Jacques Droz

Storia della Germania

Garzanti, Milano 1955

CAPITOLO SECONDO
LO SFORZO IDEALISTA VERSO L'UNITÀ E VERSO LA LIBERTÀ
(1815‑1850)

Durante la prima metà del XIX secolo la lotta per l'unità tedesca si confonde con la lotta per la libertà politica e conserva un carattere veramente idealista. I liberali che nel 1848 si sono messi alla testa del movimento unitario combattono meno per la conquista del potere o per la realizzazione di riforme pratiche nettamente definite, che per il trionfo di una dottrina morale, di una specie di religione politica.

Gli apostoli della libertà e dell'unità sono spesso degli ideologi che, di fronte alle potenze invecchiate dell'assolutismo monarchico e della reazione feudale, formulano le rivendicazioni essenziali del pensiero moderno: il diritto della nazione all'autonomia, la sua volontà di essere consultata sugli affari pubblici. Ma per arrivare ai loro fini essi contano meno sulla forza rivoluzionaria della nazione che sull'onnipotenza dell'idea.

Sono falliti perché hanno trovato dinanzi a sé l'eredità della Germania luterana: il particolarismo da una parte e dall'altra le congiunte potenze delle dinastie, della Chiesa, dell'aristocrazia e dell'armata, le quali non erano disposte ad abdicare la loro secolare autorità e che, specialmente in Prussia, disponevano di mezzi immensi sulle coscienze e sui corpi. Ecco perchè la Germania non è diventata, come le grandi potenze occidentali, uno Stato democratico dove il potere appartiene ai rappresentanti eletti dalla nazione sovrana.

Ai trattati del 1815 segui in Germania una profonda delusione. La Confederazione Germanica, costituita secondo i dettami di Metternich, non poteva dar soddisfazione ai patrioti: essa comprendeva trentanove Stati sovrani, i quali, salvo che per gli affari esteri, non erano sottomessi ad alcun potere centrale; in quanto alla Dieta di Francoforte, presieduta dall'Austria, non era che un Congresso di diplomatici i cui membri, legati dalle istruzioni ricevute, non potevano prendere una decisione se non con la riserva di ratificazione del loro sovrano. Lo statuto della Confederazione, benché prevedesse un embrione di organizzazione militare e finanziaria federale, di fatto votava la Germania all'impotenza.

L'irritazione non era minore presso i liberali: il Re di Prussia nonostante le sue solenni promesse, rinnovate nel 1815, non accordò ai suoi sudditi che una rappresentanza provinciale, senza autorità politica; in quanto all'Imperatore d'Austria, egli lasciò sussistere un assolutismo oscurantista e poliziesco. Solo certi sovrani della Germania del Sud, allo scopo di consolidare i loro territori, artificialmente riuniti da Napoleone, si affrettarono a dare ai loro sudditi delle costituzioni a imitazione della Charte francese; ma la vita politica negli Stati «inorganici» di questo tipo non esercita alcuna azione sui destini della Germania. Gli storici tedeschi rimproverano ai dottrinari liberali, come il badese Karl Rotteck, di vedere la salvezza in una teoria astratta dello Stato costituzionale, in un insieme di formule prese a prestito dallo straniero e che non sono la traduzione adeguata di uno stato di fatto.

La massa della nazione rimase indifferente dopo il 1815, ma il malcontento era vivo presso gli intellettuali, professori e studenti, che si raggruppavano intorno alla «Burscheschaft» di Jena. In questi ambienti d'altronde, alle aspirazioni liberali si mescolano l'amore romantico del passato germanico e dei costumi teutonici, ed il culto del Sacro Impero. Il carattere puerile di questi raggruppamenti si verifica al momento della « Festa della Warthurg» (1817), celebrata in occasione del tricentenario della Riforma e che si conclude con un autodafè di simboli e di scritti reazionari. Soltanto a Giessen si sviluppò un movimento dominato dall'energica personalità di Karl Follen, partigiano della Repubblica, apostolo del tirannicidio e della propaganda attraverso l'azione; al gruppo apparteneva Carlo Sand, che assassinò nel 1819 il poeta Kotzebue, noto come reazionario e informatore dello Zar. Ma questo gesto provocò dalla parte di Metternich una pronta reazione: al Congresso di Karlsbad (1819) alle Università furono imposti dei curatori, la censura imbavagliò la stampa, a Magonza una Commissione federale fu incaricata di un'inchiesta sui movimenti rivoluzionari. Certo, Metternich non poté ottenere al Congresso di Vienna (1820) che i sovrani della Germania del Sud ritirassero le loro costituzioni; tuttavia le decisioni della Santa Alleanza spezzarono per molti anni qualsiasi agitazione rivoluzionaria. I movimenti locali all'indomani della rivoluzione francese del 1830, in seguito alla quale alcuni principi spaventati promisero delle costituzioni; la festa di Hambach (maggio 1832), dove alcuni democratici issarono lo stendardo nero‑rosso‑oro, simbolo del liberalismo unitario, e brindarono in onore della sovranità del popolo; l'anno dopo, il mancato «putsch» contro la Dieta di Francoforte, permisero inoltre al Cancelliere, sostenuto dai principi tedeschi, di aggravare le misure di repressione. In quanto agli scrittori della «Giovane Germania» ‑ Gutzkow, Laube ‑ che tentavano di mescolare la cri‑, tica delle istituzioni esistenti e la propaganda sansimoniana con la manifestazione del loro sensualismo anticristiano, essi furono oggetto di persecuzioni rigorose. Difatti in Germania fino al 1840 ogni espressione di pensiero politico fu soffocata.

Tuttavia, nel corso di questi venticinque anni di reazione, la Prussia non rimase inattiva. Fin dal 1818 aveva soppresso nei suoi vasti Stati ‑ si estendeva dai 1815 fino alla riva sinistra del Reno ‑ le dogane interne. Dei funzionari notevoli ‑ Motz, Maassen ‑ ebbero allora l'idea di realizzare l'unità economica della Germania sotto la direzione della Prussia. Non senza d'altronde incontrare resistenza da parte del particolarismo, essi riuscirono a firmare una convenzione doganale con lo Stato di Hesse‑Daxmstadt (1828), poi con la Baviera ed il Wuerttemberg (1833). Esclusa l'Austria, dove tuttavia Metternich aveva previsto l'importanza dell'avvenimento, lo Zollverein (unione doganale) poté entrare in vigore il 1° gennaio 1834. La sua costituzione riempì di soddisfazione il grande economista Federico List che aveva fatto una vivace campagna in suo favore; fin da quell'epoca egli avrebbe desiderato che la Germania si trasformasse, mediante lo sviluppo di tariffe protettrici e la costruzione di una immensa rete di strade ferrate, in un grande Stato industriale, e prendesse così la direzione economica dell'Europa centrale ed orientale; per il momento questo apostolo dell'economia nazionale, che era nel contempo un pangermanista, non riuscì a imporre le sue vedute e finì col suicidarsi. Ciò non toglie che lo Zollverein non solo fosse l'origine di una grande attività economica - la cifra del commercio tedesco si raddoppiò in dieci anni ‑, ma lasciasse anche presagire alla Prussia il più brillante avvenire. Fin dal 1830 un commerciante di Aquisgrana, David Hansemaun, faceva comprendere in un memoriale al suo Re come l'unità tedesca dovesse essere realizzata dalla Prussia sulla base di interessi materiali.

Era però unanime l'opinione che, se la Prussia era destinata a questo ruolo, doveva prima trasformarsi in uno Stato liberale.

Ne parve giustificata la speranza quando la corona di Prussia toccò a Federico Guglielmo IV (1840-1861). Questo principe, che era in fondo un romantico e credeva all'origine divina della sua corona, ma che desiderava essere amato dal suo popolo, parve disposto ad accordare delle libertà e ad ottenere una riforma della Confederazione germanica; il discorso che egli pronunciò a Colonia (settembre 1842), alla posa della prima pietra per i lavori di compimento della celebre cattedrale ‑ simbolo dell'unità tedesca ‑, confermò le speranze poste in lui. II liberalismo, che spunta allora negli Stati prussiani, è d'altronde conservatore e monarchico; come già i ministri dell'era delle riforme, esso si pone sul terreno delle istituzioni esistenti. Avversari del diritto naturale e della sovranità del popolo, i liberali si accontentano di reclamare l'avvento del Rechtsstaat, dove la sovranità della legge sarà ottenuta dal mutuo consenso del Re e della nazione. Essi non cercano di ottenere garanzie contro l'arbitrio del potere, ma cercano ancora di esprimere la loro diffidenza nei riguardi di una dinastia che li ha così crudelmente ingannati. Il più illustre rappresentante di questo liberalismo prussiano è lo storico Dahlmann il quale, espulso dall'Università di Gottinga dal Re di Hannover per le sue opinioni politiche, insegna ora a Bonn nella Renania prussiana; orbene Dahlmann considera la Prussia come una realtà storica, la cui evoluzione deve essere orientata verso lo spirito dell'autogoverno britannico, che è lui stesso d'essenza germanica. Il liberalismo tedesco prima del 1848 rispetta i diritti acquisiti; in questi limiti esprime la volontà di una élite intellettuale di raggiungere la maggioranza politica.

Esso doveva tuttavia trovare dei capi esperti in quella provincia prussiana del Reno che era stata francese sotto Napoleone e dove si era sviluppata, in seguito a una precoce industrializzazione, una borghesia più evoluta che nel resto del regno. Qui infatti si difendevano con successo contro le tendenze centralizzatrici del governo prussiano le istituzioni ereditate dalla Francia; il Codice civile, una procedura orale e pubblica, l'uguaglianza municipale fra le città e il contado. Lottando contro una Prussia assolutista feudale e luterana ‑ il Re nel 1836 aveva fatto incarcerare l'arcivescovo di Colonia che rifiutava di sottoporsi alle esigenze prussiane nei riguardi dei matrimoni misti si aveva il sentimento di servire, la causa del progresso. Tuttavia, dal 1840 i liberali renani ‑ Hansemann ad Aquisgrana. Camphausen e Mevissen a Colonia, Beckerath a Crefeld ‑ rinunciando ai loro particolarismo e trascinati dall'evoluzione economica suscitata dallo Zollverein, accettarono di collaborare con le autorità prussiane, pur mettendo come condizione che la Prussia si trasformasse in uno Stato costituzionale e parlamentare.

Sotto la loro direzione, la Dieta renana era diventata un'Assemblea notevole, in cui i dibattiti erano seguiti con attenzione in tutta la Germania. Quando, nel 1847, Federico Guglielmo IV si decise, sotto la pressione dell'opinione pubblica, a convocare a Berlino un Landtag unito, costituito dai deputati di tutte le Diete provinciali, furono loro che si misero alla testa del movimento liberale in Prussia. Senza rompere con la Corona, essi fecero sapere al Re che non consentivano al Landtag una parte puramente consultiva, e che reclamavano la periodicità delle riunioni. Per sottolineare la loro opposizione, fecero rifiutare al Re due prestiti, in particolare uno destinato alla costruzione della ferrovia Berlino-Kothgsberg. L'intesa non potè realizzarsi, e il Re, che si rifiutava assolutamente ad «insinuare un foglio di carta» fra lui ed il suo popolo, sostenuto dai gentiluomini di campagna fra i quali si distinse Bismarck, congedò rapidamente i suoi «fedeli Stati». I deputati rientrarono abbastanza scoraggiati nelle loro provincie. Ma ci si sarebbe potuto domandare a buon diritto se il Re non dovesse essere obbligato a trasformare a breve scadenza lo Stato prussiano nel senso richiesto dalla borghesia occidentale. L'esaltazione liberale e unitaria, suscitata da questi avvenimenti, raggiunse il suo apogeo alla fine dell'anno 1847. Mentre i repubblicani tenevano un Congresso a Offenburg in cui reclamavano una rappresentanza nazionale come per tutti i paesi germanici, liberali venuti da ogni parte della Germania sostenevano a Reppenheim l'idea di un Parlamento doganale, nell'ambito dello Zoilverein, munito di attributi politici. A Heidelberg la Deutsche Zeitung raggruppava lo stato maggiore liberale. Esistevano infine in Germania numerosi focolai di agitazione sociale i quali, al momento buono, potevano fornire alla Rivoluzione delle truppe rivoltose. La crisi economica, la disoccupazione, la riduzione dei salari, e, fatto ancor più grave, la perturbazione nel lavoro artigianale, in seguito alla introduzione del macchinismo, venivano sfruttati da una propaganda già molto attiva.

Karl Marx nel 1848 si era distaccato dal vago radicalismo della Giovane Germania, e poi dai concetti utopistici dei primi comunisti i quali, come Weitling, facevano appello alla Rivoluzione brutale, o che, come Moses Hess, denunziavano la potenza corruttrice del denaro; scacciato dalla Germania dove aveva scritto i suoi primi articoli nella stampa renana, poi dalla Francia, dove aveva confutato Proudhon, egli aveva appena pubblicato in collaborazione con Federico Engels, acuto osservatore del mondo operaio inglese, il suo celebre Manifesto comunista. Ora pur facendo appello alle lotte di classe ed all'accordo internazionale dei proletari, egli dimostrava la necessità dell'alleanza provvisoria fra la borghesia e le classi popolari contro lo Stato assolutista e feudale

Ma in questo paese senza educazione politica, abituato da secoli a un'obbedienza disciplinata, gli organismi che detenevano l'autorità si mostrarono più forti dei loro generosi avversari.

La Rivoluzione del 1848 prese un doppio aspetto: prussiano e nazionale.

Furono gli avvenimenti parigini del 1848 che fecero scattare la Rivoluzione in Prussia: mentre le municipalità renane reclamavano l'avvento di un regime parlamentare, a Berlino l'opinione pubblica si avventava contro quello militare, universalmente detestato.

Come la maggior parte dei sovrani tedeschi, Federico Guglielmo IV giudicò prudente di gettare della zavorra: il 18 marzo, con l'annunzio della Rivoluzione viennese e della caduta di Metternich, egli lanciava un proclama in cui riconosceva la necessità di una «organizzazione costituzionale degli Stati tedeschi». Ma la folla, venuta per acclamarlo, entrò in conflitto con la truppa, vennero innalzate delle barricate; la capitale cadde nelle mani degli insorti: cosicché il 19 il re annunziava ai «suoi cari berlinesi» che aveva dato ordine all'armata di ripiegare e che affidava la polizia della capitale ad una guardia borghese; il 21, con i paramenti nero‑rosso‑oro, percorreva a cavallo la capitale e prometteva al suo popolo una costituzione con una Assemblea eletta col suffragio universale, e al tempo stesso l'assorbimento della Prussia in una Germania rinnovata dal liberalismo. Di fatto, il «ministero renano», presieduto da Camphausen, che Federico Guglielmo IV costituì all'indomani della crisi, si considerò come responsabile di fronte alla nuova Assemblea nazionale prussiana, e tentò, d'accordo con essa, di modificare seriamente la struttura fondamentale dello Stato prussiano. I liberali non ebbero il tempo di condurre a buon fine la loro opera, che d'altronde, era turbata dai continui eccessi ai quali si abbandonava la popolazione berlinese: il Re, la cui conversione al liberalismo non era sincera, si trovava a Potsdam sotto l'influenza di elementi conservatori ‑ la «camarilla» dei fratelli von Gerlach ‑, che difendevano molto abilmente nella Gazzetta della Croce gli interessi dei grandi proprietari; questi, attaccati ai loro privilegi e alla Chiesa luterana, che costituiva l'armatura morale dello Stato, fecero arrivare la loro propaganda fino ai contadini e alle piccole città dell'Est, ed ebbero rapidamente l'appoggio di una parte della società borghese, spaventata dal pericolo rivoluzionario: tanto che un vasto gruppo, il Club Costituzionale, si aggregò ben presto tutti gli elementi conservatori del territorio. Non appena schiacciata la rivoluzione, a Vienna, il Re si mise all'opera: Berlino fu posta in stato d'assedio, l'Assemblea trasferita suo malgrado a Brandeburgo, poi disciolta (dicembre 1848).

Il ministero liberale era stato rimpiazzato poco tempo prima dal conte di Brandeburgo, militare combattivo al quale fu associato un burocrate, Manteuffel. Però l'assolutismo non fu interamente restaurato in Prussia: volendo assicurare la coesione dei territori prussiani e vedendo nel Parlamento un ostacolo a un eventuale smembramento della Prussia nel seno di una Germania unificata, il Re accordò una costituzione, che, pur insistendo sull'unità della monarchia prussiana, fissando i diritti fondamentali dei cittadini, accordava larghe libertà alle comunità religiose, e prevedeva la creazione di due Camere legislative, l'una designata dal Re, l'altra eletta col suffragio universale. Ma nel 1850 la revisione del testo consecutivo accomodò il suffragio universale in maniera che, attraverso la divisione degli elettori in tre classi secondo la ricchezza, la maggioranza restava necessariamente ai rappresentanti delle classi ricche, specialmente dei grandi proprietari terrieri. D'altra parte, non essendo prevista nessuna responsabilità ministeriale, il potere regale rimaneva preponderante. Al punto che la natura dello Stato prussiano non fu sensibilmente modificata dalla Rivoluzione del 1848: la borghesia dell'Ovest non era riuscita ad imporre le sue vedute; il centro di gravita rimase nelle provincie orientali del regno. Il governo continuò ad appoggiarsi sull'aristocrazia, sulla burocrazia, sull'armata e sulla Chiesa luterana: forze anti‑liberali per eccellenza. Ciò doveva essere greve di conseguenze per il destino del paese.

Lo stesso smacco colpì a Francoforte la Rivoluzione nazionale. Il 5 marzo 1848 si erano riuniti a Heidelberg cinquantuno patrioti liberali che, di loro propria autorità, convocarono a Francoforte un Parlamento preparatorio; la Dieta non aveva osato protestare. B Vorparlament, composto di tutti i tedeschi che erano stati deputati in un'Assemblea qualunque, si riunì il 31 marzo; decise l'elezione col suffragio universale d'un Parlamento costituente, ma non osò rompere apertamente con le istituzioni esistenti, né spezzare radicalmente il potere della Dieta. Per la sua debolezza lasciò dunque sussistere, a fianco del nuovo organismo rivoluzionario, le autorità legali, che si erano provvisoriamente piegate, ma che conservavano la forza armata a loro disposizione. Da questa sovrapposizione doveva sorgere un conflitto il cui esito non poteva lasciar dubbi. Il Parlamento che si era riunito a Francoforte, nella chiesa di San Paolo il 18 maggio 1848, era del resto più un'Accademia che un'Assemblea di notabili; gli intellettuali ‑ professori come DahJmann e Droysen, uomini di lettere come Uhland ‑ vi dominavano largamente, mentre gli uomini d'affari erano quasi completamente assenti. Se il Parlamento risolvette provvisoriamente il problema del governo, creando un Vicariato d'Impero in favore dell'arciduca austriaco Giovanni, si dimostrò poi incapace di far riconoscere questa nuova autorità. Quando le truppe federali ricevettero l'ordine di prestare giuramento di fedeltà al governo provvisorio, la maggior parte degli Stati rifiutò d'obbedire; la Prussia si mostrò particolarmente gelosa dello sue prerogative. Nel seno stesso del Parlamento, la divisione si accentuò a proposito dei limiti della novella Germania. Non era ancora nel desiderio di nessuno, a Francoforte, di escludere dal Reich l'Austria tedesca. Ma quando si seppe che il cancelliere Schwarzeüberg, vincitore della Rivoluzione viennese, esigeva l'ammissione dell'integrità della Monarchia austriaca nel Reich, l'Assemblea si divise in due partiti: i liberali, quelli della Prussia specialmente, che tenevano per una «Piccola Germania» molto centralizzata, diretta dal re di Prussia, con esclusione totale dell'Austria; i cattolici e i repubblicani, partigiani della «Grande Germania», disposti a un'unione più allentata, ma che comprendesse l'Austria. In effetti si affrontavano sotto questi nomi i partigiani della Prussia e quelli dell'Austria. Finalmente, dopo lunghi dibattiti e con quattro voti di maggioranza, il Parlamento offrì al re di Prussia l'Impero ereditario (27 marzo 1849).

Al momento in cui ci si credeva arrivati in porto, si era di fatto più lontani dalla meta. Per odio dei principi democratici ‑ egli voleva una corona offerta dai principi suoi pari ‑, ma soprattutto per paura di urtare l'Austria che si era fatta minacciosa, Federico Guglielmo rifiutò. Da allora l'agonia del Parlamento fu breve: gli Stati principali richiamarono i loro deputati, l'Assemblea tentò bensì di mettere in vigore, nonostante i principi, la costituzione unitaria che aveva elaborata; ma non osò chiamare il popolo all'insurrezione contro le dinastie. Le rivolte che scoppiarono in diversi Stati, ‑ in Sassonia, dove la guardia prussiana dové intervenire, a Dresda, nel Baden, dove fu proclamata la Repubblica democratica, ‑ non durarono a lungo. Ridotta a un centinaio di membri, l'Assemblea lasciò Francoforte per Stoccarda, dove venne dispersa dai soldati del re del Württemberg (giugno 1849).

La Prussia tuttavia trasse le conseguenze dallo smacco della soluzione parlamentare, riprendendo il problema dall'unità tedesca sul piano della politica delle unioni contrattuali, che le era così ben riuscito per lo Zoilverein. Essa tentò di approfittare della situazione difficile in cui si trovava l'Austria in seguito alla rivolta ungherese, per organizzare con i sovrani di Sassonia e di Hannover un'Unione ristretta, alla quale l'ex fazione liberale e piccolo‑tedesca, del Parlamento di Francoforte, riunita a Gotha, consentì il suo appoggio (giugno 1849). Ma i successi austriaci permisero al particolarismo tedesco di rialzare la testa contro le ambizioni prussiane: l'Hannover e la Sassonia, abbandonando dietro invito di Schwarzenberg il campo della Prussia, si unirono alla Baviera e al Württemberg ‑ il trattato dei quattro re ‑ per presentare un nuovo progetto di Confederazione sulla base di una grande Germania. L'Unione ristretta si trovò così ricondotta ai piccoli Stati vicini alla Prussia, i cui rappresentanti riuniti a Erfurt votarono una costituzione federale preparata dal re di Prussia (marzo 1850). Questo fatto l'Austria non era disposta a tollerarlo: essa riunì a Francoforte l'antica Dieta, in cui aveva una posizione preponderante, al che Federico Guglielmo IV rispose con la convocazione di un congresso dei principi che erano sotto la sua protezione.

A metà dell'estate 1850 la Germania era divisa in due campi, intorno a Vienna e a Berlino. Le truppe furono mobilitate da una parte e dall'altra; e quando la Dieta decise di rimettere sul suo trono il Duca d'Assia che ne era stato scacciato dalla Rivoluzione, si potò credere che la Prussia si sarebbe opposta all'esecuzione federale in uno Stato facente parte dell'Unione ristretta, e avrebbe dichiarato guerra all'Austria. Invece il re di Prussia cedette a un ultimatum austriaco, e il suo ministro Manteuffel, convocato da Schwarzenberg a Olmütz (novembre 1850), accettò lo scioglimento dell'Unione ristretta. L'antica Dieta riprese le sue sedute. La ritirata di Olmütz significava, col trionfo momentaneo dell'Austria, il fallimento dell'idea unitaria e il ritorno generale alla reazione.

Questi avvenimenti ebbero gravi ripercussioni sullo sviluppo del pensiero politico tedesco. La speranza del liberalismo tedesco di dare una costituzione alla Prussia, e alla Germania la sua unità, andò delusa. Gli avvenimenti del' 1850 precedono in Germania un periodo di violenta reazione, e la paura provata dalle classi dirigenti fece nascere in loro un acuto desiderio di rappresaglia. Il regime napoleonico in Francia aveva offerto il modello d'una certa tecnica di governo, da cui le corti tedesche seppero trarre profitto. In Prussia la Restaurazione fu particolarmente brutale; lì, la Rivoluzione del 1848 era veramente stata la lotta della borghesia contro la vecchia aristocrazia dei Junkers, che costituiva l'armatura dell'antico regime; non appena calmata la tempesta, la società del passato si affrettò a ricostituirsi e a riprendere in mano lo Stato; essa ristabilì i fldecommessi e i poteri di polizia nei suoi domini, che erano stati soppressi. Quanto alla Monarchia, essa disponeva, grazie al sistema elettorale combinato con la pressione amministrativa, di una Camera docile: non si trattava che di un costituzionalismo d'apparenza. Oltre che alla polizia, la quale si cura ben poco delle libertà individuali, la Monarchia pensa di potersi appoggiare alla Chiesa: lascia ai vescovi la più completa libertà, ciò che le vale l'appoggio del gruppo cattolico al Landtag, capeggiato dal renano Reichensperger; in quanto al clero luterano, è invitato a difendere gli interessi e le dottrine reazionarie. Il filosofo ufficiale della reazione, Stahl, un ebreo convertito, conduce una vigorosa campagna contro la scienza, la tolleranza, la libertà di coscienza, e proclama lo Stato un'istituzione divina.

In queste condizioni la borghesia, che non è riuscita nel suo sforzo idealista di fondare la Germania moderna sulla sovranità della legge, volta le spalle alla vita politica per dedicarsi agli affari. Si lascia trasportare dalla straordinaria spinta economica che sarà il grande fatto degli anni «cinquanta». Il liberalismo, imbrigliato dalla reazione politica, si fa capitalista e costruttore. Ma sempre più si disinteressa del problema politico che abbandona al governo e ai partiti reazionari. Si dichiara soddisfatto dell'esistente stato di cose, a condizione che siano salva guardati gli interessi materiali. Svuotata della sua sostanza rivoluzionaria, la borghesia tedesca diventa realista. E’ prossimo il tempo in cui Bismarck riuscirà a integrarla in un Reich dove tutti gli interessi saranno soddisfatti da una serie di abili compromessi.

CAPITOLO TERZO
BISMARCK E LA REALIZZAZIONE DELL'UNITÀ TEDESCA
(1850‑1871)

Ciò che la nazione tedesca non aveva potuto ottenere con un atto della sua volontà sovrana, Bismarck lo realizzerà a profitto dello Stato degli Hohenzollern, senza colpire i principi tradizionali sui quali si edifica questa potente monarchia. La nazione tedesca si era fondata, nel XVI secolo, su una specie di alleanza tra il luteranesimo e la monarchia territoriale, governata dal despotismo patriarcale. Questa forma politica è stata spinta dalla Prussia, grazie alla sua estensione, alle sue tradizioni colonizzatrici, all'energia dei suoi principi, fino alle estreme conseguenze: sono conosciuti infatti il concetto prussiano della monarchia di diritto divino, l'organizzazione strettamente burocratica, la potenza dell'apparecchiatura, militare, il disprezzo affettato nei riguardi della pubblica opinione. Bismarck non rinnegò nulla di tutto questo, e volle estenderlo a tutta la Germania: fece di questa un «prolungamento della Prussia». Che cosa ne sarà dunque di quella costruzione unitaria della borghesia tedesca, la quale fino al 1848 aveva sperato di trasformare il paese secondo lo spirito del liberalismo? Ebbene, questa borghesia, Bismarck, ‑ e sarà il suo capolavoro, saprà associarla alla sua impresa, accostarla alla nuova forma imperiale.

Grazie a lui essa diventerà a fianco dell'aristocrazia terriera, le cui tradizioni feudali e patriarcali applicherà all'industria, quella classe dirigente che aiuterà la regalità a guidare le masse amorfe. Lungi dall'essere un fermento di liberalismo come nei grandi Stati occidentali, essa è stata un'oligarchia che ha contribuito a sviluppare nella nazione disciplina, sottomissione e obbedienza.

Formazione dell'unità tedesca sotto la direzione prussiana, integrazione della borghesia nel Reich unificato: queste furono le grandi realizzazioni di Bismarck fino al 1871.

Entrambe sarebbero state inspiegabili senza la profonda industrializzazione tedesca che incomincia in quest'epoca. Gli anni 1850‑1860 segnano infatti l'inizio della trasformazione economica, la creazione d'una nuova Germania dove lo spezzettamento storico scompare in un nuovo sistema di relazioni. Paese di piccoli artigiani e di piccole imprese sparse, la Germania vede aprirsi dinanzi a sé un'era meccanica e capitalista. La rete ferroviaria passa da 3.000 a 11.000 chilometri; il tonnellaggio di Amburgo si triplica in dieci anni; le industrie aumentano le attrezzature del 434% come numero, del 428% come potenza. La Germania diventa in pochi anni una grossa produttrice di carbone, di ferro, di macchine e di cotonerie. Il capitale si precipita sulle imprese economiche; e nelle grandi regioni industriali, la Slesia e la Ruhr, si vedono già delinearsi i primi abbozzi di concentrazione delle imprese. Ora questa vita economica non è più bavarese, sassone, prussiana, ma nazionale, e questo in due sensi. Anzitutto, in quanto libera sempre più la Germania dalle dipendenze straniere: è così per esempio che il carbone inglese viene totalmente soppiantato, che il mercato è conquistato alla tessitura nazionale. In secondo luogo, perché si attua interamente nell'ambito dello Zollverein.

L'Austria, approfittando della ritirata di Olmütz, tenta fra il 1850 e il 1853 una vigorosa offensiva per assorbire gli Stati del Sud nel suo solco economico; ma in fin dei conti fallisce; e se nel 1853 fu firmato un trattato di commercio austro‑prussiano, dal quale l'Austria trasse qualche profitto, fu la Prussia quella che rimase alla testa dello Zoilverein. Nel 1854 il ministro del commercio von der Heydt riuscì perfino, col suo Steuerverein, a far penetrare nell'unione doganale l'Hannover, fino ad allora recalcitrante. La Germania si sentiva sempre più solidale per un comune destino economico. Questa eccezionale prosperità ebbe per conseguenza di spezzare completamente gli antichi quadri sociali; l'aristocrazia governamentale riuscì solo con difficoltà a mantenere allo Stato prussiano, di fronte all'industrializzazione del paese, il suo carattere esclusivamente agrario e feudale. La creazione di società per azioni, il prodigioso sviluppo delle banche si imposero come la forma nuova del capitalismo. Di fronte all'antica casta aristocratica si forma una potente borghesia d'affari, tanto più sicura di se stessa per il fatto di sapere che la prosperità della Germania è dovuta non già a misure artificiali, ma alla sua propria energia. Essa fornisce ora allo Zollverein l'eletta schiera dirigente: il ministro von der Heydt, i banchieri renani Mevissen e Hansemann, il vestfaliano Krupp, il berlinese Borsig. Ora quest'alta borghesia, stanca di lotte politiche e della loro sterile agitazione, si slancia con raddoppiato ardore verso la conquista del benessere materiale e della ricchezza. A questo titolo, accentua prima le sue rivendicazioni economiche, appoggiando con tutte le sue forze i dottrinari del manchesterianismo; e il Congresso degli economisti, riunitosi a Francoforte nel 1859, che è l'espressione dei suoi interessi, esige «l'introduzione immediata della libertà industriale». In seguito, essa insiste sulla necessità di realizzare senza indugio l'unità nazionale: questo non è per lei soltanto un ideale dottrinario, ma anche una realtà pratica, senza la quale i risultati ottenuti dall'unione doganale potrebbero sempre essere rimessi in gioco. Così la grande borghesia diventa l'anima di quel Nationalverein che, creato nel 1859, ha lo scopo di sviluppare l'idea della patria tedesca nelle coscienze popolari e di fondare l'egemonia della Prussia, la quale da sola, grazie all'unione doganale, aveva saputo creare i legami corrispondenti all'ampiezza dei nuovi interessi materiali.

II fatto che il liberalismo tedesco abbia assunto una forma più economica e nazionale che politica, spiega in gran parte l'opera di Bismarck, opera che conviene ora illustrare.

Nel momento stesso in cui l'industrializzazione del paese provoca un'evoluzione radicale nei riguardi del particolarismo, la resistenza prussiana all'egemonia austriaca resistenza accompagnata fin qui da una certa timida deferenza ‑ si irrigidisce e s'inalbera contro i sacrifici imposti all'orgoglio nazionale. Olmütz ha segnato a questo riguardo il rovesciamento della politica della Prussia, i cui rancori si esasperano fino a un odio feroce. E questi sentimenti si comunicano, attraverso l'azione di una burocrazia disciplinata e onnipotente, a tutte le classi sociali e a tutti i partiti.

A questa evoluzione degli spiriti ha partecipato anche Bismarck. II barone di Bismarck, nato nel 1815 da una famiglia brandeburghese, apparteneva all'aristocrazia luterana delle provincie orientali. La sua educazione e la sua giovinezza furono quelle di un uomo del suo ceto: l'Università aristocratica di Gottinga, i duelli e le sbornie, un breve periodo nell'amministrazione, la vita di un gentiluomo di campagna. Era un conservatore che, al Landtag unito del 1847 e alla Camera del 1849 si segnalò per la sua ostilità al parlamentarismo, all'uguaglianza sociale, all'emancipazione de li ebrei; in nome del suo pa rticolarismo prussiano, egli condannò in blocco l'opera perseguita dalla Chiesa di San Paolo. Ma, rappresentante della Prussia alla Dieta ricostituita di Francoforte dal 1851 al 1859, egli si rese perfettamente conto che la lotta contro l'Austria era inevitabile; in occasione dei tentativi di rientro nello Zollverein (1853), della guerra di Crimea (1854), della guerra d'Italia (1859), egli prese sistematicamente posizione contro l'Austria.

E si volge ora; lui che ha così aspramente combattuto il liberalismo dei 1848, contro il conservatorismo stretto, tenace, paralizzante del quale l'Austria si serve non soltanto per vincere le rivoluzioni, ma anche per ostacolare lo sforzo prussiano.

Agli occhi di Bismarck, prussiano «fino all'osso», è evidente che l'unità tedesca non potrà essere realizzata se non secondo i supremi interessi della Prussia.

L'interesse della Prussia, egli dichiara, «è per me il solo peso normale che possa gravare stilla bilancia della nostra politica». In nome del suo prussianismo, (Stockpreussentum), egli si rifiuterà con energia a qualunque assorbimento della Prussia da parte della Germania. Questa, secondo la celebre formula, non potrà mai essere altro che il prolungamento della Prussia; e Bismarck sa perfettamente che questo risultato non si otterrà «con dei discorsi e delle decisioni di maggioranza», ma «col ferro e col sangue». L'unità tedesca dovrà portare il marchio del militarismo prussiano. Ma il grande uomo di Stato si separerà abilmente, in questo prussianismo, da ciò che esso ha di contrario alla marcia generale dell'epoca ‑ il suo carattere troppo francamente feudale, agrario e particolarista ‑, per legare al nuovo Reich con abile compromesso, la classe nuova uscita dall'industrializzazione.

In breve, egli comprese che la borghesia, lungi dall’indebolire l'organismo prussiano, avrebbe apportato un contributo di potenza a questa nazione in piena ascesa.

Se tale fu il suo pensiero dominante, si tenga conto di quale forza di volontà Bismarck fece uso per assicurarne l'esecuzione.

Quando Bismarck fu chiamato alla direzione del governo prussiano, Guglielmo I, reggente dal 1858, re a partire dal 1861, si trovava dopo il suo avvento al trono nell'impossibilità, in conseguenza dell'opposizione del Landtag, di realizzare la riforma militare che il suo ministro della guerra von Roon giudicava indispensabile: si trattava di rinforzare, a detrimento della territoriale, l'armata attiva, che sola aveva un valore militare. Egli pensava già di abdicare, quando von Roon gli segnalò Bismarck, allora ambasciatore a Parigi, come il solo uomo capace di risolvere la crisi costituzionale (1862). Bismarck, che condivideva interamente le vedute del Re sulla necessità di una armata forte, seppe rianimare il coraggio del suo signore mostrandogli che, se rischiava la corona, almeno sarebbe caduto da vero prussiano, per i «diritti dello Stato». Nominato primo ministro, sottopose per quattro anni la Prussia a un regime di dittatura, opponendo con successo l'autorità del Re responsabile e la ragione di Stato al miserabile gioco delle maggioranze parlamentari, contentandosi di far votare il bilancio dalla Camera dei signori. Ciò valse a Bismarck un'enorme impopolarità, ma lo strumento indispensabile poté così essere forgiato.

Tuttavia, fin dal suo arrivo al potere, Bismarck non perse di vista la politica estera. La rottura con l'Austria, non solo egli non la teme, ma la ricerca con tutti i mezzi. A Parigi sonda le simpatie di Napoleone III. Promettendo il suo aiuto contro gli insorti polacchi, si assicura la neutralità dello Zar. Così, quando nel 1863 l'Austria convoca a Francoforte un congresso di principi tedeschi per regolare la questione federale, egli fa brutalmente fallire il progetto, rifiutando l'adesione della Prussia. Nel medesimo tempo, questa firmava con la Francia un trattato di commercio che significava la condanna del regime di tariffe differenziali accordate fino allora all'Austria, e dava scacco matto una volta ancora agli sforzi della sua rivale per ricostituire lo Zollverein secondo l'idea di una grande Germania (1864). Frattanto, prima di colpire l'avversario, Bismarck cerca abilmente di screditano. La faccenda dei ducati di Schleswig e di Holstein ‑ fino allora legati al re di Danimarca da un'unione personale ‑ gliene fornirà l'occasione. La questione che si presenta è doppia, d'ordine nazionale e d'ordine di successione: qui vivono popolazioni in maggioranza tedesche; minacciate, alla morte di Federico VII, di una costituzione comune con la Danimarca, esse si pronunciano non già per l'erede diretto, Cristiano di Glücksburg, ma per un principe tedesco di più lontana parentela, il duca di Augustenburg, e ciò con il consenso della Dieta di Francoforte Bismarck, intervenendo allora, riesce a sostituire alla Dieta, un intervento comune della Prussia e dell'Austria, le quali, dopo una rapida campagna, impongono alla Danimarca la cessione dei ducati. Ma questi, invece di essere rimessi al duca di Augustenburg, furono divisi dalla convenzione di Gastein (1865) fra le due grandi potenze: l'Holstein all'Austria, lo Schleswig con in più la bella rada di Kiel, alla Prussia. E evidente che, se la Prussia aveva sollevato aspre collere, l'Austria associandosi a lei, doveva perdere gran parte delle sue simpatie tedesche.

Inoltre Bismarck, della convenzione di Gastein seppe fare una macchina di guerra da poter usare in qualunque momento. Quando si fu assicurata a Biarritz la neutralità dell'Imperatore francese, ed ebbe firmato un trattato di alleanza col giovano regno d'Italia, egli pretese che la cattiva amministrazione dell'Holstein da parte dell'Austria creasse alla Prussia il dovere di annetterselo; e nello stesso tempo lanciò un progetto di riforma federale escludendo l'Austria. Il casus belli era trovato. Ii 14 giugno 1866 la Dieta, su domanda dell'Austria, mobilitava contro la Prussia, per dire il vero con una piccola maggioranza. Si sa che la campagna di Boemia fu folgorante: dopo che le piccole armate di Hannoven e di Baviera furono state annientate senza aver potuto concentrare le loro truppe, il generale Moltke ottenne a Sadowa lo schiacciamento dell'Austria (3 luglio), che domandò un armistizio.

Da allora, in seguito all'atteggiamento di Napoleone III che si contentò di una mediazione pacifica e si cullò qualche tempo nella speranza di una Germania divisa in tre tronconi ‑ l'idea chimerica della Triade ‑ Bismarck ebbe le mani libere per organizzare la Germania di testa sua. Certo, al momento dei negoziati di Nikolsburg, rifiutò, nonostante l'insistenza di Guglielmo, di opprimere il vinto e non gli chiese alcuna cessione di territorio. Ma pretese il riallacciamento alla Prussia dell' Hannover, dell' Assia, di Francoforte e dei ducati danesi, le cui popolazioni non furono consultate; e, con tutti gli Stati a nord del Meno, egli organizzò quella Confederazione del Nord che doveva essere l'embrione del futuro impero tedesco. In quanto agli Stati del Sud, furono invitati a firmare trattati di un'alleanza militare che metteva le loro armate, in caso di guerra, sotto il comando prussiano. Infine lo Zollverein fu rimaneggiato con la creazione d'un Parlamento doganale.

L'opera unitaria è terminata con l'esclusione dell'Austria? Bismarck non lo pensa. Infatti nel Sud l'opposizione è lungi dall'essere estinta: nel 1868 il Parlamento doganale respingerà una mozione in favore dell'unità. Specialmente a Monaco, l'opinione cattolica temeva la formazione di un grande Stato protestante, e il popolo detestava il militarismo prussiano, la sua brutalità imperiosa e burocratica. Salvo che nel Baden, l'idea unitaria si urta dappertutto con una latente diffidenza verso la Prussia. Ora Bismarck stima che, per vincere queste resistenze, sia necessaria una guerra nazionale. E contro chi sarà diretta? Contro il «nemico ereditario» che detiene ingiustamente l'Alsazia e la Lorena e che non ha desiderato altro che l'impotenza della Germania. La guerra contro la Francia appare a Bismarck il sicuro mezzo per compiere e cementare l'unità tedesca. La patria nascerà dalle sofferenze comuni e dal comune successo.

Ora Napoleone si era per l'appunto impegnato in una politica di compensazione, di «mance», così si è detto, che poteva essere presentata all'opinione tedesca come una serie di provocazioni. Quale prezzo della sua benevola neutralità, all'indomani di Sadowa, egli aveva incominciato a domandare a Bismarck i territori bavaresi della riva sinistra del Reno, con Magonza, ciò che ebbe per conseguenza di rigettare subito verso Berlino i principi tedeschi del Sud. Non avendo ottenuto maggior successo dalla parte del Belgio, la diplomazia imperiale si era finalmente rivolta verso il Lussemburgo: Napoleone avrebbe voluto comprare quella regione, possesso personale del re dei Paesi Bassi, ma parte integrante dell'antica Confederazione Germanica, e la cui capitale era occupata da una guarnigione prussiana. Senza opporsi al progetto come principio, Bismarck ne fece spargere la voce, e su questo progetto la stampa tedesca pubblicò articoli di fuoco. Dopo un periodo di tensione, una Conferenza internazionale decise l'evacuazione dei prussiani dalla regione e lo smantellamento della fortezza di Lussemburgo, dovendo il paese. rimanere neutro sotto la garanzia delle potenze (maggio 1867)

Ma il risultato voluto da Bismarck era ottenuto: i rancori contro la Francia sovraeccitati, il patriottismo tedesco ridestato. Il riavvicinamento, abbozzato dal 1867, tra la Francia e l'Austria e che non giunse fino ad una vera alleanza, invelenì ancora la situazione, alimentando in Germania il persistente timore di una coalizione. Per un conflitto che giudicava inevitabile, Bjsmarck intendeva scegliere la sua ora. La candidatura di un principe della casa di Hohenzollern al trono di Spagna, gli fornì l'occasione ricercata: i francesi ci videro subito la minaccia della restaurazione dell'Impero di Carlo V. La candidatura poté essere scartata una prima volta. Ma vi era a Parigi, intorno all'Imperatrice, un partito che, per ragioni dinastiche, desiderava la guerra, o per lo meno un successo di prestigio. Quando il governo francese domandò ‑ esigenza inammissibile ‑ che una tale candidatura non si rinnovasse in avvenire, Bismarck rese la rottura necessaria; egli modificò, d'accordo con Moltke e von Roon, il testo di un telegramma di Guglielmo al suo primo ministro, nel quale il re di Prussia opponeva un rifiuto fermo, ma cortese, alla domanda francese di garanzie (13 luglio 1870). Ii dispaccio di Ems provocò l'atteso effetto: sei giorni più tardi la dichiarazione di guerra era notificata a Berlino. Bismarck otteneva così che la guerra prendesse per la Prussia un carattere difensivo, ciò che gli era necessario per avere il concorso degli Stati tedeschi. Difatti, i dubbi che si potevano conservare sull'atteggiamento degli Stati del Sud svanirono subito: la Germania intera fece blocco intorno alla Prussia.

La guerra franco‑tedesca permise a Bismarck di compiere la sua opera di unificazione. Dopo la vittoria di Sedan (2 settembre 1870) gli Stati del Sud aprirono negoziati con la Prussia per rinsaldare i legami federali. Essi furono abilmente condotti dal consigliere di Bismarck, Delbrück, che seppe isolare dagli altri Stati la Baviera, le cui rivendicazioni territoriali, destinate a stabilire la comunicazione col Palatinato bavarese, potevano sembrare inquietanti. Egli ottenne così, per base di discussione, la costituzione della Confederazione del Nord. Perfino dopo questo successo, si urta ancora nelle esigenze della Baviera, che teneva al mantenimento del principe federale e ad una presidenza alternata con la Prussia. Le ultime resistenze furono vinte quando Bismarck, lusingando la mania romantica del re Luigi II, suggerì che fosse lui, il glorioso Wittelsbach, a offrire la corona imperiale a Guglielmo I. Questi consentì, non senza fatica a ricevere la dignità imperiale, tanto metteva il suo titolo di re di Prussia al di sopra di quello di Imperatore tedesco: nonostante tutto, la proclamazione del novello Impero ‑ cerimonia fredda, ma imponente ‑ poté aver luogo a Versailles il 18 gennaio 1871. Bismarck, per non ferire i particolarismi ancora sospettosi, aveva promesso che l'Alsazia‑Lorena, strappata alla Francia dalla pace di Francoforte (maggio 1871), dovesse diventare non già un dominio prussiano, ma «terra dell'impero», vale a dire proprietà comune di tutta la Germania

Quale organizzazione ha concepito Bismarck per questo «secondo Reich», del quale è il vero fondatore?

A questo riguardo la costituzione della Confederazione del Nord, redatta nel 1867, prefigura quella che, votata dal Reichatag, sarà promulgata per la Germania il 16 aprile 1871. L'una e l'altra poggiano su una serie di compromessi che conferiscono al Reich bismarckiano un suo carattere proprio.

Anzitutto, compromessi tra il particolarismo secolare e l'unitarismo centralizzatore. Bismarck è rimasto tutta la sua vita, perfino quando fu trattato da rivoluzionario dai Junkers indignati, un prussiano dalla testa ai piedi; egli ha voluto l'unità per la Prussia e pensando alla Prussia. La Prussia non si è dunque fusa nel Reich, come si auspicava nel 1848, essa dì fatto impone le sue direttive alla Germania intera. E’ il re di Prussia, che, presidente della Confederazione dal 1867, diventa dal 1871 Imperatore tedesco; è il suo primo ministro che esercita le funzioni di Cancelliere. Infine, il Governo d'Impero, presieduto dal Cancelliere, si occupa della diplomazia, della guerra, della giustizia, delle vie di comunicazione, delle poste, del commercio e della dogana. E tuttavia la Germania rimane uno Stato federale (Bundesstaat) composto da venticinque Stati sovrani, ognuno conservante la sua costituzione particolare e le sue proprie leggi, l'autorità delle dinastie e dei patriziati è salvaguardata da un consiglio federale (Bundesrat); questo è l'espressione reale delle sovranità federali integrate nella sovranità del Reich. E stata certamente intenzione di Bismarck quella di conservare i quadri storici nei quali sono cresciuti gli Stati tedeschi. Solo in questo compromesso egli accentua l'unitarismo, del quale è secondo lui garante la potenza prussiana: la Prussia, per il numero dei suoi rappresentanti al Bundesrat, per la sua influenza sui quadri amministrativi e militari, dirige di fatto la politica dell'Impero.

Segue un altro compromesso fra il principio della monarchia assoluta di diritto divino e il liberalismo occidentale. Dal 1866, quando si trattò di dare una costituzione alla Confederazione del Nord, Bismarck aveva rotto col conservatorismo intransigente dei gentiluomini di campagna. La filosofia di Stahl gli aveva insegnato che la monarchia cristiana è legittima solo se il governo si conforma alla giustizia, se sa venire a patti con la rappresentanza popolare, e accetta di collaborare con gli eletti dalla nazione. Con grande scandalo dei suoi amici politici, gli parve necessario integrare nello Stato le nuove classi fatte sorgere dall'industrializzazione della Germania: la grande borghesia d'affari, e il suo inevitabile satellite, il proletariato operaio. Egli stima indispensabile di fornire loro quell'organismo, dove, a fianco della aristocrazia terriera, esse potranno far sentire le loro voci ed esprimere le loro legittime rivendicazioni. Così nel 1867 egli creò quel Reichstag eletto col suffragio universale che entrerà nel 1871 nella costituzione imperiale; questo, nel suo pensiero, è destinato a far conoscere al governo gli interessi della nazione; sarà quella «ricca orchestra» che gli trasmetterà tutte le risonanze popolari; rappresenterà, di fronte al monarca, tutte quelle energie tedesche che conviene comprendere per unirle in seguito in una forte e viva sintesi. Per contro, resta convenuto che quel Reicbstag non governerà; giacché non potrebbe esserci, nello Stato degli Hohenzollern, un regime parlamentare. Il Reichstag non può, mediante un voto di sfiducia, rovesciare il Cancelliere, né i suoi sei segretari di Stato ‑ semplici commessi ‑, poiché la responsabilità ministeriale non esiste. Il liberalismo bismarckiano si fa dunque essenzialmente corporativo: non si tratta, nel pensiero del Cancelliere, di fornire agli individui un'arma contro gli abusi del potere; si tratta di dare una rappresentanza ai diversi gruppi di interessi, affinché possano apportare la loro collaborazione al potere. In altri termini, il Reichstag diventerà uno strumento di governo.

Il modo d'altronde con cui sono organizzate le circoscrizioni elettorali rende facile il controllo del governo sulle operazioni di voto. Quanto ai grandi partiti politici che rappresentano i diversi strati sociali, essi prenderanno, secondo il desiderio di Bismarck, un andamento disciplinare; e spetterà al Cancelliere di stabilire fra di loro i compromessi desiderabili. Per mezzo di questa politica realistica (Realpolitilc) che assicurerà la soddisfazione dei bisogni materiali, egli conta di ottenere la passività politica della nazione. In questa seconda serie di compromessi, è stato mantenuto l'accento sull'autorità monarchica.

Qual è il senso profondo della realizzazione bismarckiana? Il «Cancelliere di ferro » considerava la borghesia incapace di realizzare l'unità con le sue sole forze. Perciò ha persistito nella tradizione degli Hohenzollern, ed è per la grandezza della monarchia prussiana, servita dalla sua burocrazia, dalla sua armata, che egli ha realizzato l'unità. Egli stimava però di non poter lasciare la borghesia al di fuori da questa evoluzione, tanto più che il suo liberalismo economico e nazionale si accordava benissimo con la monarchia autoritaria. Fuse dunque nella tradizione disciplinare della Prussia quella borghesia moderna che gli apportava il suo spirito intraprendente e la sua potenza realizzatrice. E’ un fatto che dal 1866 in poi l'alta borghesia, organizzata in un nuovo partito ‑ il partito nazional-liberale ‑, fornì il suo concorso a Bismarck. Sono uomini come Simson, già presidente del Parlamento di Francoforte, Twesten, deputato dell'opposizione alla Camera prussiana, lo storico Sybel, che sostengono ora il loro Cancelliere vittorioso segno che la borghesia, sacrificando le sue aspirazioni liberali, si è inserita nel nuovo Reich. E’ diventata, a fianco dell'aristocrazia che continua a fornire i quadri dell'armata e dell'alta burocrazia, quella classe dirigente per il cui profitto funziona il potente organismo politico che Bismarck ha forgiato.

L'egemonia prussiana appare dunque dopo il 1871 come una necessità ineluttabile: l'intelligenza tedesca ha capitolato di fronte a lei. Non solo, dopo Sadowa e Sedan, ammette la vittoria del prussianismo, ma si sforza di discernervi una filosofia e d'imporla al pensiero tedesco. Questa fu principalmente l'opera di Enrico von Treitschke che insegnò per vent'anni all'Università di Berlino, e le cui opere sono concepite per glorificare la politica bismarckiana. Vi si leggono l'apologia della ragion di Stato, del sacrificio liberamente consentito di ogni individuo alla potenza collettiva, della guerra che è la vera scuola delle nazioni. Vi si discerne un'amara ironia nei riguardi del liberalismo occidentale e dei sogni d'organizzazione internazionale per la pace. La sua Politica, pubblicata nel 1889, può riassumersi in questa vigorosa formula: «diritto è la politica bene intesa della potenza. »

CAPITOLO QUARTO
I ‑ Il Reich bismarckiano (1871‑1890).

Il compromesso federale non causò a Bismarck le difficoltà che si attendeva. La storia interna si svolge regolarmente dal 1871 nel senso dell'unità. Mentre le rivalità dei sovrani appaiono come cose di un'altra età, l'unitarismo ha per sé la maggioranza dei partiti politici, dunque la maggioranza della nazione, la quale sente d'istinto che l'avvenire appartiene all'unificazione delle energie tedesche. E infatti il potere centrale non tarda a invadere i domini nei quali gli Stati avevano per principio una legislazione esclusiva; si assiste alla scomparsa delle monete regionali in favore del marco, alla creazione d'una Reicksbank, al perfezionamento dell'apparato amministrativo e militare; il servizio obbligatorio tende a unificate le popolazioni del Reich. A questa tendenza unificatrice la Prussia pretende, quanto a lei, di non sacrificarsi: indubbiamente però Bismarck impone ai gentiluomini di campagna di fare qualche concessione nel campo dei diritti di giustizia e di polizia nei loro domini. Ma è la mentalità politica e burocratica della Prussia che forgia la Germania moderna, e Bismarck ne favorisce l'unitarismo solo nella misura a lui utile per assicurarsi la direzione dell'Impero.

Nel primo piano della vita politica si vede ora svolgersi ii conflitto dei partiti che lottano per il potere. Manterrà Bismarck il compromesso fra l'assolutismo monarchico e il liberalismo parlamentare, come lo aveva concepito? Potrà ottenere dai partiti che integrino nel Reich le grandi forze sociali di cui sono rappresentanti?

Negli anni dell'Impero quattro partiti hanno tenuto un ruolo essenziale sulla scena politica.

Il partito conservatore, che, nel 1871, ha per il Cancelliere i sentimenti che si nutrono verso un transfuga, domina all'Est dell'Elba, paese di grandi proprietà, nel quale vigono ancora dei diritti feudali. Solo nell'aristocrazia ‑ ed è ciò che conferisce ai conservatori la loro considerevole potenza ‑ si reclutano il corpo degli ufficiali prussiani e quello dell'alta burocrazia. Per tradizione essi sono legati alla prerogativa regale, all'armata, alla Chiesa luterana, all'alleanza fra il trono e l'altare. Dal punto di vista economico tendono a prendere in mano gli interessi dei contadini, e di conseguenza adottano un programma protezionista.

Di fronte a loro, i nazional‑liberali, raggruppati in partito dal 1867 e costituenti da allora la maggioranza sulla quale si appoggia Bismarck, rappresentano gli interessi dell'alta borghesia. Il loro stato maggiore è formato di neo‑Prussiani (anche di Hannoveriani come Bennigaen) o di Tedeschi del Sud (Baden, Württemberg). Industriali, commercianti, professori di università, si mostrano volentieri più nazionali che liberali, ansiosi soprattutto di libertà economiche e di apparenze parlamentari. Essi sono risolutamente per il libero scambio. Alla loro sinistra, i «progressisti», eredi del liberalismo del 1848, dispersi in alcune città (Konigsberg per esempio), non sono che una minoranza di intellettuali, senza nessuna autorità.

Il Centro cattolico, che fa la sua apparizione come partito nel 1871, è una delle creazioni più originali della politica tedesca. Mentre i partiti tedeschi rappresentano sempre più dei gruppi sociali e degli interessi materiali, il centro difende un principio ideale: quello della religione cattolica in un paese per due terzi protestante. Un partito cattolico si era costituito in Prussia durante la rivoluzione del 1848 ed aveva accentuato la necessità della libertà della Chiesa nello Stato. Le sue rivendicazioni nel 1850 erano penetrate nella costituzione prussiana: e in tutta la Germania i cattolici avevano ottenuto un insieme di concessioni ché assicuravano largamente l'indipendenza necessaria all'esercizio del culto. Nel vero senso della parola il Centro non aveva, all'infuori della difesa degli interessi cattolici, un suo programma politico e sociale, giacché comprendeva membri appartenenti alle condizioni sociali più diverse: gran signori cattolici della Slesia, aristocratici bavaresi, popolazioni industriali e rurali della vallata del Reno. Ma questa diversità stessa gli permetteva di orientarsi facilmente ora a destra, ora a sinistra.

La social‑democrazia non rappresenta al Reichstag nel 1871 che un'infima minoranza la quale però non tarderà a rappresentare un ruolo considerevole. Il primo partito socialista ‑ l'Associazione generale degli operai tedeschi ‑ fu fondata nel 1863 da Lassalle. Contro la borghesia liberale che, con l'economista manchesteriano Scbultze‑Deitzsch, tentava allora di organizzare a pro fitto della classe operaia delle cooperative di consumo e di credito, Lassalle proclama brutalmente l'esistenza della legge di bronzo, e la necessità ineluttabile della lotta di classe. Ma le tendenze autoritarie, monarchiche e «piccolo‑tedesche» di Lassalle furono utilizzate da Bismarck contro i ceti della borghesia liberale con i quali egli era allora in conflitto; e fu in seguito a conversazioni con Lassalle ch'egli pensò, nella speranza di spezzare l'opposizione, di concedere il suffragio universale. Tuttavia, dopo la morte di Lassalle (1864), le tendenze marxiste, rappresentate in Germania. da Bebel e Liebknecht, non tardarono ad imporsi. Sebbene i due capi, che avevano protestato contro l'annessione dell' Alsazia‑Lorena, fossero stati condannati nel 1872 a due anni di fortezza, la loro propaganda proseguì. Quando al Congresso di Gotha (1875) si fece l'unione dei due gruppi socialisti questa fu a profitto della tendenza rivoluzionaria, internazionalista e materialista, sebbene ‑ bisogna riconoscerlo ‑ le rivendicazioni pratiche del partito fossero molto moderate e i metodi di violenza provvisoriamente ripudiati. Con il suo giornale, il Vorwaerts, e una stampa molto abbondante, la social‑democrazia esercitava una grandissima influenza sulle masse operaie e piccolo‑borghesi.

Nei riguardi dei partiti politici, il punto di vista di Bismarck è semplice: egli vede in loro dei mezzi per governare. E’ deciso a scegliere, fra loro, la sua maggioranza, concludendo, con chi meglio crede, provvisorie alleanze. La sua politica si appoggia dunque su compromessi momentanei e su maggioranze mutevoli. Soltanto sa perfettamente che, se i conservatori e i nazional‑liberali sono partiti di governo ‑ espressione di quella oligarchia dirigente che ha in mano i destini del Reich, ‑, egli dovrà combattere il Centro sul piano confessionale e la socialdemocrazia sul piano sociale, per integrare nel Reich cattolici e operai. La lotta contro il cattolicismo politico e il socialismo rivoluzionario hanno occupato gli ultimi vent'anni della sua vita politica.

Dal 1871 al 1878 il suo governo si appoggia sui partiti nazional‑liberali. Solo facendo appello alle tendenze liberali e anticlericali di questo partito egli dirigerà il combattimento contro il confessionalismo romano e intraprenderà, come l'ha detto il naturalista Virschow, la lotta contro l'oscurantismo, il Kulturkampf. Nel corso della sua carriera politica Bismarck non ha mai cessato di urtare nel cattolicesimo. Egli non ignora che i cattolici hanno sempre fatto voti per la vittoria austriaca; che in fondo al cuore rimangono federalisti, avversari della egemonia prussiana; che sostengono le rivendicazioni delle minoranze nazionali, Alsaziani e Polacchi; che, mirabilmente organizzati dal punto di vista sociale, preconizzano secondo le idee del vescovo di Magonza, Monsignor Ketteler, l'unione sindacale e cooperativa degli operai sotto l'egida della Chiesa; che esercitano, per questo fatto, su numerosi spiriti un'influenza eccessiva; e, finalmente, che, partigiani dell'ultramontanismo, essi si considerano solo secondariamente cittadini tedeschi.

Egli è stato d'altra parte esasperato dalla recente pretesa del Centro di trascinarlo in una crociata per il ristabilimento del potere temporale del Papa, appena distrutto (1870). II Concilio Vaticano e la proclamazione dell'infallibilità pontificale diedero fuoco alle polveri: Bismarck in effetti protesse, contro gli anatemi ecclesiastici, i professori «vecchio-cattolici» che con il canonico Dollinger, respinsero il nuovo dogma. Dal 1871 al 1875 ottenne dal Landtag prussiano o dal Reichstag una serie dileggi ‑ le leggi di maggio ‑, di cui fu autore il ministro dei culti Falk, le quali limitavano i privilegi secolari della Chiesa e il numero dei conventi, obbligavano i futuri chierici a studiare nelle Università di Stato, laicizzavano lo stato civile ed espellevano i Gesuiti. Si trattava, nel pensiero di Bismarck, di togliere alla Chiesa le armi di cui disponeva sulle coscienze per darle allo Stato; non di annientare la religione cristiana, ma di far conoscere al cattolicesimo la sovranità indiscutibile della legge. Il conflitto prese un carattere di estrema violenza: le relazioni con Roma furono rotte, l'arcivescovo di Posen incarcerato; nel 1875, sui dodici vescovadi di Prussia, otto erano vacanti; l'arcivescovo di Breslavia aveva dovuto rifugiarsi in Austria, quello di Colonia in Olanda. Intanto però il Cancelliere si urtava al Reichstag in un'opposIzione considerevole condotta dall'hannoverjano Windthorst. D'altronde Bismarck feriva i sentimenti religiosi del Re e d'una gran parte della nobiltà di Prussia. Lui che aveva dichiarato «che non andrebbe a Canossa», giudicò preferibile non condurre le cose al peggio e venire a patti coi suoi avversari. L'avvento di un nuovo papa, Leone XIII, che si mostrò più conciliante, facilitò questa evoluzione (1878). Le leggi di maggio cessarono via via di venire applicate: del Kulturkampf non restò in vigore che il matrimonio civile e l'espulsione dei Gesuiti.

Alcuni storici hanno preteso che il Kulturkampf sia finito con la vittoria del cattolicesimo: di fatto il Centro uscì rinforzato dalla lunga crisi; e doveva prendere nella politica tedesca un posto di primo piano. Per contro bisogna riconoscere che Bismarck riuscì a organizzare i rapporti fra Chiesa e Stato in modo da salvaguardare sufficientemente i diritti dello Stato, ma tuttavia abbastanza liberalmente da dare soddisfazione anche ai diritti della Chiesa e riconciliare il Centro cattolico e particolarista col novello Impero. Insomma egli riuscì a integrare il grande partito cattolico nel Reich degli Hohenzollern e a farne uno strumento leale della sua politica. Le tendenze del Centro s'incontreranno d'ora innanzi con tutta naturalezza con quelle del governo imperiale; se è vero, infatti, che il potere centrale si rivendica la missione di stabilire degli arbitrati fra i diversi partiti presenti, non è naturale che cerchi il suo punto d'appoggio principale in un partito la cui linea di condotta risultava già precisamente da un compromesso fra le tendenze conservatrici e le democratiche?

Quando Bismarck si riconciliò col Centro, aveva già rotto coi nazional-liberali. Con un movimento di altalena che illustra a meraviglia la sua politica di compromessi, egli credette necessario prendere in mano gli interessi degli agricoltori tedeschi che reclamavano delle tariffe protettrici. D'altra parte i nazional-liberali non parevano disposti ad accordare al Reichstag le leggi restrittive che gli erano necessarie per lottare ora contro il socialismo rivoluzionario. Così, dopo le elezioni del 1878, egli abbandona la sua antica maggioranza per appoggiarsi sui conservatori e sul Centro. In seguito a un attentato contro Guglielmo I, ottiene dal Reichstag il voto per una serie di misure che rendono impossibile qualsiasi propaganda al partito social‑democratico, il cui stato maggiore deve trasferirsi in Svizzera. Ma non gli basta di combattere i socialisti, egli vuole distruggere la loro influenza con misure di protezione sociale. I suoi sforzi mirano a conciliarsi le classi lavoratrici, riprendendo il vecchio concetto prussiano secondo il quale il principe, da buon padre di famiglia, deve vegliare sui suoi sudditi: il Landrecht prussiano difatti non ammette che alcuno muoia di fame nel regno. Con l'appoggio di certi professori, i socialisti della cattedra ‑ Wagner, Schmoller ‑ e di grandi industriali come il barone von Stumm, il magnate della Saar, Bismarck inaugurerà una politica di socialismo di Stato: dal 1883 al 1890 si scaglionano i voti per una serie di leggi d'assistenza operaia che organizzano Casse d'assicurazione contro le malattie e gli incidenti, e Casse di pensione per i vecchi e gli infermi. La Germania venne così dotata di una notevole legislazione sociale. Anche dal punto di vista politico il risultato non fu indifferente. Senza dubbio Bismarck non si guadagnò la riconoscenza e la devozione della classe operaia che continuò a dare i suoi voti al partito social‑democratico. Ma di fatto egli cambiò la natura del socialismo tedesco. La socialdemocrazia praticherà d'ora innanzi una politica interessata e disciplinata; diventa un'organizzazione in più nel Reich, con la sua rappresentanza parlamentare, i suoi ingranaggi politici, i suoi sindacati operai, le sue cooperative; s'inserisce nel quadro della nazione, con cui diventa sempre più solidale. In breve, si spoglia del suo carattere rivoluzionario.

Nonostante i suoi incontestabili successi, non bisogna dissimularsi ciò che v'è di fragile e di artificiale nella concezione bistnarckiana. Di fatto il Cancelliere ha costruito la sua politica interna su un compromesso instabile fra la monarchia prussiana e il liberalismo occidentale. Egli è convinto che se le diverse classi tedesche sono soddisfatte economicamente, resteranno politicamente passive; che la forza della monarchia imperiale riuscirà a mantenere nel suo seno elementi eterogenei e divergenti. Sicuro che la felicità di una nazione si fa dall'alto, egli lavora a distruggere in essa ogni desiderio di partecipare agli affari pubblici: di fronte alle classi dirigenti la massa si è fatta amorfa, senza nessuna volontà rivoluzionaria. Il Parlamento si è visto interdire qualunque ruolo politico attivo; la sovranità popolare, nel senso democratico e occidentale della parola, è stata radiata. Resta a vedere se il Reichetag accetterà sempre i compromessi che gli vengono offerti; se la monarchia saprà conciliare tanti interessi contraddittori; se lo Stato non si troverà un giorno in presenza di rivendicazioni che non potrà soddisfare.

Bismarck sentiva sempre più vivamente, negli ultimi anni del suo governo, la precarietà della sua opera. Con prodigi di equilibrio riusciva a mantenere docile il Reichatag. Così pensò seriamente a un colpo di forza contro il Parlamento. Quando, dopo il brevissimo regno di Federico III (1888), Guglielmo II (1888‑1918), che desiderava regnare da solo e che non si intendeva con lui sulla politica interna né in quella estera, gli chiese le sue dimissioni (1890), Bismarck gli lasciò una macchina che poteva funzionare solo con lui. Il nuovo Imperatore, cosciente delle sue prerogative e dei suoi doveri, ma impetuoso, ciarliero e impulsivo, non era capace di sostenere una simile successione. La storia del regno guglielmino sarà quella di una crisi, e di una crisi che non poteva sfociare se non in una catastrofe.