Mario De Caro, Andrea Lavazza, Giuseppe SartoriSiamo davvero liberi?Codice edizioni, Torino 2010 |
Introduzione alla letturaIl saggio è un’antologia di articoli recenti sul problema del libero arbitrio affrontato alla luce delle scoperte neurobiologiche. Gli autori sono filosofi morali, psicologi cognitivisti e neuroscienziati. L’Introduzione dei curatori, che riporto integralmente, è significativa dell’ampio spettro di punti di vista che caratterizza il dibattito contemporaneo. Rilevo, en passant, che né nei testi né nella bibliografia risulta il nome di Nietzsche. Al di là di questa lacuna sorprendente, ritengo il dibattito un po’ sterile: primo, perché esso sembra letteralmente bloccato sull’antitesi tra coloro che ritengono il libero arbitrio una mera illusione e coloro che ne ammettono, sia pure con riserve, l’esistenza. E’ probabile che, in rapporto alle indefinite circostanze che governano le esperienze umane, il problema si ponga nei termini di uno spettro che comporta, ad un estremo, un rigido determinismo legato alla pressione di motivazioni inconsce e, all’estremo opposto, la possibilità di un’alternativa comportamentale, e dunque l’autodeterminazione. L’apporto delle neuroscienze sembra inesorabilmente spostare il confine della responsabilità o irresponsabilità soggettiva dalla parte di quest’ultima. Il tema dell’irresponsabilità soggettiva, però, andrebbe formulato in termini meno pedissequi di quanto fanno i deterministi, che appaiono in genere nipotini di Nietzsche intesi a épater (fuori tempo) le bourgois, piuttosto che a costruire una nuova scienza dell’uomo. Affermare infatti che il comportamento umano è, in una misura rilevante, determinato al di sotto della coscienza, non implica tout-court che esso sia di ordine meramente neurogenetico. Al di sotto della coscienza, c’è l’inconscio, che ha un’indubbia matrice cerebrale ma va considerato anche come una dimensione mentale. Le decisioni che non sono prese dal soggetto cosciente e le azioni che sono eseguite indipendentemente dalla volontà sono manifestamente di origine inconscia. Esse cioè fanno capo alla storia interiore del soggetto, all’organizzazione delle motivazioni che essa ha prodotto e al potere dinamico di tali motivazioni rispetto alla coscienza. Certo, è il cervello depositario di tali motivazioni ed è esso che le realizza. Ammettere però che il cervello decida da solo non è una forma di naturalismo, bensì di ignoranza dell’esistenza, a livello inconscio, di diverse soggettività. Purtroppo i cognitivisti, che sono fermi al paradigma per cui la mente è una macchina che elabora le informazioni, quando parlano dei processi inconsci, che definiscono impliciti, fanno pensare ad una notte in cui tutte le vacche sono nere. Anche i filosofi, però, sono molto in ritardo nel confrontarsi con l’inconscio, la cui scoperta ha letteralmente vanificato l’egemonia da essi assegnata secolarmente alla coscienza. Non è un caso che essi sono, sia pure con molte sfumature, i più tenaci difensori del libero arbitrio. Rilevo, infine, che in tutto il libro c’è un solo cenno all’empatia. La lacuna è grave perché, come ha intuito originariamente Darwin, è proprio l’empatia la matrice di una moralità naturale che implica, attraverso l’identificazione, il tenere conto dei bisogni e dei diritti degli altri. Forse non si va lontano dal vero affermando che, nell’ambito morale, il libero arbitrio è subordinato al modo in cui, attraverso la storia interiore, familiare, sociale e culturale di un soggetto, si configurano a livello inconscio i doveri sociali e i diritti individuali. Laddove la configurazione degli uni e degli altri risulta alienata, il comportamento soggettivo è spesso deterministico. Ho spesso affermato che l’ignorare il contributo che la psicopatologia dinamica può dare ad una nuova scienza dell’uomo è un limite grave delle neuroscienze, della psicologia e anche della filosofia contemporanee. In rapporto al problema del libero arbitrio, questo limite appare in tutta la sua entità. IntroduzioneLa frontiera mobile della libertàdi Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe SartoriLa libertà è un'illusione?“Se la volontà degli uomini fosse libera, cioè ognuno potesse agire come gli talenta, tutta la storia sarebbe una serie di casi fortuiti slegati. Se anche un solo uomo fra milioni di uomini nel corso di un millennio avesse la possibilità di agire liberamente, e cioè a suo talento, evidentemente un solo libero atto di quell'uomo, contrario alle leggi, annienterebbe la possibilità dell'esistenza di qualsiasi legge per tutto il genere umano. Se invece esiste una sola legge che governi le azioni degli uomini, non può esistere la libertà dell'arbitrio, poiché la volontà degli uomini deve essere soggetta a questa legge. In questa contraddizione consiste il problema del libero arbitrio, che dai tempi più remoti ha preoccupato i maggiori ingegni dell'umanità, e dai tempi più remoti è stato posto in tutto il suo significato.” Così Lev Tolstoj, dopo aver narrato la Russia di inizio Ottocento e la guerra contro Napoleone, sintetizza nell'epilogo di Guerra e pace la sua poderosa riflessione su ciò che muove i protagonisti delle vicende umane. Un compendio del sapere del suo tempo concluso con il riconoscimento che è «necessario rinunciare a un'inesistente libertà e riconoscere una dipendenza che non sentiamo». E per ragioni strettamente filosofiche, comunque, che Tolstoj rifiuta una delle nostre più care intuizioni, quella secondo cui gli esseri umani possono scegliere e agire liberamente: rinuncia cioè all'idea del libero arbitrio. Oggi, un secolo e mezzo dopo, lo scetticismo sul libero arbitrio è tornato di moda: stavolta non solo per ragioni filosofiche, bensì prevalentemente scientifiche. I principali tentativi di sovvertire le nostre intuizioni sul libero arbitrio si basano, in particolare, sui risultati che ci vengono dalle neuroscienze. I dubbi sulla libertà, tanto quelli filosofici quanto quelli scientifici, d'altra parte, risalgono a periodi ben più lontani di quelli di Tolstoj. Nell'antichità la minaccia giungeva dal fato, dal caso o dagli dei. Nel Medioevo cristiano dall'onniscienza e dall'onnipotenza divina. Poi, nell'età moderna, vennero le ubique leggi della meccanica newtoniana, che sembravano non lasciare alcuno spazio all'autonomia umana. Così, ad esempio, Julien Offroy de La Mettrie, medico francese fautore del meccanicismo, paragonò l'uomo a un orologio (seppure «immenso e costruito con tanto artificio e abilità»), salvo riparare prima in Olanda e poi in Prussia per fuggire l'ira di quanti non condividevano il suo entusiasmo per la visione deterministica degli esseri umani (Nunn, 2005). Ma, se l'idea dell'illusorietà della libertà era un'ipotesi socialmente pericolosa a metà Settecento, oggi risulta perfettamente in sintonia con la scienza ed è oggetto di diffusa approvazione, pur se strabiliante, come l'ha definita il premio Nobel Francis Crick (co-scopritore del dna). Egli ha infatti potuto scrivere: «Le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio in effetti non sono niente più che il comportamento di un'ampia organizzazione di cellule nervose e delle molecole loro associate» (Crick, 1994, p. 3). Questo punto di vista, d'altra parte, è ormai penetrato ben oltre i confini della scienza; in un brano molto citato, a metà tra parodia scettica e resoconto preoccupato delle ultime scoperte, così lo esprime Tom Wolfe: Dato che la coscienza e il pensiero sono prodotti interamente fisici del tuo cervello e del sistema nervoso, e dato che il tuo cervello arriva alla nascita con un imprinting completo, che cosa ti fa pensare di avere un libero arbitrio? Da dove dovrebbe venire? Quale "fantasma", quale "mente", quale "io", quale "anima", quale qualsiasi cosa che non si faccia immediatamente catturare da quelle sprezzanti virgolette dovrebbe traboccare spumeggiante dal calice del cervello per offrirtelo? (Wolfe, 2000, p. 117-118 trad. it.) Eppure, un fatto è chiaro: all'intuizione della libertà non possiamo rinunciare facilmente, anche perché da essa dipendono altre idee a noi carissime, come quella della razionalità e della dignità umane. Ma soprattutto il libero arbitrio sembra essere condizione necessaria della responsabilità morale: senza l'uno non vi sarebbe nemmeno l'altra (come peraltro aveva già intuito Dante, per il quale in assenza del libero arbitrio «non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto»). Infine, il collasso dell'idea del libero arbitrio può compromettere la stessa concezione retributiva della pena, secondo la quale gli imputati meritano di essere puniti se, e solo se, hanno compiuto liberamente le azioni di cui sono accusati. Il problema del libero arbitrio nella sua declinazione contemporanea è pertanto presto detto: la libertà ci pare indispensabile per dirci responsabili delle nostre decisioni e delle nostre azioni e per dare senso a nozioni come quelle di responsabilità, merito, biasimo, punizione e retribuzione. Tuttavia la visione scientifica del mondo non sembra lasciare spazio all'idea che vi siano situazioni in cui gli esseri umani scelgono e agiscono liberamente. Analisi concettuale e ricerca empirica La questione del libero arbitrio resta dunque un vero enigma su cui, da secoli, dibattono filosofi, teologi e scienziati, senza mai raggiungere risultati condivisi. D'altra parte, già lo stesso concetto di libero arbitrio è problematico: non c'è infatti accordo se esso si applichi solo all'agire o concerna anche la volontà. La gran parte degli autori che partecipano oggi al dibattito, tuttavia, concorda nel ritenere che il libero arbitrio presupponga due condizioni: che all'agente si prospettino diversi corsi d'azione alternativi e che la scelta tra tali corsi non avvenga casualmente (non sia cioè il prodotto di fattori fuori dal controllo dell'agente), ma dipenda da una sua autonoma e razionale determinazione. La domanda da porsi allora è: in che modo deve essere fatto il mondo affinché tali due condizioni possano darsi congiuntamente? Per rispondere occorre riferirsi a un'importante distinzione scientifico-metafisica: quella tra determinismo e indeterminismo. Il determinismo è la tesi secondo la quale ogni evento è effetto di un insieme di altri eventi che invariabilmente lo producono, in accordo alle leggi di natura (oppure, nella versione teologica del problema, in accordo con la preveggenza e la provvidenza divine). L'indetenninismo è la negazione della tesi deterministica. Una delle questioni cruciali del dibattito sul libero arbitrio è stabilire l'eventuale compatibilità del libero arbitrio con il determinismo e/o con l'indeterminismo. La distinzione fondamentale, in questo senso, è quella tra due famiglie di concezioni: quella del compatibilismo e quella dell'' incompatibilismo. La prima afferma che il libero arbitrio è compatibile con il determinismo o addirittura lo richiede. Secondo la versione tradizionale del compatibilismo (risalente a Locke, Leibniz, Hume, Mill e difesa oggi, tra gli altri, da Dennett, 2003), ciò che conta è soltanto che le nostre azioni discendano causalmente dalla nostra volontà, anche se questa è interamente determinata. (In questa forma di compatibilismo, ovviamente, gli agenti sono già determinati a scegliere e ad agire come di fatto faranno. I sostenitori di questa concezione tuttavia sostengono di poter dare conto della possibilità di agire altrimenti (che come si è visto è generalmente considerata requisito della libertà) in un senso condizionale: ovvero nel senso che se essi volessero fare una cosa diversa, allora farebbero una cosa diversa.) Secondo una versione più moderna di compatibilismo (Fischer e Ravizza, 1999; Sie e Wouters, 2010. Questa nuova forma di compatibilismo è ispirata dal celebre articolo di Frankfurt – 1969 -, in cui si sostiene l'irrilevanza della possibilità di fare altrimenti per la responsabilità morale.), invece, ciò che conta per la libertà è la capacità di offrire ragioni razionali per giustificare le nostre azioni e che le nostre azioni riflettano il nostro sé e i nostri fini, le nostre credenze e i nostri valori, sebbene la decisione che alla fine prenderemo non possa che essere quella determinata da fattori fuori dal nostro controllo (in quanto noi siamo un insieme di meccanismi subpersonali che però nel loro funzionamento esprimono la nostra unicità); la scelta è necessariamente univoca, ma se facessimo una scelta diversa sarebbe irrazionale, e l'irrazionalità è in contrasto con la libertà (Levy, 2007, cap. 7). L'obiezione principale a questa concezione è che essa pare fondarsi su una riformulazione ad hoc dell'idea di libero arbitrio, lontana da quella ordinaria, intuitiva e diffusa, su cui si basano le idee di responsabilità, dignità e razionalità. Secondo le concezioni che formano la famiglia dell'incompatibilismo, invece, la libertà è inconciliabile con il determinismo. Questa concezione si divide a sua volta in due sottofamiglie. La prima è quella dell'illusionismo, secondo il quale il determinismo è vero e dunque la libertà è impossibile. La seconda concezione è invece il libertarismo, che afferma sia che il determinismo è falso sia che gli esseri umani godono del libero arbitrio. Alcuni libertari (Kane, 1996; Searle, 2004) sostengono che la libertà richiede, al livello degli eventi neurali, una rottura indeterministica dei processi causali che viene poi governata dai poteri causali degli agenti; altri (ispirati da Kant) sostengono invece che la libertà può essere concepita solo su un piano concettuale diverso da quello della causalità naturale (McDowell, 1996; Bilgrami, 2007). Contro queste concezioni si obietta che esse mettono a repentaglio l'unitarietà del mondo naturale, postulando uno spazio speciale (che esso abbia carattere causale oppure concettuale) per gli esseri umani. Date le difficoltà incontrate tanto dal compatibilismo quanto dal libertarismo, non sorprenderà che molti autori contemporanei si dichiarino scettici rispetto alla possibilità di risolvere la questione del libero arbitrio (McGinn, 1993; van Inwagen, 2000) o addirittura che, come detto, arrivino ad affermare che il libero arbitrio è una mera illusione (Smilansky, 2000). Queste posizioni pessimistiche trovano oggi forte sostegno nei copiosi risultati che ci arrivano dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. ( Per una presentazione più analitica di queste concezioni, vedi De Caro, 2009a. Altre utili indicazioni in Kane , 2002; Magni, 2005; Boncinelli e Giorello, 2009; De Monticelli, 2009.) Neuroscienze e libero arbitrio Sono ormai celebri le ricerche condotte da Benjamin Libet (Libet et al., 1983; Libet, 2004), lo scienziato che per primo applicò metodi di indagine neurofìsiologica per studiare la relazione tra l'attività cerebrale e l'intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Nei suoi esperimenti, Libet invitava i partecipanti a muovere quando avessero voluto ("liberamente e a proprio piacimento") il polso della mano destra e, contemporaneamente, a riferire il momento preciso in cui avevano avuto l'impressione di aver deciso di avviare il movimento: l'obiettivo era infatti quello di indagare il rapporto tra la coscienza dell'inizio di un atto e la dinamica neurofisiologica sottostante. Al fine di stabilire il momento in cui il soggetto diveniva cosciente della volontà di effettuare il movimento, Libet ideò un artificio sperimentale costituito da un quadrante d'orologio circolare con un cursore luminoso che si muoveva velocemente ai suoi margini e impiegava 2,56 secondi a rotazione. Questo particolare orologio aveva lo scopo di permettere una precisa collocazione temporale del momento in cui i soggetti sperimentali percepivano di aver deciso di piegare il polso: lo sperimentatore chiedeva infatti loro di indicare in quale posizione si trovava il cursore quando avevano preso tale decisione. In questo modo, era possibile stimare il momento della consapevolezza rispetto all'inizio del movimento, misurato tramite un elettromiogramma (che registra la contrazione muscolare). Durante l'esecuzione del compito, veniva registrata l'attività elettrica cerebrale tramite elettrodi posti sullo scalpo al fine di determinare il profilo temporale dei potenziali cerebrali associati al movimento. L'attenzione era focalizzata su uno specifico potenziale elettrico cerebrale, il cosiddetto potenziale di prontezza motoria (ppm, un incremento graduale dell'attività elettrica, scoperto nel 1965 da Kornhuber e Deecke e indagato in precedenza da W.G. Walter). Questo potenziale elettrico è visibile nel segnale dell'elettroencefalogramma come un'onda lenta che comincia un secondo (o poco più) prima di ogni movimento volontario, rilevato bilateralmente in corrispondenza delle regioni pre e postcentrali dello scalpo. Il potenziale di prontezza motoria - che si dimostra fortemente correlato al pensiero, allo sforzo e all'attenzione richiesti dall'azione - viene generato dall'area motoria supplementare (sma), che è la regione cerebrale coinvolta nella preparazione dei movimenti; esso è invece assente o fortemente ridotto prima dei movimenti involontari o compiuti in modo automatico. Perciò questo potenziale è considerato un indicatore della preparazione motoria cerebrale dei movimenti volontari. Il risultato controintuitivo, e secondo molti rivoluzionario, degli esperimenti di Libet emerge dalla comparazione del tempo soggettivo della decisione con quello neurale: si rileva infatti che il potenziale di prontezza motoria, che culmina nell'esecuzione del movimento, comincia nelle aree motorie prefrontali del cervello molto prima del momento in cui al soggetto sembra di aver preso la decisione. (Va sottolineato che il potenziale di prontezza non si presenta, o quanto meno appare molto ridotto, nel caso di azioni che non possono essere considerate volontarie quali, ad esempio, quelle compiute da soggetti affetti da patologie come la sindrome di Tourette.) I volontari, infatti, diventavano consapevoli dell'intenzione di agire circa 350 millisecondi (ms) dopo l'instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo il (tipico delle azioni non pianificate e più spontanee) e 500-800 ms dopo l'instaurarsi del potenziale di prontezza motoria di tipo II (tipico delle azioni pianificate e consapevolmente preparate). Il processo volitivo sembra quindi prendere avvio inconsciamente, in quanto il cervello si prepara all'azione molto prima che il soggetto divenga consapevole di aver deciso di compiere il movimento. I risultati degli esperimenti di Libet, a lungo contestati ma essenzialmente confermati da una serie di ripetizioni in contesti di laboratorio ancora più raffinati, paiono indicare - anzi, secondo Libet e moltissimi scienziati contemporanei, dimostrano - che i nostri atti (o almeno la classe di azioni oggetto di queste indagini) vengono causati da una attività preconscia del cervello, che entra nella coscienza dell'individuo soltanto in un momento successivo, in media soltanto 206 ms prima che l'azione sia compiuta per quanto riguarda l'intenzione (il cosiddetto giudizio w, da will, volontà), e 86 ms prima per quanto riguarda l'azione vera e propria (il cosiddetto giudizio M, da movement). Da ciò, molti inferiscono che le intenzioni coscienti non sono all'origine del nostro comportamento volontario, perché esse seguono cronologicamente l'attività cerebrale di preparazione motoria - inaccessibile alla coscienza per un dato intervallo temporale -, facendo la loro comparsa solo quando il processo che porta al movimento è già stato innescato. In questa luce, a detta di molti autori, gli esperimenti di Libet mostrano che le intenzioni non sono veramente cause delle nostre azioni, perché il lavoro causale genuino è svolto da processi neurali che le precedono ampiamente nel tempo. Se è così, le intenzioni sono causalmente inefficaci o, come si dice in gergo tecnico, epifenomeniche. Secondo Libet, però, dagli esperimenti emerge anche un aspetto che, in qualche misura, salverebbe il libero arbitrio. Circa 200 ms prima dell'inizio del movimento, infatti, i soggetti sperimentali diventano coscienti della decisione di piegare il polso (o, più precisamente, del fatto che sono sul punto di piegare il polso). Ma ciò, a parere di Libet, lascia aperta una finestra temporale all'interno della quale gli individui sono in grado di decidere se compiere effettivamente tale azione oppure no: essi possono cioè porre una sorta di veto sul compimento dell'azione (tanto che lo stesso Libet ha suggerito che il concetto di libera autodeterminazione rilevante non sia quello di libero arbitrio - free will - ma quello di libero veto - free won't). A questa proposta si può tuttavia muovere una critica molto seria: se si ritiene, infatti, che le nostre volizioni positive siano determinate da processi neurali del tutto inconsci, non si vede perché non dovremmo ipotizzare che la stessa cosa accada quando poniamo il veto al compimento di determinate azioni. Detto diversamente: perché dovremmo ritenere che le volizioni negative siano così profondamente diverse da quelle positive, al punto che queste ultime sarebbero interamente determinate, mentre le prime rappresenterebbero l'ultimo bastione della libertà? Alcuni autori (Mele, 2009) hanno sostenuto che - come indicano gli esperimenti di Libet - in alcune circostanze possa senz'altro accadere che l'impulso prossimale ad agire sorga in modo inconscio oppure origini da cause di cui l'agente non è consapevole; ciò non ha tuttavia implicazioni dirette per la specifica forma di volontarietà che è rilevante nelle discussioni sul libero arbitrio e la responsabilità morale. Nel caso degli studi di Libet, infatti, ciò che conta per valutare o meno la volontarietà dell'azione è che all'inizio i soggetti sperimentali decidono consapevolmente di piegare il polso: e su quella decisione gli esperimenti non dicono assolutamente nulla. Sia come sia, negli ultimi tre decenni i risultati di Libet hanno ispirato molte altre ricerche, grazie alle quali è stato approfondito il ruolo delle aree cerebrali coinvolte nei processi neurali che sono correlati ai vissuti soggettivi dell'assunzione di decisioni. Sirigu e colleghi (2004), ad esempio, hanno mostrato che ripetendo gli esperimenti di Libet su pazienti con lesioni parietali risulta che essi divengono coscienti di aver deciso di intraprendere l'azione solo quando l'azione stessa è ormai in fase di realizzazione. In questi soggetti, quindi, la consapevolezza della decisione nemmeno precede l'inizio del movimento, in quanto tende a coincidere con la messa in atto dell'azione motoria. Sembra che in tali casi l'alterazione cerebrale abbia ridotto, se non annullato del tutto, l'intervallo di coscienza che precede l'effettiva messa in atto delle azioni. In generale, i risultati delle neuroscienze e delle scienze cognitive oggi pongono profondamente in discussione le idee ordinarie sulla natura dell'azione consapevole, della razionalità e della libertà. Come ha sottolineato Di Francesco, «il soggetto è depotenziato da una pluralità di agenzie neuronali, che si orientano e decidono in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli che attribuiamo a noi stessi con la psicologia ingenua» (Di Francesco, 2007). La natura parallela e distribuita del funzionamento cerebrale (ovvero il fatto che vi siano moduli e/o agenzie cognitive distinte dal punto di vista funzionale e architettonico-anatomico) fa infatti dubitare della natura unitaria dell'io. Non soltanto la filosofia, d'altra parte, viene scossa da questi risultati. A venire minacciata in uno dei suoi snodi fondamentali è anche la stessa antropologia religiosa, e quella cattolica in particolare, nella misura in cui essa attribuisce alla persona umana la capacità di esercitare il libero arbitrio, controllando razionalmente le proprie decisioni e i propri atti (ed essendo, per questo, responsabile ovvero meritevole di lode oppure di biasimo). Per questo, a meno che non preferisca ignorare il profondo conflitto tra la visione scientifica del mondo e le categorie della metafisica tradizionale (inclusa l'idea che la libertà umana trovi fondamento nell'anima intesa come forma immateriale del corpo), il pensiero religioso sembra chiamato a ripensare alcune delle proprie categorie. (Anche nell'ambito della teologia e della filosofia cristiana si comincia comunque a confrontarsi con la sfida portata dalle neuroscienze cognitive, per ora soprattutto in ambito riformato, con esiti assai variegati - Canobbio, 2009; Mancuso 2007, Murphy, 2006; Vaccaro, 2001). Ma ancora più generalmente è lo stesso senso comune, il modo in cui ordinariamente concepiamo noi stessi, a venir messo in discussione dai sorprendenti risultati che arrivano oggi dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. Data la complessità, l'importanza e la novità di questi temi ci è sembrato utile mettere a disposizione del lettore italiano una rassegna di contributi, ragionata e aggiornata, scritti dai maggiori specialisti italiani e stranieri. Va notato anche che gli autori che contribuiscono a questo volume aderiscono a prospettive metodologiche e teoriche diverse. Nondimeno, nelle nostre intenzioni, proprio nella sua variegatezza, questo volume può fornire una chiave d'accesso a un dibattito che, pur esercitando il fascino del più profondo degli enigmi filosofici, ha anche la potenzialità per produrre, in un futuro non lontano, conseguenze profonde sulla visione dell'essere umano e sulle nostre interazioni sociali. Scienza e filosofia a confronto E stato suggerito che il filone di esperimenti inaugurato da Libet, più che mettere in luce il carattere deterministico dei processi neurali, in realtà offra sostegno alla tesi che la coscienza non influenza causalmente i nostri comportamenti (Sie e Wouters, 2010). Alcune azioni immorali intenzionali si realizzano in un periodo molto dilatato (ad esempio, la bancarotta fraudolenta) e, quindi, i risultati di Libet non sembrano essere rilevanti per questo tipo di comportamenti. Questione diversa è quella del "reato d'impulso", che si realizza in un tempo assai ristretto e viene descritto dai criminologi come "reazione a corto circuito". In questo caso le dinamiche temporali della consapevolezza, come descritte dagli esperimenti à la Libet, possono spiegare un'azione senza apparente coscienza o intenzionalità. In questo filone risulta rilevante e assai discusso il passo avanti rispetto a Libet compiuto dal team di John-Dylan Haynes (Soon et al., 2008). In questo libro, nel suo capitolo Posso prevedere quello che farai, egli spiega come, studiando l'attività di un'area del lobo frontale (ba 10), gli sperimentatori possano predire, con un ragionevole margine di accuratezza, una scelta comportamentale (il movimento della mano destra oppure di quella sinistra), alcuni secondi prima che il soggetto acquisisca coscienza della propria determinazione. In altre parole, secondo Haynes, il cervello ha già deciso quale mano muovere quando nel soggetto la consapevolezza della scelta è ancora lontana dal maturare; inoltre - ed è fatto ancora più sorprendente - grazie al brain imaging e a un software istruito, un investigatore esterno può prevedere con un buon grado di accuratezza quale mano il soggetto muoverà. Ugualmente legata al ruolo della consapevolezza esplicita è la ricerca di Daniel M. Wegner, che fin dal titolo del proprio capitolo (L'illusione della volontà cosciente) presenta la volontà cosciente come una mera apparenza senza capacità causali. A suo giudizio, infatti, gli strumenti della psicologia sperimentale mostrano come l'esperienza della volontà - che pure, nella gran parte dei casi, è adeguatamente accoppiata alle nostre decisioni e ci dà dunque l'illusione della paternità sulle nostre azioni - faccia in realtà capo a un modulo mentale distinto dai reali meccanismi della volizione. E da ciò segue, secondo Wegner, che la volontà cosciente è senz'altro un'utile bussola per comprendere il nostro agire nel mondo, ma non ha alcun potere causale, al pari di una bussola che non agisce sulla rotta della nave, anche se può indicarla. Nel suo capitolo Esiste la libertà se decidono i nostri neuroni?, Adina L. Roskies argomenta contro due tesi molto diffuse, sulla base di un'aggiornata descrizione neurofisiologica dei meccanismi decisionali. In primo luogo, a suo avviso, anche qualora riuscissimo a stabilire se i processi decisionali sono deterministici oppure indeterministici, ciò sarebbe irrilevante per la questione del libero arbitrio. In secondo luogo, il problema del libero arbitrio è indipendente dalle discussioni sulla coscienza: e ciò per Roskies implica che, seppure la ricerca neuroscientifica riuscisse a dimostrare l'illusorietà dell'idea di un sé unitario che perdura nel tempo, la nostra fiducia nella libertà non ne sarebbe inficiata. Davide Rigoni e Marcel Brass, nel capitolo La libertà: da illusione a necessità, discutono del ruolo che le intenzioni coscienti svolgono nei processi decisionali. Oggi molti esperimenti sembrano indicare che, quando noi spieghiamo per quale ragione abbiamo agito in un certo modo, assai spesso stiamo offrendo mere ricostruzioni razionali post factum: e ciò perché in realtà il nostro comportamento è prevalentemente determinato da processi automatici, senza consapevolezza o guida cosciente da parte nostra. In questa prospettiva, l'intenzione cosciente può essere interpretata come un elemento cruciale del processo ricostruttivo razionale successivo all'azione. Ciò, secondo Rigoni e Brass, non implica però che, pragmaticamente, l'idea di libero arbitrio non possa essere preservata, in quanto necessaria per evitare il proliferare di comportamenti antisociali e di violazioni delle regole condivise. Nel suo capitolo Decisioni libere e giudizi morali: la mente conta, Filippo Tempia sostiene che l'interpretazione dei risultati neuroscientifici non implica affatto la negazione del libero arbitrio. In primo luogo, infatti, i dati sperimentali e le evidenze neurofisiologiche di cui disponiamo sono suscettibili di letture assai diverse tra loro. In secondo luogo, le nostre conoscenze rispetto ai processi neurobiologici presentano ancora vaste lacune. Infine, molte interpretazioni sono possibili quando si considera, più in particolare, il rapporto mente-cervello rispetto ai processi decisionali e alla condotta morale. In questa prospettiva, per Tempia, è corretto concludere che la scienza non ci offre oggi ragioni che ci impediscano di continuare a pensarci liberi e responsabili. Nel suo capitolo Che cos'è una scelta? Fenomenologia e neurobiologia, Roberta De Monticelli descrive un approccio filosofico compatibile con il naturalismo ma più ampio e ricco, nel quale inquadrare, ad esempio, i risultati ottenuti da Libet e Haynes. De Monticelli afferma che gli esperimenti in questione non provano che non siamo liberi nel senso più pregnante, quello cioè della capacità di (auto)determinarci all'azione, e costituiscono invece una suggestiva conferma dell'ipotesi fenomenologica su come si diventa persone: c'è un senso in cui la "libertà" viene prima di "noi". Si tratta della posizionalità, quel potere di prendere posizione - relativamente ai contenuti dell'esperienza e agli stati in cui l'esperienza ci induce - nell'esercizio del quale un essere umano si costituisce come soggetto personale. Mario De Caro, nel suo capitolo La moralità è riducibile alle emozioni?, critica l'idea, oggi molto fiorente, secondo cui le capacità morali altro non sarebbero che peculiari emozioni selezionate nel corso della storia evolutiva: un quadro, questo, in cui le scelte libere e razionali degli individui non giocherebbero dunque alcun ruolo rilevante. Secondo De Caro, tuttavia, il ruolo fondamentale della teoria dell'evoluzione nella spiegazione delle condizioni psicobiologiche abilitanti della moralità non va confuso con la comprensione della capacità morale in quanto tale: quest'ultima presuppone infatti la possibilità di dissociarsi razionalmente dalle proprie predisposizioni emotive per valutarne l'adeguatezza morale. Nel loro capitolo Se non siamo liberi, possiamo essere puniti?, Andrea Lavazza e Luca Sammicheli discutono della questione della responsabilità penale alla luce dell'evidenza offerta delle neuroscienze contemporanee. Si sostiene che sia insensato punire qualcuno il quale, stante la propria configurazione cerebrale, non poteva non volere commettere il crimine che ha compiuto; oggi, tuttavia, molti ricercatori sono convinti che gli esseri umani si trovino sempre in una tale condizione di determinazione e di mancanza d'autonomia. Lavazza e Sammicheli si domandano dunque se sia arrivato il momento di abbandonare completamente la concezione retributiva della pena, a favore di semplici misure di sicurezza per chi non abbiamo più ragione di definire reo, ma soltanto individuo socialmente pericoloso. Una tesi, questa, la quale ovviamente apre naturalmente scenari controversi, che non è difficile immaginare diverranno presto consueti nelle aule di giustizia. Giuseppe Sartori e Francesca Gnoato, nel loro capitolo Come quantificare il libero arbitrio, infine, affrontano in una prospettiva empirica, con ricadute in ambito psichiatrico-forense, il tema dell'autodeterminazione, finora appannaggio della filosofia e del diritto. Dall'autodeterminazione discende l'accertamento della capacità di intendere e di volere, che è attribuzione rilevantissima nei contesti giuridici e sociali. Ciò che finora era riservato al colloquio clinico e alla valutazione di informazioni anamnestiche, con una forte componente soggettiva da parte dell'esperto, oggi può essere affidato a strumenti standardizzati per la formulazione diagnostica, riducendo il margine di discrezionalità. Come notano Sartori e Gnoato, in questo modo viene introdotta una sorta di libero arbitrio applicato, la cui misura verrà sempre più demandata agli strumenti della scienza. In definitiva, se siamo davvero liberi resta una domanda a cui non risulta legittimo dare risposte apodittiche, nell'una o nell'altra direzione. È nostro auspicio, però, che la lettura di questo volume riesca a fornire qualche nuovo elemento di riflessione a chi da tempo è alla ricerca di una soluzione; e che possa anche instillare qualche dubbio in chi, sino a ora, un tale problema non s'era mai posto. |