ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICIANTONIO GARGANOArthur Schopenhauer (1788-1860) |
Il pensiero filosofico successivo alla morte di Hegel (1831) è caratterizzato da un’impronta irrazionalistica, da un abbandono della centralità della ragione, che si manifesta in vari modi. Alla coincidenza di reale e razionale affermata da Hegel fanno seguito posizioni in cui la realtà non è caratterizzata dalla razionalità, bensí da altro. La più tipica è quella di Schopenhauer. Per Schopenhauer il cuore della realtà è volontà, volontà cieca, volontà che non ha nessun senso, nessuna direzione, che non mira a niente. Il cuore della realtà non è logos, ragione, bensí volontà. Come giunge Schopenhauer a questo nocciolo della sua filosofia? La sua opera principale è Il mondo come volontà e come rappresentazione (1818). Per quanto riguarda il mondo come rappresentazione, il pensiero di Schopenhauer presenta un’ampia coincidenza con il criticismo kantiano. Si può anzi dire che la dottrina della conoscenza di Schopenhauer consiste in un kantismo semplificato. La parte dell'opera che riguarda il mondo come volontà è quella più originale. Circa il mondo come rappresentazione, riguardo cioè alla conoscenza, Schopenhauer sostiene che l'idealismo è una filosofia sbagliata in quanto presuppone l'influenza del soggetto sull'oggetto. Egli liquida l'idealismo per la pretesa che questo avrebbe di identificare un rapporto causale tra soggetto e oggetto: l'oggetto, il mondo, la realtà, sarebbero per l’idealismo generati dall'idea, dall'io. Respinto l'idealismo, Schopenhauer si ricollega a Kant, che vede come il grande punto di riferimento della filosofia. Kant ha capito il fatto decisivo: noi non conosciamo la realtà quale essa è in se stessa, e ci dobbiamo accontentare della realtà fenomenica, di una realtà quale appare a noi. Il filtraggio della realtà, per cui questa non è colta in se stessa, ma è sempre in relazione col soggetto, viene visto da Schopenhauer in termini piú semplici di quelli kantiani, piú semplici in quanto egli elabora una teoria della sensibilità in cui è presente anche la sensibilità animale. Per lui il soggetto che filtra le conoscenze è in generale un soggetto conoscente che può essere anche un soggetto animale. Anche sulla base di questa tendenza ad allargare il discorso dal soggetto umano un soggetto più generico, egli giunge a una semplificazione: gli sembra che le dodici categorie kantiane siano arbitrarie, siano un sistema artificioso, che è riducibile semplicemente al principio di causa ed effetto. Le forme trascendentali a priori di Kant, che comprendevano spazio e tempo per l'intuizione propiamente detta, le dodici categorie per l'intelletto, e le tre idee per la ragione, si riducono a tre sole forme a priori: lo spazio, il tempo e l'unica categoria di causalità. Il mondo viene inquadrato in spazio, tempo e causalità. In conseguenza di questa sorta di filtraggio il mondo, che è uno, si frammenta in una quantità di fenomeni. Il mondo è uno, ma la griglia che il soggetto impone alla realtà, le strutture del soggetto che filtrano la luce che viene dal mondo, lo fanno rifrangere in tanti fenomeni, per cui abbiamo l'impressione di trovarci di fronte a tantissimi individui, a un'infinità di esseri, mentre invece la realtà è unitaria. Schopenhauer chiama questo “l'effetto del velo di Maja”. Egli è il primo filosofo occidentale a utilizzare termini del pensiero indiano: riprende dalla mitologia indiana il concetto che la natura è un velo di Maja. La natura è una, ma è coperta da questo velo sgargiante, pieno di colori che danno l'impressione di tanti esseri, di tante piante, tanti animali, tanti individui. Non cogliamo la natura nella sua unità in quanto abbiamo davanti agli occhi il velo di Maya (in termini meno fantasiosi spazio, tempo e causalità), che ci creano un filtro. È come se vedessimo il sole da dietro le grate di una prigione: nella prigione della soggettività in cui siamo rinchiusi il sole si frammenta in tanti riquadri, o, per usare un'immagine meno tetra, è come se ci fosse un prisma tra noi e la luce del sole, la luce è una ma si rifrange nei colori dell'arcobaleno. In proposito Schopenhauer, partecipe dell’entusiasmo romantico per la cultura orientale, affermava che «Maya, il velo dell’illusione, ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista, perché è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure a una corda buttata per terra che egli prende per un serpente». Il mondo, che è unitario, ci appare invece differenziato, variopinto, molteplice, ci appare æ dice Schopenahauer æ sotto l'egida del principium individuationis: le cose sembrano frammentate, individualizzate. Lo spazio, il tempo e la causalità costituiscono il principium individuationis, il fattore di frammentazione dell'unica realtà in tante cose individuali distinte. Più precisamente la forma decisiva che porta all'individuazione, cioè alla differenziazione, è lo spazio, ma esso, secondo Schopenhauer æ come già secondo Kant æ non esiste realmente, bensí è una proiezione dell'uomo. Nel proiettare la propria forma trascendentale di spazio sulle cose, l'uomo rompe l'unità della realtà e vede le cose ognuna come occupante uno spazio proprio. Lo spazio è il principio della molteplicità: in ogni luogo dello spazio ci può essere soltanto una cosa. Lo spazio, il tempo e la causalità æ ma in primo luogo lo spazio æ danno luogo all'individuazione: l'unità del mondo si spezzetta in tante cose occupanti ciascuna un proprio spazio. Viviamo in una realtà illusoria, ingannati dalla cortina del velo di Maya che ci da l'impressione di un mondo molteplice, fatto di differenze, di cose diverse. A parte il linguaggio più colorito, influenzato dalla filosofia indiana, nella sostanza ci troviamo di fronte a una concezione del mondo come fenomeno simile a quella di Kant. Schopenhauer ribadisce con forza il fatto che il soggetto e l'oggetto nella conoscenza sono inestricabilmente uniti: l'oggetto non viene mai colto da solo nella sua essenza, ma è sempre “deformato” dal soggetto. Ripercorriamo questa prima parte della filosofia di Schopenhauer con le sue stesse parole, tratte da Il mondo come volontà e come rappresentazione: «”Il mondo è mia rappresentazione”: questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza [solo l'uomo se ne rende conto, ma essa è propria di tutto il mondo animale]: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica [la filosofia nasce quando l'uomo si rende conto di filtrare il mondo, di non cogliere il mondo quale è in se stesso]. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch’egli non conosce né il sole, né la terra, ma appena un occhio il quale vede un sole, una mano la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Tutto ciò che esiste per la conoscenza, adunque questo mondo intero, è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione. Il mondo come rappresentazione, adunque, ha due metà essenziali, necessarie e inseparabili. L'una è l'oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante i quali si ha la pluralità. Ma l'altra metà, il soggetto, non sta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indivisa in ogni essere rappresentante; perciò anche uno solo di questi esseri, con l'oggetto, integra il mondo come rappresentazione, sí appieno quanto i milioni d'esseri esistenti». In questo Schopenhauer si avvicina a Berkeley, il filosofo empirista inglese che era pervenuto all’immaterialismo, il quale sosteneva che l'essere consiste nell'essere percepito. Riprendendo Berkeley, Schopenhauer afferma: «Basta che ci sia un solo soggetto che guarda il mondo, perché il mondo sia». Perché le cose siano ci vuole qualcuno che le percepisce. L'esse est percipi in Berkeley si risolveva nell'essere percepito dall'occhio di Dio: Dio fa essere tutto perché vede tutto continuamente. «Ma, se anche solo quell'unico svanisse, cesserebbe d'esistere pure il mondo come rappresentazione. Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pensiero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante e per l'altra significazione ed esistenza, ciascuna esiste con l'altra e con lei dilegua. Esse si limitano a vicenda direttamente: dove l'oggetto comincia, finisce il soggetto. La comunanza di questi limiti si mostra appunto in ciò, che le forme essenziali e perciò universali d'ogni oggetto, le quali sono tempo, spazio e causalità, possono, movendo dal soggetto, venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell'oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L'aver ciò scoperto è un capitale merito di Kant, un immenso merito». Kant ha scoperto che spazio, tempo e causalità non sono proprietà del mondo, bensí, secondo la sua “rivoluzione copernicana”, proiezioni del soggetto sul mondo. Questa è la grande conquista di Kant e da qui si parte. Ora però si procede oltre Kant. Egli infatti aveva affermato che conosciamo il mondo quale appare a noi, ma esiste un mondo in se stesso, la cosa in sé, il noumeno, che a noi sfugge irrimediabilmente. Kant aveva sostenuto: «Conosciamo il mondo fenomenico, ma esiste anche la realtà in sé. La realtà in sé per definizione è inconoscibile». La novità di Schopenhauer consiste nel sostenere che esiste un “filo di Arianna” per raggiungere la cosa in sé. Qual è questo filo di Arianna che permette di raggiungere la cosa in sé, il noumeno, che per Kant era assolutamente fuori dalla portata dell'uomo? Il filo di Arianna è dato dal nostro corpo. Schopenhauer afferma che Kant ha considerato l'uomo come una testa d'angelo senza corpo. L'io di Kant è l'intelletto, o, meglio, è la ragione che si divide in intuizione, intelletto e ragione propriamente detta: l'uomo di Kant è l'insieme delle strutture conoscitive trascendentali, è l'io puro. Quando Kant parla dell'uomo, si rifersice esclusivamente alla ragione, a “una testa d'angelo senza corpo”. Invece, secondo Schopenhauer, per conoscere l'essenza del mondo, la cosa in sé, bisogna proprio riferirsi al proprio corpo. Questo può essere considerato quale un oggetto fra gli altri oggetti, e in effetti cosí lo considerava Kant: come colloco la finestra a destra, la porta a sinistra, il soffitto in alto, il pavimento in basso, cosí colloco le mie membra, il mio corpo, in alto, o in basso, a destra o a sinistra rispetto agli altri oggetti. Per Kant il corpo è un oggetto fra gli altri oggetti, una cosa esteriore tra le altre cose esteriori. Sostiene invece Schopenhauer: «Se considero il mio corpo non come un'esteriorità, come fa Kant, come oggetto fra gli altri oggetti, ma sprofondo in una sorta di abisso interiore, di concentrazione interiore, avvertirò che il mio corpo è un insieme di bisogni, di esigenze, di tensioni, cioè è semplicemente volontà». Ma volontà di che cosa? Volontà di rimanere in vita grazie alla soddisfazione dei bisogni: se mi immergo nell'abisso della corporeità, trovo che il mio corpo non è altro che un fascio di bisogni che si riduce alla volontà di vivere, alla volontà di perpetuare l'esistenza del corpo stesso. Diventa chiaro perché questa volontà è cieca: essa non ha alcuno scopo tranne che appunto quello di mantenersi in vita. Grazie a quest'intuizione interiore vengo a sapere che la mia essenza è volontà di vivere. A questo punto Schopenhauer applica quello che chiama “principio di analogia”: tutti gli altri esseri sono anch'essi parti della natura, presenteranno perciò un'analogia con me stesso, e se il cuore della mia esistenza consiste nella volontà di vivere, tutti gli altri esseri, dallo stelo d'erba fino agli animali piú vicini all'uomo, saranno anch’essi animati dalla volontà di vivere. Schopenhauer si riferisce anzi anche alla natura inorganica, alle forze magnetiche, elettriche: per analogia con l'uomo tutta la natura gli sembra animata dalla volontà di vivere. È volontà - afferma Schopenhauer - ciò che vediamo «nella forza che fa crescere e vegetare la pianta, in quella che dà forma al cristallo, in quella che dirige l’ago calamitato al nord». All'applicazione del principio di analogia Schopenhauer aggiunge questo ragionamento: il mondo è diviso in due, fenomeno e noumeno. Se la volontà di vivere che ho scoperto non è appartenente al fenomeno, in quanto la la volontà di vivere non la vedo, non la tocco, non la inquadro in nessuno spazio e in nessun tempo, ma la colgo per un atto di introspezione, ciò vorrà dire che essa non fa parte del mondo fenomenico, bensí dell’altra metà, per cosí dire, della realtà, cioè del mondo noumenico. Riepiloghiamo: per arrivare al nocciolo della volontà di vivere Schopenhauer ricorre prima di tutto a un principio analogico: «Se è vero che scopro che al fondo di me stesso c'è la volontà di vivere, negli altri esseri della natura ci sarà la stessa entità». Questo ragionamento è di stampo romantico: i romantici, che Schopenhauer aveva molto studiato, scorgevano simbolismi, analogie, simpatie tra le cose della natura. Ma per avvalorare la sua tesi Schopenhauer avanza anche quest'altro ragionamento: il mondo si presenta o come fenomeno o come noumeno, la volontà che ho scoperto in me stesso non è fenomeno, in quanto non è inquadrata in spazio, tempo e causalità, allora evidentemente è noumeno. Il noumeno quindi è volontà di vivere. Attraverso il mio corpo ho trovato un filo di Arianna che mi ha condotto al fondo della realtà, mi ha fatto capire che cos'è la cosa in sé: essa è cieca volontà di vivere. Seguiamo il ragionamento con le parole di Schopenhauer: «In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione, oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò, non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo)». Se fossimo un'alata testa d'angelo, se fossimo solo una mente, solo io puro, come afferma Kant, ci dovremmo arrendere e dovremmo accontenatrci della rappresentazione, ma siamo anche corpo, quindi oltre alla via conoscitiva c'è un'altra strada per giungere alla realtà. È chiaro che da questa prospettiva ci avviamo verso un deciso irrazionalismo, in quanto il mondo della conoscenza è quello della rappresentazione, mentre il mondo come volontà invece non rientra nella sfera della conoscenza razionale. Continuiamo nella lettura: «Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell'esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni sono per l'intelletto il punto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti [questo è il punto di vista kantiano, il corpo è un'esteriorità fra altre esteriorità, inquadrabile nelle forme conoscitive]: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. Ma le cose non stanno cosí: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell'enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come quell'alcunchè direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime». Il corpo è rappresentazione e oggetto, ma anche volontà. Sembra che sia possibile una doppia conoscenza, ma è improprio parlare di doppia conoscenza: la conoscenza vera è quella rappresentativa, cui si aggiunge l'intuizione corporea. «La doppia conoscenza, oramai assurta a chiarezza, e raggiunta in due modi affatto eterogenei, che noi abbiamo dell'essenza e dell'attività del nostro corpo, ci servirà d'ora innanzi come una chiave per aprirci l'essenza d'ogni fenomeno della natura; e sull'analogia del nostro corpo giudicar tutti gli oggetti, che non come quel corpo, ossia non in duplice modo, ma soltanto come rappresentazioni sono dati alla nostra coscienza. E quindi ammettere, che com'essi da un lato, a mo' del corpo, sono rappresentazioni, e perciò della stessa sua natura, cosí d'altra parte quel che rimane, quando si metta in disparte il loro essere in quanto rappresentazioni del soggetto, sia nella sua intima essenza identico a ciò che noi stessi chiamiamo volontà. Invero, quale altra specie d'esistenza o di realtà dovremmo attribuire al rimanente mondo corporeo? Donde prendere gli elementi coi quali metterlo insieme? All'infuori di volontà e rappresentazione, nient'altro conosciamo, né possiamo pensare. Se al mondo reale, che esiste immediatamente sol nella nostra rappresentazione, vogliamo attribuire la massima realtà a noi nota, gli diamo la realtà, che per ciascuno di noi ha il suo proprio corpo: poiché questo è per ciascuno quanto v'è di più reale. La volontà considerata in se stessa è incosciente: è un cieco, irresistibile impeto, qual noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, com'anche nella parte vegetativa della nostra propria vita. Sopravvenendo il mondo della rappresentazione, sviluppato in servizio di essa, ella acquista conoscenza del proprio volere e di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, la vita, cosí come si presenta. Perciò il mondo fenomenico l'abbiamo chiamato specchio della volontà, e sua oggettivià: e ciò che la volontà sempre vuole è la vita, appunto perchè questa non è altro che il manifestarsi di quel volere per la rappresentazione; perciò è tutt'uno, e semplice pleonasmo, quando invece di “volontà” senz'altro, diciamo “volontà di vivere”». Risulta a questo punto evidente la vicinanza di Schopenhauer a Leopardi. Francesco De Sanctis, il grande storico della letteratura, ha scritto un brillante saggio in forma di dialogo su Schopenhauer e Leopardi, mettendo in rilievo per primo queste affinità. Come rileva De Sanctis, Giacomo Leopardi non ha mai letto Schopenhauer, al contrario Schopenhauer non soltanto ha letto a fondo Leopardi, ma ne è stato un deciso ammiratore. Proprio Francesco De Sanctis ha attirato l'attenzione sul Dialogo della natura e di un Islandese di Leopardi. In quest'operetta morale, l'Islandese, che vive nel freddo clima polare, fa un lungo viaggio travagliato, domandandosi come mai a tutte le latitudini egli osserva uomini che o soffrono per il troppo caldo, o per il troppo freddo, o per malattie, o per la fame: dappertutto trova che i suoi simili sono oppressi da qualche sofferenza. Alla fine del suo viaggio si imbatte nella natura sotto la forma di una grande figura femminile appoggiata ad una montagna e le pone il problema di a che cosa serva tutto questo affannarsi degli uomini alle varie latitudini. L'operetta si conclude in maniera brusca e ironica: la natura non dà risposta, e Leopardi conclude laconicamente dicendo che non si sa se l'Islandese fu sbranato da due leoni che comparvero all'improvviso oppure sopraggiunse un gran vento ed egli fu sommerso dalla sabbia. Che cosa vuole dire questa conclusione? Alla natura non interessa dare una risposta, non le interessa il destino dei singoli uomini: non si sa se l'Islandese sia morto sbranato o sepolto dalla sabbia in quanto alla natura è indifferente il destino dei singoli individui, al massimo le può interessare il fatto che gli individui procreino e vadano avanti le specie. La natura è cieca per Leopardi, e questo corrisponde alla cieca volontà di vivere di Schopenhauer, il quale afferma che l’intero mondo animale ci mostra come: «[...] ottenuto dall’individuo quanto desiderava, la natura rimanga glacialmente indifferente di fronte alla possibile distruzione dell’individuo». La volontà di vivere genera il pendolo dell'esistenza tra dolore e noia. Infatti essa è tendenza a mantenersi in vita estinguendo bisogni, soddisfacendo esigenze. Ora, nel momento in cui si presenta un bisogno, un'esigenza, vuol dire che si manca di qualche cosa, e quindi si avverte sofferenza, dolore. Quando il bisogno è soddisfatto, giunge un momento di stasi che dà luogo alla noia: la tensione vitale si è scaricata, si è ottenuto ciò che si voleva ottenere, si è sazi, annoiati, fino a quando non riemerge di nuovo il bisogno, e con esso il dolore, quindi, afferma Schopenhauer: «La vita è un pendolo di dolore e noia». A questo proposito De Sanctis ha attirato l'attenzione sul canto A se stesso di Leopardi, in cui il poeta esclama: «Amaro e noia la vita!». Continuiamo a leggere Schopenhauer: «Certo non l'individuo, ma la specie solo importa alla natura, la quale per la conservazione della specie si affatica con ogni sforzo, a quella provvedendo con sí larga prodigalità, mediante la smisurata sovrabbondanza dei germi e la gran forza della fecondità. Invece l'individuo non ha per lei valore alcuno, perché tempo infinito, infinito spazio, e , in tempo e spazio, infinito numero di possibili individui, sono il regno della natura; quindi ella è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il quale non solo in mille modi, per i più piccoli accidenti, è esposto alla rovina, ma alla rovina è fin da principio destinato e dalla natura stessa condotto, a partir dall'istante, in cui esso è servito alla conservazione della specie. Venendo l'uomo a mancare degli oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi». Questa è l'essenza della vita. Leggiamo ora A sé stesso di Leopardi, uno dei canti più risolutivi, più disperati, in cui tutte le illusioni sono cadute «Or poserai per sempre, stanco mio cor./Perí l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei./Perí. Ben sento, in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento. /Posa per sempre./Assai palpitasti./Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra./Amaro e noia la vita, altro mai nulla: e fango è il mondo./T'acqueta omai./ Dispera l'ultima volta./Al gener nostro il fato non donò che il morire./Omai disprezza te, la natura, il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera, e l'infinita vanità del tutto». Le analogie con Schopenhauer sono evidenti: «Amaro e noia la vita, altro mai nulla», “amaro” è termine poetico per “dolore”. L'altro elemento di forte analogia sta negli ultimi versi: «Omai disprezza te, la natura, il brutto, poter che, ascoso, - cioè nascosto- a comun danno impera»: c'è un potere nascosto sotto le apparenze, che impera, cioè comanda, ci fa vivere come marionette per un comune danno, solo per farci soffrire, e c'è «l'infinita vanità del tutto»: il tutto è assolutamente privo di significato, è cieco. Passiamo ora alla parte propositiva del pensiero di Schopenhauer: l'uomo si dovrà porre l'obbiettivo di liberarsi dalla schiavitú del continuo passare senza senso da un polo all'altro. La prima via che si potrebbe immaginare è quella del suicidio: da tutto questo discorso sembrerebbe emergere che la soluzione migliore sia quella di sottrarsi al gioco di marionette della natura privandosi della vita. Per Schopenhauer il suicidio invece non costituisce una negazione, bensí un'affermazione della volontà di vivere. Se la volontà di vivere ci usa come burattini e ci fa continuamente oscillare tra dolore e noia, ci dovremo sottrarre a questo inganno, alla volontà di vivere. Sarà questo l'obbiettivo che ci dovremo prefiggere. Il suicidio però non implica un sottrarsi alla volontà di vivere, anzi è una affermazione della volontà di vivere, in quanto chi giunge al suicidio in fondo ci arriva perchè ama la vita e si vede insoddisfatto, non la sente colma di quelle gioie, di quegli affetti, di quelle affermazioni che si aspetterebbe, quindi afferma la volontà di vivere, disilluso desideroso di vivere; è deluso dalla vita ma è desideroso di contenuti di vita, e quindi non ha estinto il desiderio, non ha smascherato il gioco della volontà di vivere, che è quello di crearci continuamente bisogni: «Il suicidio - scrive Schopenhauer - vorrebbe la vita; soltanto, non è soddisfatto dalle condizioni in cui gli si offre [...]. Il suicidio non rinunzia al voler vivere, ma unicamente al vivere [...] il suicidio cessa di vivere, appunto perché non può cessare di volere». Semmai egli ha esigenze non soddisfatte e inconsapevolmente le riafferma con un gesto disperato, ma non è colui che ha superato la fase del bisogno, che si è sottratto alle illusioni. Per sottrarsi alle illusioni della volontà bisognerà cercare altre strade . Come si potrà estinguere la volontà? Si dovranno trovare mezzi per rompere l'illusione di essere individui separati, ognuno a sé stante, ognuno alla ricerca del soddisfacimento dei propri bisogni e delle proprie esigenze. Il superare la volontà di vivere coinciderà quindi con il negare il principium individuationis. Viviamo convinti che la natura sia presenti come in una pluralità di esseri, tra cui ci siamo noi come individui separati, che cerchiamo disperatamente di soddisfare i nostri bisogni, di affermarci. Per giungere a negare la volontà di vivere bisognerà smascherare l'illusione per cui siamo qualche cosa di separato e di a sé stante, dovremo superare il principium individuationis, dovremo negare la nostra individualità smascherando l’inganno che ci siano tanti esseri separati. Tutte le esperienze che unificano, che ci portano a superare i limiti dell'egoismo, ci avvicinano a questa vittoria. La prima esperienza che ci può aiutare è quella dell'arte, soprattutto quella della musica: l'arte ci aiuta a dimenticarci di noi stessi, ci spinge a fare tutt'uno con l'opera d'arte; una sinfonia travolgente per esempio ci fa dimenticare di noi stessi. Si tratta di osservazioni simili a quelle che fa Schelling nel fondare il suo idealismo estetico: nella sfera della contemplazione artistica il soggetto e l'oggetto si uniscono: chi sta ascoltando una sinfonia immedesimandosi in essa si scioglie nella musica, non si ritrova piú un'individualità che si oppone alla musica. Per Schopenhauer nell'ambito dell'arte l'esperienza suprema è quella della musica. Egli pone una gerarchia tra le arti: le arti che hanno a che fare con la materia sono più in basso in questa scala, la musica, che è l'arte più disincarnata e dematerializzata è la più alta. Le arti ci aiutano tanto più a liberarci quanto più sono lontane dalla materia, la musica è la più lontana dalla materia perchè è impalpabile, è intangibile, è puro suono. Nel contemplare un'opera d'arte, non veniamo colti dal rapimento estetico per quella cosa precisa, ma per un'idea che traluce in essa. Proprio in quanto ci fa cogliere un'idea, l'arte ci allontana dalla molteplicità e dall'individuo e ci avvicina all'unica realtà esistente, ci fa dimenticare l'individualità delle cose finite, ci mette in contatto con qualche cosa di superiore, che trascende l'individualità. Schopenhauer riprende il termine idea, di derivazione platonica, ma usandolo a modo suo. Sostiene che la volontà di vivere è unica, indivisibile e a causa dell’illusione la vediamo frantumata in una miriade di esseri, ma c'è una manifestazione intermedia della volontà di vivere, che sono le idee. Le idee di Schopenhauer non sono idee platoniche. Tra di esse si trovano per esempio il magnetismo, l'elettricità, proprietà chimiche, specie vegetali e animali che secondo lui alla base di vari fenomeni naturali in quanto gradi intermedi di oggettivazione della volontà. È come se la realtà partisse tutta dalla volontà di vivere, ma prima di giungere all'estrema manifestazione che sono gli esseri finiti, individuali, ci fosse grado intermedio, in cui si oggettivizza la volontà di vivere: questo livello intermedio sono le idee. L'arte ci mette in contatto con le idee, e quindi ci fa compiere una prima parte di cammino verso il superamento dell'individualità, ci fa sciogliere nell'oggetto, nell'opera che ci incanta. Diventiamo tutt'uno con l'opera d'arte, iniziamo a dimenticare noi stessi. Ma qual è il difetto dell'arte? Il difetto dell'arte sta nella sua rapsodicità: il rapimento estetico dura per un momento, poi si ricade di nuovo nel principium individuationis, si ritorna alla bruta materialità. L'arte è dunque soltanto una tappa nel cammino della liberazione della volontà. La contemplazione estetica è solo una «consolazione provvisoria nella vita». C'è un'altro gradino da salire, quello della giustizia. Nella giustizia riconosco che gli altri sono portatori degli stessi diritti di cui sono portatore io: nella giustizia si supera l'individualismo, si vince l'egoismo. La giustizia ha per Schopenhauer un valore pedagogico in quanto abitua a ragionare nei termini della nostra uguaglianza con gli altri. A un livello superiore c'è la compassione. Questa non è solo passiva come la giustizia, che implica il non fare del male agli altri, il riconoscere che gli altri sono uguali a noi, ma è il provare sofferenza per le sofferenze altrui, il riconoscere che c'è un'affinità profonda tra tutti gli esseri della natura per cui la sofferenza di un altro è anche sofferenza mia, quindi compassione nel senso letterale, di patire insieme con gli altri. La giustizia e la compassione ci aiutano a capire che non siamo esseri individuali, isolati, ma che abbiamo profonde affinità con qualche cosa che vive anche oltre di noi, negli altri. Il cammino di superamento della volontà di vivere riescono a compierlo soltanto personalità molto sensibili, personalità sante. La via della salvezza non è per tutti. Questo aspetto è molto esasperato in Schopenhauer, che in sostanza afferma: "Io personalmente, tutto questo cammino non mi sento di intraprenderlo Il filosofo e il santo sono due cose distinte e separate. Indico la via della liberazione, però non mi sento di percorrerla fino in fondo, non mi sento di rinunciare al mondo». Schopenhauer era figlio di un banchiere, e non ha mai dovuto lavorare, ha avuto la libera docenza all'università, ma per lui l’insegnamento era solo un fatto di prestigio, in quanto ha vissuto sempre di rendita. Kierkegaard era figlio di un ricco mercante. Se si volesse ricorrere al metodo marxista per cui l'essere sociale determina la coscienza, il loro essere sociale era di essere dei rentier persone che vivevano di rendita. Manca completamente in lui quell'afflato che c'è in Hegel per l'universale e in Marx per l'emancipazione della classe del proletariato e attraverso di essa dell'intera umanità: in Schopenhauer la via della salvezza è spiccatamente individuale. A questo proposito è da rilevare un'ulteriore differenza con Leopardi: in Leopardi, nella Ginestra soprattutto, c'è un momento in cui sembra che per lenire, per addolcire il dolore universale si possa contare sull'affratellamento fra gli uomini. È il momento in cui Leopardi sembra avere ancora un barlume di illusione: nella Ginestra c'è la solidarietà umana, c'è la possibilità dell'affratellamento. In Schopenhauer invece la via della salvezza è del tutto individuale: si passa per la compassione, ma lo stadio supremo è quello dell'ascesi, l'ascesi è lo stadio definitivo, è il distacco completo dal mondo, dal prossimo, da tutti i beni terreni, da tutto, per approdare alla noluntas. L'ascesi è un completo distacco da tutte le cose, e da noi stessi, che ci fa giungere alla negazione della volontà di vivere, ma si tratta di un'esperienza spiccatamente individuale. Non si può spiegare bene in che cosa consiste, si tratta un'esperienza di tipo molto affine a quella mistica. La noluntas, è stato detto, equivale al nirvana della religione indiana. In Schopenhauer arrivare alla noluntas significa giungere alla negazione di tutto, sentirsi una sola cosa con il nulla, aver estinto ogni pretesa di esistenza, individuale. Non possiamo però capire e spiegare che cos'è la noluntas, infatti Schopenhauer non a caso la chiama proprio cosí, noluntas, cioè negazione della volontà, in quanto può accennare solo a ciò che essa non è, ma non può spiegare in positivo in che cosa essa consista. Il santo, l'asceta, arriva a quest'esperienza suprema in cui si scioglie dalla propria individualità e si fonde con il tutto, supera il pendolo dolore-noia, diviene una cosa sola con il tutto. Seguiamo le varie fasi del superamento della volontà di vivere con le parole di Schopenhauer: «Si supponga che tutta la forza dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa ci sprofondiamo, e la conoscenza intera lasciamo riempire dalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edifizio o quel che si voglia; e che, secondo un'espressiva locuzione tedesca, ci si perda appieno in quell'oggetto, ossia si dimentichi il proprio individuo, la propria volontà, e si rimanga nient'altro che soggetto puro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, nè più sia possibile separare colui che intuisce dall'intuizione stessa, poichè sono diventati tutt'uno, essendo l'intera coscienza riempita e presa da una sola immagine d'intuizione». Se ci abbandoniamo alla contemplazione dell'oggetto bello diventiamo una cosa con esso, la nostra intuizione ci porta a immedesimarci con l'oggetto, superiamo il principio di individuazione. «Se dunque in siffatto modo l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stesso, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la volontà, allora quel che viene cosí conosciuto non è più la singola cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, la diretta oggettità della volontà in quel grado. E perciò appunto non è più individuo quegli che è assorto in tale intuizione, imperocché proprio l'individualità vi s'è perduta. Egli invece è puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà del dolore, del tempo». Il principio di individuazione, lo spazio e il tempo, sono cancellati. Quando veramente mi sono immerso in un'opera d'arte vivo un momento estatico, mi trovo fuori del tempo e dello spazio, non mi riconosco in un tempo ed in uno spazio limitato, mi ritrovo in una sorta di eternità. «Per l'uomo giusto, il principium individuationis non è già piú, come per il malvagio, un'immobile parete divisoria». Il cattivo è sempre egoista, per lui il principium individuationis è una parete divisoria permanente con gli altri, invece per l'uomo giusto questa parete divisoria cade. «Vediamo ch'egli non afferma, come il malvagio, solamente il suo proprio fenomeno di volontà, e tutti gli altri nega; [vuole affermare solo sé stesso] che gli altri uomini non sono per lui semplici larve la cui essenza sia affatto diversa dalla sua. Viceversa con la sua maniera d'agire dimostra ch'egli la sua propria essenza, ossia la volontà di vivere, in quanto cosa in sé, riconosce anche nel fenomeno estraneo, dato a lui esclusivamente come rappresentazione; -cioè si immedesima negli altri- ritrova in quello -cioè nell'altro- se stesso, fino a un certo grado, il grado del non commettere ingiustizia, del non ferire. In questo grado appunto egli penetra di là dal principium individuationis, dal velo di Maya: considera l'essenza ch'è fuori di lui, pari, fino a questo segno, alla propria: non fa ingiuria. In codesta giustizia, quando la si guardi nel suo intimo, già si trova il proposito di non andar nell'affermazione della volontà propria tant'oltre, ch'essa neghi gli estranei fenomeni di volontà, obbligandoli a servirci. Si vorrà dunque agli altri tanto concedere, quanto da loro si riceve. Un uomo, il quale riconosca in tutti gli esseri il suo intimo e più vero io, anche gl'infiniti mali d'ogni vivente tiene come suoi, e cosí fa suo il dolore del mondo intero. Nessun dolore gli è più straniero. Tutti gli affanni altrui, ch'egli vede e può sí raramente lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui come i suoi proprii. Non è più l'alterno bene e male della sua persona, quel ch'egli ha in vista, com'è il caso degli uomini ancora prigionieri dell'egoismo; invece, guardando egli di là dal principium individuationis, tutto gli è ugualmente vicino». Schopenhauer fa proprio il momento della compassione, che è un sentimento profondamente radicato nella civiltà cristiana: si soffre non semplicemente perché si ha una sofferenza diretta sul proprio corpo, ma si soffre perchè soffre un qualsiasi altro essere umano. Questo è il punto di massimo avvicinamento alla comunità che Schopenhauer tocca, poi sprofonda nella noluntas raggiunta invece in maniera individuale, il culmine del superamento lo riporta al solipsismo, all’esperienza incomunicabile, personale, del santo, dell'asceta, che è la noluntas. «La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, rispecchiandosi nel fenomeno, bensí la rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù all'ascesi. Non basta più a quell'uomo amare altri come se stesso e far per essi quanto fa per sè; ma sorge in lui orrore per l'esssere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore». L'uomo che è pervenuto alla noluntas si distacca completamente dal mondo, che è un mondo di dolore e si ricongiunge alla volontà di vivere nel suo complesso, cioè perde i propri confini individuali: «[...] per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla». Ci troviamo pur sempre di fronte ad un grande filosofo, nei cui scritti troviamo tantissimi pensieri di cui far tesoro, però siamo oramai in un'atmosfera di isolamento reciproco degli individui, che possono trovare una via di salvezza solo personale, ogni speranza di emancipazione collettiva dell'umanità è finita, il mondo è qualche cosa che non è dominabile. Vorrei concludere ricordando un fatto, che mi pare significativo: Thomas Mann, uno dei più grandi romanzieri del Novecento, ha ricordato Schopenhauer ne I Buddenbrook, romanzo che è l'epopea di una grande famiglia borghese. I Buddenbrook è il romanzo in cui Thomas Mann dipinge lo svilupparsi di una famiglia borghese potente, ne descrive in maniera mirabile tutti i rapporti affettivi, personali ecc. Ora, questa famiglia dedita ai commerci, passa per tante traversie, vede nella prima e nella seconda generazione ampliare sempre di più il proprio potere, il primo Buddenbrook è un grande commerciante, il secondo diventa anche sindaco, poi c'è una bellissima pagina in cui il terzo Buddenbrook, quindi il nipote del fondatore della potenza economica, che è già un giovane più gracile in quanto non si è dovuto confrontare come il padre e il nonno con gli affari e con la lotta politica un giorno trova in un cassetto dimenticato Il mondo come volontà e come rappresentazione di Schopenhauer, comincia a leggere Schopenhauer. Thomas Mann che fa capire che da quel giorno quel giovane, che era già molto riflessivo, era poco sanguigno rispetto al padre e al nonno, già era molto introverso, rimane catafratto sotto le teorie del pessimismo e quindi con il Buddenbroock della terza generazione la dinasta si dissolve, questa potente famiglia borghese arriva alla decadenza. È significativo che Thomas Mann abbia messo in connessione la decadenza di questa famiglia borghese con il pessimismo di Schopenhauer: questo testimonia di un momento della vita culturale dell'Europa, della vita culturale della borghesia europea in cui essa ha perso ogni fiducia nella possibilità di emancipare l'uomo, di dominare i fenomeni storici mediante la ragione: le è rimasto solo il ripiegamento individuale e solo pochi eletti possono giungere a negare la volontà di vivere, a sottrarsi al pendolo di dolore e noia. Siamo in presenza di una filosofia della sconfitta, del ripiegamento, da cui c'è tanto da imparare, ma che è molto distante dalle filosofie del dominio razionale del mondo che la borghesia era riuscita ad esprimere nel periodo rivoluzionario fino ad Hegel. La conclusione ancora più irrazionalistica di questa parabola si raggiunge con Nietzsche, teorico di un irrazionalismo che pone al centro non ha volontà di vivere, ma la volontà di potenza, con le inquietanti ambiguità che tale concetto può comportare. |