi contro l'ipocrita morale dell'età vittoriana e borghese; in questo quadro s'inserisce, fino a un certo grado e spesso con una sorprendente somiglianza, la rabbiosa lotta di Nietzsche contro la morale. E sorprendente notare la stretta affinità tra molti aperçus di Nietzsche e gli attacchi, che non sono afflitto soltanto arguzie superficiali, con cui, circa nello stesso tempo, Oscar Wilde, l'esteta inglese, scandalizzava e divertiva il pubblico della sua patria. Quando Wilde dichiara: "For, try as we may, we cannot get behind the appearance of things to reality. And the terrible reason may be that there is no reality in things apart from their appearances", quando parla della "verità della maschera" e della "decadenza della menzogna"; quando prorompe: "To me beauty is the wonder of wonders. It is only sh'allow people who do not judge by appearances. The true mystery of the world is the visible: not the invisible": quando chiama la verità qualchecosa di cosI personale, che mai la stessa verità può essere riconosciuta da due spiriti diversi; quando dicé: "Every impulse that we strive to strangle broods in the mind,, and poisons us... The only way to get rid of a temptation is to yield to it" e "Don't be lead astray into the paths of virtue!".., tutto questo si potrebbe trovare benissimo in Nietzsche. E quando, d'altra parte, in costui leggiamo: "La serietà, questo segno inconfondibile di un più faticoso ricambio materiale" ‑"Nell'arte si consacra la menzogna e la volontà d'ingannare ha dalla parte sua la buona coscienza" "Noi siamo per principio disposti ad affermare che i giudizi falsi ci sono i più indispensabili" ‑ "Non è altro che un pregiudizio morale il credere che la verità valga più dell'apparenza", non c'è nessuna di queste frasi che non potrebbe ricorrere nelle commedie di Oscar Wilde and get a laugh nel teatro di San Giacomo. Quando si volle lodare molto Wilde, si paragonarono i suoi lavori a The school for scandal di Sheridan. Molto in Nietzsche sembra derivare da quella "scuola". Naturalmente l'avvicinare Nietzsche a Wilde ha qualche cosa di sacrilego, perché quest'ultimo era un dandy e il filosofo tedesco invece una specie di santo dell'immoralismo. E tuttavia il dandismo di Wilde acquista attraverso il martirio più o meno volontario della sua fine, il carcere di Reading, quasi un riflesso di santità che gli avrebbe guadagnato tutta la simpatia di Nietzsche. Ciò che lo riconciliava con Socrate era la fine, la tazza di cicuta, l'eroica morte, che egli ritiene aver avuto un effetto inestimabile sulla gioventù greca e su Platone. E ad onta del suo odio per il cristianesimo storico egli risparmiò la persona di Gesù di Nazareth e anche questa volta per la fine, per la croce, che egli amava nel più fondo dell'anima e a cui, volontariamente, ascese egli stesso. La sua vita fu ebbrezza e dolore: una situazione psichica altamente artistica, il connubio, a volerci esprimere mitologicamente, di Dioniso con il Crocifisso. Agitando il tirso egli ha esaltato estaticamente la vita forte e bella, trionfante, ignara di moralità, e la difende contro ogni immiserimento da parte dello spirito; ma, nello stesso tempo, nessuno più di‑lui ha reso omaggio al dolore. "La capacità di soffrire più o meno profondamente determina il diverso valore degli individui" egli ha detto. E nemmeno queste altre parole sono certamente di un antimoralista: "Per quel che riguarda il dolore e la rinunzia, la mia vita degli ultimi anni può ben confrontarsi con quella degli asceti di qualsivoglia tempo". Scrive queste parole non per mendicare compassione, ma con orgoglio. "Voglio" dice "aver la vita tanto dura quanto un uomo può averla." E dura se la rese, dura fino alla santità. Il santo infatti, secondo l'ideale schopenhaueriano, restò per lui sempre il tipo umano più alto, e una "vita eroica" è appunto la vita del santo. Che cosa caratterizza il santo? Che egli non fa nulla di quanto gli piacerebbe e fa invece tutto quanto non gli piace. Cosi Nietzsche è vissuto: "rinunziando a tutto quello che venerava, rinunziando perfino alla venerazione... Tu devi diventar signore di te stesso, signore anche delle tue virtù". Questo è l'atto di superarsi, di "saltar sopra se stessi", di cui parla una volta Novalis e che egli pensa essere in ogni condizione l'atto più alto. Questo "atto" (la parola è tolta dal gergo degli artisti e degli acrobati) non ha in Nietzsche nulla di un'abilità baldanzosamente sicura di sé, nulla di "acrobatico" Ogni "acrobatismo" ha, nel suo modo di comportarsi, qualche cosa di fatuo e, come tale, sommamente spiacevole. Ma in Nietzsche è mordere sanguinoso nel vivo della sua stessa carne, è mortificazione, è moralismo. Anche il suo concetto della verità è ascetico: perché verità è per lui ciò che fa soffrire, ed egli diffiderebbe di ogni verità che gli fosse benefica. "Tra le forze" egli dice "clic la moralità crebbe e allevò ci fu anche l'amore per la verità: questo si volge, alla fine, contro la moralità, smaschera la sua teleologia, la sua osservazione interessata." L' "immoralismo" di Nietzsche è la moralità che sopprime se stessa per ascetico amore di verità. Ma che questo immoralismo sia una specie di esuberanza, di soverchio rigoglio della morale, egli stesso lo accenna là dove parla di una ricchezza ereditaria di moralità, che può permettersi di sciupar molto e molto gettare dalla finestra senza tuttavia diventar troppo povera. Questo si nasconde dietro le atrocità e gli ebbri messaggi di forza, di violenza, di crudeltà, d'inganno politico in cui splendidamente degenera il suo concetto della vita come opera d'arte, come cultura irrazionale dominata dall'istinto. Quando un critico svizzero del Bind di Berna scrisse che Nietzsche perorava l'abolizione di tutti i sentimenti onesti, il filosofo, così mal compreso, si offese. "Molto obbligato" rispose con amaro sarcasmo. Egli infatti aveva inteso tutto ciò molto nobilmente, umanamente, nel senso di un'Umanità più alta, più profonda, più orgogliosa, più bella e, per così dire, "non aveva pensato ad altro"; in ogni caso non aveva pensato a nulla di male, anche se a una quantità di cose cattive. Perché tutto ciò che è profondo, è cattivo; la vita stessa è profondamente cattiva, non fu creata con riguardo alla morale, non sa nulla della "verità" ma si fonda sull'apparenza e sulla menzogna artistica, deride la virtù, perché è sostanzialmente malvagia e solo intesa alla preda e, dice Nietzsche, c'è un pessimismo della forza, una passione intellettuale per il duro, il terribile, il cattivo, il problematico dell'esistenza che nasce dal benessere, dalla pienezza dell'essere. Egli, il malato euforico, si attribuisce questo "benessere", questa "pienezza dell'essere" e suo compito diventa quello di proclamare gli aspetti della vita fin allora rinnegati, soprattutto rinnegati dal cristianesimo, come i più degni e i più alti. La vita soprattutto! Perché? Il perché propriamente non l'ha mai detto. Non ha mai dato una ragione per ché la vita debba essere qualche cosa che bisogna adorare, incondizionatamente, conservare a qualunque costo, ma ha dogmaticamente affermato che è sopra la conoscenza, perché con la vita la conoscenza annienta se stessa. La conoscenza conosce la vita come sua premessa e perciò l'interesse che le porta è istinto di conservazione. La vita dunque dovrebbe essere perché ci sia qualche cosa da conoscere. Eppure a noi sembra che questa logica non basti a giustificare la sua infiammata difesa della vita. Se nella vita egli vedesse la creazione di un dio, allora bisognerebbe onorare la sua pietà: anche se personalmente si trovasse ben poca ragione di prostrarsi davanti a questo universo della moderna fisica che si dissolve esplodendo. Ma egli vi vede solo il prodotto assurdo e massiccio della volontà di potenza ed è di questa assurdità, di questa gigantesca immoralità che dovremmo entusiasmarci estasiati! Il suo grido di omaggio non è "osanna" ma "evoè", e questo grido ha un suono straordinariamente rotto e tormentato e vuole di proposito ignorare che nell'uomo c'è qualche cosa di superbiologico che non può esaurirsi nel semplice interesse per la vita, c'è la possibilità di un distanziarsi da questo interesse, una indipendenza critica, che è forse ciò che Nietzsche chiama "la morale" e che non farà mai alla cara vita perché troppo incorreggibile rimostranze serie, ma che può agire quale lieve correttivo, quale richiamo della coscienza, come appunto ha sempre fatto il cristianesimo. "Non c'è" egli dice "nessun punto fermo fuori della vita dal quale si possa riflettere sull'esistenza, nessuna suprema istanza dinanzi a cui la vita possa vergognarsi di sé." Non c'è davvero Eppure noi abbiamo il sentimento che una suprema istanza ci sia, e se pur non si chiami moralità è nondimeno null'altro che lo spirito dell'uomo l'umanità stessa come critica, ironia e libertà, congiunta con la parola che giudica. "La vita non ha un giudice al disopra di sé." Ma nell'uomo natura e vita s'innalzano in un certo qual modo sopra se stesse, perdono l'innocenza, diventano spirito; e spirito è autocritica della vita. E questo "qualcosa" che è in noi ha uno sguardo dubbioso di compassione per una "igiene" della vita che in tempi sobri si volge solo contro la malattia storica, ma che poi degenera in un menadico furore contro verità morale, religione, umanità, contro tutto ciò che in qualche modo può servir di freno al selvaggio prorompere della vita. Per quanto io vedo, due sono gli errori che turbano il pensiero di Nietzsche e gli diventano fatali. Il primo è un completo, convenirne, intenzionale misconoscimento del rapporto esistente sulla terra fra istinto e intelletto, come se quest'ultimo avesse un pericoloso predominio e non ci fosse più tempo da perdere per salvar l'istinto dal suo prepotere. Se si pensa come nella maggior parte degli uomini la volontà, l'istinto, l'interesse dominano e assoggettano completamente la ragione, il sentimento del giusto, allora l'opinione che si debba dominar l'intelletto con l'istinto appare qualche cosa di assurdo. Solo storicamente, con una momentanea situazione filosofica, come il correttivo di una saturazione razionalistica, si può spiegare questo atteggiamento e subito bisogna a sua volta correggerlo. Come se fosse necessario difendere la vita contro lo spirito! Come se esistesse il minimo pericolo che la vita possa diventar troppo spirituale! La più elementare generosità dovrebbe spingerci a custodire e difendere la debole fiammella della ragione, dello spirito, della giustizia, invece che a schierarci dalla parte della potenza e della vita istintiva e compiacerci, in una sopravvalutazione coribantica, dei suoi lati che la morale "rinnega", del delitto e della violenza, sopravvalutazione di cui tutti abbiamo oggi sperimentato la stoltezza. Nietzsche vuoi farci credere ‑ e con ciò ha causato gran male ed errore ‑ che sia la coscienza morale a serrare, come Mefistofele, il suo freddo pugno diabolico contro la vita. Per me non trovo nulla di diabolico nel pensiero (che è poi un pensiero degli antichi mistici) che una volta la vita possa venire abolita dal pensiero, cosa per cui bisognerà aspettare ancora un bel po' di tempo, un tempo infinitamente lungo! Il pericolo che la vita sul nostro pianeta, col perfezionarsi della bomba atomica, annienti se stessa è ben più urgente. Ma anche questo è improbabile. La vita è una gatta tenace, ostinata, dura a morire, e tale è l'umanità. Il secondo errore di Nietzsche è di porre su un piano totalmente sbagliato il rapporto fra la vita e la morale, trattandolo come un contrasto. L'etica è bastone e sostegno della vita e l'uomo morale un vero cittadino della vita; forse un po' noioso, ma utilissimo. Il vero contrasto è fra etica ed estetica. Non la morale, ma la bellezza è destinata a morire, come molti poeti hanno detto e cantato: e Nietzsche non dovrebbe saperlo? "Quando Socrate e Platone cominciarono a parlare di verità e di giustizia" egli dice una volta "non furono più greci, ma ebrei, o che so altro." Orbene, gli ebrei, grazie alla loro moralità, si sono dimostrati buoni e tenaci figli della vita. Con la loro fede in un Dio giusto, essi sono sopravvissuti ai millenni, mentre il piccolo, dissoluto popolo greco di esteti e di artisti è presto scomparso dalla scena della storia. Ma Nietzsche, pur lontano da ogni odio razziale antisemitico, vede nel giudaismo la culla del cristianesimo e in questo, a ragione ma con aborrimento, il germe della democrazia, della rivoluzione francese e delle odiate "idee moderne" che la sua parola squillante marchia con il nome di "morale del gregge". "Mercanti, cristiani, vacche, donne, inglesi e altri democratici" dice, perché vede l'origine delle "idee moderne" in Inghilterra (i francesi, egli pensa, furono soltanto i suoi soldati), e ciò che egli disprezza e maledice in queste idee è l'utilitarismo e l'eudemonismo, il loro far della pace e della felicità terrena i beni phI desiderabili ed alti, mentre l'uomo nobile, tragico, eroico, calpesta questi valori molli e volgari. Un tale uomo è necessariamente un guerriero, duro con sé e con gli altri, pronto a sacrificare sé e gli altri. Quel che egli soprattutto rimprovera al cristianesimo è di aver tanto elevato l'importanza dell'individuo, così che non si poteva più sacrificarlo. Ma la specie, egli dice, si conserva solo con il sacrificio dell'individuo, e cristianesimo è principio antitetico a selezione. II cristianesimo ha effettivamente abbassato e indebolito per secoli, fino a Nietzsche, la forza, la responsabilità, l'alto dovere di sacrificare uomini e ha impedito la nascita di quella energia della grandezza che "educando o annientando milioni di uomini mal riusciti forma l'uomo futuro e non perisce sotto il peso del dolore che essa stessa crea". Chi ha avuto recentemente la forza di assumersi questa responsabilità? Chi si è impudentemente attribuito quella grandezza e ha adempiuto, senza esitare, l'alto dovere di compiere ecatombi dì uomini? Una marmaglia di piccoli borghesi megalomani alla cui vista Nietzsche sarebbe stato subito assalito dal più grande accesso della sua emicrania, con tutti i fenomeni concomitanti. Egli non visse fino a tanto. Dopo l'antiquata guerra del 1870 con gli chassepots e con i fucili ad ago egli non assistette ad altre guerre e può quindi solo per odio contro la filantropia cristiana e democratica della felicità abbandonarsi a esaltazioni della guerra che a noi oggi fanno l'effetto degli sproloqui d'un ragazzo fanatico. Che la buona causa santifichi la guerra è per lui sentenza troppo morale: è la buona guerra che santifica ogni causa. "La valutazione con cui oggi vengono giudicate le varie forme di società" egli scrive "è la stessa che attribuisce un valore più alto alla pace che alla guerra; ma questo giudizio è antibiologico, esso stesso è il deforme prodotto della décadence della vita.., la vita è una conseguenza della guerra, la società stessa un mezzo per la guerra." Non gli viene neppure in mente che forse non sarebbe male se si tentasse di fare della società qualche altra cosa anzi che un mezzo per la guerra. La società è un prodotto naturale che, come la vita stessa, si fonda su premesse immorali e attaccar queste equivale a un attacco proditorio contro la vita. "Rinunciando alla guerra" egli grida "si rinuncia a viver con grandezza." E con ciò si rinuncia anche alla vita e alla cultura. Questa infatti per rinnovarsi ha bisogno di reimmergersi ogni tanto profondamente nella barbarie ed è vuota fantasticheria attendersi che l'umanità crei ancora qualche cosa di grande nella cultura quando abbia disimparato la guerra. Disprezza ogni ottuso particolarismo nazionalista. Ma questo disprezzo evidentemente è un privilegio esoterico di singoli, poiché descrive esplosioni nazionalistiche della ebbrezza di forza e di sacrificio con un entusiasmo che non lascia dubbi sul suo desiderio di veder conservata ai popoli, alle masse, la "gagliarda illusione del nazionalismo". Qui è necessario aprire una parentesi. Noi abbiamo sperimentato che in certi casi un pacifismo a qualunque costo può essere ben peggio che discutibile, ma vile e bugiardo. Per anni sull'Europa e sul mondo stette la maschera delle simpatie fasciste e i veri amici della pace hanno sentito la pace di Monaco che le democrazie nel 1938, per risparmiare, ai popoli la guerra strinsero con il fascismo, come il punto più basso della storia europea. Questi amici della pace hanno desiderato la guerra contro Hitler, o piuttosto soltanto la decisione di volerla fare, che sarebbe bastata. Ma quando ci presentiamo davanti agli occhi ‑ e davanti agli occhi ci si presenta ‑ quale rovina, in ogni senso, produce una guerra, sia pur condotta per l'umanità, quale decadenza dei costumi, quale avido prorompere di istinti egoistici e antisociali, quando, ammaestrati dall'esperienza già fatta, ci rappresentiamo un quadro solo approssimativo dell'aspetto che avrà che avrebbe ‑ la terra dopo una futura terza guerra mondiale, allora le rodomontate di un Nietzsche sulla funzione culturale e selettiva della guerra ci appaiono come le fantasie di un ragazzo inesperto, del figlio di una lunga epoca di pace e di sicurezza, con "capitali assolutamente sicuri", che comincia ad annoiarsi di sé. Ma poiché egli, con un presentimento profetico che stupisce, ha predetto una serie di guerre e di esplosioni immani, anzi la classica età della guerra "a cui le successive generazioni guarderanno con invidia e rispetto", non sembra ancora che si abbia a temer troppo da una degenerazione umanitaria e da una evirazione dell'umanità e non si vede per qual motivo si dovrebbe spronarla con la filosofia a questo massacro selettivo. Questa filosofia vuol forse eliminare gli scrupoli morali che potrebbero opporsi a tali orrori? Vuol preparare l'umanità al magnifico destino che l'attende? Ma lo fa in una maniera voluttuosa che non provoca, come ne aveva l'intenzione, la nostra protesta morale, ma si prova dolore e paura per il nobile spirito che voluttuosamente si compiace d'infuriar contro se stesso. Oltrepassa in modo penoso i semplici ammaestramenti per un'educazione virile, quando vengono elencate, descritte, raccomandate, con un godimento che ha lasciato le sue tracce nella letteratura tedesca contemporanea, forme medievali di tortura. Confina con la volgarità quando "a conforto delle animule tenere" viene ricordata la minore capacità di soffrire delle razze inferiori, per esempio dei negri. E quando poi si eleva il canto della "bionda bestia", "del mostro giubilante", del tipo d'uomo che ritorna a casa da una serie orribile di delitti, d'incendi, di stupri come da una burla studentesca, il quadro di questo infantile sadismo è perfetto e la nostra anima si torce di pena. Il romantico Novalis, uno spirito dunque della famiglia di Nietzsche, ha fatto la critica più giusta di questo atteggiamento spirituale. "L'ideale della moralità" egli dice "non ha competitore maggiormente pericoloso dell'ideale della forza più piena, della vita più potente, ideale, che si potrebbe chiamare anche della grandezza estetica (il che è in fondo molto giusto, ma molto falso nel modo in cui viene inteso). E’ il massimo di barbarie e in questi tempi di cultura inselvatichita ha trovato molti seguaci specialmente fra i più deboli. Per mezzo di questo ideale l'uomo diventa un animale‑spirito, una mescolanza il cui brutale paradosso esercita appunto una brutale attrattiva sui deboli." Non si potrebbe dir meglio. Ha conosciuto Nietzsche questo passo Non si può dubitarne. Ma nelle sue ebbre provocazioni, coscientemente ebbre, e perciò senza intenzione seria, dell'ideale della moralità, non se ne è lasciato turbare. Quel che Novalis chiama l'ideale della grandezza estetica, il massimo di barbarie, l'uomo come spirito‑bestia, questo è il superuomo di Nietzsche ed egli lo descrive come la "secrezione di un soprappiù di lusso dell'umanità, in cui viene alla luce una specie più forte, un tipo più alto che ha condizioni di nascita e di conservazione diverse da quelle dell'uomo comune". Sono i futuri signori della terra, è il tipo fastoso del tiranno, alla cui creazione la democrazia è proprio ben adatta e della quale del resto egli deve servirsi come strumento per introdurre la sua nuova morale che ‑egli riallaccia machiavellicamente, adoperando il suo stesso linguaggio, alla legge morale in vigore. Infatti questa utopia spaventosa di grandezza, di forza e di bellezza preferisce di gran lunga mentire che dire il vero; richiede più spirito e volontà. "il superuomo" dice Nietzsche "è l'uomo in cui le qualità specifiche della vita, ingiustizia, menzogna, sfruttamento, sono le più grandi." Sarebbe estremamente inumano opporre a queste stridule e tormentose provocazioni scherno e contumelie, è semplicemente stupida l'indignazione morale. Ci troviamo dinanzi a un destino amletico che ispira rispetto e pietà, al tragico destino della conoscenza soverchiante le forze dell'individuo. "Io credo" dice una volta Nietzsche "dì aver intuito qualche cosa dell'anima dell'uomo superiore. Chiunque l'intuisce deve forse perire." Egli è veramente perito in questa tragica intuizione, e le atrocità della sua dottrina sono troppo variamente compenetrate da un dolore lirico che suscita commozione infinita, da profondi sguardi d'amore, dal più malinconico ardente desiderio della rugiada d'amore per l'arido paese della sua solitudine, perché scherno o esecrazione osino levarsi davanti a questa figura di "Ecce homo". Ma la nostra venerazione si trova in verità un po' con le spalle al muro quando il "socialismo della casta soggetta", schernito centinaia di volte e messo da Nietzsche alla berlina come velenoso avversario della vita più alta, ci dimostra che il superuomo non è altro che l'idealizzazione del capo fascista e che Nietzsche stesso, con tutto il suo filosofare, è stato un allenatore, un concreatore, un suggeritore d'idee del fascismo europeo e mondiale. Segretamente io sono in questo caso incline a invertire causa ed effetto e a credere non che Nietzsche abbia creato il fascismo ma il fascismo lui; voglio dire: lontano in fondo dalla politica e spiritualmente innocente egli, come sensibilissimo strumento di registrazione e di espressione, ha presentito con i suoi filosofemi della potenza il sorgere dell'imperialismo e con le vibrazioni del suo ago magnetico ha preannunziato l'era fascista dell'Occidente, era in cui viviamo e vivremo ancora lungo tempo, nonostante la vittoria militare sui fascismo. Come pensatore che con tutto il suo essere si staccò fin da principio dal mondo borghese egli ha apparentemente affermato l'ideologia fascista dell'età postborghese e negato quella socialista che rappresentava l'elemento morale, e ciò perché scambiava senz'altro la moralità con la moralità borghese. Ma la sua sensibilità non poté sottrarsi all'influsso del futuro socialismo e questo è ciò che ì socialisti disconoscono quando lo accusano di essere un fascista puro sangue. La cosa non è così semplice, per quanti argomenti possano avvalorare questa semplificazione. Vero è questo: il suo eroico sprezzo della felicità, che aveva qualche cosa di molto personale e malamente applicabile alla politica, lo spinse a vedere in ogni intenzione di abolire i più disonoranti squilibri sociali ed economici e di attenuare, per quanto è possibile, la sofferenza sulla terra, la spregevole aspirazione del gregge "alla verde felicità del pascolo". Non a caso il suo motto "vivere pericolosamente" venne tradotto in italiano ed entrò nel gergo fascista. Tutto quello che in un eccesso d'irritazione egli ha detto contro la morale, l'umanità, il cristianesimo, in favore della bella empietà, della guerra, della malvagità, si prestava purtroppo a trovare il suo posto nella sciagurata ideologia fascista e aberrazioni come la sua "morale per medici", con i suoi precetti di uccisione dei malati e di evirazione dei deficienti, il suo ribattere sulla necessità della schiavitù e inoltre molte delle sue norme d'igiene razziale sulla selezione, l'allevamento, il matrimonio, sono passate effettivamente, anche se forse senza consapevole riferimento a Nietzsche, nella teoria e nella prassi del nazionalsocialismo. Se le parole "li riconoscerete dai loro frutti" sono vere, allora il giudizio su Nietzsche non può che esser molto severo. Per Spengler, la furba scimmia di Nietzsche, lo Herrenmensch dei suoi sogni è divenuto "l'uomo d'azione in grande stile", l'uomo predace e profittatore che passa sopra milioni di cadaveri, il magnate dell'oro, l'industriale degli armamenti, il direttore generale tedesco che finanzia il fascismo; insomma, Nietzsche diventa per lui, in una visione stupidamente unilaterale, il patrono filosofico dell'imperialismo, di quell'imperialismo di cui Nietzsche, in realtà, non ha capito nulla. Come avrebbe potuto altrimenti mostrare a ogni passo il suo disprezzo per lo spirito commerciale e mercantile, che egli ritiene pacifista, e contrapporgli, esaltandolo, lo spirito eroico, lo spirito militare? La alleanza fra militarismo e industrialismo, la loro unità politica in cui consiste l'imperialismo, cioè lo spirito di lucro che fa le guerre, questo il "radicalismo aristocratico" di Nietzsche non l'ha mai veduto. Non bisogna lasciarsi ingannare: il fascismo, come esca di masse, come ultima volgarità, come la più miserabile e triviale cultura che mai sia riuscita a far storia, non è forse intimamente estraneo allo spirito di colui che tutto riduce a un problema: che cosa è aristocratico? Il fascismo è del tutto al di fuori del suo orizzonte mentale, e che la borghesia tedesca abbia scambiato l'avvento del nazismo con i sogni nietzscheani di una barbarie rinnovatrice della cultura è stato uno degli equivoci più grossolani. Non parlo della sua disdegnosa noncuranza di ogni nazionalismo, del suo odio contro il Reich e l'ottusa politica tedesca della potenza, né del suo spirito europeo né del suo scherno contro l'antisemitismo e contro tutta la ciurmeria razzista. In vero, l'elemento socialista nella sua visione di una vita postborghese è ugualmente forte come quello che si può essere tentati di chiamar fascista. Che cosa significa infatti quando Zaratustra esclama: "Io vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra! Non ficcate più la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portatela libera, una testa terrena, una testa che crea il senso della terra!... riconducete subito sulla terra la virtù che ne è volata via; si, tornate all'amore e alla vita: che essi diano un senso alla terra, un senso umano!"? Significa la volontà di penetrare l'elemento materiale con l'elemento umano, è il materialismo dello spirito, è socialismo. Il suo concetto di cultura ha qua e là una tinta fortemente socialista. Si volge contro il dividersi della società fra persone colte e non colte e il suo wagnerismo giovanile significa soprattutto la fine della cultura del rinascimento, di questa grande epoca borghese, e l'avvento di un'arte ugualmente fatta per grandi e per umili, non più sublime beatitudine di pochi eletti, ma aperta al cuore d tutti. E non è certo una prova della sua ostilità contro gli operai quando scrive: "Gli operai debbono imparare a sentire come soldati: un onorario, uno stipendio, non un salario. Dovranno vivere un giorno come oggi vivono i borghesi. Ma in un modo superiore a loro, distinguersi per la loro sobrietà, la casta più alta, dunque la pi'i povera e la pi'i semplice, ma detentrice del potere". Ed egli ha dato strani consigli per rendere più morale il potere: "Si lasci aperta a tutte le vie del lavoro la possibilità dì un piccolo capitale" egli dice "ma s'impedisca il facile e improvviso arricchimento, si tolgano tutti i vari mezzi di comunicazione e di commercio che favoriscono l'ammassamento di grandi capitali, dunque specialmente il commercio di denari, dalle mani dei privati e delle società private, e si considerino sia coloro che troppo, sia coloro che nulla posseggono, esseri pericolosi alla comunità". II nullatenente come un animale pericoloso: questo deriva da Schopenhauer. Nietzsche ha inoltre appreso che esiste un altro animale pericoloso: quello che troppo possiede. Nel 1875, più di settant'anni fa, egli profetizza non proprio con entusiasmo, ma semplicemente come conseguenza del trionfo della democrazia, una società delle nazioni europee "in cui ogni singolo popolo, limitato secondo le sue naturali esigenze geografiche, abbia il carattere e i diritti particolari di un cantone". Questa prospettiva era allora puramente europea. Nel corso dei successivi decenni è divenuta globale e universale. Egli parla di un'imminente inevitabile amministrazione unitaria di tutta la terra. Invoca il maggior numero possibile di organismi internazionali per "imparare a veder le cose da un punto di vista mondiale". La sua fede nell'Europa vacilla. "Gli europei sono convinti di rappresentare oggi l'uomo superiore sulla terra. Gli asiatici sono cento volte più grandi degli europei." Crede tuttavia possibile che nel mondo avvenire l'influsso spirituale sia nelle mani dell'europeo tipico, sintesi del passato europeo in un altissimo tipo spirituale. "Anglosassone: la signoria della terra. L'elemento tedesco un buon fermento, ma inetto al dominio." Vede inoltre il confluire l'una nell'altra della razza tedesca e della slava e la Germania come un avamposto slavo, che prepara la via a un'Europa panslava. L'ascesa della Russia a potenza mondiale gli è perfettamente chiara: "Il potere diviso fra anglosassoni e slavi e l'Europa come la Grecia sotto la signoria di Roma". Per una scorsa nel campo della politica internazionale, intrapresa da uno spirito che ha soltanto il compito culturale di creare il filosofo, l'artista e il santo, sono risultati davvero stupefacenti. Egli vede, quasi un secolo avanti, quello che noi oggi vediamo. Il mondo infatti, il nuovo mondo che sta formandosi, è un'unità, e una sensibilità così straordinaria come quella di Nietzsche, dovunque si volga, verso qualunque parte si tenda, sente il nuovo, ciò che sta per venire, e lo preannunzia. Con la sua lotta contro un'interpretazione meccanica del mondo, con la sua negazione di un mondo causalmente determinato, della classica "legge di natura", del ritorno di casi identici, anticipa, per pura intuizione, i risultati della fisica moderna. "Nulla si ripete." Non ci può essere quindi nessun modo di calcolare la legge secondo cui a una causa determinata debba seguire un effetto determinato. La spiegazione dei fenomeni secondo la legge di causalità è falsa. Si tratta della lotta di due elementi di diversa potenza, un nuovo equilibrio di forze, in cui il nuovo stato ha qualche cosa di profondamente diverso dal precedente, di cui non è affatto la conseguenza. La dinamica, quindi, al posto della logica e della meccanica. Le "intuizioni scientifiche" di Nietzsche, per riprender la parola di Helmholtz a proposito di Goethe, sono filosoficamente tendenziose, hanno un loro fine, sono subordinate ai suoi filosofemi della potenza, al suo antirazionalismo e servono alla sua esaltazione della vita al disopra della legge, perché la legge come legge ha qualche cosa di "morale". Ma quali che siano i motivi di questo atteggiarsi del suo pensiero di fronte alla scienza (che intanto ha ridotto la legge a semplice probabilità e che ha perduto ogni sicurezza nel concetto causale), egli ha avuto ragione. Come con ogni suo pensiero, così anche con le sue idee scientifiche egli esce dal mondo borghese della razionalità classica in cui, per le sue stesse origini, è straniero più di ogni altro. Un socialismo che non voglia riconoscergli questo suscita il sospetto che esso stesso appartenga, più di quel che non creda, al mondo borghese. Bisogna smettere di giudicar Nietzsche come uno scrittore di aforismi, privo d'un centro unitario: la sua filosofia, come quella di Schopenhauer, è un sistema completamente omogeneo, che si sviluppa da una sola idea centrale. Ma questa idea centrale da cui muove la sua filosofia è invero di natura radicalmente estetica, e perciò stesso la sua visione del mondo deve trovarsi necessariamente in contrasto con il socialismo. In fondo esistono soltanto due mentalità e due atteggiamenti spirituali: l'estetico e l'etico, e la visione socialista del mondo è strettamente morale. Nietzsche è invece l'esteta più completo, più radicale che la storia dello spirito conosca, e la sua premessa, contenente in sé il suo pessimismo estetico, la vita potersi giustificar solo come fenomeno estetico, si applica letteralmente a lui, alla sua vita, alla sua opera filosofica e poetica. Essa infatti si può giustificare, comprendere, onorare soltanto come fenomeno estetico. Questa vita cosciente fino al mitizzarsi dell'ultimo momento, cosciente fin sulle soglie della follia, è uno spettacolo artistico, non solo per la meravigliosa espressione, ma anche per l'intima essenza, uno spettacolo lirico‑tragico dal fascino più profondo. E’ cosa abbastanza strana, per quanto ben comprensibile, che la prima forma in cui lo spirito europeo si è ribellato all'età borghese sia stato l'estetismo. Non a caso ho nominato insieme Nietzsche e Wilde come ribelli, e propriamente ribelli in nome della bellezza: essi vanno insieme, anche se la rivolta dell'iconoclasta tedesco sia infinitamente più profonda ed egli abbia provato infinitamente di più il dolore, la rinunzia, la lotta per superar se stesso. In critici socialisti, e particolarmente russi, ho ben letto che gli aperçus e i giudizi estetici di Nietzsche sono spesso di una finezza mirabile, ma che egli è un barbaro in cose morali e politiche. Questa distinzione è ingenua: quando Nietzsche esalta la barbarie non fa che abbandonarsi alla sua ebbrezza estetica, e tradisce un'affinità su cui noi abbiamo ogni ragione di meditare: l'affinità cioè fra estetismo e barbarie. Questa nascosta e insolita affinità non fu, sulla fine del secolo XIX, né veduta né sentita né temuta altrimenti. Giorgio Brandes, uno scrittore ebreo e liberale, non avrebbe potuto scoprire il "radicalismo aristocratico" del filosofo tedesco come una nuova sfumatura del suo pensiero né tenervi conferenze di propaganda: un segno del sentimento di sicurezza allora dominante, della tranquillità dell'era borghese che volgeva al tramonto, ma anche un segno che l'esperto critico danese non prendeva seriamente, non alla lettera, la barbarie di Nietzsche, ma la intendeva cum grano salis; e aveva ragione. Attraverso l'estetismo di Nietzsche, che è una furiosa rinnegazione dello spirito a favore della vita bella, forte, spregiudicata, attraverso quel rinnegarsi di un uomo che soffre profondamente della vita, qualcosa di non vero, di non responsabile, di non fidato e di passionalmente istrionico s'insinua nei suoi sfoghi filosofici, qualcosa che deve irrimediabilmente confondere i lettori meno esperti. Non solo è arte quel che egli ci offre; arte è anche saperlo leggere. Nessuna goffaggine o ingenuità è permessa. E’ una lettura che richiede ogni specie di astuzia, d'ironia, di riserve. Chi prende Nietzsche "in senso proprio", alla lettera, è perduto. Con lui succede davvero come con Seneca che egli dice essere un uomo a cui bisogna prestar sempre orecchio ma non "fede e credenza" assolute. C'è bisogno di portare esempi? Il lettore del Caso Wagner quasi non crede ai suoi occhi quando in una lettera al musicista Carlo Fuchs del 1888 improvvisamente legge: "Quel che io dico di Bizet non deve prenderlo seriamente; per me, per quel che io sono, Bizet non può venir assolutamente in questione. Ma come antitesi ironica a Wagner il suo effetto è molto forte". Questo è ciò che resta "a quattr'occhi" dell'entusiastico inno alla Carmen contenuto nel Caso Wagner; ci sbalordisce, e tuttavia non è ancor niente. In un'altra lettera allo stesso musicista dà consigli sul modo migliore di scrivere su di lui come psicologo, scrittore, immoralista: non giudicare mai assiomaticamente, per via di si e di no, ma caratterizzare in una intelligente neutralità. "Non è assolutamente. necessario e nemmeno desiderabile che si prenda partito per me; al contrario, una certa dose di curiosità, come di fronte a una pianta esotica, unita ad un'opposizione ironica, mi parrebbe nei miei riguardi un atteggiamento senza confronto più intelligente. Perdono! Ho scritto delle ingenuità, una piccola ricetta per trarsi felicemente da qualche cosa di impossibile." Ha mai uno scrittore in maniera più insolita messo in guardia contro se stesso? "Antiliberale fino alla cattiveria" egli chiama se stesso. Antiliberale per cattiveria, per un desiderio prepotente di provocare, sarebbe più giusto. Quando nel 1888 l'imperatore dei cento giorni, Federico II, il liberale che aveva sposato una inglese, muore, Nietzsche è commosso e abbattuto come tutto il liberalismo tedesco. "Infine egli era un piccolo barlume di libero pensiero, l'ultima speranza per la Germania. Ora comincia il regime Stoecker; io ne traggo le conseguenze e so già che ormai la mia Volontà di potenza dapprima verrà confiscata in Germania..." Orbene, nulla viene confiscato. Lo spirito dell'epoca liberale è ancora troppo forte, in Germania si può dir tutto. Nel cordoglio di Nietzsche per Federico venne inaspettatamente alla luce qualche cosa di molto modesto, semplice, non paradossale, qualche cosa potremmo dire di vero: l’amore dell'uomo dello spirito, dello scrittore per la libertà che è la sua aria vitale; e a un tratto tutto l'edificio estetico di schiavitù, guerra, violenza, splendide crudeltà, creato dalla sua fantasia, scompare lontano, nella luce di un gioco irresponsabile e di una pittoresca teoria. Tutta la sua vita egli ha imprecato contro "l'uomo teorico", ma egli stesso è quest'uomo teorico par excellence e al cento per cento; il suo pensiero è genialità assoluta, non pragmatica, priva di ogni responsabilità pedagogica, profondamente apolitica; egli è veramente senza rapporto con la vita, quella vita tanto amata, difesa, esaltata sopra ogni cosa, e non si è fatto mai il minimo pensiero di come le sue teorie avrebbero potuto esplicarsi nella vita pratica, politica. E nemmeno se lo son fatti i diecimila professori dell'irrazionale che, alla sua ombra, sono spuntati come funghi in tutta la Germania. Nessuna meraviglia? Nulla infatti meglio del suo teoricismo estetico poteva corrispondere all'indole tedesca. Anche contro i tedeschi, questa gente che ha rovinato la storia europea, egli ha scagliato i fulmini sulfurei della sua critica e ha detto tutto il male possibile. Ma chi è, infine, pii tedesco di lui? Chi ha rimproverato ai tedeschi in maniera ancora una volta esemplare tutto quello per cui essi son divenuti per il mondo un tormentoso problema e uno spavento, e che li ha condotti alla rovina: la passione romantica, l'impulso all'eterno illimitato espandersi dell'io senza un solido oggetto, la volontà che è libera perché non ha meta e si perde nell'infinito? Come vizi propri dei tedeschi egli ha indicato la tendenza al bere e al suicidio. Il loro pericolo è in tutto ciò che lega le forze dell'intelletto e che scatena la passione "perché la passione nei tedeschi si rivolge contro il proprio utile e distrugge se stessa, come quella dell'ubriacone. Lo stesso entusiasmo, ha in Germania meno valore che altrove, perché sterile". Come chiama Zaratustra se stesso? "Conoscitor di se stesso ‑ carnefice di se stesso." In più d'un senso Nietzsche è divenuto storico, ha fatto storia, orribile storia, ed egli non esagerava nel chiamar se stesso: un "tragico fato". Tuttavia Nietzsche ha esagerato esteticamente la sua solitudine. Egli appartiene, ma in una forma estremamente tedesca, a quel generale movimento dell'Occidente che conta fra i suoi i nomi di un Kierkegaard, di un Bergson e di molti altri e che è una rivolta spirituale contro il classico culto della ragione dei secoli XVIII e XIX. Questo movimento ha compiuto la sua opera, o, meglio, non l'ha portata ancora a termine in quanto il suo necessario proseguimento è il ricostruirsi della ragione su nuove basi, la conquista di un nuovo concetto di. humanitas che di fronte al piatto decadere dell'età borghese, tutta compiaciuta di sé, ha acquistato una maggiore profondità. La difesa dell'istinto contro la ragione e la coscienza fu una correzione temporanea. La correzione durevole, eternamente necessaria, resta quella della vita per opera dello spirito, o, se si vuole, della morale. Come legata al suo tempo, come dottrinaria, come inesperta ci appare oggi l'esaltazione romantica che Nietzsche fa del male! L'abbiamo conosciuto in tutta la sua miseria, il male, e non siamo più abbastanza esteti da temere di professare apertamente la nostra fede nel bene e da vergognarci di concetti così banali e di guide cosI comuni come la verità, la libertà, la giustizia. Alla fin fine l'estetismo nel cui segno gli spiriti liberi insorsero contro la morale borghese appartiene all'età borghese, e sorpassar questa significa uscire dall'epoca borghese per entrare in quella morale e sociale. Una visione estetica del mondo è senz'altro incapace di affrontare i Problemi che dobbiamo risolvere, per quanto il genio di Nietzsche abbia contribuito a creare la nuova atmosfera. Una volta egli suppone che nel mondo avvenire della sua visione le forze relgiose potrebbero essere ancora tanto forti da creare una religione "alla Buddha", che cancellasse le differenze delle varie religioni; e la scienza non avrebbe nulla contro un nuovo ideale. "Ma" si affretta ad aggiungere premurosamente "non si tratterà di un generale amore dell'umanità!" E se invece si trattasse appunto di questo? Non dovrebbe trattarsi proprio dell'amore idillico e ottimista, a cui il secolo XVIII consacrò tante tenere lacrime e che, del resto, ha fatto fare immensi progressi alla morale e al costume. Ma quando Nietzsche proclamò: "Dio è morto" Una decisione che significava per lui il sacrificio più grave ‑ per chi la prese, se non per l'uomo, per elevare ed esaltare l'uomo Se fu un ateo, se riuscì ad esserlo, lo fu, per quanto la parola possa avere una risonanza sentimentale da predica evangelica, per amore degli uomini. Egli deve rassegnarsi ad esser chiamato un "umanitario", come deve lasciare che la sua critica della morale venga intesa come un'ultima forma dell'illuminismo. La religiosità di cui egli parla a! disopra delle confessioni non so immaginarmela che legata all'idea dell'uomo come una specie di umanesimo: un umanesimo con un fondamento e un accento religioso che, dopo molte esperienze, dopo esser passato per molte prove, accolga in sé, nel suo rispetto per il mistero dell'uomo, ogni conoscenza di tutti gli elementi sotterranei e demoniaci dell'umana natura. Religione e rispetto: rispetto, prima di tutto, del mistero che è l'uomo. Per quel che riguarda un nuovo ordinamento, una nuova legge, un aderire della società umana alle esigenze del momento storico, poco certamente giovano deliberazioni di conferenze, misure tecniche, istituzioni giuridiche, e un world government resta un'utopia razionale. Necessaria è dapprima una trasformazione del clima spirituale: un nuovo senso per la complessità e la nobiltà dell'essere umano, un sentimento generale che tutto pervada, a cui nessuno si sottragga, che ciascuno riconosca nel. suo intimo come il giudice supremo. Perché questa mentalità nasca e si affermi, qualche cosa possono fare i poeti e gli artisti, agendo a poco a poco dall'alto in basso e su larghi strati. Essa non può venire creata né imposta, ma vissuta e sofferta. Che filosofia non sia fredda astrazione, ma esperienza, sofferenza, sacrificio per l'umanità, questo è ciò che Nietzsche ha saputo, e di cui ha dato l'esempio. In questa sua conoscenza egli è stato spinto verso le gelide altezze di un errore grottesco, ma l'avvenire era veramente il regno del suo amore e alle generazioni future egli apparirà come a noi, la cui giovinezza gli deve una riconoscenza infinita, una figura di delicata e veneranda tragicità, circondata dal fiammeggiare dei lampi di un mondo che si rinnova. |