Il pensiero critico di D. Losurdo |
Domenico LosurdoNietzsche filosofo "totus politicus"diIl 14 aprile 1999, mentre infuriava la guerra contro la Jugoslavia, su "la Stampa" appariva una breve lettera firmata da Gianni Vattimo che così suonava o tuonava: "Ma Domenico Losurdo, Luciano Canfora, Costanzo Preve, Livio Sichirollo e gli altri firmatari della lettera di solidarietà al popolo serbo, che invitano Milosevic a "ristabilire la convivenza tra i diversi gruppi etnici" nonostante l'aggressione imperialista (colpevole di averla turbata?), hanno sentito parlare della Bosnia, degli stupri etnici, dei campi di concentramento, della pulizia razziale cominciata da Milosevic dieci anni fa?". Due giorni dopo, sempre "la Stampa" ospitava una replica firmata dal sottoscritto. Dopo una ricostruzione assai diversa della vicenda del Kosovo, la mia lettera così si concludeva: "Vattimo si è meritatamente conquistato una fama internazionale come interprete di Nietzsche e Heidegger. Peccato che ora sembri perdere di vista un aspetto essenziale della loro lezione: il pathos morale può veicolare le peggiori crociate sterminatrici". Prescindiamo qui dagli aspetti più immediatamente politici di questo scambio di lettere (d'altro canto, sulla nuova guerra che si profila all'orizzonte, Vattimo sembra per fortuna voler assumere un atteggiamento del tutto diverso). E' più importante un altro aspetto. Già dalla polemica appena vista emergeva un contrasto filosofico, che verteva e verte non sulla grandezza del filosofo in questione, bensì sugli insegnamenti che da lui si possono e si devono ricavare. Anzi, dal mio punto di vista era ed è chiaro che la lettura innocentista di Nietzsche gli fa un grave torto, rendendo impossibile la comprensione della possente carica demistificatrice che dispiega il suo "radicalismo aristocratico". Radicalismo aristocratico e rivendicazione della schiavitù "Radicalismo aristocratico": in questa definizione, che si deve alla penna di un amico e ammiratore (Georg Brandes), Nietzsche si riconosce in pieno. Ed essa sembra ben caratterizzare un atteggiamento politico che non si limita a condannare come espressioni di "decadenza" e "degenerazione" lo Stato sociale, i sindacati, la diffusione dell'istruzione, la democrazia, il regime parlamentare. Andando ancora oltre, il filosofo non esita a rivendicare la permanente validità dell'istituto della schiavitù quale fondamento della civiltà. L'ermeneutica oggi dominante preferisce rimuovere o leggere in chiave allegorica questo motivo che accompagna come un'ombra l'opera di Nietzsche in tutto l'arco della sua evoluzione. Epperò, a rinviarci alla storia e alla politica sono i testi stessi del filosofo, che contengono riferimenti sprezzanti a Beecher-Stowe, l'autrice della Capanna dello zio Tom, il celebre romanzo abolizionista che tanto eco suscita in Europa e nella stessa Germania. Ancora più significativa è l'osservazione contenuta in Umano troppo umano: tutti desiderano l'"abolizione della schiavitù"; eppure bisogna ammettere che "gli schiavi sotto ogni riguardo vivono più sicuri e più felici del moderno operaio (Arbeiter) e il lavoro (Arbeit) degli schiavi è ben poca cosa rispetto a quello dell'operaio", dell'Arbeiter. Di nuovo, siamo rinviati alla guerra di Secessione e all'aspro dibattito che l'ha preceduta e accompagnata: ad insistere sul fatto che la condizione degli operai liberi non è migliore di quella degli schiavi, a contrapporre la schiavitù salariata, descritta con implacabile durezza di toni, alla schiavitù vera e propria, per lo più mistificatoriamente immersa in un'ovattata atmosfera patriarcale, ad agitare tale argomento sono i difensori della schiavitù. E' bene allora precisare il quadro storico in cui si collocano la vita e la riflessione di Nietzsche. La sua giovinezza cade nel mezzo della guerra di Secessione: in riferimento alla situazione del Sud degli USA, Tocqueville sottolinea come pene severe proibiscano di insegnare agli schiavi a leggere e scrivere. Siamo portati a pensare a Nietzsche: "Se si vogliono degli schiavi - e di essi si ha bisogno - non si devono educare come padroni". E' sempre Tocqueville ad osservare che nel Sud degli USA il valore tenuto in maggior considerazione dai padroni bianchi è l'otium, mentre "il lavoro si confonde con l'idea di schiavitù". E di nuovo il pensiero corre a Nietzsche, al suo sarcasmo sulla "dignità del lavoro" e alla sua denuncia della "famigerata volgarità degli industriali dalle rosse mani grassocce", essi stessi contaminati dalla moderna frenesia del lavoro. Negli anni successivi al 1865, alla cancellazione della schiavitù nella repubblica nord-americana corrisponde la cancellazione della servitù della gleba in Russia; senonché, forme di servaggio o semiservaggio persistono nei due paesi. L'Inghilterra, che nel 1833 ha abolito la schiavitù nelle sue colonie, procede poi, negli anni '70 e '80, al blocco navale delle coste dell'Africa orientale per impedire la persistente tratta dei neri in direzione soprattutto del Brasile che abolisce la schiavitù, e il relativo commercio degli schiavi, solo nel 1888, l'anno in cui ormai volge al termine la vita cosciente del filosofo. Infine, è da tener presente che, mentre giustificano la loro espansione in nome dell'abolizione della schiavitù nelle colonie, le grandi potenze sottopongono gli "indigeni" a rapporti di lavoro servili. E' la conferma, agli occhi di Nietzsche, dell'ineludibilità di un istituto che a torto e invano i filantropi moderni pretendono di abolire. Il dibattito sulla schiavitù irrompe con forza anche sul terreno dell'antichistica: nel 1848 Henri Wallon pubblica la sua Histoire de l'esclavage dans l'antiquité e, nella lunga prefazione (un libro nel libro), prende netta posizione a favore dell'abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, decisa dalla repubblica scaturita dalla rivoluzione del febbraio 1848. Ben si comprende il coinvolgimento dei filologi. Wallon osserva che, nell'opporsi alla soppressione della schiavitù nelle colonie francesi, "i partigiani dello status quo, fanno appello all'antichità". Anche negli USA la polemica anti-abolizionista celebra ripetutamente la splendida fioritura della Grecia antica, impensabile senza la presenza di quel benefico istituto, tanto odioso a sciagurati ideologi privi del senso della realtà. Negli anni che precedono lo scoppio della guerra di Secessione, lo studio dei classici latini e greci è al centro del curriculum delle scuole e delle Università nel Sud. Particolare attenzione viene riservata ad Aristotele, ed è per l'appunto tenendo presente la definizione aristotelica dello schiavo che Nietzsche parla della stragrande maggioranza degli uomini come "macchine intelligenti" ovvero come "strumenti di trasmissione". Onnipresente in Nietzsche e nel dibattito culturale e politico della seconda metà dell'Ottocento, il tema della schiavitù dilegua o si trasforma in un'innocente metafora nell'ambito dell'odierna ermeneutica dell'innocenza (Bataille, Deleuze, Vattimo, Colli, Montinari ecc.). Il filosofo viene così "salvato" ma a caro prezzo, attribuendogli una limitata capacità di intendere e di volere in campo politico: egli avrebbe fatto costante ricorso alla "metafora" della schiavitù, essendo del tutto all'oscuro dell'aspra polemica e della dura lotta che, su tale tema, divampavano attorno. Otium et bellum, "guerra e arte" E, invece, per Nietzsche non ci sono dubbi: sono le fatiche e gli stenti degli schiavi a rendere possibile la civiltà, consentendo ad una ristretta minoranza di uomini la libertà dal lavoro e dalle preoccupazioni materiali e dunque il godimento dell'otium e la promozione della cultura e dell'arte. Tale aristocrazia si impegna a custodire la sua "distinzione" rispetto non solo alle masse lavoratrici ma anche, come sappiamo, ai capitalisti dalle "mani grassocce". Questi ultimi tendono a condividere le idee e i gusti delle prime: gli uni e le altre si riconoscono in una "civilizzazione" all'insegna del comfort materiale e di un ideale filisteo di sicurezza, sono incapaci di comprendere da un lato i valori della cultura, della bellezza, dell'arte, dall'altro i valori del rischio, del coraggio, dell'avventura, della guerra. E' in questo quadro che bisogna collocare l'inno alla guerra in Nietzsche, che non si stanca di celebrare le figure dei grandi condottieri, quali Alessandro, Cesare, Napoleone, e che, in particolare, raccomanda il "militarismo" di Napoleone come "cura" necessaria contro l'odiata "civilizzazione". Senonché, come per la rivendicazione della schiavitù, anche in questo caso interviene la lettura in chiave metaforica ad immergere il filosofo in un bagno di innocenza. In Vattimo la celebrazione nietzscheana della guerra diviene la "negazione nietzscheana dell'unità dell'essere" ovvero l'"insistenza sul conflitto, il caos, il carattere interpretativo di tutto". Di nuovo dileguano i conflitti politici e sociali del tempo, di nuovo la storia viene messa alla porta come un'intrusa. In realtà, nello sviluppare il suo discorso sulla guerra, Nietzsche si rivolge ad una classe ben determinata. La "nuova nobiltà", di cui il radicalismo aristocratico si augura l'avvento o la riscossa, è chiamata a riaffermare la sua "distinzione", di contro alla dilagante volgarità dell'utilitarismo e del pensiero meramente calcolante, agitando la bandiera dell'otium et bellum. Assai caro al nostro filosofo, tale motto descrive e trasfigura le condizioni di vita e i valori dell'aristocrazia europea della seconda metà dell'Ottocento. Mentre fonda la sua ricchezza e il suo splendore sul possesso della terra, coltivata da una popolazione agricola su cui pesa ancora il retaggio feudale, la nobiltà occupa per tradizione gli alti gradi dell'apparato militare. Il rapporto signore-servo si riproduce nell'esercito come rapporto ufficiale/soldati; il beneficiario dell'otium è al tempo stesso il protagonista del bellum, così come a sopportare e ad aborrire il peso dell'otium e del bellum è la massa dei servi o dei figli di servi. Naturalmente, proprio perché unifica l'aristocrazia europea nel suo complesso e ha di mira in primo luogo il confitto sociale interno, la parola d'ordine dell'otium et bellum è tutt'altro che sinonimo di agitazione sciovinistica intra-europea. Ciò vale per l'Antico regime che sussiste fino allo scoppio della prima guerra mondiale così come vale per Nietzsche: l'aristocrazia riafferma la sua egemonia e la sua "distinzione" impegnandosi in guerre che hanno come bersaglio la plebaglia socialista nella metropoli capitalistica e la marmaglia dei barbari nelle colonie. Alcuni decenni più tardi, in Germania, Langbehn chiama "guerra e arte" a contrastare la deriva dell'involgarimento plebeo e democratico. Ad esprimersi così è un autore che si considera "discepolo" di Nietzsche. In effetti, la parola d'ordine appena vista riecheggia il motto otium et bellum, dove l'otium è la condizione indispensabile per il prodursi della civiltà e, in primo luogo, dell'arte. Lo dimostra in particolare l'esempio della Grecia. E alla Grecia sulla scia del suo Maestro, fa riferimento anche Langbehn: ""guerra e arte" è una parola d'ordine greca, tedesca, ariana". "Allevamento", "superuomo" e "sottouomo" Al fine di tener ferma e invalicabile la barriera che deve separare i signori dagli schiavi, Nietzsche rinvia come ad un modello al codice Manu e al mondo induista delle caste. Qui non c'è ombra di mobilità sociale: il dominio signorile e il lavoro si trasmettono ininterrottamente di generazione in generazione. Siamo come in presenza di "razze" contrapposte, quella degli ariani (il superiore popolo conquistatore) e quella dei nativi sconfitti e soggiogati. Norme rigorose vietano il mescolamento delle classi e delle razze (la miscegenation contro cui, in questo periodo di tempo tuonano nel Sud degli Stati Uniti i teorici della schiavitù e dell'assoggettamento dei neri). L'ultimo Nietzsche sottolinea compiaciuto come il codice Manu colpisca con particolare durezza "l'uomo-non-da-allevamento (Nicht-Zucht-Mensch), l'uomo ibrido, il ciandala". Nell'esprimersi in tal modo, il filosofo risente chiaramente dell'influenza di una nuova "scienza", l'eugenetica, inventata in Inghilterra da Galton, cugino di Darwin. Ora è possibile perseguire in modo "scientifico" l'"allevamento" (Züchtung) della razza dei signori e della razza dei servi, sbarazzando al tempo stesso la società dei "materiali di rigetto e di scarto". Emergono così motivi più che mai inquietanti, e più sollecitamente che mai l'ermeneutica dell'innocenza interviene a mettere al riparo Nietzsche da ogni contaminazione con la politica e, a maggior ragione, con la politica eugenetica. Non c'è da preoccuparsi - assicura Vattimo - "questo biologismo è allegoria". Di conseguenza, tutte le volte che può egli traduce Züchtung non già con "allevamento" bensì con "educazione". Che importa se Crepuscolo degli idoli dichiara in modo esplicito che "l'allevamento di una determinata specie umana" rientra tra i "termini zoologici"? L'ultimo Nietzsche invoca rigorose misure legislative per bloccare la procreazione dei malriusciti e dei falliti della vita. Se si vuole realmente sventare il pericolo che il delinquente contribuisca a formare una "razza della delinquenza", non si deve esitare a "castrarlo". E' così che bisogna procedere anche "per i malati cronici e nevrastenici di terzo grado", per i "sifilitici": si tratta insomma di impedire la procreazione "in tutti i casi in cui un figlio sarebbe un delitto". Non si ferma qui la politica eugenetica di Nietzsche, che non solo irride "il divieto biblico "non uccidere"" ma che giunge ad enunciare un programma estremamente radicale: "Annientamento di milioni di malriusciti", "annientamento delle razze decadenti", s'impone "un martello con cui frantumare le razze in via di degenerazione e morenti, con cui toglierle di mezzo per aprire la strada a un nuovo ordine vitale". Più evidente che mai risulta l'inconsistenza della lettura allegorica. Di cosa sarebbe metafora l'appello alla castrazione e persino all'annientamento dei malriusciti oltre che delle "razze decadenti"? E, tuttavia, in Vattimo il processo di volatilizzazione e sublimazione si conclude con la proposta di tradurre Übermensch con "oltreuomo", invece che con "superuomo": a Nietzsche starebbe a cuore solo il "trascendimento" dell'"uomo della tradizione". In realtà, nel condannare "l'egoismo dei malati", che si attaccano ad una vita priva di valore e in tal modo aggravano la "degenerazione" (Entartung), Zarathustra proclama: "In alto va la nostra strada, dalla specie (Art) alla super-specie" (Über-Art). Chiara è la contrapposizione del "super-uomo" e della "super-specie" alla dilagante "degenerazione". E' impresa vana voler separare in Zarathustra il grande e fascinoso moralista (il critico implacabile dell'"uomo della tradizione") dal brutale teorico del radicalismo aristocratico. Ma la traduzione vattimiana implica un'ulteriore rimozione. C'è un rapporto tra la celebrazione del "superuomo" (Übermensch) e la denuncia del "sottouomo" (Untermensch), che un ruolo così cruciale e così funesto svolge più tardi nell'ambito dell'ideologia e della pratica del Terzo Reich? Rimozione della storia e ricerca di un capro espiatorio Ossessionata dalla preoccupazione di evitare ogni possibile elemento di contiguità tra Nietzsche e l'ideologia nazista, l'odierna ermeneutica dell'innocenza per un verso rimuove o trasfigura i motivi più inquietanti e ripugnanti del grande filosofo, per un altro verso s'impegna nella caccia al capro espiatorio: ad aver tentato di distruggere il mondo incantato delle metafore sono la "manipolazione" di Elisabeth o le mistificazioni di Lukács. Senonché, questa caccia è al tempo stesso inconcludente e superflua. Mentre il filosofo è ancora in vita, l'amico o l'ex-amico Rohde condanna la sua "morale cannibalesca". Qualche anno dopo, un discepolo di Feuerbach, Julius Duboc, osserva che dagli scritti di Nietzsche emana un "puzzo di incendio e di bruciato", un'"aria carica di miasmi in cui è immersa l'aristocrazia canagliesca dei suoi superuomini". D'altro canto, agli inizi del Novecento grandi sociologi come Pareto e Weber e, ai giorni nostri, storici eminenti quali Mayer, Nolte, Ritter, Hobsbawm, Elias, tutti concordano, sia pure a partire da orientamenti tra loro assai diversi, nel collocare Nietzsche nell'ambito della reazione antidemocratica di fine Ottocento. Ma, oltre che inconcludente e ingiusta, la caccia al capro espiatorio è fondamentalmente superflua. E' precipitoso leggere come una diretta anticipazione del nazismo l'"annientamento delle razze decadenti" invocato da Nietzsche: è una pratica in atto nella seconda metà dell'Ottocento (si pensi alla cancellazione dalla faccia della terra dei pellerossa negli Stati Uniti e degli "indigeni" in Australia e nell'Africa del Sud); e questa pratica è così largamente accettata e condivisa che ad essa non hanno nulla da obiettare neppure autori che si dichiarano liberali (Burckhardt, Renan ecc). Certo, è a partire da questo contesto ideologico e politico che bisogna prendere le mosse per comprendere poi la genesi dell'ideologia nazista; ma questa vicenda va al di là non solo di Nietzsche ma anche della Germania nel suo complesso. Ritorniamo alla coppia concettuale Übermensch/Untermensch. Rosenberg, l'ideologo pressoché ufficiale del Terzo Reich, osserva che il merito di aver per prima elaborato la categoria di Untermensch spetta a Lothrop Stoddard. Chi è costui? E' un pubblicista statunitense che ha studiato in Germania e che conosce e cita Nietzsche, dal quale è largamente influenzato. In polemica contro l'"idolo" della democrazia, Stoddard celebra anche lui la "nuova nobiltà" e rende omaggio non solo a Galton e all'eugenetica - chiamata a favorire lo sviluppo di una "super-razza" (super race) così come da Zarathustra è chiamata a favorire lo sviluppo di una "super-specie" (Überart) - ma anche a Teognide e alla sua battaglia contro i matrimoni misti tra nobiltà e plebe. Come si vede, la lettura di Nietzsche ha lasciato tracce vistose persino nei dettagli. Denunciando l'ulteriore accelerazione della degenerazione moderna e democratica, Stoddard mette in guardia contro il pericolo mortale che per la civiltà rappresenta l'Under Man (ovvero l'Untermensch della traduzione tedesca), dal pubblicista statunitense esplicitamente contrapposto allo Übermensch di nietzscheana memoria, sia pur diversamente interpretato. Questa vicenda linguistico-ideologica è la conferma per un verso della vacuità della lettura innocentista di Nietzsche, per un altro verso dell'insostenibilità della teoria che pretenda di spiegare l'ideologia nazista a partire esclusivamente da un diabolico Sonderweg tedesco. Ad elaborare una categoria-chiave del discorso ideologico nazista è un autore (Stoddard) che dialoga sì con Nietzsche ma che, al tempo stesso non solo è americano ma può anche vantare il solenne elogio di due presidenti USA, e cioè Harding e Hoover. Una critica anticipata della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani" Abbiamo visto che trasformare in un'innocente metafora il discorso di Nietzsche sulla schiavitù significa fare grave torto ad un autore che, sin dalla sua adolescenza, si è misurato profondamente con la storia e la politica. Proviamo ora a far intervenire il contesto storico. Ecco allora che la stessa celebrazione della schiavitù finisce col dispiegare un'insospettata efficacia critica. Essa cade nel momento in cui il colonialismo europeo trasfigura la sua espansione come un contributo decisivo alla causa della lotta contro la barbarie della schiavitù. Viene così bandita una Crociata, talvolta intesa nel senso letterale e cristiano del termine; senonché, la sua avanzata va di pari passo con l'assoggettamento della popolazione "indigena" al lavoro più o meno coatto e persino con una vera e propria recrudescenza del lavoro servile, nonché con la disgregazione e la distruzione della cultura indigena. E dunque, la celebrazione nietzscheana della schiavitù s'intreccia, paradossalmente, con la demistificazione delle reali pratiche coloniali di asservimento ed etnocidio: ""L'abolizione della schiavitù", questo presunto contributo alla "dignità dell'uomo", è in realtà l'annientamento di una stirpe profondamente diversa, mediante l'affossamento dei suoi valori e della sua felicità". Negli ultimi decenni dell'Ottocento, Bismarck decide di agitare anche lui la parola d'ordine dell'abolizione della schiavitù nel mondo coloniale e dell'espansione della civiltà e dei principi umanitari. Ed ecco rivolgersi a suoi collaboratori in questi termini: "Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?". Sull'onda dell'indignazione morale da essi suscitata sarebbe stato poi più agevole bandire la crociata contro l'Islam schiavista e rafforzare il ruolo internazionale della Germania. Si potrebbe commentare con Al di là del bene e del male: "Nessuno mente tanto quanto l'indignato". Non c'è dubbio che una critica della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani" non possa prescindere dalla lezione di Nietzsche. E' un fatto assai positivo che Vattimo non si lasci più incantare dalle sirene della guerra umanitaria. Forse può essere per lui l'occasione di ripensare e di rimettere in discussione la lettura innocentista di Nietzsche
Conferenza di Domenico losurdo: Nietzsche, il ribelle aristocraticoGrazie di questo invito e grazie di questa affettuosa presentazione. Grazie anche dei complimenti anche se i complimenti, inevitabilmente, rischiano di mettere l'autore, in un certo senso, in difficoltà, perché l'ascoltatore può porsi la domanda, ma, insomma, non contento di avere scritto tanti libri adesso pubblica un libro di oltre 1100 pagine, deve essere decisamente un grafomane. Allora, io comincio, tentando una giustificazione dell'ampiezza del lavoro e credo che il primo punto da tenere presente è che Nietzsche, nonostante la prosa scintillante, o forse proprio a causa di questa prosa scintillante, è un autore assai difficile. Vorrei cercare di spiegare questa difficoltà. Noi proviamo ad aprire Nietzsche, idealmente. Ed ecco che a prima vista ci imbattiamo in una serie di contraddizioni. Dicevo a prima vista. Comincio a fare un esempio. Credo che nessuno più fascinosamente di Nietzsche ha criticato le conseguenze nefaste, acritiche, della divisione intellettuale del lavoro. Sono veramente pagine mirabili quelle in cui lui polemizza contro gli studiosi che si concentrano su un solo dettaglio. Sanno tutto di quel dettaglio, ma nulla di più. Lavorano con perseveranza su di una viterella, cito Nietzsche, si riducono essi stessi ad una viterella. La loro diligenza ha qualche cosa dell'enorme stupidità della forza di gravità. In un certo senso, colpisce molti di noi professori universitari questa dichiarazione così dura. In altre pagine in cui Nietzsche, riprendendo Hölderlin, proprio in riferimento, in particolare, agli intellettuali, dice che gli intellettuali si sono ridotti a frammenti, è come muoversi su di un campo di battaglia. Ci sono braccia e spezzoni di corpo, ma non c'è l'uomo intero, nel senso che non c'è quest'intellettuale capace di abbracciare la totalità e proprio, abbracciando la totalità capace di dispiegare una visione critica. Pagine dicevo assolutamente fascinose. Ma ecco, altre pagine, sempre su questo tema, in cui Nietzsche parla della stragrande maggioranza dell'umanità come macchina da lavoro e che proprio in quanto macchine da lavoro devono essere escluse da qualsiasi istruzione. Se si vogliono schiavi, è Nietzsche che parla, si è stolti ad educarli da padroni. Dunque, da un lato questa visione del sapere come totalità critica, dall'altro lato la negazione per la stragrande maggioranza dell'umanità anche dell'istruzione più elementare. Oppure, lasciando adesso da parte lo sviluppo intellettuale e, parlando del corpo, certamente chi ha scritto pagine più fascinose di Nietzsche per quanto riguarda il problema della riabilitazione della carne? Mirabile è la polemica contro la sessuofobia dell'età vittoriana, così come la polemica contro la sessuofobia dell'età cristiana. E, nel corso di questa polemica, Nietzsche cita con grande calore il codice Manu, testo classico dell’Induismo, che, è Nietzsche che così si esprime, sa parlare con un ingenuità e innocenza della bocca di una donna o del seno di una fanciulla. Chi non si sente attratto da queste pagine di Nietzsche? Nell'Anticristo, in quest'opera, nella stessa opera, però noi vediamo che Nietzsche celebra sempre il codice Manu, perché prevede per le bambine dei Candala, cioè, dell'ultima casta, anzi di coloro che sono fuori da qualsiasi casta, comunque, dello stato infimo, prevede l'ablazione delle piccole labbra e, cioè, la mutilazione sessuale. Oppure, Nietzsche ha scritto pagine memorabili contro le Crociate e lo spirito dei Crociati. Cito ancora. Cos'erano i Crociati? Indubbiamente essi volevano saccheggiare e l'oriente era ricco. Si sia dunque imparziali. Le crociate: una superiore pirateria e null’altro. E non soltanto le crociate, ma Nietzsche critica, in termini fulminanti, lo spirito di crociata. Ancora una citazione da Nietzsche: una causa la si confuta deponendola riverentemente sul ghiaccio, in questo modo si confutano anche i teologi. I teologi sono, così li dipinge Nietzsche, come delle teste calde fondamentaliste. E allora contro queste teste calde la cura del ghiaccio è la cura più opportuna. Ma ecco che in altre pagine, invece di procedere ad una critica come quella che abbiamo visto contro le Crociate e lo spirito di crociata, proclama, in un'altra citazione, una guerra mortale contro il vizio e la contronatura rappresentate dal cristianesimo. Bisogna radere al suolo il luogo maledetto dove il cristianesimo ha covato le sue uova di basilisco, è la Chiesa, la verità dà battaglia alla millenaria menzogna. È chiaro che vi qui lo spirito di crociata è ricomparso in pieno. E ancora, Nietzsche è colui che ha avanzato un concetto debole di verità, sempre citando l'Anticristo, forse qualcuno di voi l’ha letto, riferisce il colloquio, lo scambio tra Pilato e Gesù Cristo. Pilato che dice "quid est veritas", cos'è la verità, e Cristo dice "ego sum veritas", io sono la verità e Nietzsche che commenta: le parole di Pilato, questo scetticismo, questo rifiuto di un’idea così enfatica di verità, le parole di Pilato, "quid est veritas", che cos'è la verità, sono le uniche cose valide in tutto il Nuovo Testamento. Mentre, invece, è chiaro che Gesù lì fa la figura del fondamentalista. Crede persino di essere la verità. Ma sempre nell'Anticristo, quindi a poca distanza, Nietzsche dichiara che chi non ha risposto alla domanda che cos'è la verità, in realtà, è totalmente fuori strada. Addirittura, nella corrispondenza dichiara di essere lui il genio della verità in contrapposizione a Wagner che rappresenta il genio della menzogna. E ancora in Ecce Homo, Nietzsche giunge a definirsi come quel primo spirito retto nella storia dello spirito, quello spirito con il quale la verità è pervenuta a giudicare la falsa moneta di quattro millenni. È chiaro che qui c'è una visione più che esaltata della verità, altro che idea debole di verità. Infine, l'ultimo punto, l'ultima contraddizione apparente, sottolineo anche il termine apparente, che voglio far notare, nella Gaia Scienza, altro dei testi fondamentali di Nietzsche, si parla con forza della caccia alle streghe, si condanna con forza questa caccia alle streghe che per tanto tempo ha infuriato, non solo nell'Europa medievale, ma addirittura fino al ‘700 in certi casi. Anche in questo caso abbiamo delle pagine mirabili. Però, in altre pagine si invoca in modo esplicito l'annientamento delle razze decadenti, l'annientamento di milioni di esseri malriusciti e si trovano altre dichiarazioni che vanno in questa direzione. Noi potremmo persino usare quest'immagine. Se noi proviamo ad incolonnare su di una colonna, tanto per intenderci, la colonna sinistra, le dichiarazioni in cui Nietzsche celebra il sapere come totalità e come criticità, celebra la riabilitazione della carne, condanna lo spirito di crociata, condanna la caccia le streghe, ha una visione debole della verità, ecco che abbiamo un filosofo che è un grande teorico della emancipazione, della compiuta emancipazione dell'individuo a livello non soltanto intellettuale, ma ad ogni livello. E se, invece, proviamo ad incolonnare su un'altra colonna, per così dire nella colonna destra, le altre dichiarazioni, quelle dichiarazioni che dichiarano che bisogna negare persino l'istruzione elementare alle macchine da lavoro, la stragrande maggioranza dell'umanità, che prevedono persino la mutilazione sessuale, invocano l'annientamento di milioni di malriusciti e delle razze decadenti, ecco che abbiamo un Nietzsche protofascista e protonazista. In un certo senso io potrei fare una battuta, me la consentite una battuta. A volte la storiografia mi fa pensare, la storiografia filosofica su Nietzsche, a quelle storielle che si raccontano sui due carabinieri. In questo caso uno di questi due carabinieri sa leggere solo la colonna sinistra l'altro la destra. Il primo sforzo che ho cercato di fare è stato quello di leggere entrambe le colonne e questo ha comportato, naturalmente, anche un po' più di spazio. Ma non è questo il problema principale, non si tratta soltanto di tener presente entrambe le dichiarazioni, sarebbe ancora peggio, come dire, assumere una posizione intermedia per cui Nietzsche sarebbe un po' in un modo un po' in un altro. Perché questo sarebbe ancora peggio? Perché il problema da spiegare è questo. Perché Nietzsche è un grande filosofo? Io sono convinto che Nietzsche sia un grande, un grandissimo filosofo, però bisogna spiegare come un grande, un grandissimo filosofo incorra in queste contraddizioni che, a prima vista, sono così clamorose, così pacchiane. Se non si spiega questo, secondo me, non si riesce a salvare Nietzsche come un grande, un grandissimo filosofo. Naturalmente c'è un altro metodo, quello contro il quale polemizzo. È quello per cui si fa una lettura musicale, artistica di Nietzsche. È chiaro che questa lettura, in qualche modo, comporta una selezione, se non una vera e propria censura, perché è difficile pensare che siano pagine musicali o artistiche quelle che invocano l'annientamento di milioni di malriusciti, l'annientamento delle razze decadenti. Io ho cercato di seguire una strada diversa e mi sono posto un problema. Ma, insomma, quest'atteggiamento di Nietzsche, che ho già spiegato, è veramente un atteggiamento che lo colloca in una posizione decisamente solitaria, per cui non sarebbe possibile trovare nessun punto di riferimento e non ci sarebbe alcuna possibilità di accostamento? In quanto storico, e cerco di praticare questa disciplina, richiamo l'attenzione, come esempio, e se ne potrebbero fare diversi altri, su una grande personalità statunitense quasi contemporanea di Nietzsche, cioè, precede Nietzsche di uno, due decenni. Si chiama Calhoun, questa personalità ed è stato anche vicepresidente gli Stati Uniti. Siamo alla metà dell'800 e noi in Calhoun leggiamo pagine assolutamente eloquenti sull'inviolabilità della sfera privata di libertà, sulla inammissibilità dell'intervento dello Stato nella sfera privata di libertà. Sono pagine assai eloquenti. C'è però da aggiungere che questo stesso Calhoun insiste sul bene positivo che è la schiavitù degli neri. È in contraddizione Calhoun? Calhoun rifiuterebbe di parlare di contraddizione. Che contraddizione c'è dal suo punto di vista nel pensare una comunità ristretta nell'ambito della quale vige la libertà, la tolleranza, ma al di fuori della quale c’è sia la schiavitù sia l'annientamento delle razze decadenti di cui parla Nitzsche, perché in questo momento va avanti, ovviamente, la cancellazione dei pellerossa dalla faccia della terra? Dal punto di vista di Calhoun non c'è nessuna contraddizione e Calhoun, contro gli abolizionisti, cioè coloro che volevano abolire l'uso della schiavitù, usa toni sprezzanti. Questi abolizionisti sono animati da uno spirito fanatico, di crociata, missionario. Credono di sapere che cos'è la verità, credono di esser loro stessi la verità. In questo caso Calhoun ha una visione debole della verità, allorché polemizza contro la carica missionaria degli abolizionisti. Però nel delimitare in modo preciso la comunità fornita di senso, per la quale vige la regola della libertà, la comunità bianca rispetto ai barbari, in questo caso è chiaro che Calhoun, invece, semmai, fa riferimento ad un senso forte della verità. > Calhoun nel celebrare l’inviolabilità della sfera privata si richiama tra gli altri ad un grande classico della tradizione liberale, Locke. Ma anche in Locke, il padre del liberalismo come tutti noi sappiamo, anche in Locke si presenta quel fenomeno che ho già cominciato ad illustrare, nel senso che Locke scrive pagine mirabili contro il potere assoluto del monarca, ma Locke considera ovvia e legittima la schiavitù nelle colonie, considera ovvio e legittimo il potere assoluto dei padroni bianchi sugli schiavi neri. Ecco allora l'interpretazione che ho cercato di dare di Nietzsche. Cioè, Nietzsche rappresenta, in questo senso, il momento culminante anche l'espressione cosciente di tutta una tradizione occidentale, di una caratteristica di fondo della storia del pensiero occidentale, nel senso che la celebrazione della libertà, la celebrazione dell'emancipazione valgono per una comunità ristretta, ma non esclude né la schiavizzazione dei neri né la cancellazione delle razze decadenti. Significa che non dobbiamo imparare nulla da Nietzsche? Assolutamente no, non è questo il mio punto di vista. Continuo ad insistere sul fatto che si tratta di un grandissimo filosofo. Non impariamo da Locke? È giusto imparare da Locke, è giusto imparare, ma senza trasfigurare Locke. Certo sui manuali di storia della filosofia si legge che Locke è il teorico della libertà, ma è chiaro che questa è una cretinata, permettetemi di usare questa espressione, perché considerarlo un teorico della libertà significa considerare una grandezza trascurabile i neri. E, tuttavia, da Locke si può e molto si deve imparare per il fatto che, sia pure per una comunità ristretta, è il teorico della limitazione del potere. E ogni pensiero che oggi voglia porsi il problema della limitazione del potere, andando al di là dei limiti delle paurose clausole di esclusione di Locke, tuttavia, deve tenere presente le osservazioni preziose che Locke fa a proposito della limitazione del potere. Questo in misura ancora più ampia vale per Nietzsche, perché Nietzsche, certamente, ha ristretto in modo ancora più drastico la comunità dei signori, la comunità di coloro per i quali vige la regola della libertà. Ha reso ancora più invalicabile la barriera tra questa comunità e i barbari, barbari tra virgolette, però nell'ambito di questa comunità, certamente, ha pensato, si è sforzato di pensare, un'emancipazione non soltanto sul piano politico, ma come ho spiegato, anche sul piano intellettuale, anche per quanto riguarda la riabilitazione della carne. E non è soltanto su questo punto che possiamo imparare da Nietzsche. Io sono convinto che Nietzsche è un grandissimo filosofo. È un grandissimo filosofo, ma noi possiamo capire che è un grandissimo filosofo, proprio a partire dal suo progetto dichiaratamente reazionario, polemizzando contro il socialismo, la democrazia, il parlamentarismo. Prendiamo contro il socialismo. Intanto, lui ha aperto in modo grandioso una prospettiva storica, nel senso che in qualche modo ha delineato un ciclo della rivoluzione che è bimillenario. Se vogliamo capire il socialismo procediamo a ritroso verso la rivoluzione francese e già i teorici della restaurazione dicevano che in qualche modo la rivoluzione francese è iniziata con Lutero, perché Lutero aveva rinnegato l'autorità sul piano religioso, mentre poi la rivoluzione francese nega quest'autorità sul piano politico. Ma Nietzsche è molto più radicale, Nietzsche sa benissimo che dopo la Riforma protestante c’è stata la rivoluzione puritana in Inghilterra. Nietzsche sa benissimo che l'abolizione dell'istituto della schiavitù negli Stati Uniti è stata spesso propagandata dai cristiani. I cristiani hanno svolto, quindi, un ruolo importante nell’abolizione dell'istituto della schiavitù negli Stati Uniti. E procede, quindi, a ritroso. Lutero era cristiano e prima ancora di Lutero c'erano movimenti pauperistici ispirati dal cristianesimo. Ed ecco che Nietzsche scopre quel che oggi noi chiamiamo la "longue durée", questa "lunga durata", per cui la rivoluzione sarebbe iniziata già con la predicazione evangelica dell'uguaglianza, sia pur un'uguaglianza declinata soltanto in termini religiosi. Nel condannare la rivoluzione, Nietzsche, individua con lucidità ed anche con genialità le debolezze del progetto rivoluzionario. Consentitemi qui di procedere speditamente. Quali erano le debolezze del progetto rivoluzionario? Nietzsche ha criticato ed ha mostrato le debolezze di quelle che erano le due ideologie della rivoluzione. La rivoluzione, la predicazione del socialismo, in quel periodo si richiamava o alla morale, in nome della giustizia, in nome della lotta contro l'ingiustizia si rivendicava l'applicazione della morale a coloro che erano ridotti in condizioni più o meno servili, oppure con il socialismo si richiamava alla filosofia della storia, all'idea di progresso e Nietzsche ha, naturalmente, criticato in modo implacabile entrambe queste visioni. Quindi, il mio punto di vista è che ogni progetto di emancipazione, oggi, non può non attraversare la critica che ha fatto Nietzsche, attraversarla non per fermarsi, per poterla superare. Ma nessun progetto di emancipazione può ignorarla. Ultimo punto e concludo per lasciare spazio al dibattito. Proprio a partire da questo progetto reazionario, Nietzsche critica in modo implacabile non soltanto qualsiasi idea di uguaglianza, ma critica in modo implacabile l'idea stessa di universalità. L'universalità e l'uguaglianza sono, in fondo, la medesima idea. Lo diceva già Hegel che il principio di universalità e il principio dell'uguaglianza sono la stessa cosa. Lo dice anche Tocqueville, da un altro punto di vista. L'universalità così come l'uguaglianza, dal punto di vista di Nietzsche, hanno il torto di omologare realtà tra di loro completamente diverse e contrapposte, di omologare le macchine di lavoro, a cui deve essere negata anche l'istruzione elementare con, invece, queste personalità d'eccezione che devono sapere sviluppare anche un sapere come totalità critica. Però, nel criticare fino in fondo quest'idea di universalità, rivendica l'istituto della schiavitù. Qui devo dire qualcosa, sull'istituto della schiavitù in Nietzsche. Quelli che io definisco, polemicamente, gli ermeneuti dell’innocenza tendono a interpretare, a prendere questo discorso sulla schiavitù come una sorta di metafora. Sarebbe, però, una strana metafora, perché il periodo in cui si colloca la riflessione di Nietzsche, egli termina la sua vita cosciente nel 1889 ed è l'anno in cui in Brasile viene abolita l’istituto della schiavitù e in un certo senso inizia negli anni in cui si combatte la guerra di secessione tra nord e sud negli Stati Uniti, proprio a causa della questione della schiavitù, sono gli anni in cui l'istituto della schiavitù, abolito formalmente nel Stati Uniti, ma ancora sussistente in Brasile, viene di fatto reintrodotto nelle colonie a seguito dell'espansione coloniale. Qual è il paradosso? Qui concludo. Il paradosso è questo che Nietzsche difende l’istituto della schiavitù nel momento in cui l'espansione coloniale agita la bandiera dell'abolizione della schiavitù. Alla fine dell'800 le grandi potenze coloniali si ergono a protagoniste di una crociata democratica. Dicono di andare in Africa e nel resto del mondo coloniale per diffondere i diritti dell'uomo, per diffondere l'universalismo dei diritti dell'uomo. Voi sapete che questo discorso è oggi più che mai attuale. Nel mio libro riporto una dichiarazione di Bismarck. Siamo alla fine dell'800, anche la Germania si appresta, adesso, a partecipare alla gara coloniale. Anche la Germania innalza la bandiera dell'abolizione della schiavitù e Bismarck, parlando con i suoi collaboratori, dice: ma non è possibile trovare qualche dettaglio raccapricciante di crudeltà da parte degli arabi. In questo modo se si fosse trovato questo dettaglio raccapricciante, vero o inventato che fosse, si sarebbe suscitata l'indignazione morale e sull'onda dell'indignazione morale sarebbe stato più facile, più agevole propagandare la guerra contro le barbarie, contro i barbari, contro la violenza in nome dei diritti dell'uomo. Ecco a queste dichiarazioni di Bismarck io contrappongo nel libro un aforisma che noi troviamo in Al di là del bene e del male: " nessuno mente tanto quanto l’indignato". A partire, certo, da questa prospettiva reazionaria Nietzsche ha capito benissimo che l'indignazione morale può facilmente essere uno strumento di guerra e, quindi, in questo senso Nietzsche può essere letto, come io l’ho letto, nonostante il suo carattere reazionario, nonostante le pagine ripugnanti che parlano nel modo in cui vi ho detto, di annientamento di milioni di malriusciti e dell'annientamento delle razze decadenti, nonostante questo in Nietzsche troviamo una sorta di critica ante litteram della guerra umanitaria dell'imperialismo dei diritti umani. È un po' complicato questo Nietzsche, per un verso, ripeto, con queste pagine terribili, per un altro verso con queste armi che ci offre per criticare la guerra umanitaria dell'imperialismo dei diritti umani. Posso rispondere con una battuta: se Nietzsche riesce troppo difficile per queste prese di posizione che vi ho detto, qualcuno può scegliersi un autore più facile. Io ho voluto misurarmi con un autore che considero difficile. Sito della Società Filosofica Italiana, giugno del 2003Intervista al PROF. DOMENICO LOSURDO di Nello De BellisEgualitarismo e antiegualitarismo in Nietzsche1) Quali sono, oggi, le forze e i movimenti anti-egualitari, e quali trarrebbero diretta ispirazione dal pensiero nietzscheiano? Non c’è dubbio che la destra estrema, la destra tradizionale, continua ad ispirarsi a Nietzsche. Ma è altrettanto indubbio che l’anti-egualitarismo oggi realmente pericoloso è quello che rifiuta di riconoscere il principio dell’uguaglianza delle nazioni, cui contrappone il primato dell’Occidente quale erede della tradizione greco-romana e della tradizione ebraico-cristiana, e quale incarnazione privilegiata e unica della Civiltà in quanto tale. Come si atteggia o come si atteggerebbe Nietzsche nei confronti di questi motivi? Per un verso egli, nonché il principio dell’uguaglianza tra le nazioni, respinge con orrore già l’idea di nazione in quanto tale, essa stessa affetta, ai suoi occhi, da un odioso egualitarismo: mette sullo stesso piano, equipara come cittadini sia i signori sia gli schiavi, sia la «razza» dei dominatori sia la «razza» dei servi (è quello che ho chiamato il «razzismo trasversale»). Per un altro verso Nietzsche, che ben conosce gli aspri conflitti storicamente verificatisi tra ebraismo e cristianesimo e tra cristianesimo e antichità classica, potrebbe solo guardare con disprezzo alla rinnovata Crociata contro l’Islam e al mito genealogico dell’Occidente «greco-romano-ebraico-cristiano», investito della missione di evangelizzare, civilizzare e dominare il mondo. 2) In che rapporto possiamo porre la critica al Giudaismo e al Cristianesimo del giovane Hegel (confluita e sviluppata successivamente nella Fenomenologia dello Spirito) con quella di Nietzsche, segnatamente espressa nella Genealogia della Morale? Conviene intanto distinguere tra ebraismo e cristianesimo. Per quanto riguarda il cristianesimo, si potrebbe dire che le analisi di Hegel e Nietzsche convergano: per entrambi la predicazione evangelica è un momento dell’avvento della modernità; per entrambi, prima di dispiegare la sua efficacia politica nel corso della rivoluzione francese, l’idea di eguaglianza ha trovato la sua prima formulazione, in chiave religiosa, per l’appunto nel cristianesimo; per entrambi, questo movimento ha inferto il primo duro colpo alla schiavitù antica. Epperò, il giudizio di valore espresso su questi processi storici è nei due autori del tutto contrapposto. Più complesso si presenta il discorso relativo all’ebraismo. Nel mio libro chiarisco che dall'antisemitismo razziale propriamente detto, le cui pratiche di esclusione e oppressione non consentono via di scampo proprio perché naturalisticamente motivate, conviene distinguere sia la giudeofobia (un atteggiamento di insuperabile ostilità nei confronti della tradizione culturale e religiosa ebraica, che stimola una carica discriminatrice, più o meno radicale, sul piano politico e/o sociale) sia l'antigiudaismo (un atteggiamento critico che però, non mette in discussione l'uguaglianza civile e politica). A proposito di Hegel, si può parlare solo di antigiudaismo: la critica della tradizione ebraica non solo non stimola un atteggiamento discriminatorio ma si accompagna, nella Filosofia del diritto, alla rivendicazione della piena uguaglianza civile e politica degli ebrei. E’ una considerazione che potrebbe essere fatta valere anche per autori come Voltaire o come Marx. Diverso è l’atteggiamento di Nietzsche che, negli anni giovanili, risente chiaramente della giudeofobia di Schopenhauer e Wagner. Nel periodo della maturità, per un verso questa giudeofobia dilegua – è noto il giudizio altamente positivo espresso sulla finanza ebraica -, per un altro verso cede il posto ad un atteggiamento ancora più torbido. Gli inizi del ciclo rivoluzionario che devasta l’Occidente, prima ancora che al cristianesimo, rinviano all’ebraismo: è con esso che inizia la rivolta degli schiavi che travolge il mondo antico e spiana la strada alla sovversione moderna. La Genealogia della morale sintetizza così il gigantesco conflitto: «Roma contro Giudea, Giudea contro Roma». A questo punto, l’intellettuale ebreo diviene l’homo ideologicus per eccellenza, l’agente patogeno che aggredisce un organismo sociale sanamente fondato sulla gerarchia e sulla schiavitù. Non c’è dubbio che il nazismo attinge largamente a questi motivi di Nietzsche, che pure resta estraneo sino all’ultimo all’antisemitismo razziale propriamente detto e al razzismo orizzontale. Non vedo alcun rapporto con l’atteggiamento di Hegel che, in tutto l’arco della sua evoluzione, nell’ebraismo critica l’abisso che esso istituisce tra umano e divino, ciò che renderebbe problematico o impossibile il riconoscersi dell’uomo nel mondo. Hegel non avrebbe certo sottoscritto una lettura di due millenni di storia come scontro tra Roma e Giudea e tanto meno avrebbe potuto identificarsi univocamente con Roma. 3) Nella negazione della verità (intesa in senso hegeliano, quale conformità del reale al suo concetto logico) e, cioè, nella negazione del carattere veritativo della conoscenza filosofica, identificata da Nietzsche, per la sua genesi, nel suo carattere metafisico-religioso, non si cela, forse, una Weltanschauung "debole" del pensiero, come ha rilevato anche Vattimo? E’ un mito liberale (penso a Popper, Talmon, Kelsen) quello secondo cui «fallibilismo» e relativismo sarebbero il fondamento epistemologico della democrazia. Ben diversa è l’analisi della Arendt. Leggendo Le origini del totalitarismo, si ha l’impressione che, almeno per quanto riguarda il fascismo, le cose stiano in modo alquanto diverso e persino contrapposto. Mussolini, che mena vanto del suo «relativismo», rappresenta per la Arendt uno degli ultimi eredi del movimento romantico: è una sorta di individualista arbitrario che ama definirsi al tempo stesso, o a seconda delle circostanze, come aristocratico e democratico, rivoluzionario e reazionario, proletario e antiproletario, pacifista ed antipacifista. Ogni regola e definizione è in un funzione non di un programma, ma semplicemente dell’auto-affermazione ad ogni costo del proprio io. Possiamo andare anche al di là della Arendt e ricordare come Gobineau amasse contrapporre le «tradizioni liberali degli ariani» all’«assolutismo totale» (inteso in primo luogo in senso epistemologico) rimproverato ai semiti. E considerazioni analoghe si potrebbero fare a proposito di Chamberlain, un altro autore di riferimento del nazismo. Ma è soprattutto significativo l’atteggiamento di Rosenberg, che attribuisce a merito di Nietzsche l’essere stato protagonista di una «ribellione contro il rigido schematismo» (in primo luogo hegeliano) e contro la pretesa di una «conoscenza assoluta». Da ciò il teorico del Terzo Reich prende le mosse per denunciare «tutti i sistemi "assoluti" e "universalistici" che, sulla base di una presunta umanità, di nuovo esigono l'unitarietà, e per sempre, di tutte le anime». Come si vede, lo stesso nazismo non ha difficoltà a fare professione di relativismo. Ma è poi vero, come sostengono con modalità ovviamente assai diverse sia Rosenberg che i teorici odierni del post-moderno, che il pensiero di Nietzsche sarebbe sinonimo di relativismo e di concetto debole di verità? Certo, in contrapposizione a Gesù (Ego sum veritas) L’Anticristo celebra Pilato: «Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola "verità", ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore - la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: "che cos’è la verità?"». Epperò, nello stesso Anticristo troviamo dichiarazioni ben diverse o del tutto contrapposte. La lotta a fondo contro il prete, «questo negatore, calunniatore, avvelenatore per professione della vita» è assolutamente necessaria se si vuole dare una «risposta alla domanda: che cos’è la verità?». Infatti, «si è già capovolta la verità, quando il cosciente avvocato del nulla e della negazione è considerato il rappresentante della "verità"» (AC, 8). Val la pena di notare che qui il termine «verità» compare tre volte, ma alle virgolette Nietzsche fa ricorso solo in riferimento ai suoi avversari. In ultima analisi, il filosofo si esprime non già come il Pilato da lui ammirato (Quid est veritas?), ma come il Gesù da lui disprezzato (Ego sum veritas). In modo ancora più netto ciò si verifica in Ecce homo: «La mia verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna […] Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo decente, che sappia oppormi ad una falsità che dura da millenni… Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (EH, Perché io sono un destino, 1). In una lettera del 18 ottobre 1888 Nietzsche contrappone se stesso in quanto «genio della verità» a Wagner quale «genio della menzogna». Così esaltato è il pathos della verità, che il filosofo giunge ad autodefinirsi come «quel primo spirito retto nella storia dello spirito, quello spirito con il quale la verità è pervenuta a giudicare la falsa moneta di quattro millenni» (EH, Il caso Wagner, 3), la falsa moneta del lungo e rovinoso ciclo in cui ha infuriato l’errore o, più esattamente, il delirio del lungo ciclo rivoluzionario ebraico-cristiano. Giungiamo così al punto cruciale. A stimolare la polemica di Nietzsche sono le speranze, i progetti di emancipazione delle classi subalterne, il «dogmatismo» con cui gli schiavi rivendicano l’uguale dignità degli uomini, la «fede» con cui guardano ad un futuro diverso e migliore. E’ un topos classico del pensiero controrivoluzionario: lo troviamo in Burke, che paragona il fanatismo della rivoluzione francese al fanatismo dell’Islam; l’abbiamo visto anche in Rosenberg. Naturalmente, i protagonisti di questa polemica esibiscono un civettuolo antidogmatismo. Epperò, allorché si tratta di riaffermare il fondamento naturale delle gerarchie sociali, sono essi a esibire le loro certezze. In questo caso, nel confronto tra «dogmatici» e «antidogmatici» si assiste ad un rovesciamento di posizioni. Le medesime considerazioni valgono per Nietzsche, che è così certo della «verità», in base alla quale la civiltà si fonda necessariamente sulla schiavitù, da bollare quali malati e folli coloro che esprimono dubbi. A questo proposito Al di là del bene e del male dichiara che l’autentico aristocratico respinge da sé con sdegno «il grande succhiatore di sangue, il ragno dello scetticismo» (rinvio al § 21, 6 del mio libro). Si può aggiungere che, ai giorni nostri, Popper, il teorico supremo del «fallibilismo», non esita a bandire le Crociate contro tutti i nemici dell’Occidente: «Non dobbiamo aver paura di condurre guerre per la pace. Nelle attuali circostanze è inevitabile. E’ triste, ma dobbiamo farlo se vogliamo salvare il mondo. La risolutezza è qui di importanza decisiva». Proclamare il proprio anti-dogmatismo e leggere la storia come conflitto tra dogmatici e anti-dogmatici, tra seguaci del pensiero forte e seguaci del pensiero debole, è l’espressione più ingenua del dogmatismo e del pensiero forte." Intervista a Domenico Losurdo"Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico. Torino, Bollati Boringhieri, 2003Professor Losurdo, Lei apre il suo saggio con una citazione di Tucholsky ("Chi non lo può rivendicare? Dimmi ciò di cui hai bisogno e ti troverò una citazione di Nietzsche [...]. Per la Germania e contro la Germania; per la pace e contro la pace; per la letteratura e contro la letteratura.") dalla quale sembra emergere la frammentazione e le diverse interpretazioni a cui è soggetto il discorso nietzscheano, è possibile invece rintracciare una chiave di lettura coerente di Nietzsche? E' la denuncia della rivoluzione a costituire il filo conduttore del pensiero di Nietzsche. Solo in tal modo è possibile cogliere l'interna coerenza del discorso del filosofo, pur nel passaggio da una tappa all'altra della sua evoluzione. Ogni altro tipo di lettura finisce col comportare una dolorosa mutilazione. Si vuole vedere in Nietzsche il teorico di una acuminata e impietosa critica dell'ideologia che fa a pezzi i miti del germanesimo e dell'antisemitismo? A parte ogni altra considerazione, resta il fatto che tale interpretazione implica la liquidazione delle opere giovanili, che riecheggiano i motivi teutomani e giudeofobi assai diffusi nella cultura del tempo e che, tuttavia, sono straordinariamente fascinose. Si vuole vedere in Nietzsche il campione dello "spirito libero" e il teorico della riabilitazione della carne in contrapposizione all'ascetismo dell'Occidente cristiano? Di nuovo saremmo costretti a tagli e rinunce dolorose: negli anni giovanili, in quanto discepolo di Schopenhauer, Nietzsche esprime tutto il suo disprezzo per la galoppante "mondanizzazione", evoca con accenti accorati le conseguenze catastrofiche del "triste crepuscolo ateo" e difende contro Strauss "il lato migliore del cristianesimo", quello degli eremiti e dei santi. In difficoltà analoghe si imbatterebbe chi volesse assumere come filo conduttore la critica del nichilismo. Esso si esprime - osserva un frammento del primavera 1888 - nella tesi per cui "non essere è meglio di essere" e "il nulla è la cosa più desiderabile". Come dimenticare che La nascita della tragedia fa proprio il motto terribile di Sileno ("Il meglio è [...] non esser nato, non essere, essere niente")? D'altro canto, gli scritti della maturità rimproverano al cristianesimo, più che il nichilismo, la sua sciagurata incompletezza, che tiene ancora aggrappata alla vita una massa innumerevole di miserabili e malriusciti. Chi poi volesse prendere le mosse, nella sua interpretazione, dalla critica della ragione e della scienza, avrebbe serie difficoltà a spiegare il pathos "illuministico" e "positivistico" di certi scritti, impegnati a fiutare non solo gli errori e le distorsioni, ma anche le patologie che sono a fondamento di visioni del mondo prive del senso della realtà e inclini ad abbandonarsi a fantasie e visioni. Né si deve dimenticare che l'ultimo Nietzsche si esprime con grande calore su Galton, cugino di Darwin e inventore dell'eugenetica, la nuova "scienza" chiamata a conferire ordine e razionalità all'"allevamento" della specie umana. Meno di tutte riuscirebbe a superare le difficoltà qui accennate la chiave di lettura che fa ruotare tutto attorno alla celebrazione dell'arte. Mentre sbeffeggia "l'art pour l'art", Nietzsche celebra l'arte in quanto benefico antidoto all'universalismo della morale e della scienza: "La scienza e la democrazia fanno tutt'uno (checché ne dica il signor Renan), certamente come fanno tutt'uno l'arte e la "buona società"". All'auspicato "rovesciamento dei valori" dominanti, quelli del gregge, possono fornire un prezioso contributo "certi artisti insaziabilmente ambiziosi, che lottano inesorabilmente e assolutamente per i diritti speciali degli uomini superiori e contro l'"animale del branco", e che con i mezzi di seduzione dell'arte addormentano negli spiriti eletti tutti gli istinti del gregge e le prudenze del gregge". D'altro canto, i grandi uomini chiamati a farla finita coi dogmi della ""parità di diritti"" e della ""pietà per tutti quelli che soffrono"" devono dar prova di una "volontà artistica (Künstler-Willen) di altissimo ordine". L'arte svolge una funzione di primissimo piano solo nella misura in cui ribadisce la gerarchia. Non si dimentichi che "per il Greco, la creazione artistica ricade nel concetto disonorante del lavoro, allo stesso modo di ogni opera banausica": ma non per questo l'Ellade cessa di essere uno splendido modello. Il richiamo all'arte è strumento di lotta del radicalismo aristocratico e del "partito della vita". Particolarmente significativo è un frammento databile estate 1886-primavera 1887: "Noblesse: che cos'è la bellezza? Espressione dell'uomo che ha vinto ed è diventato signore". Sul versante opposto, senza appello è la condanna per "i demagoghi in arte - Hugo, Michelet, Sand, R. Wagner". Gli artisti contagiati dalla modernità sono "i malati di mente", e fanno corpo coi "criminali", con gli "anarchici", coi "ciandala", coi falliti della vita, con tutto ciò che vi è di più repellente al mondo. In conclusione: "L'estetica è indissolubilmente congiunta a questi presupposti biologici: esiste un'estetica della décadence, esiste un'estetica classica - un "bello in sé" è una chimera, come tutto quanto l'idealismo". I diversi aspetti via via elencati, e altri ancora, della personalità e della storia evolutiva di Nietzsche meno che mai potrebbero essere compresi in base all'interpretazione in chiave psicologica: alla mutilazione si aggiungerebbe in questo caso il riduzionismo, come se fosse stato estraneo al nostro autore il tormento per abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità e l'assillo di intervenire attivamente su di essa. La figura del "fannullone viziato nei giardini del sapere" fa orrore a Nietzsche e non si vede perché sotto di essa debba essere sussunto il filosofo che così efficacemente e impietosamente l'ha tratteggiata; tanto più poi se questi giardini dovessero rivelarsi un misero orticello caratterizzato da una noiosa monocultura artistica o psicologica. Solo non rimuovendo l'elemento che l'attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l'unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza nel corso di un'evoluzione pur scandita da diverse tappe, da diversi approcci alla critica e alla denuncia, mai perse di vista, della rivoluzione e della modernità. Per cogliere l'unità del pensiero di Nietzsche, è necessario liberarsi dalla tendenza acritica a immergerlo in un bagno di innocenza politica e considerarlo esclusivamente come un artista o un teorico dell'arte. Si tratta di un'interpretazione che viene respinta in anticipo, e con forza, dal nostro filosofo: "Non ci si potrebbe fare torto maggiore di quello di supporre che solo l'arte ci interessi: quasi che essa dovesse valere come un farmaco o un narcotico, con cui si possano eliminare da sé tutte le altre miserie dell'esistenza". I giudizi che Nietzsche esprime sui grandi protagonisti della letteratura, della musica, dell'arte sono sempre giudizi politici. Celebrati negli anni giovanili quali antidoti all'illuminismo e alla rivoluzione, Beethoven e Wagner sono successivamente sottoposti a dura critica, allorché vengono sospettati di esprimere, in un modo o nell'altro, le idee e i gusti della rivoluzione. La nascita della tragedia invoca l'"annientamento" del melodramma e lo invoca, ancora una volta, per ragioni politiche: diffondendo l'"ottimismo", esso stimola la rivolta degli schiavi, illusi di poter conseguire la felicità. D'altro canto, fortissimo è l'interesse che Nietzsche nutre per la storia. Sin dall'adolescenza, egli si impegna nella lettura e nel confronto coi più grandi storici del suo tempo, non solo tedeschi ma europei: Treitschke, Sybel, Mommsen, Niebuhr, Guizot, Michelet, Tocqueville, Taine, Macaulay, Burckhardt. E' proprio quest'ultimo ad osservare in due successive lettere al filosofo: "In fondo Lei insegna sempre storia"; "ciò che soprattutto comprendo della Sua opera sono i giudizi storici e, in particolare, i Suoi sguardi sul tempo storico". Ben lungi dall'irritarsi per tali apprezzamenti che lo collocano in un terreno ben diverso dalla pura filosofia, poesia, metafora, care agli odierni ermeneuti dell'innocenza, Nietzsche si sente così lusingato che per un attimo sembra persino accarezzare l'idea di tornare all'insegnamento universitario, questa volta nella veste di storico. Così commenta, scrivendo a Lou Salomé, la prima delle due lettere di Burckhardt qui citate: "Forse mi vedrebbe volentieri come successore sulla Sua cattedra".
Quale è secondo Lei la metodologia corretta per analizzare un filosofo della portata di Nietzsche? Per chiarire la metodologia da me seguita, vorrei prendere le mosse da un motivo che accompagna come un'ombra l'opera di Nietzsche in tutto l'arco della sua evoluzione. Apriamo uno scritto giovanile: la "schiavitù rientra nell'essenza stessa della civiltà". Sul finire della sua vita cosciente, il filosofo ribadisce: "Se si vogliono degli schiavi - e di essi si ha bisogno - non si devono educare come padroni". Impartire loro l'istruzione, disadattarli rispetto alla condizione che subiscono e che devono subire può avere conseguenze catastrofiche, dato che - secondo La nascita della tragedia - non vi è "nulla di più terribile che una barbarica classe di schiavi che abbia imparato a considerare la sua esistenza come un'ingiustizia". Si comprende che, per un autore così fascinoso e spesso letto come un teorico dell'emancipazione dell'individuo, gli interpreti siano propensi a considerare il tema che ossessivamente ritorna della schiavitù come una metafora, tanto più che proprio l'autore oggetto di indagine definisce la verità come "un mobile esercito di metafore". Epperò, a rinviarci alla storia sono i testi stessi di Nietzsche, che, a proposito del tema in questione, contengono riferimenti sprezzanti a Beecher-Stowe, l'autrice della Capanna dello zio Tom, il celebre romanzo abolizionista che tanto eco ha in Europa e nella stessa Germania. E' ben tener presente che gli inizi dell'attività letteraria di Nietzsche cadono nel mezzo della guerra di Secessione, in un periodo di tempo in cui all'abolizione della schiavitù negli USA corrisponde l'abolizione della servitù della gleba in Russia. Negli anni successivi, mentre forme di servaggio o semiservaggio persistono nei due paesi, il dibattito relativo a tali temi è quanto mai acuto a livello internazionale. L'Inghilterra, che nel 1833 ha abolito la schiavitù nelle sue colonie, precede poi, negli anni '70 e '80, al blocco navale delle coste dell'Africa orientale per impedire la persistente tratta dei neri in direzione soprattutto del Brasile che abolisce la schiavitù, e il relativo commercio degli schiavi, solo nel 1888, l'anno in cui ormai volge al termine la vita cosciente del filosofo. Lukács ha pienamente ragione a rifiutarsi di leggere come una metafora innocente e fascinosa la celebrazione della schiavitù. Dobbiamo allora concludere che Nietzsche è il profeta del lavoro servile di massa cui fa ricorso il Terzo Reich? In realtà, come abbiamo visto, la vita del filosofo si colloca in un periodo di tempo tutto attraversato dal dibattito sulla schiavitù nonché dalla diffusione, nonostante l'abolizionismo, del lavoro servile di massa sull'onda dell'espansione coloniale dell'Occidente. Con una schematizzazione scherzosa ma non troppo, potremmo formulare in questi termini il dilemma dell'interprete che si è lasciata alle spalle l'ermeneutica della metafora e dell'innocenza: Nietzsche e il Terzo Reich oppure, Nietzsche e il Secondo Reich (il tempo storico e il contesto internazionale in cui si colloca il Secondo Reich)? Tra le due chiavi di lettura emerge un Reich di differenza, e non è poco. Certo, è legittimo e doveroso interrogarsi sull'eventuale linea di continuità tra affermazione dell'eternità e fecondità della schiavitù da una parte e la celebrazione della Herrenrasse dall'altra. Ma è in primo luogo dall'Ottocento che bisogna prendere le mosse. Ciò vale anche per le pagine più ripugnanti di Nietzsche. Sarebbe precipitoso leggerle come una diretta anticipazione del nazismo. Ad esempio, l'"annientamento delle razze decadenti" invocato dal filosofo è una pratica in atto nella seconda metà dell'Ottocento (si pensi alla cancellazione dalla faccia della terra dei pellerossa negli Stati Uniti e degli "indigeni" in Australia e nell'Africa del Sud); e questa pratica è così largamente accettata e condivisa che ad essa non hanno nulla da obiettare neppure autori che si dichiarano liberali (Burckhardt, Renan ecc). Certo, è a partire da questo contesto ideologico e politico che bisogna prendere le mosse per comprendere poi la genesi dell'ideologia nazista; ma questa vicenda va al di là non solo di Nietzsche ma anche della Germania nel suo complesso. Respingendo sia la lettura in chiave di innocente "metafora" sia la lettura in chiave di "anticipazione", il mio libro insiste sulla necessità di una precisa contestualizzazione storica. Qual è secondo Lei, anche se non è semplice esplicitarlo in poche righe, il "vero" Nietzsche che definisce ribelle aristocratico? Qual è la sua originalità filosofica? E' lo stesso Nietzsche che per un verso si atteggia a "ribelle", per un altro verso fa professione di "radicalismo aristocratico". Com'è noto, questa espressione si deve alla penna di Georg Brandes, amico e ammiratore del filosofo che subito l'accoglie con entusiasmo. Essa sembra ben caratterizzare un atteggiamento politico che non si limita a condannare come espressioni di "decadenza" e "degenerazione" lo Stato sociale, i sindacati, la diffusione dell'istruzione, la democrazia, il regime parlamentare. Nietzsche va ancora oltre: rivendica la permanente validità dell'istituto della schiavitù quale fondamento della civiltà e invoca l'intervento dell'eugenetica, al fine di allevare e tener ben distinte la "razza dei signori" e la "razza dei servi". Uno degli aspetti più rilevanti dell'originalità di Nietzsche è già nel modo in cui egli procede alla denuncia della rivoluzione. Alle spalle della rivoluzione del 1789 in Francia c'è la rivoluzione americana, con la partecipazione in primo piano di personalità e circoli ispirati dal puritanesimo: sono i discendenti della rivoluzione puritana del Seicento inglese. Ma il nostro filosofo non si ferma qui. Procede ancora più a ritroso e si imbatte nella Guerra dei contadini e nella Riforma protestante, e cioè in sconvolgimenti politici e sociali e rivolte servili ispirate direttamente dal cristianesimo. Ancora prima abbiamo i movimenti pauperistici medioevali che spesso agitano parole d'ordine desunte, "agitatori cristiani" che sono i "Padri della Chiesa": sì, secondo Nietzsche, nel cristiano "concetto dell'uguaglianza delle anime di fronte a Dio" è da vedere "il prototipo di tutte le teorie della parità dei diritti", quelle che poi si sono espresse politicamente nella rivoluzione francese e nel movimento socialista. Con un ultimo salto all'indietro, il filosofo collega la predicazione evangelica all'opera di sovversione di quegli "agitatori sacerdotali" che sono i profeti ebraici, animati anche loro dall'odio contro la ricchezza e il potere. E' così che la condanna della rivoluzione francese si trasforma in Nietzsche nella denuncia della rivoluzione ebraico-cristiana, di un interminabile ciclo rivoluzionario che ha preso le mosse oltre duemila anni fa dalla religione dominante in Occidente. In un paragrafo del suo libro (pag. 1033) Lei sottolinea la critica che Nietzsche fa della "guerra umanitaria" e dell’"imperialismo dei diritti umani", ci può spiegare questo passaggio? La critica ante litteram di Nietzsche può essere ritenuta valida per la nostra attualità? Abbiamo visto che trasformare in un'innocente metafora il discorso di Nietzsche sulla schiavitù significa fare grave torto ad un autore che, sin dalla sua adolescenza, si è misurato profondamente con la storia e la politica. Proviamo ora a far intervenire il contesto storico. Ecco allora che la stessa celebrazione della schiavitù finisce col dispiegare un'insospettata efficacia critica. Essa cade nel momento in cui il colonialismo europeo trasfigura la sua espansione come un contributo decisivo alla causa della lotta contro la barbarie della schiavitù. Viene così bandita una Crociata, talvolta intesa nel senso letterale e cristiano del termine; senonché, la sua avanzata va di pari passo con l'assoggettamento della popolazione "indigena" al lavoro più o meno coatto e persino con una vera e propria recrudescenza del lavoro servile, nonché con la disgregazione e la distruzione della cultura indigena. E dunque, la celebrazione nietzscheana della schiavitù s'intreccia, paradossalmente, con la demistificazione delle reali pratiche coloniali di asservimento ed etnocidio: ""L'abolizione della schiavitù", questo presunto contributo alla "dignità dell'uomo", è in realtà l'annientamento di una stirpe profondamente diversa, mediante l'affossamento dei suoi valori e della sua felicità". Negli ultimi decenni dell'Ottocento, Bismarck decide di agitare anche lui la parola d'ordine dell'abolizione della schiavitù nel mondo coloniale e dell'espansione della civiltà e dei principi umanitari. Ed ecco rivolgersi a suoi collaboratori in questi termini: "Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?". Sull'onda dell'indignazione morale da essi suscitata sarebbe stato poi più agevole bandire la crociata contro l'Islam schiavista e rafforzare il ruolo internazionale della Germania. Si potrebbe commentare con Al di là del bene e del male: "Nessuno mente tanto quanto l'indignato". Non c'è dubbio che una critica della "guerra umanitaria" e dell'"imperialismo dei diritti umani" non possa prescindere dalla lezione di Nietzsche. Per quali motivi Lei dissente dalle interpretazioni di Nietzsche, che hanno "recuperato" a sinistra questo pensatore, mi riferisco ad esempio a Vattimo? In Nietzsche possiamo leggere sia la legittimazione della schiavitù che la celebrazione dell'emancipazione dell'individuo, sia la rivendicazione di un sapere critico attento alla totalità che la condanna dell'istruzione per coloro che sono destinati ad essere schiavi e macchine da lavoro...E' una contraddizione? Pressappoco in quello stesso periodo di tempo, in un eminente autore americano, Calhoun, che è stato anche vice-presidente degli USA, la teorizzazione dell'assoluta inviolabilità della sfera di libertà individuale va di pari passo con la difesa intransigente di quel "bene positivo" che è la schiavitù. Calhoun si richiama a Locke, e anche nel liberale inglese la ferma condanna dell'assolutismo monarchico è solo una faccia della medaglia, l'altra essendo costituita dalla tranquilla accettazione del potere assoluto che, nelle colonie, i proprietari di schiavi esercitano sugli schiavi stessi. In Nietzsche giunge a compimento e trova espressione consapevole la tendenza di fondo della storia dell'Occidente: una celebrazione dell'individuo emancipato che si fonda sull'asservimento di coloro che sono esclusi dallo spazio sacro della "civiltà". Leggere la tradizione liberale e leggere il pensiero di Nietzsche in chiave solo di emancipazione significa rimuovere le paurose clausole di emancipazione che caratterizzano l'una e l'altro. Neoliberalismo e postmoderno sono due facce della stessa medaglia. Detto questo, devo aggiungere che la polemica con Vattimo è anteriore al mio libro su Nietzsche. Il 14 aprile 1999, mentre infuriava la guerra contro la Jugoslavia, su "la Stampa" appariva una breve lettera firmata da Gianni Vattimo che così suonava o tuonava: "Ma Domenico Losurdo, Luciano Canfora, Costanzo Preve, Livio Sichirollo e gli altri firmatari della lettera di solidarietà al popolo serbo, che invitano Milosevic a "ristabilire la convivenza tra i diversi gruppi etnici" nonostante l'aggressione imperialista (colpevole di averla turbata?), hanno sentito parlare della Bosnia, degli stupri etnici, dei campi di concentramento, della pulizia razziale cominciata da Milosevic dieci anni fa?". Due giorni dopo, sempre "la Stampa" ospitava una replica firmata dal sottoscritto. Dopo una ricostruzione assai diversa della vicenda del Kosovo, la mia lettera così si concludeva: "Vattimo si è meritatamente conquistato una fama internazionale come interprete di Nietzsche e Heidegger. Peccato che ora sembri perdere di vista un aspetto essenziale della loro lezione: il pathos morale può veicolare le peggiori crociate sterminatrici". Prescindiamo qui dagli aspetti più immediatamente politici di questo scambio di lettere (d'altro canto, sulla nuova guerra che si profila all'orizzonte, Vattimo sembra per fortuna voler assumere un atteggiamento del tutto diverso). E' più importante un altro aspetto. Già dalla polemica appena vista emergeva un contrasto filosofico, che verteva e verte non sulla grandezza del filosofo in questione, bensì sugli insegnamenti che da lui si possono e si devono ricavare. Anzi, dal mio punto di vista era ed è chiaro che la lettura innocentista di Nietzsche gli fa un grave torto, rendendo impossibile la comprensione della possente carica demistificatrice che dispiega il suo "radicalismo aristocratico". (...)" Luca Leonello Rimbotti"Linea Quotidiano, 11/5/2003La rivolta dorica di Friedrich Nietzsche Un pensiero fondato sulla natura contro la sovversione egualitariaNella seconda metà dell'Ottocento, quando la modernità iniziò ad assumere sempre più apertamente i toni corrosivi dell'assalto alla civiltà, occhi profetici si spalancarono sul destino della nostra civiltà europea. Erano gli occhi di Nietzsche. Già allora, tutto apparve chiarissimo a quello straordinario figlio della nostra anima arcaica. Egli già vide risaltare in tutta la sua spaventosa pericolosità l'intera sequela dei mali che poi, lasciati fermentare da una suicida pochezza di vita, hanno finito col giganteggiare attorno a noi. Oggi più di ieri, non è possibile fare a meno di Nietzsche. Per vedere su quali abissi la modernità stia oggi danzando, è ancora una volta a lui che dobbiamo rifarci. Il merito di una rilettura nietzscheana che, per mole e qualità intellettuale crediamo sia definitiva, va a Domenico Losurdo, autore di un poderoso studio intitolato "Nietzsche, il ribelle aristocratico". Per parte nostra, occorre subito dire, ancora una volta, che l'unica cultura di alto livello "di destra", oggi viene paradossalmente fatta dalla "sinistra". Quello di Losurdo è solo un ennesimo esempio. Ma anche il più illustre. Nel silenzio tombale delle intelligenze che per inclinazione culturale dovrebbero occuparsi di tali argomenti, questo lavoro costituisce una vera e propria pietra miliare, non solo relativamente all'argomento, ma come più vasta visione del mondo. Leggere Nietzsche come ce lo restituisce Losurdo, finalmente espurgato dalle sedimentazioni illuministiche che a lungo ne avevano stravolto il messaggio per opera di infaticabili deformatori d'immagine (da Montinari a Vattimo, passando per legioni di scippatori ideologici, audacissimi nell'arruolare il filosofo sassone tra le file malferme del progressismo), significa oggi mettersi una volta per tutte, e filosoficamente ben armati, davanti a quel potentissimo mostriciattolo che è il Moderno, col suo enorme corteggio di fantasmagoriche degenerazioni. Solo così, quelli tra noi ancora in grado di produrre "balzi dell'essere" o semplici prese di coscienza, si potranno attrezzare per una scelta definitiva: o di qua o di 1à. Il Nietzsche rinverginato e riconsacrato da Losurdo ci sospinge a fare i conti una volta per tutte col destino europeo. Con Nietzsche si ritorna d'un tratto alle origini prime della nostra civiltà, all'alba dorica che stabilì la connessione tra visione tragica della vita e devozione alla natura, erigendo su queste basi lo straordinario edificio della civiltà ellenica. Tutto ebbe inizio da qui. Compreso quel moto discendente, incarnato dall'acido razionalista di Socrate, che ha finito col condurre a morte la tradizione europea. Il filosofo della volontà di potenza giudicò la storia della nostra civiltà con metodo radicale. L'inizio della fine lo individuò nel momento in cui la retorica logico-razionale ebbe il sopravvento sul pensiero dionisiaco, musicale, naturale, severo e insieme gioioso. Con la filosofia greca che prese le mosse da Socrate, con la sua mania avvelenata di concepire un uomo diverso dalla realtà di natura, cioè stucchevolmente buono, pacifico, positivo, iniziò la marcia dell'inversione dei valori. Favorendo quella perniciosa inclinazione all'ottimismo che Nietzsche giudicò il supremo tradimento della tradizione tragica della Grecia arcaica, fu assicurata lunga vita a quei germi di disfacimento che poi, secondo Nietzsche, avrebbero prodotto il predominio della plebe, la democrazia, il social-comunismo, la "superstizione progressista". In una parola, la fine della civiltà europea. Il nocciolo è tutto qui. Il "contagio sovversivo" si situa laddove i moderni, alla maniera dei razionalisti greci e poi dei "philosophes" illuministi, reinventarono una sorta di buonismo bugiardo, ciò che noi abbiamo oggi più che mai ben presente: i diritti, il pacifismo, lo sbiancamento delle differenze, la tolleranza, la compassione, un mortifero egualitarismo universale. Tutte cose che non esistono in natura, tutte cose rampollate per la prima volta dalle elucubrazioni socratiche e poi ingessate nel nefasto dogma progressista. E Nietzsche credeva nella religione della natura, nell'uomo qual è, quello vero, non quello inventato a tavolino dalle costituzioni e dalle proclamazioni intellettualizzate, antiche o moderne. Il male della storia, diceva Nietzsche, sono stati gli "intellettuali", coloro che vollero sovvertire le leggi di Madre Natura, sostituendole con le proprie. Nel suo pensiero - rivoluzionario nei modi, conservatore nei valori - c'è il desiderio di ritornare a quel primissimo tempo in cui i poeti, gli eroi, insomma i migliori, scaturivano da giovani razze creatrici e fondatrici di civiltà, devote alla vita e alla sua tragica bellezza. Scrive Losurdo che in Nietzsche "agisce la dicotomia cara a Wagner tra cultura autentica, che affonda le sue radici nel popolo e che risulta capace di unire attorno a sé la comunità, e pseudocultura ridotta a occupazione o divertimento solitario di intellettuali sradicati". Le aristocrazie vere nascono dal popolo sano e legato alla tradizione, il contrario esatto di quanto Nietzsche vedeva accadere ai suoi tempi, col dilagare di quella "rivolta degli schiavi" che era incardinata sul culto del denaro. Il profetico Solitario di Sils Maria pensava che "l’aristocratico pensiero fondamentale della natura" avrebbe posto fine alla sovversione egualitaria, e impegnò il suo formidabile ingegno nel disegnare i contorni di una rivoluzionaria riconquista della tradizione europea. Il suo fu un messaggio, in questo senso, pienamente politico. E proprio questo viene coraggiosamente sottolineato da Losurdo, che finalmente parla chiaro a quanti avevano fabbricato l'immaginetta illuministica di Nietzsche. Essi, scrive lo studioso, non potendo evitare di fare i conti con lui, da faziosi "ermeneuti dell'innocenza" ne avevano castrato le idee, rimuovendone l'impianto "pericoloso" di radicalismo anti-democratico. Adesso il velo è stato stracciato, e il "pensiero debole" è definitivamente nudo, in tutta la sua derelitta vuotaggine... E adesso, chi si riconosce veramente nelle profondità della nostra tradizione europea, può tornare a vedere in tutta la sua nitidezza il profilo di uno dei suoi custodi più geniali." Losurdo, Domenico, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Recensione di Maurizio BrignoliDomenico Losurdo sviluppa in Nietzsche, il ribelle aristocratico una scrupolosa e dettagliata ricostruzione del contesto storico e del dibattito culturale coevo quali premesse per comprendere l’evoluzione e la carica dissacratoria del pensatore di Röcken. Fin dalla Nascita della tragedia è possibile vedere come gli spunti politici non siano esterni alla riflessione estetica e come la grecità sia una categoria filosofica elaborata in contrapposizione al mondo moderno, soprattutto alla Francia contemporanea attraversata dalle rivoluzioni. Il pericolo mortale, che sfocia nella rivolta servile della Comune, ha le sue origini nell’illusione moderna della possibilità di conoscere e trasformare la realtà, eliminandone la componente tragica e negativa. Causa di ciò è l’ottimismo, la fede nella felicità terrena di tutti che produce lo scontento nel ceto degli schiavi e li porta a sentire come ingiusta la propria condizione. La crisi della grecità tragica sta nell’ottimismo socratico che crede nell’insegnabilità della virtù e nell’attesa di un mondo felice. Il popolo tedesco, che ha sconfitto la Francia socratica della rivolta servile, deve essere l’erede della civiltà greca. Se questa critica alla sovversiva idea di felicità comune è diffusa fra Sette e Ottocento, l’originalità di Nietzsche consiste proprio nel procedere il più indietro possibile nell’individuare l’origine della sovversione. Mentre l’ottimismo moderno porta alla rivolta e il cristianesimo alla fuga dal mondo, l’arte-religione greca promuove la felicità dell’esistenza, nonostante la coscienza del dolore della schiavitù che è a fondamento di ogni civiltà. Riflessione estetica e politica sono così strettamente unite ed è la politica a costituire l’aspetto principale che permette di cogliere l’unità tra i riferimenti al movimento socialista e alla guerra franco-prussiana e le analisi della tragedia eschilea e wagneriana: Siamo in presenza di una filosofia della storia caratterizzata dalla polemica contro lo «spirito del tempo» (Zeitgeist), dalla «critica del tempo presente» (Zeitkritik), in ultima analisi dal rifiuto della modernità (pp. 66-67). Il mondo non necessita di alcuna giustificazione estrinseca, al posto di una teodicea si pone così una cosmodicea che, oltre a eliminare la trascendenza cristiana, elimina anche qualsiasi trascendenza rivoluzionaria. Lo stesso concetto universale di uomo è un’astrazione che non appartiene al mondo greco: la differenza tra uomo e uomo emerge nella celebrazione della personalità eccezionale. È però solo con Nietzsche che questa metafisica del genio, presente in Lagarde, Wagner, Schopenhauer, Mill, diviene il centro di un programma politico di contrapposizione radicale alla modernità e alle tendenze sovversive e massificanti ad essa connesse (p. 101). Nietzsche spera che con l’affermarsi dell’essenza dionisiaca del popolo tedesco si possano superare le lacerazioni della modernità: la Nascita della tragedia non fa che tradurre in linguaggio dionisiaco questo ideale nato dalla vittoria sulla Francia illuminista e rivoluzionaria. Vi sono però altri miti genealogici che cercano di legittimare il Secondo Reich: quello cristiano-germanico di Wagner, quello puramente germanico dei teutomani e quello ariano-greco-germanico di Schopenhauer. Nella loro diversità, questi miti hanno in comune l’antiebraismo e nel giovane Nietzsche le antitesi grecità tragica/modernità e pessimismo/ottimismo coincidono con le dicotomie Germania/Francia e germani/ebrei. Il Nietzsche pre-illuminista è allora un antisemita? È forse più corretto parlare di un antigiudaismo (critica che non mette in discussione l’eguaglianza civile e politica) che può sconfinare nella giudeofobìa (ostilità che porta alla discriminazione politico-sociale); inoltre, l’ebraismo non viene definito da Nietzsche in termini razziali e la successiva presa di distanza da questa giudeofobìa emerge in contrasto con la rozzezza naturalistica dell’antisemitismo wagneriano. L’analisi della modernità, in cui l’antigiudaismo svolge un ruolo significativo, in certa misura si autonomizza rispetto a questi elementi giudeofobi che pure l’hanno accompagnata. È possibile individuare quattro tappe nell’evoluzione di Nietzsche. Dopo la Nascita della tragedia, nelle Considerazioni inattuali si delinea la delusione per il Secondo Reich del suffragio universale e dell’istruzione di massa, il bersaglio polemico è costituito dalla categoria hegeliana di eticità, in cui riecheggiano gli ideali giacobini. La liquidazione della modernità richiede una decostruzione delle categorie di storia e di ragione e per mettere in discussione il ciclo bimillenario iniziato con Socrate bisogna confrontarsi con le tesi hegeliane della razionalità del reale e del processo storico: la filosofia della storia non è altro che una versione secolarizzata del cristianesimo medievale e la storia universale dissolve il genio in una massa amorfa, vero soggetto del processo storico. In realtà siamo di fronte non alla liquidazione della filosofia della storia in quanto tale, ma alla sostituzione di una filosofia della storia tendenzialmente democratica con una filosofia della storia squillantemente aristocratica (pp. 215-216). In questa lotta contro la rivoluzione, il culto della tradizione è solo paralizzante: rispetto alla prima fase, le Considerazioni inattuali non criticano più l’uomo teoretico che vuole trasformare la realtà, ma chiamano all’azione e alla comunità popolare, rispettosa del mito e della tradizione, si sostituisce il ribelle solitario. La crisi del mito genealogico greco-germanico impone un ripensamento delle categorie filosofiche e politiche ed il passaggio alla terza fase. La critica dello sciovinismo e della teutomanìa comporta l’approdo illuminista, i ribelli Wagner e Schopenhauer sono ormai superati. Ora non è più la Germania a essere paragonata alla Grecia: con Umano, troppo umano l’Europa ha il sopravvento e di questa positiva razza mista europea l’ebreo costituisce l’anticipazione migliore. L’azione rivoluzionaria viene delegittimata mostrandone le radici morali e si evidenzia come l’amore dell’eguaglianza in nome della giustizia sia solo invidia. I sentimenti morali, sottoposti a indagine storica, perdono ogni assolutezza: risulta così ridicolo contestare l’ordinamento sociale in nome della giustizia e di norme etiche. Il progetto rivoluzionario è delegittimato, prima negandone il fondamento che si riferisce all’oggettività del processo storico, e poi quello che si appella ai sentimenti e alla morale. In questo periodo, il pathos dei lumi si salda con quello dell’Occidente come luogo esclusivo della civiltà in antitesi col mondo esterno dei bruti. La nuova dicotomia è così Occidente/barbari e se Nietzsche condanna lo sciovinismo intraeuropeo, d’altro canto celebra le guerre coloniali. L’approdo all’ultima fase è databile 1882, con la pubblicazione della Gaia scienza. Se nelle fasi precedenti Nietzsche era stato vicino alle posizioni dei nazional-liberali tedeschi prima e a quelle del liberalismo conservatore poi, ora si impone una lotta contro il movimento democratico e socialista, ma senza compromissioni con liberalismo e conservatorismo. Per questa lotta frontale il programma filosofico illuminista non serve più, se sul piano politico siamo di fronte a un radicalismo aristocratico, su quello filosofico si proclama l’innocenza del divenire e la rivendicazione della giustizia da parte degli schiavi in rivolta trova una confutazione radicale: ritenere ingiusto l’ordinamento sociale significa inventare, a partire dal rancore per il proprio fallimento, responsabilità che non esistono. Ciò che permane comunque immutato in queste quattro tappe è la critica e la denuncia della rivoluzione. Altro tema abitualmente rimosso è quello della condivisione della schiavitù. Il progetto nietzscheano è in realtà chiaro: ormai impossibile reintrodurre, dopo la guerra di secessione statunitense, la schiavitù in Occidente, o si trasforma la classe operaia europea in una cineseria operaia o, se no, devono essere i barbari a formare, in seguito alla colonizzazione o all’immigrazione, la classe servile del mondo civile. Un ceto di schiavi, fosse anche nelle forme del moderno proletariato, deve permanere e non deve ribellarsi pena la caduta della civiltà. A fondamento dell’otium dei dominatori Nietzsche individua, con la spregiudicatezza che lo caratterizza e utilizzando una categoria comune a Marx, il pluslavoro. Lavoro e servaggio si identificano, ma non vi è spazio per una concezione razziale della schiavitù, che resta una condizione oggettiva della civiltà indipendentemente dal colore degli schiavi. Nietzsche individua un bimillenario ciclo rivoluzionario che ha sempre avuto di fronte signori e servi e che ha le sue radici nella tradizione ebraico-cristiana e nella filosofia socratico-platonica. L’elemento di continuità fra profetismo ebraico, cristianesimo e socialismo è dato dall’attesa messianica del mutamento, quindi da una visione del tempo: Se la visione morale del mondo viene contrastata mediante la tesi dell’innocenza del divenire, la visione unilineare del tempo (l’altro essenziale elemento costitutivo dell’ideologia rivoluzionaria) è confutata mediante la tesi dell’eterno ritorno dell’identico (p. 504). Nella tradizione ebraico-cristiana e in quella rivoluzionaria vi è la svalutazione del mondo come insopportabile valle di lacrime e l’aspirazione a un futuro totalmente altro che è sinonimo di nulla. Produrre un mutamento politico che elimini dall’esistenza il negativo vuol dire condannare la vita. Il ciclo della rivoluzione coincide con quello del nichilismo. Invece di contrapporre la razza europea dei signori alla marmaglia socialista e ai barbari delle colonie, agli occhi del filosofo, la Germania è ormai sede della sovversione e la soluzione prospettata da Nietzsche è quella di un colpo di Stato che ponga fine al governo cristiano-socialista di Guglielmo II. La sfida sovversiva richiede l’unità delle classi dominanti e un vero programma eugenetico di fusione dell’aristocrazia prussiana con il grande capitale ebraico. Tre sono comunque le figure sociali in cui si incarna l’ebraismo: il proletario-artigiano spesso immigrato, l’intellettuale sovversivo ed il capitalista. La nota avversione di Nietzsche verso gli antisemiti riguarda solo la difesa di quella componente che nel suo progetto eugenetico deve andare a rafforzare il blocco dominante e non certo le altre due categorie che vanno a rafforzare il socialismo e la plebaglia. Se la questione sociale ha in realtà una genesi psicopatologica e fisiologica, in quanto nasce dal risentimento che i falliti nutrono per le nature superiori, l’unica soluzione è l’eugenetica e se l’emigrazione nelle colonie è utile, ma non sufficiente a smaltire le scorie delle metropoli europee, è necessaria una regolamentazione dei matrimoni e delle nascite. Nietzsche elabora un programma eugenetico radicale in cui si parla espressamente di annientamento di milioni di malriusciti e di razze decadenti. Queste dichiarazioni, espressione comunque di un clima spirituale diffuso, sono abitualmente tralasciate dagli interpreti. Per poterlo apprezzare in quanto grande filosofo, Nietzsche deve essere in primo luogo difeso contro i suoi apologeti (p. 654) che gli attribuiscono una ben limitata capacità d’intendere e di volere sul piano dell’analisi storica e politica (p. 651) nascondendo i suoi pensieri più radicali sotto il velo della metafora. D’altro lato, se è legittimo chiedersi, come fa Lukács, se vi sia continuità fra la difesa della schiavitù e il nazismo, è però dall’Ottocento che bisogna partire e soprattutto non bisogna separare la storia della Germania dalla storia dell’Occidente: bellicismo, darwinismo sociale, eugenetica e culto del superuomo esistono ugualmente negli altri paesi occidentali. La prospettiva comparata, su cui è impostato il lavoro di Losurdo, evidenzia semmai il radicalismo politico, il rigore teoretico e la finezza psicologica di Nietzsche. Costante il riferimento all’economia politica che, nel passaggio dalla cultura inglese a quella tedesca, si trasforma in elemento metafisico e diventa una sorta di economia della conservazione della specie e comune alla tradizione liberale di Malthus, Tocqueville, fino a Hayek e Mises, è il tema dell’innocenza delle istituzioni: la miseria è frutto di una legge di natura e Nietzsche radicalizza il tutto giungendo a teorizzare l’innocenza del divenire. Più che l’inattualità, ciò che meglio definisce Nietzsche, è il tentativo di dare rigore e coerenza a tendenze già in atto. Se nell’idealismo tedesco si ha la traduzione epistemologica e filosofica della Rivoluzione francese e in Schopenhauer e Nietzsche quella critica della stessa rivoluzione, siamo sempre di fronte a grandi filosofi capaci di inserire i singoli problemi in una complessiva visione del mondo e della storia. Senonché, soprattutto per quanto riguarda Nietzsche, l’ermeneutica oggi dominante trasfigura in pura metafora e in pura espressione artistica la grandiosa traduzione epistemologica e filosofica di un discorso.eminentemente politico (p. 763) I teorici dell’innocenza riescono a trasformare una donna intellettualmente mediocre, come Elisabeth Nietzsche, in una sorta di Rasputin in gonnella, in una falsificatrice al servizio del Terzo Reich, quando in realtà né la lettura della biografia scritta dalla sorella né quella della Volontà di potenza possono accreditare una tesi simile. Il fatto è che questa lettura apolitica di Nietzsche è dominante solo fra i filosofi, che si preoccupano di distribuire fra Elisabeth e Lukács le responsabilità manipolatorie o gli equivoci di una lettura in chiave politica reazionaria, e ben diversa è la posizione di storici e sociologi. Più utile per comprendere Nietzsche è vedere come, ben lontano da un’idea di schiavitù razziale, tutta la sua evoluzione sia invece volta alla razzizzazione trasversale delle classi subalterne (malriusciti/benriusciti, nobili/plebei indipendentemente dall’appartenenza nazionale o etnica), tema che riprende e radicalizza dal pensiero protoborghese. La razzizzazione antisemita, nella sua contrapposizione tra ariani-tedeschi ed ebrei, è invece orizzontale, ma questo sentimento è repellente per Nietzsche perché non fa altro che incarnare, nel suo attacco alla finanza ebraica, il risentimento dei falliti contro i benriusciti. È necessaria un’analisi dei processi che portano dalla reazione aristocratica al nazismo, tenendo presente le due rotture epocali della prima guerra mondiale e della rivoluzione d’ottobre e ricordando come il processo di preparazione ideologica di qualsiasi crisi storica sia sempre un insieme di continuità e discontinuità. Ad esempio, la razzizzazione trasversale cade in crisi con la prospettiva della guerra totale e dell’imperialismo che richiedono una razzizzazione orizzontale per poter gerarchizzare paesi e razze differenti. La parabola che porta al Terzo Reich segna proprio il passaggio da un tipo di razzizzazione all’altro. Se netta è la discontinuità con Nietzsche in quanto quella nazista è una schiavitù razziale al servizio della razza germanica, l’elemento di continuità è dato dalla teorizzazione di uno strato sociale servile quale garanzia per la civiltà. Comune col nazismo è la denuncia del ciclo rivoluzionario come minaccia della civiltà, ma comunque l’alternativa all’ermeneutica dell’innocenza non è l’appiattimento di Nietzsche sul Terzo Reich (p. 886), lo stesso concetto di Untermensch viene derivato dallo statunitense Stoppard, sostenitore di una razzizzazione orizzontale che i colpisce i neri all’interno e popoli coloniali e barbari bolscevichi all’esterno: Nettissime sono dunque le differenze rispetto a Nietzsche che, pure, con la sua decostruzione nominalistica del concetto di umanità e con la sua teorizzazione del «superuomo», ha in qualche modo ispirato la teorizazione anche dell’Untermensch (p. 887). Solo facendo riferimento alla critica della rivoluzione e della modernità è possibile salvare l’intera coerenza del percorso nietzscheano. Nietzsche legge la storia in termini di lotta di ceti e di classi in modo ancor più radicale di Marx che cerca di mantenere la scienza in una sfera trascendente il conflitto. Nietzsche afferma che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e da qui Foucault è giunto alla conclusione che in Nietzsche l’interpretazione sia sempre incompiuta. In realtà, una chiave c’è: vi sono tre dicotomie: verità/errore, coraggio/pavidità, salute/malattia in cui la seconda fonda la prima e la terza fonda la seconda. La lotta fra valori diversi è la lotta fra salute e malattia. L’analisi della storia delle idee e dei conflitti politici e ideologici giunge all’elaborazione di tipologie psicologiche e antropologiche, le varie visioni del mondo sono così incomunicabili tra di loro e permanentemente gerarchizzate. La catena delle interpretazioni è allora conclusa: Più che ad un errore, l’interpretazione da respingere rinvia alla malattia, e, per di più, ad una malattia che è insanabile. Ecco che il dissacratore scettico si trasforma in positivista dogmatico (p. 979). Vi è comunque in Nietzsche una radicale carica demistificatrice: straordinaria l’analisi critica della divisione del lavoro e importante la denuncia anticipata di processi che si imporranno nel Novecento come la nazionalizzazione delle masse o la demistificazione delle pratiche schiavistiche ed etnocide del colonialismo. È proprio il difensore esplicito di una concezione schiavistica che denuncia l’ipocrisia dell’imperialismo che usa le «abbaglianti parole d’ordine» del cristianesimo, dell’abolizione della schiavitù, della pace in funzione di qualcosa di opposto, nessuno più di Nietzsche ha contribuito a decostruire e ridicolizzare il mito genealogico e quindi l’ideologia della guerra dell’Occidente (p. 1038). Nietzsche è stato anche visto come una sorta di profeta del postmoderno. In realtà in lui forte è il pathos della specie e la rivoluzione viene condannata proprio per i suoi dannosi effetti individualistici. I malriusciti, non sussumibili nella categoria di uomo, sono sacrificabili proprio in nome della conservazione di un universale cui non appartengono: Estremo nominalismo antropologico e olismo vorace sono due facce della stessa medaglia (p. 1059). In Nietzsche e nel protoliberalismo vengono rispecchiate due esperienze differenti della società borghese: il valore autonomo dell’individuo per l’élite e l’argomentazione olistica quando si tratta di giustificare la ristrettezza della comunità degli individui. Locke e Nietzsche sono due autori che molto possono insegnare a proposito dello sviluppo di una libera individualità, ma in entrambi la categoria di individuo non è universalizzabile e se, sul piano politico, Nietzsche è molto più reazionario di Locke, dal punto di vista teorico gli è nettamente superiore perché perfettamente consapevole degli elementi servili e schiavistici presenti nei rapporti lavorativi della società capitalistica e nel rapporto con le colonie e conosce bene le clausole di esclusione del pensiero e della società liberale. Il volume si chiude con un’appendice, che vuole essere un contributo al miglioramento dell’edizione italiana delle opere di Nietzsche, che mostra come le sviste e gli errori dell’edizione Colli-Montinari siano determinati dalla preoccupazione di rimuovere l’elemento storico-politico; sparisce così la giudeofobìa del giovane Nietzsche o viene sublimata la tesi dell’inevitabilità della schiavitù. Amedeo CuratoliAlle radici della 'White Supremacy'Era del tutto estranea, agli antichi greci, l’idea che lo schiavo potesse essere sussunto sotto la categoria di "uomo" in quanto tale. Nel fare riferimento agli "uomini" o all’umanità in generale, essi circoscrivevano questa categoria esclusivamente ai liberi cittadini della "Polis". Fu ciò che indusse Hegel ad individuare, come limite di fondo del pensiero politico dell’antichità classica, la mancata costruzione del concetto universale di uomo. Dovranno trascorrere oltre due millenni, dall’epoca di Aristotele, prima che si cominciasse ad affermare definitivamente, con la Rivoluzione francese, la consapevolezza del carattere universale del concetto di "uomo", dell’uomo in quanto tale. Ma la battaglia non fu, e potremmo dire non è ancora, definitivamente vinta. Chi mise in discussione questo risultato di più di venti secoli di storia, ripercorrendoli a ritroso ed accarezzando il sogno di uno status quo ante, è stato Nietzsche. E’ questo il grande problema che permea di sé l’analisi dell’opera del filosofo tedesco che Domenico Losurdo ha svolto nel suo ultimo libro (Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, pp. 1167. Per la bibliografia rinviamo al libro stesso riportando le pagine in cui vi sono citazioni testuali). Il presupposto da cui parte Losurdo, nel ripercorrere la biografia intellettuale di Nietzsche, è la contestualizzazione storica di quel pensiero, immergendolo nella cultura, nelle idee dominanti del tempo. Quando il suo libro è stato presentato all’Istituto di Studi filosofici lo scorso gennaio, uno dei relatori, il filosofo francese Nicolas Tertullian, ha fatto un vero e proprio elogio di Losurdo riconoscendogli di aver messo a confronto un gran numero di intellettuali coevi di Nietzsche dei quali, ha ammesso Tertullian, "non ci ricordavamo quasi più nulla"! Ed è con il metodo della comparatistica che viene dimostrato come l’apparente contraddittorietà insita nel pensiero di Nietzsche fosse in realtà presente anche in altri autori. Secondo Losurdo è difficile trovare (fra i grandi intellettuali borghesi, beninteso, perché non dobbiamo dimenticare Marx) un autore che con maggior forza di Nietzsche ha condannato la divisione del lavoro, ha fatto valere le ragioni di un sapere attento alla "totalità" e quindi capace di dispiegare un’efficacia critica contro quegli studiosi minuziosi attratti semplicemente dal dettaglio ("la loro diligenza - diceva Nietzsche - ha qualcosa dell’enorme stupidità della forza di gravità" pag. 225). Per un altro verso, però, il filosofo tedesco insiste sul fatto che la stragrande maggioranza dell’umanità è in realtà costituita da "macchine da lavoro", da "strumenti di trasmissione" alla quale deve essere negato persino l’insegnamento elementare! Qual è dunque il Nietzsche vero: quello che si rivolge all’intera umanità perché superi la divisione del lavoro; oppure quello che ha in orrore la massa dei "malriusciti" alla quale non riconosce nemmeno il diritto primario all’alfabetizzazione? Nel processo di progressiva radicalizzazione che subì la Rivoluzione francese, fu stilata, nel 1793, una nuova Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino che nel suo primo articolo proclamava: "Il fine della società è la felicità comune". La rivendicazione di questo diritto positivo (rivendicazione che facciamo nostra anche noi comunisti del 21° secolo!) trovò la sua formulazione più appassionata in un celebre discorso di Saint Just pronunciato alla vigilia della controrivoluzione termidoriana (pag. 35). Contro questa idea "nefanda" di "felicità del popolo" si scagliarono con veemenza gli ideologi della Restaurazione. E quando essa ricomparve, come l’araba fenice, negli sconvolgimenti del 1848, trovò pronti a contrastarla Toqueville in Francia (che la bollò come filosofia "sensualistica e socialista") e Rosmini in Italia (che tuonò contro "la terrena e carnale felicità"). La condanna della "felicità del popolo" ebbe la consacrazione, nel 1878, persino in un’enciclica del papa Leone 13° (evidentemente agivano ancora sentimenti di terrore suscitati dalla Comune di Parigi) secondo la quale, a spingere l’umanità "alla sua estrema rovina" sarebbe stato in primo luogo "l’ardente desiderio della felicità"! (pag. 37). Se gli autori liberali individuarono il ciclo della "sovversione" (che nasce dall’insano desiderio della felicità comune) nell’Illuminismo, cui farà seguito la Rivoluzione francese e poi le rivoluzioni del 1848 fino alla Comune di Parigi, per Nietzsche questo ciclo, che egli dilata smisuratamente fino a fargli assumere una durata bimillenaria (e in questo potrebbe consistere la originalità e l’arditezza del suo pensiero), inizia dall’epoca in cui alla grecità tragica si sovrappose, come rottura dell’ "elemento greco", la "cultura socratica" con la sua carica di ottimismo, la sua credenza nella bontà originaria dell’uomo, con la sua fiduciosa attesa di un mondo più felice (pag. 18). Ma la morte dell’Ellade tragica va messa sul conto anche dell’ebraismo: in un appunto preparatorio della Nascita della tragedia Nietzsche parla di "annientamento della civiltà greca ad opera del mondo ebraico" (in nota, a pag.1127) e il cristianesimo, di diretta derivazione ebraica, non poteva non generare, con la sua predicazione eversiva - di uguaglianza degli uomini al cospetto di Dio, figure "fanatiche" come Savonarola, Lutero, Rousseau, Robespierre e…. Saint Simon! (pag.501). Del resto, Gesù è da annoverare tra i primi "livellatori"(pag.494). Insomma: siccome "la sventura degli uomini che vivono di fatiche e di stenti deve essere ancora aumentata, per rendere possibile ad un ristretto numero di uomini olimpici la produzione del mondo dell’arte" (pag. 49) questi uomini "olimpici", di cui il filosofo tedesco si sente evidentemente il coriféo, fanno oggetto di irrisione ogni possibile messaggio di riscatto del genere umano, provenga esso dal socratismo o dall’ebraismo, dal cristianesimo o dal Rinascimento, dall’Illuminismo o dal socialismo, la cui base sociale - il proletariato - è sprezzantemente definita "peste di ogni civiltà superiore" (pag. 56). "La schiavitù rientra nell’essenza di una civiltà" (pag. 49), anzi, il senso della civiltà è di "rendere possibili alcuni pochi uomini" e, coerentemente con questa visione, il "superuomo" annunciato da Zarathustra - afferma Losurdo - rende vani i tentativi di immergerlo in un’aura di innocenza poiché l’eroe nietzschiano si identifica nella figura di un aristocratico radicale "il quale non esita a far proprio un programma eugenetico che si spinge sino alle soglie della teorizzazione del genocidio" (pag.1023). Tuttavia, se autori come Lukàcs e Nolte sembrano muoversi nella direzione di interpretare Nietzsche come il profeta del Terzo Reich, Losurdo avverte (secondo noi con un grande senso di concretezza storica) che tale lettura "rischia di collocarsi sul terreno della contrapposizione di metafora a metafora" (D.L. "Nietzsche e la critica della modernità" il Manifesto-libri, pag. 72). Nietzsche deve essere davvero un autore di straordinario fascino per aver prodotto tante ‘letture’ (non solo di destra) della sua opera. Ci ha colpito un’interessantissima appendice che Losurdo (perfetto conoscitore della lingua tedesca) ha posto alla fine del suo libro, cui ha dato il titolo: Come si costruisce l’innocenza di Nietzsche. Editori traduttori e interpreti (pag. 1077). In essa viene messo in luce come, attraverso un gioco di omissioni e di "libere" traduzioni ("superuomo" mutato in "oltreuomo", "apolide" che diventa "apolitico", "stampa ebraica" che si trasforma in "stampa odierna" ecc.) alcuni autori, nient’affatto di destra ma certamente dal pensiero piuttosto debole, si apprestino, appunto, alla purificazione di Nietzsche ed attribuiscano un carattere "metaforico" alle più incredibili, reazionarie se non addirittura ripugnanti affermazioni che attraversano l’opera del filosofo tedesco. E’ soprattutto questa appendice che ha fatto infuriare i tre critici della pagina culturale di Repubblica, i quali hanno stroncato il grande lavoro di Losurdo (Repubblica del 1° ottobre 2002) lanciandogli accuse di ogni genere. Se alcune critiche possono essere accolte - dice uno dei tre commentatori - altre invece "sono speciose e pretestuose, guidate da una forte, unilaterale, inquisitoria interpretazione ideologica". Un altro rimprovera a Losurdo di aver messo su, contro Nietzsche e i suoi apologeti, "un tribunale fondamentalista" (!) in cui "sembra di avere sotto gli occhi l’atto finale di un processo di Inquisizione" (addirittura!), processo basato su "un’istruttoria sommaria" (non si vede come un’istruttoria - ammesso che sia tale - che si svolge lungo 1200 pagine possa essere definita sommaria). Un terzo commentatore, che intervista Losurdo, dice: "Le chiedo brutalmente se c’era bisogno di un’altra biografia intellettuale rispetto a quanto già esiste in circolazione". La risposta dell’Autore è molto sobria: "E’ una valutazione che lascio volentieri a chi avrà la bontà di leggere il mio libro". Il libro lo abbiamo letto e siamo più che mai convinti - anche da queste reazioni rabbiose - della sua grande utilità. Noi comunisti del nuovo secolo, sopravvissuti al terremoto che ha fatto crollare insieme al Muro anche la certezza di un possibile riscatto delle classi oppresse, noi che viviamo in un clima - come direbbe Lenin - di sfacelo ideologico, abbiamo un debito di riconoscenza verso Domenico Losurdo. Se Lukàcs, alle cui spalle agiva un poderoso movimento comunista, ha demistificato la cultura borghese del suo tempo bollandola senza mezzi termini come veicolo di "distruzione della ragione", oggi Losurdo rinnova questa tradizione, ma la sua battaglia si svolge in condizioni incomparabilmente più difficili perché condotta in una situazione di isolamento. L’assenza di un partito comunista, vale a dire di una riconosciuta autorità culturale oltreché politica, ha fatto sì che un gran numero di intellettuali un tempo "organici" rifluissero su posizioni rinunciatarie avendo perso la voglia e il gusto dell’anticonformismo. C’è anzi da dire che ciò che oggi si richiama al comunismo (il PRC) mette un impegno tutto particolare nel denigrare le nostre tradizioni. Losurdo, con il suo lavoro di storico marxista delle idee e della cultura, decostruisce i piedistalli su cui intellettuali conformisti hanno elevato gli ideologi del primato dell’Occidente capitalistico e demistifica le schiere dei cantori del Popolo dei Signori. Egli dice di loro che "procedono all’accecante trasfigurazione dell’Occidente liberale come una sorta di plenitudo temporum dinanzi alla quale tutti sarebbero tenuti a inchinarsi, come la meta finalmente conseguita dell’umana avventura e come l’interprete esclusivo della civiltà" e questo Occidente può assumere le orride sembianze di un "angelo sterminatore chiamato a respingere con ogni mezzo qualsiasi minaccia, reale o presunta, contro di essa" (pag.1046). Questo angelo sterminatore è oggi rappresentato da un’iperpotenza che con la sua carica di violenza, e accarezzando un sogno di dominio incontrastato incarna la nietzschiana "volontà di cose terribili", una volontà di potenza dilatata all’intero pianeta. Dopo la crisi del comunismo ricompare, come ieri nella Germania nazista, l’idea di un’élite che intende la "civiltà" compatibile con la schiavizzazione del resto del mondo. Per questo, come si diceva all’inizio, la battaglia per affermare l’idea universale di "uomo" non è ancora vinta. Losurdo attacca e smaschera i grandi intellettuali apologeti di questa "civiltà": lo ha fatto ieri con Heidegger, che aderì al nazismo (D.L.: "La comunità la morte l’Occidente - Heidegger e l’ideologia della guerra", Bollati Boringhieri, pag. 249), lo ripete oggi con Nietzsche che non disdegnava né le sterilizzazioni dei malriusciti né i programmi eugenetici fondati su genocidi. E invece di sprofondarli in un bagno purificatore (come fanno tanti accademici rammolliti), Losurdo li immerge "semplicemente" nella storia, la quale ultima, guarda caso, è avvertita dall’ermeneutica dell’innocenza "come un’intrusa da mettere immediatamente alla porta" (pag.1093). Se, da oggi, un giovane intellettuale si appresta a leggere e a studiare Nietzsche, si imbatterà, scorrendo la ricca bibliografia sull’argomento, nella voce dissonante costituita dal libro di Losurdo, libro con il quale dovrà "fare i conti" perché è il contraltare alla lettura "metaforica" che nasconde, addolcisce, volge al positivo le terribili affermazioni contenute nell’opera del filosofo tedesco. Affermazioni - come dice Preve sull’ultimo numero dell’Ernesto - che "farebbero vergognare Rauti, Freda ed Evola". L’Ermeneutica è, propriamente, l’arte di interpretare gli antichi testi e documenti. E occorre essere davvero dei grandi artisti per rendere innocente Nietzsche. Egli disse: "La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità" (pag.511). Se i fautori del "pensiero debole" condividono queste parole (ecco in che cosa consiste lo sfacelo ideologico), Losurdo ci incita a schierarci su un fronte opposto. di Antonino Infrancahttp://www.filoteia.comNietzsche: l’autocoscienza della decadenzaAl suo apparire nel dicembre 2002, il libro di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico1, ha sollevato un’enorme polemica: il personaggio filosofico più mitizzato del Novecento, Friedrich Nietzsche, era gettato giù dal piedestallo divino sul quale era stato innalzato. Gli apologeti di Nietzsche, attaccati da Losurdo che intendeva con le sue critiche salvare lo stesso Nietzsche dalle loro inutili difese d’ufficio, gridavano allo scandalo: il marxismo aveva proditoriamente lanciato un nuovo feroce assalto contro il fondatore della post-modernità. In effetti Losurdo non è stato tenero con Nietzsche, ma, secondo me, era inevitabile trattare in quel modo il filosofo tedesco, se si aveva l’intenzione di uno studio serio e filologicamente condotto. Nelle più che mille pagine del suo libro Losurdo non risparmiava citazioni a dimostrazione e a sostegno della sua tesi: Nietzsche è stato un grande ribelle, solitario e deciso, sostenitore di tesi provocatorie, molto politically incorrect, quali antisemitismo, eugenetica dei malriusciti, schiavismo ecc. Uno dei più accaniti nietzscheani italiani, Franco Volpi, lanciò su Losurdo la più micidiale delle accuse: "lukacsiano!". Losurdo non se l’è presa più di tanto. A dire il vero, da impenitente "lukacsiano" quale sono sempre stato, dopo la critica di Volpi, ho letto il libro di Losurdo pieno di speranza, ma sono rimasto un po’ deluso, perché l’ho trovato poco lukacsiano e dove lo è, forse lo è al di là delle intenzioni dello stesso autore. Senza dubbio il libro è ottimo dal punto di vista della documentazione, dell’argomentazione, dello stile, della correttezza filologica, del rigore teoretico, ma Lukács non è molto presente e quando lo è, non è citato o per sconoscenza –ma sono il primo a escluderlo- o per ovvie ragioni di accordo generico, tanto generico perché derivante da citazioni riprese dallo stesso Nietzsche. In questo articolo vorrei discutere proprio sulla presenza (o assenza) di Lukács nell’interpretazione di Losurdo. Innanzitutto vediamo quanto volte Lukács ha stroncato Nietzsche: "Nietzsche è uno dei più importanti progenitori del fascismo"2; oppure su singole concezioni "In questo Nietzsche è il precursore diretto della concezione hitleriana"3; ha un’affinità ideologica con l’hitlerismo4. Ma Lukács è ancora più cattivo, quando afferma a proposito del superuomo, "Con questa costruzione Nietzsche precorre in modo quanto mai concreto tanto il fascismo di Hitler quanto l’ideologia morale del ‘secolo americano’"5. Su questo punto credo che non sbagli di molto. E dopo queste poche affermazioni nient’altro, nel senso che non ci sono altre frasi di Lukács che danno l’iimagine di un Nietzsche nazista ante litteram. E’ vero che c’è un saggio del 1943 –si consideri bene la data!- "Der deutsche Faschismus und Nietzsche"6, in cui il problema è affrontato di petto, ma è un saggio di 9 pagine (sic! pp. 55-64). Mi chiedo se Franco Volpi tutto questo lo ha mai considerato. Posso ricordare, per chiudere l’enumerazione degli attacchi lukácsiani a Nietzsche, che Lukács impiegò più pagine a mostrare le distanze tra Nietzsche e il nazismo che il contrario. E’ vero che ne La distruzione della ragione Nietzsche è considerato uno degli intellettuali tedeschi di punta dell’irrazionalismo moderno e quindi per i nietzscheani è scontato che Lukács è reo di lesa maiestatis. Penso, però, che forse un po’ più di attenzione nella lettura non disturberebbe neanche ai più affermati accademici. Va rilevato che Losurdo, credo io, timoroso di passare per "lukacsiano", prende le distanze dall’interpretazione di Lukács nelle poche citazioni che dedica al filosofo ungherese7. Le differenze tra le due interpretazioni ci sono e sono notevoli. Innanzitutto la mole: Losurdo dedica a Nietzsche quasi 1200 pagine, Lukács circa 130. Evidenti sono le possibilità che Losurdo si è concesso di analizzare, soppesare, valutare il pensiero di Nietzsche, mentre Lukács o inserisce la sua analisi all’interno di una ricostruzione dello sviluppo dell’irrazionalismo in Germania (La distruzione della ragione) o analizza in forma saggistica, singoli aspetti del pensiero nietzscheano "Nietzsche precursore dell’estetica fascista") o valuta le mistificazioni naziste ("Der deutsche Faschismus und Nietzsche"). Sorprendente è che Losurdo abbia tralasciato proprio questi due ultimi saggi, ma dopo la mole enorme di lavoro svolto nell’interpretazione del pensiero di Nietzsche non lo si può accusare di tralasciare una letteratura secondaria di una cinquantina di pagine. Dico "sorprendente", perché su molti punti Lukács perviene allo stesso giudizio di Losurdo. Rapidamente possiamo sintetizzare alcuni punti di convergenza tra le due interpretazioni. Nietzsche è un pensatore profondamente radicato nella storia del suo tempo, anche se mantiene rispetto a questa storia un atteggiamento di inattualità, che è però soltanto un atteggiamento, perché la sua effettiva posizione è molto attuale. Lukács arriva a parlare di "disagio della civiltà" citando Freud8, e quindi lasciando intendere al lettore che Nietzsche ha profondamente influenzato intellettuali rilevanti come il fondatore della psicanalisi. Poi Nietzsche, secondo Lukács, "utilizza la schiavitù come mezzo per la sua critica della civiltà presente"9, ma d’altronde quella di Nietzsche è una posizione condivisa, si pensi che neanche gli ideologi della Rivoluzione francese presero le distanze dalla schiavitù, fino al punto che gli schiavi neri di Haiti si ribellarono e si liberarono dalla schiavitù della madrepatria francese soltanto nel 1803, cioè in pieno periodo napoleonico. Per non parlare dei fondatori della attuale prima potenza mondiale, gli Stati Uniti: George Washington mentre liberava il suo paese dalla dominazione inglese, non liberava affatto gli schiavi neri delle sue piantagioni di tabacco. Lo stesso vale per Jefferson che pensava a uno Stato che garantisse la felicità dei suoi cittadini, ma la negava agli schiavi neri che vivevano a servizio di quei cittadini. Soltanto novanta anni dopo l’indipendenza gli Stati Uniti avrebbero abolito legalmente la schiavitù e in molte realtà locali dentro gli Stati Uniti l’abolizione attenderà ancora altri cento anni, fino a Martin Luther King e al suo sacrificio. Come vedremo, Nietzsche non è lontano sostanzialmente da queste posizioni. Nelle sue prese di posizione politiche, Nietzsche avrebbe prima provato una profonda simpatia verso il regime di Bismarck, salvo poi condannarlo come eccessivamente "democratico"10. Infatti anche la Germania dell’incipiente Welfare State è una società senza speranza e senza futuro per il filosofo tedesco. Nietzsche pensa con un secolo di anticipo rispetto all’odierno neoliberismo che il Welfare State ammette una sola evoluzione, quella verso il socialismo e, quindi, esso rappresenta una pericolosa concessione ai nemici dell’aristocrazia spirituale, i lavoratori. Nietzsche, quindi, intravede nel bismarckiano Wohlfahr Staat un anticipatore dello Stato comunista11, di quella forma politica che livellerà verso il basso le individualità. Questo è l’aspetto più affascinante del pensiero di Nietzsche e che lo rende oggi un pensatore attuale e di moda. Ma è una posizione banalmente semplicistica, è un po’ come buttare il bambino con l’acqua sporca, accettare la critica al totalitarismo comunista, intravisto dietro il Wohlfahr Staat bismarckiano, perché non è affatto vero che la Germania di Bismarck sia stata l’anticipatrice della Russia stalinista o dei regimi del socialismo reale o anche della stessa Germania nazista. In realtà, come vedremo, a Nietzsche dava fastidio qualsiasi sistema politico, sociale ed economico che contemplasse il miglioramento di coloro che secondo lui stavano in basso, o meglio dire, dovevano stare in basso nella gerarchia sociale. Dietro alla Germania di Bismarck Nietzsche intravede lo spettro del vecchio Hegel, il suo vero grande nemico: "L’ostilità e la ripugnanza che Nietzsche avverte nei confronti di Hegel è l’ostilità e la ripugnanza che egli avverte nei confronti dell’’algebra della rivoluzione’"12. Per "rivoluzione" non si intenda il cambiamento radicale di un assetto sociale, politico ed economico, ma "rivoluzione" per Nietzsche è anche il semplice tentativo di migliorare la condizione degli esclusi e degli sfruttati. Per concludere, i due filosofi marxisti pongono in rilievo l’antisemitismo di Nietzsche, che a dire il vero, è più analizzato da Losurdo che da Lukács, che lo lascia piuttosto nel sottofondo. Avendo più documenti tra le mani, dopo le importanti ricerche di Colli e Montanari, Losurdo può parlare di una giudeofobia, mista a razzismo, nel giovane Nietzsche13, mentre a Lukács questo argomento non interessa principalmente, perché la sua intenzione è quella di mostrare l’antisocialismo di Nietzsche, indipendentemente dal suo razzismo o antisemitismo. Anche Losurdo stigmatizza l’antisocialismo di Nietzsche, ma non mostra essere l’argomento principale della sua analisi. L’antisocialismo di Nietzsche è però un segnale di un più profondo rifiuto della modernità. Lukács insiste in più punti sulla profonda ignoranza dell’economia da parte di Nietzsche, "tuttavia nota i sintomi più appariscenti dell’economia capitalistica, come l’introduzione della macchina, crescente divisione del lavoro, ampliarsi delle metropoli, annientamento della piccola produzione, etc:; e li collega senz’altro -…- direttamente coi sintomi di tramonto della civiltà da lui osservati"14. Losurdo aggiunge: "Nietzsche individua negli operai di fabbrica gli schiavi moderni, ma per aggiungere subito dopo che questo meccanismo dev’essere custodito od oliato nell’interesse superiore della civiltà"15. Nietzsche attacca il socialismo sul campo storico, sociale e morale, mai sul campo della gnoseologia, cioè il materialismo dialettico, o su quello dei fondamenti teoretici, secondo Lukács per ignoranza di queste questioni. In realtà l’uso della dialettica da parte di Nietzsche è soltanto apparente o superficiale, la sua è una dialettica di tipo sofistico, secondo la quale un essere è e non è allo stesso tempo, ma in maniera estrinseca e verbale, e in fondo non c’è una negazione effettiva o sostanziale dell’essere. Per Lukács le intenzioni di Nietzsche sono chiare: "Diventa qui facilmente visibile quella ‘missione sociale’ …, e cioè il compito di allontanare dal socialismo gli intellettuali insoddisfatti del presente e di condurli alla reazione estrema: il socialismo esige un’interiore e un’esteriore conversione (rottura con la propria classe e cambiamento dell’atteggiamento soggettivo), mentre per superare il decadentismo al modo proclamato da Nietzsche non è necessaria alcuna frattura: si rimane ciò che si era (con minori difficoltà e migliore coscienza) e si ha la sensazione di essere molto più rivoluzionari di quanto non siano i socialisti"16. Quindi si tratta soltanto di un apparente presa di posizione, indolore e sostanzialmente inefficace nei confronti del capitalismo che si può riprodurre senza danni e anzi può vantare in questi apparenti nemici degli alleati che, al momento opportuno, riveleranno l’inconsistenza della loro critica, una critica acuta nelle questioni culturali, ma totalmente inesistente sul piano economico. Da questa ignoranza della influenza economica sui fatti spirituali, nasce un assalto alla società presente e un atteggiamento pseudorivoluzionario. È un’analisi valida ancora oggi per gli intellettuali post-moderni spesso pronti all’apologetica delle nuove forme dell’imperialismo o del conflitto di civiltà. Quindi in realtà l’antisocialismo di Nietzsche è rivelativo della sua avversione alla modernità, del suo rifiuto di quanto è venuto dopo la Rivoluzione francese, che accresce la distanza dall’antichità, di cui lui è un ammiratore incondizionato. Secondo Losurdo l’avversione alla Rivoluzione francese diventa avversione alla civiltà francese e a quello che essa rappresenta, cioè l’idea stessa della modernità. Anzi il compito del filosofo è l’opposizione a questa forma di modernità: "Come prima della Rivoluzione francese, il ‘genio’ viene contrapposto alla rivoluzione socialista che sembra minacciosamente profilarsi all’orizzonte"17. Contro questa forma francese di modernità, Nietzsche preferisce la Kultur tedesca: "Il contrasto tra Germania e Francia si configura come l’antitesi di Cultur e Civilisation. … Alla Francia, che si autoproclama rappresentante privilegiata della civiltà in quanto tale, la Germania risponde distinguendo tra superficiale ‘civilizzazione’ e autentica ‘civiltà’, della quale ultima essa si erge a custode"18. Ma neanche questa Germania con funzione civilizzatrice lo soddisfa, Lukács ricorda che il suo modello è la Prussia militarista ma colta19, la Prussia di Guglielmo II, neanche quella di Federico II, esempio eccessivo di servitore dello Stato. In pratica Nietzsche dà la netta sensazione di volere rifare la storia d’Europa, manifesta la volontà di ritornare ad una situazione pre-1789 per provare un’altra alternativa allo sviluppo storico della civiltà occidentale. Lukács segnala con arguzia quali sostenitori attira questo ritorno al mondo pre-1789: "Queste simpatie di Nietzsche sono importanti perché offrono spunti tanto ai suoi ammiratori della sinistra borghese quanto alle tendenze che lo vogliono fare diventare di attualità in vista della preparazione ideologica della terza guerra mondiale imperialistica"20. Si spiega anche così la grande moda di Nietzsche negli ultimi anni. L’elemento dionisiaco diventa un momento fondatore di una nuova civiltà, una civiltà ancora più violenta dell’esistente e con valori morali opposti a quelli dell’illuminismo e della razionalità moderna. Un ritorno al passato che è indubbiamente "una teoria dell’approvazione della barbarie. Socialmente questa teoria parte dall’approvazione della guerra"21. Come è noto, Nietzsche non è solo nella serie dei filosofi che hanno variamente idealizzato ed espresso apologia della guerra. In questo il suo carattere di novità è nullo. Per Lukács è, però, significativo che Nietzsche predichi il ritorno a una società precapitalistica: "Come tutti i critici romantici della degradazione dell’uomo ad opera del capitalismo egli combatte la feticistica civilizzazione moderna, per contrapporle la civiltà di gradi economicamente e socialmente più primitivi"22. Per Lukács la critica di Nietzsche, seppure acuta, è un passo indietro verso il Romanticismo, epoca sostanzialmente precapitalistica, che sognava una società ancora divisa rigidamente in caste, che per Nietzsche diventano caste spirituali. L’ultima epoca degna di attenzione era il Rinascimento, periodo in cui si pose il problema di un ritorno ai costumi dell’antichità. Non si può escludere che Nietzsche considerasse la conquista dell’America, contemporanea al Rinascimento, come la logica e giusta conclusione del ritorno all’antichità23. Con la conquista del nuovo continente l’antica schiavitù ritornava ad essere praticabile e si poteva, quindi, ipotizzare un ritorno ai valori morali dell’antichità. Questo ritorno doveva essere guidato dalla Germania, che poteva ripristinare la dimensione tragica della Grecia antica, in forma tale da restaurare la "civiltà" di contro alla "civilizzazione"24. Losurdo è molto preciso nel richiamare l’attenzione sull’uso nietzscheano della dicotomia grecità/modernità: "Nel giovane Nietzsche la dicotomia grecità tragica/modernità ovvero pessimismo/ottimismo tende a coincidere non solo con la dicotomia Germania/Francia ma anche con la dicotomia germani/ebrei ovvero ariani/semiti"25. La Riforma protestante, e in particolare il calvinismo, sconvolsero questo possibile ritorno, cominciando ad affermare una morale borghese dell’individuo, unico responsabile della propria fortuna nel mondo e al di là di esso. Prima la Riforma e poi la Rivoluzione francese furono per Nietzsche la vittoria definitiva del principio giudaico-cristiano sul principio greco-dionisiaco. Il principio giudaico-cristiano, a suo tempo, aveva sconfitto l’aristocratica Roma e sconfiggerà gli ultimi prodromi di una civiltà dell’aristocrazia spirituale, dei pochi che sono riusciti a sopravvivere alla marea montante della moltitudine. Nietzsche ripudia, dunque, l’eguaglianza, e contro la democrazia, la rivoluzione e il socialismo, Nietzsche vorrebbe scatenare quanto vi è di più bestiale nell’uomo. Sostanzialmente Nietzsche è un pensatore pre-borghese, almeno nel suo anelito al ritorno alla schiavitù, cioè nella sua filosofia della storia. La schiavitù è lo strumento che rende possibile l’ozio, il vero fine della vita di un artista o di un intellettuale e dei "padroni", o "i signori della terra", come li chiama il filosofo tedesco, cioè coloro che sono al di là di ogni valore morale, coloro che distruggono la morale degli schiavi", il cristianesimo o il socialismo. Il suo disprezzo verso la divisione sociale capitalistica del lavoro consiste proprio nell’incapacità di questa di garantire l’ozio dei padroni26 e con esso le attività culturali e creative. Nietzsche sostiene, in fondo, che la sofferenza degli altri, di coloro che sono naturalmente "strumenti forniti di voce" è il giusto prezzo che lo sviluppo umano deve pagare per assicurare ai padroni opere d’arte e scoperte scientifiche. Pochi sono i produttori di arte e altrettanto pochi devono essere i fruitori, in un serrato gioco di autoproduzione di una classe di privilegiati o di aristocratici dello spirito, che in realtà sono i decadenti, i reietti del capitalismo trionfante. La comunità per Nietzsche è comunità di pochi e non di tutti. A chi non fa parte di questa comunità oligarchica non rimane che "accettare la condizione umana e sociale nella quale si è collocati [il che] è tutt’altro che indice di mediocrità"27. Dunque agli schiavi rimane almeno il bel gesto dell’eroica accettazione della propria schiavitù, del bacio alle proprie catene. Lo sviluppo per il filosofo tedesco è il prodotto dell’abbrutimento altrui, magari di chi è anche lontano geograficamente dai centri del progresso civile e umano, che in realtà è disumano. Se la modernità è stata, anche a prezzo di enormi sacrifici e immani sofferenze, un progresso dell’umanità -progresso in diminuzione costante al fine di distribuire a tutta l’umanità i benefici di quanto ottenuto da una minoranza-, a Nietzsche tutto ciò non basta, per lui il progresso deve essere il risultato del costante abbrutimento dell’umanità. Se questa concezione del progresso appare a qualcuno come secondaria nel generale sviluppo del pensiero di Nietzsche, mi pare opportuno chiedersi cosa possa essere primario rispetto alle "magnifiche sorti e progressive" dell’umanità? Domanda inutile per Nietzsche che faceva collidere il destino dell’umanità con la propria soggettività. Proprio sul giudizio sulla soggettività di Nietzsche si coglie la differenza tra Losurdo e Lukács. Losurdo non si sofferma nell’analisi della forma psicologica della soggettività del filosofo tedesco, mentre Lukács ne fa un elemento centrale della sua analisi: "Tutta la sua filosofia non è altro che una psicologia della propria evoluzione, elevata a mito: la conversione di un uomo, il quale era impegolato nella decadenza del proprio tempo (…), ma poi sperimenta la falsità di queste tendenze e attraverso tale esperienza diventa ‘sano’, ‘supera’ la decadenza. Questa personale esperienza del superamento psicologico della decadenza Nietzsche ora la universalizza, facendola diventare una filosofia della storia e della civiltà"28. Così il superamento delle contraddizioni del capitalismo, che Nietzsche rifiuta, avviene in una forma mitica e illusoria, che anzi finisce per rafforzare le forme più retrive e barbare del capitalismo. Siamo di fronte a un filosofo che fa della sua filosofia la sua opera d’arte, del suo pensiero la quintessenza della realtà. Nietzsche è probabilmente il filosofo che più di ogni altro parla in prima persona, ma non si tratta di un autobiografia che è cifra del proprio pensiero come in Agostino d’Ippona o nel Descartes del primo libro del Discorso sul metodo e neanche la narrazione di una significativa esperienza vissuta come il Platone della VII lettera. Siamo di fronte a una soggettività che crede di rispecchiare in sé tutte le contraddizioni della realtà e, così come le rispecchia, le può risolvere con un atto di volontà. Non c’è comprensione della distanza tra la propria soggettività e l’oggettività della realtà, non c’è comprensione della differenza tra io e mondo, anzi il mondo tende a svanire nell’io. Qualcuno potrebbe pensare a Nietzsche come al prodotto maturo dello sviluppo filosofico iniziato da Kant, per cui alla inconoscibilità della cosa-in-sé si va lentamente sostituendo una soggettività assoluta, unica dimensione di comprensione e di azione. Nietzsche sarebbe così il migliore allievo di Schopenhauer ed è questa l’immagine che Lukács, in fondo, vorrebbe darci. Losurdo, invece, considera Nietzsche una sorta di araldo di una reazione aristocratica all’evoluzione democratica dello Stato liberale, sotto la pressione delle lotte del movimento dei lavoratori. Non c’è dubbio che il successo che ebbe Nietzsche induce a pensare in questi termini, ma allora la questione sarebbe duplice. La prima è quanto Nietzsche sia riuscito ad interpretare e incarnare nel suo pensiero le tendenze della sua epoca e su questa questione la risposta è facile: seppe interpretare e incarnare, forse nella forma migliore, la sensazione spirituale del tempo che avvertiva la classe sociale di cui ambiva essere membro, l’aristocrazia prussiana e l’alta borghesia europea. Losurdo ce lo spiega con una dovizia di particolari, dettagli e argomenti davvero definitiva. La seconda è più complessa: perché seppe farlo? Se si risponde a questa questione, allora è facile rispondere a un’ulteriore e conseguente questione: come mai le classi reazionarie riconobbero in Nietzsche il proprio araldo? Forse sulla seconda questione la spiegazione di Lukács è più convincente e ci permette di elevare Nietzsche, e in particolare la sua psicologia, a modello della psicologia delle classi reazionarie dell’epoca, che condussero l’Europa, prima, alla Grande Guerra e, poi, alla sua replica nella Seconda Guerra Mondiale. Altra questione, per noi più fondamentale, perché Lukács coglie questa particolare struttura psicologica di Nietzsche in forma più precisa, più profonda di Losurdo? Non è tanto questione di abitudine a impostare i problemi teoretici, per cui Losurdo ragionerebbe in termini storico-filosofici e Lukács in termini teoretici. Infatti anche Lukács, come abbiamo visto, coglie con acume non inferiore a Losurdo, nessi storici del pensiero di Nietzsche. La soluzione è ben diversa: Losurdo non poteva cogliere la psicologia di Nietzsche come struttura teoretica del suo pensiero perché non era la sua. Intendo dire che tra il giovane Lukács e Nietzsche vi è un’affinità di vedute, di sentire e di pensare che permetterà al vecchio Lukács di cogliere dal di dentro la psicologia e la struttura teoretica di Nietzsche. Losurdo non si trova in questa condizione. François Furet ha colto, invece, questa affinità: "La denuncia dell’Occidente democratico e mercantile è un tema comune ai suoi [di Lukács] autori prediletti, da Nietzsche a Dostoevskij"29. È ormai acquisizione diffusa da parte degli studiosi lukácsiani che il filosofo ungherese abbia avuto un rapporto molto complesso con autori che sono stati centrali nella sua formazione. Per esempio la figura di Hegel e il modo con il quale Lukács ne parla assumono tratti autobiografici30. Ma se, quindi, Il giovane Hegel di Lukács è una sorta di autobiografia, La distruzione della ragione, e i saggi preparatori ad essa, è la sua autocritica. Alcuni filosofi che in quel libro vengono attaccati con puntigliosa precisione, come ad esempio Kierkegaard e Nietzsche, sono in realtà i punti di riferimento del pensiero del giovane Lukács e, quindi, quelle critiche rappresentano una resa dei conti soprattutto con se stesso. Si prenda ad esempio questa frase di Lukács a proposito del rapporto tra Nietzsche e l’arte e si noti che un giudizio del genere il filosofo ungherese avrebbe potuto esprimerlo sulla propria opera, L’anima e le forme: "Nietzsche –al pari di Schopenhauer- scorge l’essenza dell’arte nel fatto che essa trasfigura l’esistenza, di per sé spregevole, verso la quale in sede logica non si può che assumere posizioni pessimistiche, e la rende nell’opera d’arte degna di essere vissuta"31. L’opera sarà anche la giustificazione per cui Lukács pronuncerà un no deciso all’esistenza e all’amore32, salvo ritrovare nella militanza comunista un nuovo motivo per ritornare alla vita. Se non si tiene conto di queste profonde motivazioni, allora La distruzione della ragione può apparire –non è detto che appaia- un comizio filosofico. Ma anche per queste motivazioni profonde la critica di Lukács è più acuta e più penetrante e anche più scomoda, visto che mette allo scoperto i punti nevralgici e le intenzioni più intime della filosofia di Nietzsche. Se con Losurdo abbiamo sotto gli occhi la ricostruzione minuziosa e puntuale del percorso intellettuale di Nietzsche, con Lukács possiamo scoprire la interna finalità del moderno Zarathustra, del fondatore di effimeri e decadenti misticismi. Note1 Questo grande libro (1167 pagine) fu preceduto da un breve libretto, Nietzsche e la critica della modernità, Roma, Il Manifestolibri, 1997, pp. 88. 2 G. Lukács, "Nietzsche quale precursore dell’estetica fascista" (1934) in G. L., Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 360. Il saggio fu pubblicato su Liternaturni Kritik nel dicembre 1934, cioè dopo il I Congresso degli Scrittori Sovietici del 17 agosto 1934 e che si può considerare come l’inizio dello zdanovismo. Si può notare ad una lettura semplicemente più attenta che le affermazioni di condanna di Nietzsche sono quasi delle aggiunte rispetto alle analisi delle differenze di Nietzsche dai teorici del nazismo. 3 G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. E. Arnaud, Torino, Einaudi, 1974, p. 338. Il libro fu pubblicato nel 1954, ma studi ormai ventennali mostrano che Lukács ne iniziò la stesura tra il 1933 e il 1934. 4 Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 385. 5 G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 355. 6 Ripubblicato nella silloge Schicksalswende (Aufbau Verlag, Berlin) nel 1948 e nel 1956. 7 "La sua [di Lukács] lettura, che ha prodotto un rilevante ‘effetto negativo […], soprattutto nel marxismo’ coincide con quella nazista, ‘con la sola differenza’ del contrapposto giudizio di valore" (D. Losurdo, op. cit., p. 781, oppure cfr. pp. 653 e segg.). 8 Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 314. 9 Idem, p. 327. 10 Idem, pp. 333-336. Losurdo, op. cit., pp. 347 e segg. 11 Ricordo che lo stesso Lukács segnala questo importante aspetto dell’analisi di Nietzsche e lo fa in un libro definito dai suoi critici come "stalinista", cioè La distruzione della ragione: "Egli considera il socialismo non più, come prima quale un alleato del liberalismo e della democrazia, come il loro ulteriore e radicale compimento (…), bensì come ‘il fantastico fratello minore del defunto dispotismo’" (p. 334). 12 D. Losurdo, op. cit., p. 89. 13 Cfr. Idem, p. 105. 14 G. Lukács, "Nietzsche quale precursore dell’estetica fascista", cit., p. 332. 15 D. Losurdo, op.cit., p. 460. Nietzsche cadde in uno stato di quasi catalessi alla notizia che durante la Comune di Parigi, il Museo del Louvre era andato distrutto da un incendio appiccato dai comunardi. Per lui gli operai potevano essere talmente disumani da compiere un gesto del genere, tanto era allineato ideologicamente alla più deteriore propaganda borghese anti-operaia. 16 G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 361. 17 D. Losurdo, op. cit., p. 99. 18 D. Losurdo, op. cit., p. 31. 19 G. Lukács, "Nietzsche quale precursore dell’estetica fascista", cit., p. 339. 20 G. Lukács, La distruzione della ragione, cit., p. 344. 21 G. Lukács, "Nietzsche quale precursore dell’estetica fascista", p. 341. 22 G. Lukács, Idem, p. 336. 23 Losurdo insiste più volte a segnalare che la vita di Nietzsche, almeno quella cosciente, si svolge tra l’abolizione della schiavitù nelle colonie inglesi (1833) e l’abolizione della schiavitù in Brasile (1888), ultimo paese dell’emisfero occidentale a compiere questo gesto. 24 Cfr. D. Losurdo, op. cit., p. 32. 25 D. Losurdo, op. cit., p. 170. 26 Cfr. G. Lukács, Idem, p. 333. 27 D.Losurdo, op. cit., p. 511. 28 G. Lukács, "Nietzsche quale precursore dell’estetica fascista", cit., p. 354. 29 F. Furet, Il passato di un’illusione, a cura di M. Valensise, Milano, Mondadori, 1995, p. 145. 30 Rimando a A. Infranca, Trabajo, Individuo, Historía. El concepto de trabajo en Lukács, tr. sp. G. Livov, Buenos Aires, Herramienta, 2005, p. 249 nota 11, dove analizzo tutte le interpretazioni sul rapporto autobiografico di Lukács ne Il giovane Hegel. 31 G. Lukács, "Nietzsche quale precursore dell’estetica fascista", cit., p. 346. 32 Mi riferisco alla vicenda tra Lukács e Irma Seidler, cfr. A. Infranca, "Lukács a Firenze", in Il Veltro, fasc. 1-2, a. XXXVII, gennaio-aprile 1993, Roma, pp. 139-150.
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