D. Fusaro

Nietzsche

da http://www.filosofico.net/nietzsche.htm

 

BREVE INTRODUZIONE

Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso é un dio a danzare, se io danzo.


Federico Nietzsche é una delle grandi figure del destino della storia dello spirito occidentale, un uomo che costringe alle estreme decisioni, un terribile punto interrogativo sul cammino lungo il quale era andato fino ad allora l’uomo europeo, cammino determinato dalla eredità dell’antichità e di duemila anni di cristianesimo. Nietzsche rappresenta la spietata ed acuta negazione del passato, il rifiuto di tutte le tradizioni, l’appello ad una svolta radicale. Nietzsche è il filosofo che mette in dubbio tutta la storia della filosofia occidentale, che cerca, dopo venticinque secoli di interpretazione metafisica dell’essere, un nuovo principio. Egli sovverte i valori occidentali ed è volto verso il futuro; ha un programma, un ideale, che è quello della "grande salute".

All’inizio della sua riflessione, Nietzsche fu influenzato da Schopenhauer, per il quale la vita è crudele e cieca irrazionalità, è dolore e distruzione. Ma egli non si ferma non si ferma al pessimismo di Schopenhauer: il sentimento tragico della vita è accettazione della vita stessa, è una esaltante adesione a tutti gli aspetti dell’esistenza, anche a quelli più terribili, poiché tutto fa parte dell’immensa marea della vita. Ne La nascita della tragedia (1872), Nietzsche vede nel mondo greco la stagione spiritualmente più alta e ricca dell’umanità. La civiltà greca era infatti nutrita da un vigoroso senso tragico, che è per Nietzsche l’autentico modo di rapportarsi alla vita: è accettazione di essa, coraggio davanti al Fato. L’uomo greco vedeva dappertutto l’aspetto orribile e assurdo dell’esistenza: ma egli seppe, nell’arte, trasfigurando l’orribile e l’assurdo in immagini ideali, rendere accettabile la vita. La grande tragedia greca è la forma suprema di arte, in quanto in essa si compongono gli impulsi vitali creativi (spirito dionisiaco), e la moderazione, l’equilibrio, la razionalità (spirito apollineo).

Dalle Considerazioni inattuali (1873-74) in poi, Nietzsche inizia la sua critica ad ogni manifestazione culturale. La coscienza e il linguaggio si sono sviluppati dal bisogno di comunicare, comandare, difendersi. La scienza non è che il proseguimento della costruzione concettuale iniziata nel linguaggio; anch’essa è solo capace di ricondurre utilitaristicamente il mondo ad unità, creando l’immagine di un universo "regolare e rigido", e si limita perciò a descrivere la superficie delle cose. Essa vuole parlare il linguaggio dei fatti, ma il fatto è sempre stupido, non parla da sé ma ha bisogno di qualcuno che lo interpreti. Dunque la scienza non è mai pura, né oggettiva perché non esiste conoscenza senza presupposti, e che non sia uno strumento in mano a qualche forza. Si pratica la scienza, insomma, per desiderio di sicurezza, per fuggire fantasmi e paure, per sete di possesso e di dominio. In quanto poi alla storia (cfr. la seconda delle Considerazioni inattuali intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita), essa serve all’uomo perché ha bisogno di avere dei maestri ideali. Ma se la storia dice di poter servire alla vita, non può però pretendere di essere una scienza oggettiva; d’altra parte, se vuole essere una scienza, essa diventa una sorta di statica conclusione e di inutile bilancio di vite. In più, la società moderna tende a trasformare le cose in eventi, che obbediscono ad una legge inesorabile ed estranea all’uomo. L’individuo non è altro che uno spettatore di un processo, la Storia, che lo supera e lo travolge.

Gli scritti successivi (Umano, troppo umano,1878-80; Aurora, 1881; La gaia scienza,1882), aprono la fase "neoilluministica" di Nietzsche. Egli vuole deliberatamente mettere tutto in discussione: romanticismo, idealismo, positivismo, socialismo, evoluzionismo, cristianesimo, metafisiche e dogmatismi vari. Tutte le realtà che sono state presentate come nobili, vere, spirituali sono in realtà "umane, troppo umane". Sono costruzioni che esprimono solo gli istinti, appetiti, passioni e interessi più intimi dell’uomo. Nietzsche rifiuta così ogni tipo di metafisica e di religione, ed attacca lo stesso concetto di verità: secondo Nietzsche si sono chiamate verità gli errori utili, quelli che sono indispensabili all’uomo per poter vivere, giacché non sopporta il vivere senza un senso. La volontà di verità ha la sua radice proprio nel bisogno di stabilità, nella paura di instabilità. Ma non esiste nessuna verità se non all’interno di una interpretazione ed in riferimento ad una particolare prospettiva. In altre parole, non vi sono verità evidenti se non all’interno di categorie storicamente instaurate dagli uomini. Per quanto riguarda la religione, Nietzsche definisce il cristianesimo come "platonismo per il popolo", nel senso che afferma due realtà, di cui quella che non si vede è la più importante. Non solo: il cristianesimo oppone i valori del cielo a quelli della terra. Così esso è la religione dei deboli, dei vinti. L’ateismo, appare quindi a Nietzsche come l’unica alternativa per liberare l’uomo. Esso è in lui qualcosa di ovvio: "Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così grossolana. Dio è una risposta grossolana, un’indelicatezza verso noi pensatori; anzi, addirittura, non è altro che un grossolano divieto contro di noi: non dovete pensare" (cfr. Ecce homo).

Ne La gaia scienza Nietzsche sostiene che l’uomo ha ucciso Dio. "Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso" ( fr. 125). La civiltà occidentale ha ucciso Dio a poco a poco, ma, uccidendo, ha perso ogni punto di riferimento. Dicendo che "Dio è morto!" Nietzsche vuol indicare insomma che sono morti gli ideali ed i valori del mondo occidentale. Dio è stato ucciso perché in Lui era sintetizzato tutto ciò che era contro la vita. Però, ora che Dio è morto, l’uomo non sa più che cosa fare: è privo di valori ed è quindi solo, sperduto "nel gran mare dell’essere", senza punto d’appoggio. Non c’è che una alternativa: è l’uomo stesso che deve creare i valori. Ma quali? Prima di proporre una nuova tavola di valori, Nietzsche si dedica allo smantellamento della morale.

In Al di là del bene e del male (1886) e nella Genealogia della morale (1887), egli risale all’origine dei comportamenti morali. La morale per Nietzsche è uno strumento di dominio: essa consiste nella costituzione di valori presentati come universali e auto-evidenti, ma in realtà astratti e repressivi. In nome di tali valori, alcuni uomini (i "buoni") ne soggiogano altri (i forti). Vi sono infatti due tipi di morale: la morale dei sani, dei forti, che privilegia l’individualismo, la fierezza, l’amore per la vita; e vi è poi la morale degli schiavi, dei deboli, che è sociale e utilitaristica, che predica la democrazia e via dicendo. La morale degli schiavi è nata col cristianesimo ed è sorta per il risentimento verso la classe dei forti: infatti i mediocri non sanno elaborare nulla di proprio e di autonomo, la vera azione è loro negata, ed allora trovano il compenso in una vendetta immaginaria. Il disinteresse, l’abnegazione, il sacrificio di sé sono il frutto del risentimento dell’uomo debole verso la vita. I deboli, che non sanno vivere, hanno fatto diventare valore la negazione della vita; è questa la vendetta dei deboli contro i forti. La morale tende così ad indebolire l’uomo. L’essere umano desiderava soddisfare le proprie pulsioni, realizzarsi in questo mondo. La morale lo ha invece spinto a credere in una specie di anti-mondo, lo ha portato ad allontanarsi dalla sua natura originaria, che è terrestre. Ma la natura si è vendicata e gli istinti si sono rifugiati all’interno dell’uomo. Nietzsche ha anticipato qui Freud: ha scoperto la resistenza degli istinti e delle pulsioni, la impossibilità di annullarli con la forza della coscienza e della morale. Ed ha scoperto che, se non sono liberati per vie naturali, essi possono esercitare un’azione ancora più perversa. L’uomo appare così a Nietzsche come un "animale malato".

Orbene, per liberare l’uomo da questo nichilismo (nella sua storia l’Occidente ha progressivamente negato i valori vitali), Nietzsche propone una trasvalutazione di tutti i valori, una nuova tavola di valori che realizzino l’ideale della "grande salute". Per poterla attuare, egli ha elaborato i concetti di volontà di potenza, superuomo ed eterno ritorno. In Così parlò Zarathustra (1883-85), Nietzsche mette in bocca a Zarathustra la dottrina della "morte di Dio", che è l’inizio della liberazione da tutti gli idoli metafisici. L’uomo vivrà felice e libero quando si sarà liberato da tutti i legami, anche da quelli stessi di "uomo" e "umanità". "L’uomo deve essere superato" affinché arrivi il Superuomo o Oltreuomo. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E’ un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E’ un essere "fedele alla terra", alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La "fedeltà alla terra" è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più "tu devi", ma "io voglio". Il superuomo è inoltre un essere socievole, rappresentato da Zarathustra che balla. Egli ha abbandonato ogni fede, ogni desiderio di certezza, per reggersi "sulle corde leggere di tutte le possibilità". La sua massima è: "Diventa ciò che sei". La libertà del superuomo è una ricchezza di possibilità diverse, da qui appunto la rinuncia ad ogni certezza assoluta e da qui anche la profondità tipica del superuomo, l’impossibilità di definire e giudicare la vita interiore, dalla quale non si attinge altro che la maschera ("Tutto ciò che è profondo, ama mascherarsi").

Il superuomo è il filosofo dell’avvenire; è un uomo senza patria né mèta per poter insegnare ad amare la ricchezza e la transitorietà del mondo. Con la sua "diversità di sguardo", egli cerca di rendere più degno il pensiero della vita, di dare al mondo un altro valore, un’altra verità: la verità non è qualcosa da riconoscere ma da creare. Con la libertà che nasce dall’abbandono delle vecchie illusioni e certezze, egli osa "spostare le pietre di confine" e aprire alla ricerca nuovi orizzonti. La volontà di potenza, come abbiamo già accennato, è la volontà di creare sempre, incessantemente, dei valori nuovi, cioè creare il senso della terra; quindi tutte le cose dipendono dalla volontà, dalla mia volontà. E questo può introdurci al terzo concetto, quello dell’eterno ritorno dell’uguale. Nietzsche vuole polemizzare così contro lo storicismo e l’evoluzionismo e, d’altra parte, rifiuta la riduzione della realtà a meri eventi effimeri, senza valore.

Per Nietzsche, tutto quanto accade, è già accaduto, e tornerà ad accadere. Nulla avviene a caso; e quando avviene, avviene per sempre, non si dissolve, ritorna eternamente. Questa dottrina – dice Nietzsche – è una condanna solo per gli uomini mediocri, poiché per essi torneranno sempre frustrazioni e sconfitte. Ma per il superuomo, invece, l’eterno ritorno indica che in ogni momento si può cominciare una nuova vita. Per questo esso richiede un impegno assoluto: il superuomo è consapevole che ogni suo atto si inserisce in una realtà eterna. L’eterno ritorno è anche il sì che il mondo dice a se stesso, è l’autoaccettazione del mondo, la volontà cosmica di riaffermarsi e di essere se stesso: dall’eternità il mondo accetta se stesso e quindi si ripete. L’eterno ritorno è così una verità terribile. Bisogna però fare di più che "sopportare" un simile pensiero: bisogna amarlo, bisogna promettere noi stessi all’"anello degli anelli"! La formula per la grandezza dell’uomo è dunque l’amor fati, non volere nulla di diverso da quello che è, non solo sopportare quello che è necessario, ma amarlo appassionatamente e quindi volerlo. Questo amore libera l’uomo dalla schiavitù del passato, giacché per lui tutto quello che è stato si trasforma in "ciò che io volevo che fosse". Il presente, in quanto momento della decisione, ha la capacità di far ritornare il passato riassumendolo nell’atto della decisione. E’ quindi proprio nella decisione che il tempo si crea come tale, dividendosi in passato, presente e futuro.

"Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non 'tornare a se stesso' ogni volta" (Al di là del bene e del male, § 292).

Nietzsche e Freud sono accomunati dall'aver smantellato in profondità, seppur con differenti modalità, le certezze del mondo ottocentesco e della sua fiducia razionalistica, già peraltro fatte scricchiolare da Schopenhauer e da Kierkegaard. Il bersaglio a cui indirizzano le loro critiche è costituito tanto dal panlogismo hegeliano quanto dal masterialismo marxiano e dallo scientismo positivistico, filosofie che hanno in comune una fiducia esasperata nel progresso. Ed è a partire da queste critiche che Freud e Nietzsche, così diversi tra loro, mettono in discussione i punti apparentemente più stabili della civiltà occidentale. I due pensatori, poi, sono tra loro accostabili perchè non possono essere considerati filosofi nel senso classico del termine: Freud è prima di tutto un medico e Nietzsche nasce come filologo, tant'è che esordisce come docente di filologia classica, anche se interpreta tale disciplina non come strumento per ricostruire fedelmente il passato, ma come una maniera per scavare nel significato più intimo della civiltà occidentale e per poter così metterne in evidenza gli aspetti più oscuri e stridenti; dietro la maschera di Nietzsche filologo è evidente come si nasconda già il Nietzsche filosofo che interpreterà l'Occidente.

Nel suo lavoro di filologo, spesso e volentieri egli non rispetta le norme di "serietà" proprie della disciplina, ma si lascia trasportare dalla ricerca del significato profondo che ad essi soggiace e per coglierlo compie salti argomentativi che il più delle volte si rivelano spericolati. In altri termini, Nietzsche non vuole studiare l'antichità esclusivamente per conoscerla nella sua essenza più intima, ma, viceversa, intende piuttosto impossessarsi di conoscenze che gli permettano di farsi profeta di una traformazione della civiltà attuale: e proprio in questo risiede l' "inattualità" del pensiero nietzscheano (come recita il titolo delle celebri Considerazioni inattuali ), nel trovarsi fuori posto nel suo tempo, nell'essere o troppo indietro o troppo avanti rispetto ai tempi correnti. Egli infatti scava nel mondo greco per farsi profeta di quelle trasformazioni che investiranno, prima o poi, la società del suo tempo e facendo ciò si trova perennemente proiettato o nel passato o nel futuro. E Nietzsche è in piena sintonia con l'idea marxiana di una filosofia di trasformazione, per cui interpretare il mondo, senza mutarlo, è insufficiente e, nel proporre questo modo di pensare, egli rompe brutalmente una lunga tradizione, risalente ad Aristotele, la quale voleva la filosofia come sapere fine a se stesso.

Il sapere per il sapere, di ispirazione aristotelica, a Nietzsche non interessa, come del resto non gli interessa la pura e semplice ricostruzione filologica della realtà: queste operazioni, infatti, risultano del tutto subordinate, e dunque di secondaria importanza, rispetto al problema della vita. Sulla base di queste considerazioni, Nietzsche si innesta su un filone di pensiero che possiamo tranquillamente definire vitalistico, volto all'esaltazione della vita e dell'irrazionalismo che la contraddistingue; nella 2° delle Considerazioni inattuali, il cui titolo recita "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", Nietzsche non si domanda, come invece facevano i suoi contemporanei, se la storia sia o non sia una scienza e come la si debba impostare per far sì che essa ricostruisca fedelmente il passato; al contrario, gli interessa se la storia sia utile o dannosa per la vita: tutta la storia della filosofia precedente a Nietzsche aveva concentrato la propria indagine sulla ricerca del vero, senza mai osar mettere per davvero in forse il concetto di verità; ora, Nietzsche è del parere che il concetto di verità sia uno di quei concetti su cui si è costruita nel corso della storia la civiltà occidentale ed egli si propone di sostituirlo, dopo averlo dimostrato assurdo, con quello di utilità: la vera filosofia non deve più domandarsi cosa è vero, ma cosa è utile per la vita. Ne consegue che il criterio per giudicare un sapere non consisterà più nel domandarsi se esso sia veritiero, ma se serve o no alla vita, ovvero se è in grado di stimolare le forze vitali dell'uomo.

Nietzsche prende le distanze dalla tradizione anche per il modo di scrivere: al periodare ampio e architettonicamente strutturato, egli preferisce l' aforisma, caratterizzato dalla forma concisa, essenziale e folgorante di punti cruciali, attraverso stringate argomentazioni e rapide illuminazioni: inoltre l'aforisma, che Nietzsche mutua da Eraclito, è tipico delle filosofie non-sistematiche e ben risponde all'esigenza della filosofia nietzscheana di operare come un martello che distrugge le verità e che saggia le campane per vedere se suonano bene (fuor di metafora: gli aspetti della civiltà occidentale), o se debbano essere abbattute. Ecco perchè l'opera del pensatore tedesco si configura come un'opera di smontaggio degli elementi occidentali per sondarne la legittimità con i colpi martellanti dell'aforisma. Egli si avvale di questo stilema narrativo in quasi tutte le sue opere, fatta eccezione per La nascita della tragedia e per le Considerazioni inattuali, dove invece prevale la forma accademica del saggio, ossia la trattazione di un tema che procede gradualmente passo dopo passo, poichè l'argomento trattato lo costringe a percorrere quella strada (anche se fortissima è la partecipazione emotiva del filosofo); un'altra illustre eccezione è rappresentata dal capolavoro di Nietzsche, Così parlò Zarathustra: ciò a cui maggiormente si avvicina sono le Sacre Scritture e non a caso il protagonista stesso (Zarathustra) è un profeta o, meglio, per usare un'espressione tipicamente nietzscheana, è un "Anticristo", ovvero predica un modo di vita diametralmente opposto a quello delineato da Cristo. Proprio come nei Vangeli, si racconta la vita del profeta inframmezzata da parabole e scintillante di metafore.

E' bene spendere qualche parola anche sulla vita di Nietzsche, naufragata nella pazzia: al di là dei molteplici eventi che l'hanno segnata, è molto importante il fatto che essa si sia tragicamente conclusa, dopo una lunga depressione, in una follia che ha portato il filosofo alla morte, dopo il crollo avvenuto nella sua città prediletta, Torino. E c'è chi ha voluto scorgere in alcuni aspetti sconcertanti della filosofia nietzscheana la prova lampante che la sua mente fosse già malata, leggendo la sua follia come un effetto della sifilide contratta in passato. Vi è poi stato chi ha sostenuto che la follia fu causata dalla filosofia stessa elaborata dal pensatore: e in effetti certi aspetti di essa tendono a sfuggire ad ogni logica umana, a schizzare via da ogni forma di comprensibilità; in certi punti il pensiero si smarrisce letteralmente e questo avvitamento estremo della filosofia lo avrebbe portato alla follia.

Detto questo, passiamo ad esaminare la prima opera importante composta da Nietzsche: si tratta de La nascita della tragedia, del 1871. L'impostazione è, apparentemente, di stampo filologico, in quanto si cerca di risalire alle origini della tragedia fiorita in età greca, ma, come si evince fin dalle prime pagine, le tesi strettamente filologiche sono affiancate da profonde considerazioni filosofiche; ed è curioso notare come questo modo argomentativo abbia fatto molto presa, a tal punto che in molti (tra cui Heidegger), da allora, cercheranno, sulla scia di Nietzsche, di studiare dai tempi più remoti la società occidentale per poterla sanare. Nell'opera e, più in generale, nell'intera filosofia nietzscheana, aleggia l'idea che la crisi che sta vivendo la civiltà occidentale sia un qualcosa di molto remoto, risalente ai tempi del mondo greco, nell'idagine del quale Nietzsche apporta ragguardevoli novità. In primo luogo, egli stravolge la tradizione nella misura in cui non guarda alla civiltà greca come vivamente ottimistica, come invece si era soliti fare in virtù della tradizione invalsa dal Rinascimento in poi; al contrario, vuole indagarne gli aspetti ombrosi, il pessimismo di fondo che serpeggia in quel mondo e che nessuno era stato davvero in grado di cogliere.

In quest'indagine, Nietzsche prende spunto da Schopenhauer, della cui filosofia si dichiara momentaneamente depositario: e legge appunto la nascita della tragedia come manifestazione di questo pessimismo latente che pervade il mondo greco; in particolare, egli adduce come esempi del pessimismo imperante all'epoca le lamentazioni sull'esistenza, i numerosi paragoni instaurati tra le stirpi umane e le foglie e, soprattutto, ricorda la vicenda di un sovrano che, imbattutosi in un satiro dei boschi detentore della verità sull'esistenza umana, dopo averlo a lungo rincorso, lo costringe ad enunciare tale verità: il bene assoluto per l'uomo è non nascere e, se è nato, morire al più presto. L'altra grande novità (strettamente connessa alla prima) che Nietzsche introduce nel suo metodo filologico risiede nell'aver scorto il momento culminante dell'età greca non nella società dei tempi di Platone e Pericle, bensì nella civiltà arcaica, ancora venata dal pessimismo; infatti, l'ottimismo è subentrato a partire dai grandi sistemi filosofici di Platone e Aristotele. E la tragedia, nella prospettiva nietzscheana, costituisce il momento in cui la civiltà greca arriva al massimo grado e, contemporaneamente, si avvia al suo tramonto: l'intera civiltà greca (e, indirettamente, quella occidentale) appare agli occhi di Nietzsche governata da due princìpi che egli identifica, rispettivamente, con il dio Apollo e con il dio Dioniso.

Essi simboleggiano due atteggiamenti antitetici che connotano il mondo dei Greci: da un lato, Dioniso è l'orgiastico dio della natura selvaggia e incarna il disordine, le forze irrazionali e istintive dell'uomo; dall'altro lato, Apollo è il dio solare, emblema dell'equilibrio, dell'armonia, della razionalità e dell'ordine. Ed è come se il mondo greco, nella sua classicità, avesse privilegiato l'atteggiamento apollineo, dandosi una veste razionale: ma Nietzsche mette in risalto l'aspetto dionisiaco, attribuendogli anche un peso maggiore rispetto a quello apollineo. Prima che nascesse la tragedia, egli nota, vi è stato un alternarsi dei due atteggiamenti, per cui ora prevaleva la prospettiva caotica del dionisiaco, ora quella composta dell'apollineo: e se in alcune civiltà orientali (Nietzsche ha soprattutto in mente certi culti orgiastici in cui il dionisiaco si manifesta in modo sfrenato) lo spirito dionisiaco emerge incontrastato da quello apollineo e perciò risulta particolarmente violento, nel mondo greco, invece, il dionisiaco genera anche l'apollineo, quasi come una barriera di difesa all'impeto dirompente dello spirito dionisiaco. Soffermando la propria attenzione sul mondo greco, Nietzsche cita espressamente il tempio dorico arcaico che, con la sua assoluta perfezione geometrica, rappresenta proprio l'ergersi dell'ordine apollineo in opposizione al caos dilagante del dionisiaco.

Ed è evidente come la novità della lettura nietzscheana della civiltà greca consista non tanto nell'aver sostenuto che, in fin dei conti, la cultura greca non è poi così ordinata come sempre la si è immaginata, quanto piuttosto nell'aver evidenziato il fatto che l'ordine che, qua e là, la colora è una pura e semplice manifestazione derivata dal caos di fondo, una barriera volta a limitare i danni dell'eccessivo disordine. A differenza dell'interpretazione che del mondo greco aveva dato qualche decennio prima Hegel, ad avviso del quale, in fin dei conti, i Greci erano un popolo ottimista e composto per inclinazione naturale, Nietzsche mette in luce come i Greci abbiano insistito in modo esasperato sull'ordine perchè avevano un senso particolarmente acuto della tragicità dell'esistenza umana, cosicchè dionisiaco e apollineo, inizialmente presentati come due poli antitetici, si rivelano ora come due facce della medesima medaglia, in quanto l'apollineo nasce come reazione alla tragicità dionisiaca della vita. E, sotto questo profilo, la tragedia greca costituisce il vertice raggiunto dal mondo arcaico, in quanto in essa è cristallizzato un perfetto e armonico equilibrio tra lo spirito dionisiaco e quello apollineo: sulla scena, infatti, vengono rappresentati avvenimenti terribili che però risultano piacevoli agli spettatori (già Aristotele aveva riflettuto su questo paradosso); l'interpretazione che ne dà Nietzsche è in piena sintonia con il suo ragionamento: di fronte alla tragicità degli eventi messi in scena, si prova piacere perchè si esprime sì l'impeto dionisiaco, ma è " Dioniso che parla per bocca di Apollo ", ovvero gli elementi tragici dell'esistenza messi in scena vengono sapientemente sublimati dall'essere tradotti in un linguaggio artistico, come se Apollo desse forma ai contenuti di Dioniso.

E la tesi nietzscheana, che campeggia nell'opera, secondo la quale la tragedia deriverebbe da antichi riti dionisiaci è ancor oggi per lo più accettata: "tragedia", infatti, sta a significare "canto del capro" e il capro era appunto un animale sacro a Dioniso; al coro di uomini vestiti come capri in onore del dio, si è sempre più contrapposta la figura di Dioniso e da ciò si è, gradualmente, sviluppata la tragedia vera e propria. Come abbiam detto, in quest'opera Nietzsche professa la propria ascendenza schopenhaueriana e ben lo si evince dal prevalere, nella sua lettura del mondo greco, dell'aspetto drammatico e caotico dell'esistenza e della forza irrazionale, quasi demoniaca, che la permea a tal punto che la razionalità altro non è se non una mera apparenza.

Tuttavia, nella seconda edizione dell'opera, Nietzsche pone una prefazione in cui dichiara di non essere più schopenhaueriano e che anzi, già quando aveva scritto La nascita della tragedia si era solo illuso di esserlo. E in effetti le differenze tra i due pensatori sono parecchie: seppur accomunati dal privilegiamento per l'irrazionalità e dal pessimismo, i due filosofi appaiono incommensurabilmente distanti nella loro concezione della vita; essa è per Nietzsche il valore centrale intorno al quale costruire la filosofia, mentre invece per Schopenhauer, attraverso quel tortuoso processo che, culminando con la "noluntas", porta allo spegnimento della vita stessa, essa non ha alcun valore, ed è anzi la fonte della sofferenza umana. Nietzsche, che pure all'epoca de La nascita della tragedia si riteneva schopenhaueriano nella misura in cui prospettava la caoticità dell'esistenza, non giungeva affatto a scorgere l'unico rimedio possibile all'infelicità dell'esistere nell'annullamento della vita stessa: in altri termini, se per Schopenhauer, dopo essersi accorti che la vita è tragica, non resta che uscirne al più presto, per Nietzsche, viceversa, la si deve vivere fino in fondo, accettandola in ogni sua sfumatura (in Così parlò Zarathustra egli dice, con un'espressione che ben sintetizza la sua filosofia, " bisogna avere un caos dentro di sè per generare una stella danzante ").

Da tutto ciò si evince come per Nietzsche la vita sia il valore supremo e che dunque la tragicità che la connota non sia un motivo sufficiente per sottrarsi ad essa: il che è brillantemente simbolizzato dal coro tragico che si identifica a tutti gli effetti con la caoticità di Dioniso; Apollo stesso, del resto, non viene dipinto a tinte negative, ma è anzi inteso come un filtro che permette di vedere la tragicità esistenziale senza essere accecati dal fulgore che essa emana. Ciò non toglie, tuttavia, che l'apollineo, per rimanere positivo, non debba perdere il suo contatto con il dionisiaco (da cui è generato): il problema sorge nel momento in cui Apollo non è più portavoce di Dioniso, ma parla con voce propria, diventando così autonomo. E il crollo della cultura greca, verificatosi agli occhi di Nietzsche nel V secolo a.C., è legato proprio a questo: i due personaggi che ne sono vessilliferi sono Euripide, tragediografo dell'epoca, e Socrate, modello tipico di spettatore di tali tragedie. Infatti, con la produzione euripidea, il tragico sfuma e cede il passo alla razionalità, i personaggi in scena ragionano con una dialettica spietata e la tragedia perde i suoi connotati tragici tendendo sempre più a diventare ottimistica e razionale. Socrate, dal canto suo, è il primo grande simbolo della grande razionalità filosofica della Grecia e il suo allievo, Platone, non fa che portare alle stelle questa tendenza: da quel momento fino all'epoca in cui vive Nietzsche, la civiltà occidentale è sempre più andata, in modo irresistibile, verso una marcata compostezza ordinata e razionale, con il conseguente sganciamento dell'apollineo dal dionisiaco e la fine dell'equilibrio tra i due.

Ma a Nietzsche non interessa il passato in quanto tale, ma la vita e il suo trascorrere incessante nel presente: ed è per questo che proietta la sua indagine sulla meravigliosa epoca dei Greci, per cercare il senso e l'origine profonda di quella crisi che alimenta l'epoca in cui Nietzsche vive; e il filosofo, come abbiam visto, rinviene le radici di tale crisi nel prevalere schiacciante dell'apollineo sul dionisiaco. E in questa fase del suo percorso filosofico, Nietzsche, oltrechè schopenhaueriano, si professa wagneriano, scorgendo nella figura di Wagner la possibilità di una rinascita della tragedia greca, intesa come antidoto al prevalere imperante dell'apollineo.

Questo atteggiamento è presente anche nella II delle Considerazioni inattuali (1873-74), dal titolo Sull'utilità e il danno della storia per la vita: che la riflessione di Nietzsche sia "inattuale" e che egli sia, se inquadrato nella sua epoca, un pesce fuor d'acqua è evidente già solo dal titolo di questa Considerazione, titolo che peraltro costituisce la chiave di lettura di tutto il suo pensiero: a Nietzsche non interessa affatto se la storia dica il vero o se vada adottato un metodo storico piuttosto che un altro; semplicemente si domanda se la storia sia utile o dannosa per la vita, protagonista indiscussa della sua filosofia a partire da La nascita della tragedia (anche se in tale opera finiva per identificarsi con la volontà schopenhaueriana). Dalla lettura della II Considerazione, emerge come per Nietzsche la storiografia, che di per sè non è da respingersi, in quegli anni abbia assunto un'eccessiva importanza a tal punto da poter divenire dannosa, poichè fa sì che ci si senta inibiti nella vita perchè posseduti dalla malsana idea che tutto ciò che si poteva fare sia già stato compiuto nel corso della storia umana. Per poter agire nella vita è necessario un margine di oblìo e di ignoranza, e pertanto la storiografia va bene solo se presa a piccole dosi. Nello specifico, poi, egli individua tre diversi tipi di storiografia: quella "critica" ha un approccio critico con il passato e, dunque, si pone (sulla scia dell'Illuminismo) in forma correttiva rispetto ad esso; quella "monumentale", invece, esamina e celebra le azioni del passato e, infine, quella "antiquaria", come suggerisce il nome, nutre un culto, di stampo museale, del passato in quanto tale.

Ciascuna di queste tre tipologie, a patto che non venga oltremodo esasperata quantitativamente e non si trascurino le altre, è utile: la critica e l'esaltazione delle gesta del passato, infatti, sono uno stimolo per agire in modo migliore e, in modo analogo, perfino il radicamento museale nel passato può essere una buona premessa per agire meglio (pensiamo a Manzoni, che nell'Adelchi mette in scena vicende del passato radicate nella cultura italiana per aizzare il popolo ai moti risorgimentali). Ciò non toglie, tuttavia, che non si debba esagerare: perchè se è vero che i tre tipi di storiografia possono, per le ragioni poc'anzi esposte, essere utili alla vita, è anche vero che, se si eccede, possono rivelarsi dannose. Se si critica eccessivamente il passato, infatti, ci si limita a lamentale di come le cose non debbano andare e se si esaltano troppo le imprese degli antichi ci si blocca in un'assurda idolatria. Ed è per questa ambiguità per cui la storia, nelle sue tre sottodivisioni, è in perenne bilico tra l'essere utile e l'essere dannosa per la vita, che Nietzsche attribuisce tale titolo alla seconda Considerazione.

E, proprio come fa Freud, egli propone sempre anche degli antidoti: se ne La nascita della tragedia aveva proposto l'opera wagneriana come possibile ritorno all'equilibrio tra apollineo e dionisiaco, ora, invece, sostiene che per far fronte al rischio che la storia possa danneggiare la vita si deve ricorrere all'arte e alla religione. L'arte, infatti, pressochè costante nell'opera nietzscheana, può costituire un'efficace cura per dar spazio alla creatività dell'uomo e al suo istinto creativo, anche se, è bene notare, il pensatore tedesco cambia, a poco a poco, il suo atteggiamento. Se ne La nascita della tragedia e nelle Considerazioni inattuali ravvisa nell'arte un potente antidoto contro l'apollineo che mortifica la vita, man mano che matura, Nietzsche è sempre meno convinto che essa possa salvare e arriva a sostenere che si deve vivere la vita come un'opera d'arte (tesi che sarà particolarmente cara a D'Annunzio), ovvero si deve condurre la propria esistenza artisticamente, diventando creatori di valori e di certezze da contrapporre a quelli tradizionali. Forse più complessa è la questione per quel che riguarda la religione: pare infatti piuttosto strano che Nietzsche, accanito sostenitore che " Dio è morto " e autore de L'Anticristo, possa rintracciare nella religione un rimedio.

Tuttavia, è bene precisare, Nietzsche non era banalmente un "ateo" dispregiatore della religione: come non gli interessa se la storia sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita, così la religione gli sta a cuore nella misura in cui essa può promuovere la creatività umana: e se arriverà a condannare le religioni dei suoi tempi, lo farà quasi esclusivamente perchè esse uccidono la vitalità, non perchè sono menzognere; e, in questa fase del suo pensiero, non può fare a meno di constatare che nell'epoca d'oro della tragedia (quella di Sofocle e, soprattutto, di Eschilo) la religione era un patrimonio lussurreggiante di miti e di immagini da vivere in prima persona con i riti e con le feste, cosicchè essa non ammazzava, ma anzi era una sorgente di vitalità umana. Da queste riflessioni si capisce come per Nietzsche la religione e l'arte siano antistoriche e "inattuali": esse, cioè, si collocano al di là della pericolosità dell'incantesimo di quella storia che, se eccessiva, fiacca la vita.

Una buona parte del lavoro filosofico di Nietzsche nella sua maturità è dedicato alla ricostruzione della " genealogia della morale " (come recita il titolo di un suo scritto datato 1887): se nella prima fase della sua indagine, il pensatore tedesco aveva individuato nell'arte la via di salvezza per la civiltà occidentale, da un certo momento in poi egli abbandona tale strada e scorge l'unico antidoto possibile nella scienza e per questo motivo questa nuova stagione del suo pensiero è stata spesso definita "illuministica", tant'è vero che molti dei suoi scritti maturati all'epoca sono dedicati ai più prestigiosi pensatori dell'età della ragione, tra cui spicca Voltaire (dedicatario di Umano, troppo umano ). Apparentemente può stupire questa fedele adesione alla scienza di un pensatore che privilegia l'irrazionale e, soprattutto, il vitalismo: ma l'atteggiamento che egli assume è radicalmente diverso rispetto a quello positivistico, fiducioso che nel dato di fatto risiedesse la verità; più precisamente, la valutazione positiva che Nietzsche riserva alla scienza può essere spiegata facendo riferimento ad un altro testo, del 1881, intitolato " La gaia scienza ": il pensatore tedesco apprezza la scienza non in base ad un criterio di verità, ma piuttosto perchè capace di liberare l'uomo, proprio come, anni prima, aveva valutato positivamente la religione per la sua capacità di far emergere la capacità creativa. Ed è per questo che egli abbraccia la scienza nella misura in cui in essa scorge una capacità liberatoria, senza contrapporla perchè più "vera" (come invece facevano i Positivisti) alle nebbie della metafisica: un pò come aveva fatto per la storia, egli si domanda ora non se la scienza sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita. E la valutazione che ne dà è inequivocabilmente positiva: la tecnologia stessa appare ai suoi occhi come un elemento liberatorio e non è un caso che egli, in questo periodo, concentri la sua attenzione su molti studi variegati, anche di natura scientifica.

Ciò che più affascina Nietzsche della scienza e del suo essere utile per la vita è il fatto che essa indaghi sull'origine delle cose ed è per questo che la sua attenzione è rivolta precipuamente alla chimica e alla paleontologia, finalizzate (anche se una nel tempo, l'altra no) alla ricerca dell'origine degli elementi costitutivi della realtà. In sostanza, conclude Nietzsche, queste due scienze hanno un atteggiamento "genealogico" e si propone di operare anch'egli, in ambito filosofico, con questo metodo di costruzione dell'origine passando per lo smontaggio; tuttavia, se la chimica e la paleontologia studiano, in senso lato, la natura, Nietzsche vuole invece proiettare la propria indagine sulla morale, anche se con le stesse modalità delle altre due discipline: ed è per questo motivo che il suo famoso scritto che ne scaturisce si intitola Genealogia della morale.

Più che distruggere la morale, come più volte gli è stato rinfacciato, Nietzsche la "decostruisce", come ha acutamente messo in evidenza Vattimo, ovvero la costruisce all'incontrario: come la chimica "smonta" le sostanze complesse per ravvisare i singoli elementi che le costituiscono, così egli si propone di agire nei confronti della morale; ed è, a tal proposito, significativo il titolo di un'opera del 1878, intitolata " Umano, troppo umano ", che mette in risalto come dallo smontaggio della morale se ne ottenga una demitizzazione della morale stessa. In altri termini, la morale ha tradizionalmente poggiato su realtà sovrasensibili (il mondo delle idee di Platone ne è la più fulgida espressione), quasi come se nella storia i valori umani fossero stati tramutati in divini; questo atteggiamento paradossale, nato con Socrate e proseguito con Platone, ha accompagnato la civiltà occidentale per tutto il suo sviluppo, senza mai venir meno. Il cristianesimo stesso altro non è, a dire di Nietzsche, che un "platonismo popolare" che, con una precettistica meno raffinata di quella platonica, ha fatto slittare la discrepanza tra mondo fisico e mondo metafisico da un piano ontologico ad uno temporale, cosicchè la trascendenza non si colloca più al di sopra, ma dopo, dal momento che la si raggiunge solo con la morte. Perfino la democrazia e il socialismo sono il frutto di quest'atteggiamento di divinizzazione della morale e ciò che intende mettere in luce Nietzsche in Umano, troppo umano è come quei valori ipostatizzati, quasi trasformati in sostanze divine, in realtà sono umani, fin troppo umani: " dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane ". Ma più che venir rifiutati, questi valori "ideali" sono smontati, quasi denudati, ossia messi in luce nella loro vera origine e quindi nella loro vera natura, attraverso un'operazione filosofica accostabile a quella di un martello che saggia ogni cosa. E, nel concreto, dimostrando nella sua indagine sulla genealogia della morale che essa non ha un'origine sovrasensibile e divina, ma anzi, fin troppo terrena, egli intende dire, ad esempio, che le regole morali che serpeggiano nella nostra civiltà sono regole di convivenza civile per regolare il comportamento degli individui, e non leggi enigmaticamente emanate da dio.

E perchè nasce la morale? L'uomo, osserva Nietzsche, ha per natura il bisogno di dominare la realtà che lo circonda e tale esigenza si estrinseca in primo luogo come dominio intellettuale (la paura del buio, ad esempio, nasce dal fatto che non riusciamo a dominare concettualmente l'ambiente in cui ci si trova) e, per fare ciò, l'uomo sente la necessità impellente di imporsi delle regole comportamentali e conoscitive che lo difendano dalla realtà caotica e irrazionale in cui è immerso, proprio come, al tempo dei Greci, lo spirito apollineo era nato da quello dionisiaco. Ma il termine "morale" riveste in Nietzsche un significato più ampio di quello che, solitamente, le attribuiamo: a costituire la "morale" sarà la sfilza di regole che l'uomo si è imposto, ma anche i criteri per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, dato che la ricerca della verità e la necessità di comunicarla ai propri simili è esso stesso un valore morale, cosicchè anche il vero, oltre al bele, rientra nella vastità semantica del termine "morale". Ma non basta: perfino la religione è una forma di morale, visto che in Dio sono cristallizati tutti i valori maturati nella storia dell'uomo ed è in quest'avventura di ricerca dell'origine umanissima della morale che Nietzsche ha modo di trattare della schiavitù: quelli che vengono generalmente riconosciuti come "il bene" e "il male" sono tali perchè l'han stabilito i "padroni", afferma Nietzsche accostandosi in modo impressionante alle tesi che in quegli anni stava elaborando pure Marx; dopo di che, tuttavia, succede anche che nasca una morale dei servi, di coloro, cioè, che sono assoggettati in quanto deboli e che, con la loro morale, intendono negare la validità del diritto del più forte, proponendo, opposta ad essa, una " morale del risentimento ".

In questa prospettiva, che molto risente delle discussioni degli antichi Sofisti (cari a Nietzsche perchè demolitori della verità) sulla distinzione tra fusis e nomos, Nietzsche scaglia i suoi velenosi strali soprattutto contro Platone, che nella Repubblica aveva contestato a Trasimaco il diritto del più forte, contro il cristianesimo, strenuo propugnatore dell'uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, contro la democrazia e contro il socialismo ( " balorda incomprensione di quell' ideale morale cristiano "); e dopo aver tuonato contro di essi, Nietzsche fa una scoperta sensazionale: la morale dei deboli può diventare morale della sopraffazione, poichè se essi si uniscono possono imporre i loro valori in modo coercitivo ma anche in modo "pacifico" e, in quest'ottica, l'ascetismo stesso, tanto caro a Schopenhauer, altro non è se non trasformare in valore l'incapacità di vivere la vita fino in fondo e voler costringere gli altri a cedere a tale valore. Perfino i martiri cristiani, sostiene Nietzsche, commettono una violenza, poichè col martirio è come se imponessero agli altri i loro valori.

Con queste riflessioni Nietzsche demitizza la morale e da ciò deriva un atteggiamento di nichilismo, ovvero una filosofia del nulla che prorompe dal venir meno dei punti di riferimento della morale: e Nietzsche distingue tra "nichilismo passivo", dipingendolo in negativo, e "nichilismo attivo", esaltato invece come altamente positivo. Se con Platone era invalsa la convinzione che esistessero due mondi distinti, uno intellegibile e perfetto, l'altro fisico e lacunoso perchè pallida copia dell'altro (e il cristianesimo aveva esasperato questa mentalità), si è poi scoperta la falsità di tale apparato ideologico e morale, cosicchè il mondo fisico ha perso ancora più consistenza perchè, se ai tempi di Platone e della morale cristiana, era considerato imperfetto ma comunque copia di quello ideale, ora si trova smarrito e senza punti di riferimento assoluti: domina dunque il nichilismo passivo, che corrisponde a buona parte delle posizioni atee (ad esempio, gli atei che invidiano chi ha ancora il coraggio di credere).

Con la fase del nichilismo passivo, il mondo ha perso consistenza rispetto al mondo di Platone perchè, se è vero che ha proclamato la falsità dei punti di riferimento assoluti (Dio, la morale, ecc), è altrettanto vero che non si è del tutto liberato da quel gravoso fardello e prova una sorta di rimpianto per quel mondo assoluto. Poi, però, nasce una nuova posizione: dopo aver dichiarato l'inesistenza del mondo dei valori assoluti, ci si accorge che di esso non c'è più bisogno (e forse non ce n'è mai stato), sicchè viene meno il rimpianto che caratterizzava il nichilismo passivo; il mondo sensibile resta l'unico e assume un valore assoluto, mai conosciuto in precedenza, poichè tutto il valore riconosciuto un tempo al mondo sovrasensibile si riversa ora su quello terreno e così, dal nichilismo passivo si passa a quello attivo, caratterizzato da un radicale immanentismo; il nuovo ateo, cioè, non rimpiange più il mondo dei valori, ma dice: "dio non c'è? Benissimo, allora dio sono io", o, per usare le parole impiegate da Nietzsche in Così parlò Zarathustra, " se esistessero gli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! [...] adesso é un dio a danzare, se io danzo ".

E una volta che la scienza "gaia" (perchè liberatrice) perviene alla conoscenza e alla decostruzione della morale, la depotenzia fino a liberare l'uomo dalle tradizionali catene dei valori morali imposti dall'esterno e, per questo motivo, limitativi nei confronti della creatività umana; però, solo con il passaggio dal nichilismo passivo a quello attivo si attua effettivamente la liberazione dell'uomo e quella che Nietzsche definisce " trasvalutazione dei valori ", cioè lo stravolgimento dei valori tradizionali: non si tratterà di eliminare il bene e il male, ma di trasmutarne il significato e questo atteggiamento volto a cambiare, non a distruggere, emerge bene dal titolo di un'opera del 1885-86 intitolata Al di là del bene e del male, da cui si evince facilmente come l'uomo, smontata la morale, sia tenuto a collocarsi al di là di quelli che la tradizione ha additato come "bene" e "male", liberandosi in tal modo dei valori "divini" imposti dall'esterno e dannosi per la vita: questi vengono sostituiti da nuovi valori che l'uomo stesso si dà, trasformandosi così in un "creatore di valori". Non si subiscono più in modo passivo i valori "divini", ma si vivono in modo gioioso e gaio quelli nuovi, terreni a tutti gli effetti (l'opera di Nietzsche è pervasa da costanti inviti all'umanità a restare fedele alla terra).

In base alle considerazioni fin'ora illustrate, Nietzsche può così arrivare ad affermare che " Dio è morto ": in molti si son chiesti perchè non dica, molto più semplicemente, che non esiste, ma in realtà il suo atteggiamento è profondamente motivato dal suo stesso impianto filosofico. Infatti, ripercorrendo brevemente il suo percorso, egli ha indirizzato la sua ricerca sull'origine della morale attraverso l'impiego della scienza e ha scoperto che tutti quei valori morali, da sempre esaltati come divini, in verità hanno un'origine fin troppo umana, ma nella prospettiva nietzschena rientra nella tradizionale "morale" anche l'esigenza di distinguere il vero dal falso ed è a questo proposito che affiora un paradosso interessante nel suo pensiero, paradosso che qualche studioso ha voluto connettere alla follia nietzscheana: la ricerca condotta sulla genealogia della morale si basa anch'essa su quella spinta alla ricerca della verità che costituisce un punto cardinale della civiltà occidentale (e trova la sua massima espressione nella celebre espressione di Aristotele secondo cui l'uomo tende per natura alla verità); da tale indagine si scopriva che la verità non esiste e lo stesso valore morale che ci ha indotti a tale ricerca rivela la propria inconsistenza, quasi come se l'unica verità fosse l'inesistenza di una verità. E, poichè credere in Dio significa riporre tutti i valori morali (bontà, verità, ecc) in un solo ente, negarne l'esistenza vorrebbe dire, a sua volta, riproporre una verità e quindi ritirare in ballo l'esistenza di Dio, che è appunto la sintesi di tutti i valori morali (tra cui la verità): in altri termini, se Nietzsche avesse detto "Dio non esiste", avrebbe riproposto una nuova verità (la non-esistenza di Dio) e si sarebbe trovato incastrato dalla sua affermazione, perchè laddove c'è una verità, là c'è anche Dio. Ecco perchè Nietzsche preferisce usare un'espressione più indiretta e sfumata, priva di implicazioni ontologiche: asserendo che Dio è morto, Nietzsche ci sta suggerendo che non ci serve più e da ciò emerge l'idea (fortissima in Così parlò Zarathustra ) del " congedarsi da Dio "; certo, ci sono stati momenti in cui Dio ha avuto un senso e, del resto, Nietzsche esamina (nella Genealogia della morale )l'origine della morale senza scagliarsi contro di essa, ma anzi riconoscendo che, in determinati periodi storici, è stata necessaria e ha avuto un senso.

Più nello specifico, è il progresso che ha reso sempre più possibile la vita senza l'arsenale divino e morale, fino ad arrivare al nichilismo attivo, in cui si smarrisce ogni rimpianto per tali valori; e un ruolo di primissimo piano è stato svolto dalla tecnologia: l'uomo, infatti, finchè non è stato in grado di dominare materialmente la realtà, ha sentito l'esigenza di imporsi su di essa almeno concettualmente con l'idea di Dio e della morale. Ma poi, grazie al progresso e alla tecnologia, egli ha esteso il proprio dominio materiale sulla realtà e la validità di concetti come "Dio" e "morale" si è sgretolata, a tal punto che ancora oggi le società più evolute sono quelle dotate di regole meno fisse. Non si tratta, pertanto, di distruggere brutalmente la morale e Dio, ma semplicemente di assumere nei loro confronti quell' atteggiamento di congedo calmo e sereno che si attua nel momento in cui ci si accorge che quelle cose, un tempo indispensabili, ora non servono più e possiamo liberarcene in tutta tranquillità (l'idea di " crepuscolo degli idoli ", come recita il titolo di un'altra opera, del 1888, rende bene l'idea di come i valori tradizionali non vengano violentemente distrutti, ma di come tramontino).

L'odio nei confronti della morale e della religione, dice Nietzsche, può solo scaturire in seno al nichilismo passivo, quando cioè vengono ancora sentite forti e, in fondo, se ne sente ancora il bisogno: questo atteggiamento di transizione viene paragonato a quello del cane appena liberato che ha ancora sul collo il segno del collare. E dopo che la morale e la religione sono giunti al loro crepuscolo, l'uomo che si è congedato da esse è il superuomo: " morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva " ( Così parlò Zarathustra ). Tuttavia, al termine superuomo, destinato a diventare un mito per le generazioni successive a Nietzsche e ad essere soggetto a clamorosi fraintendimenti, è preferibile usare quello di "oltreuomo", come ha sottolineato Vattimo, proprio per distinguere la concezione nietzscheana dalle poco fedeli interpretazioni fascistoidi e dannunziane, anche se qualche spunto in tale direzione compare, qua e là, nelle stesse opere nietzscheane, soprattutto quando il folgorante profeta del superuomo si schiera contro le morali dei deboli; anche se, ad onor del vero, pur non approvando il socialismo come dottrina, in qualche aforisma guarda con simpatia al movimento operaio perchè, a differenza della sonnolenta borghesia, è animato da una forza particolarmente vitalistica capace di creare nuovi valori. Fondamentalmente, l'oltreuomo non è un essere superiore agli altri, ma la nuova figura che l'uomo dovrà assumere in futuro e Nietzsche se ne fa profeta soprattutto in Così parlò Zarathustra, un libro enigmatico ( "un libro per tutti e per nessuno" avverte il sottotitolo) che, come abbiamo accennato, si configura come una sorta di parodia del Vangelo in cui, oltre a capovolgere il testo sacro (viene propagandata una contro-religione), sceglie come protagonista quello Zarathustra, fondatore della religione persiana, che aveva contrapposto in modo nettissimo il bene al male. Nietzsche tramuta questo personaggio storico che aveva dato la codificazione più netta della morale in profeta di un'oltre-religione dell'essere al di là del bene e del male.

Ma Nietzsche, per bocca di questo nuovo "profeta all'incontrario", non vuole imporsi come fondatore di una nuova religione, poichè ciò non costituirebbe altro che una nuova divinizzazione di valori: " non c'é nulla in me del fondatore di religioni: non voglio credenti, non parlo alle masse; ho paura che un giorno mi facciano santo " ( Ecce homo ). L'unica cosa che Zarathustra insegna è di non accettare insegnamenti, ma di creare nuovi valori: egli profetizza la venuta del superuomo, ovvero dell'uomo del futuro ( " Ancora non é esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l'uomo più grande e il più meschino. Sono ancora troppo simili l'uno all'altro. In verità anche il più grande io l'ho trovato troppo umano! ") che si innesta nella civiltà postmoderna: vi sarà sì una fase provvisoria in cui esisteranno solo pochi oltreuomini in grado di cogliere come procede il futuro, ma ciò che li caratterizzerà sarà quel senso di "malattia" e di inattualità che ha accompagnato Nietzsche stesso per tutta la sua vita fino a culminare nella follia. Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E’ un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E’ un essere "fedele alla terra", alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni.

La "fedeltà alla terra" è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza). Non più "tu devi", ma "io voglio". Soprattutto, l'oltreuomo trasvaluta tutti i valori e ne crea di nuovi, facendo della propria vita un'opera d'arte: e in Così parlò Zarathustra troviamo immagini ricorrenti, da cui traspare come l'oltreuomo sappia amare e trasmettere agli altri la gioia che deriva dalla propria piena realizzazione; il ridere e il danzare sono le sue prerogative peculiari: dopo aver smontato la verità, crolla inevitabilmente anche l'essere, giacchè la verità altro non è se non disvelamento dell'essere, e quando Nietzsche dice che " l'essere manaca " si avvicina soprattutto alle posizioni di Gorgia, il quale, dopo aver dimostrato che l'essere non è e che se anche fosse non sarebbe conoscibile e, se anche fosse conoscibile, comunque sarebbe incomunicabile, aveva dato una valutazione suprema dell'arte poichè, in assenza di una verità, l'artista non imita (come invece credeva Platone), ma crea e inganna; il discorso di Nietzsche è molto affine a quello gorgiano e, interpretando l'intera vita come un'opera d'arte, ciò che l'uomo crea diventa un valore assoluto e autonomo: in questa prospettiva, la risata e la danza incarnano la leggerezza dell'oltreuomo, il suo poggiare non sull'essere, ma sul vuoto simboleggiano il suo saper " vivere in superficie ", quasi camminando sulle acque, proprio in virtù del venir meno di quella che Kant chiamava " cosa in sè " ed è proprio in questa prospettiva che uno dei più gravi pericoli è costituito dallo "spirito di gravità". Costante è anche l'immagine del volo, che ben esprime la leggerezza: " colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola 'la leggera'. "; e Nietzsche può così affermare che " l'uomo è un cavo teso fra la bestia e il superuomo [...] é qualcosa che deve essere superato ", ma tale cavo è sospeso nel vuoto ed è perciò un passaggio arduo e rischioso (non a caso il funambolo presente in Così parlò Zarathustra perde l'equilibrio e cade).

Sempre dalla lettura di Così parlò Zarathustra emergono altri concetti chiave della filosofia nietzschena, come ad esempio quello di "volontà di potenza" e di "eterno ritorno". In particolare, la volontà di potenza (a cui Nietzsche dedica un'opera intitolata, appunto, La volontà di potenza ) è in un certo senso l'erede remoto della volontà schopenhaueriana: la stessa opera La nascita della tragedia era intrisa di concezioni schopenhaueriane e, soprattutto, l'elemento dionisiaco era quello in grado di cogliere la forza irrazionale che governa la realtà e che finiva per identificarsi con la volontà di Schopenhauer. Tuttavia, con la nozione di "volontà di potenza" Nietzsche si discosta dall'insegnamento del filosofo pessimista: come senz'altro si ricorderà, Schopenhauer insisteva vivamente sulla necessità di capovolgere la volontà in nolontà, quasi come se si dovesse sfuggire alla volontà stessa; ora, a partire da La nascita della tragedia, Nietzsche sostiene invece che si deve accettare fino in fondo la tragicità dell'esistenza e trovare una specie di gioia paradossale nel vivere il caos fino in fondo. In altri termini, se per Schopenhauer si deve sconfiggere la tragicità esistenziale rifiutandola, per Nietzsche la si deve vincere accettandola fino in fondo, in ogni sua sfumatura. E, con l'avvento del nichilismo, la mancanza di un senso assoluto finisce, secondo Nietzsche, per far assumere un senso assoluto proprio a quella realtà superficiale che è il mondo che ci circonda. E allora il concetto di volontà si colora di nuovi significati: in primo luogo, per Schopenhauer la volontà è l'unica cosa che esista veramente, come per Spinoza l'unica vera cosa esistente era la "Sostanza"; e per questo il discorso schopenhaueriano era metafisico a tutti gli effetti e per Nietzsche ogni discorso metafisico è del tutto inaccettabile, ovvero non si possono più fare affermazioni sulla struttura della realtà (come invece facevano Schopenhauer o Hegel) poichè, respinto il concetto di verità, ciò non ha più senso. L'oltreuomo si trova così nella situazione in cui non ci sono più l'essere nè i valori prestabiliti, e ad esistere sono solamente le interpretazioni del mondo e la nozione di interpetrazione (che fa di Nietzsche uno dei padri del pensiero ermeneutico) è originalissima: non si tratta di interpretare la verità sotto i diversi e legittimi, ma di per sè non sufficienti, punti di vista con cui si può guardare ad essa, bensì, ci sono solo interpretazioni del mondo ma non c'è più il mondo da interpretare, c'è solo più l'immagine del mondo: e Nietzsche può affermare che " non esistono fatti, ma solo interpretazioni ".

Non vi è una verità oggettiva da guardare sotto diversi profili, ma vi sono solo più i punti di vista: e se non c'è più il mondo ( " l'essere manca "), cosa permette di dire che un'interpretazione è più valida di un'altra? Qui nuovamente emerge il concetto cardinale della filosofia nietzscheana: la vita; le interpretazioni, infatti, sono migliori o peggiori non perchè corrispondano di più o di meno ad una presunta verità, ma nella misura in cui sono più "potenti", più convincenti, più capaci di muovere e di sostenere la vita (e questo spiega l'apprezzamento di Nietzsche per il movimento operaio). Venuto meno il mondo, esso è sostituito, potremmo dire, da un campo nel quale diversi centri di forza si confrontano tra di loro e tali centri di forza altro non sono se non le diverse interpretazioni di quel mondo che non c'è: ci saranno diverse immagini di valori, di interpretazione della realtà, e così via, e possono di volta in volta prevalere le une sulle altre proprio perchè manca la realtà con cui confrontarsi e l'unico criterio che permette ad un'interpretazione di trionfare sulle altre è basato sulla vitalità. Pertanto un'interpretazione che stimoli la vita tenderà a prevalere sulle altre e proprio in questo è racchiuso il concetto di volontà di potenza: è questo tentativo di affermare determinati valori a danno di altri, quasi il centro di un campo di forza, non una "cosa" (come invece era in Schopenhauer).

Ma è bene notare come la volontà di potenza non sia volontà di esistere, poichè, propriamente, non c'è nulla che esista, ma è, invece, volontà di affermarsi (il martire cristiano non muore per esistere, ma per affermarsi); e questo ci permette di capire come, al di là di qualche sbavatura qua e là del pensiero nietzscheano, la volontà di potenza non si affermi mai in modo violento: viene seguita perchè dà un'interpretazione più forte della realtà, non perchè si impone con la violenza sui più deboli (come credevano i nazisti).

E l'ultimo grande concetto presente in Così parlò Zarathustra è quello di eterno ritorno: tra i bislacchi personaggi che accompagnano Zarathustra nella sua avventura, vi è anche un nano che espone tale dottrina, secondo cui tutto ritorna su se stesso e per cui tutto quanto accade ora è già accaduto un'infinità di volte nel passato e accadrà un'infinità di volte nel futuro. Nel formulare questa strana teoria, Nietzsche si basa anche su studi scientifici e, in particolare, sulla constatazione che meccanicisticamente le possibili composizioni della materia, per quanto numerose, si esauriscono e, dopo esserci state tutte, ritorna quella di partenza. Nella poliedricità caleidoscopica della filosofia nietzscheana, suona quasi banale questa teoria già esposta similmente dagli Stoici: tuttavia, gli animali che accompagnano Zarathustra, ad un certo punto, intonano una canzone il cui motivo è quello appunto dell'eterno ritorno, il cui significato profondo, però, non è banalmente quello del ritorno perpetuo delle medesime cose, ma è un significato recondito e profondo: tant'è che Zarathustra, in una narrazione in cui aleggia un clima onirico, racconta di aver avuto una visione e di aver visto un pastore che dormiva e a cui entra in bocca un serpente; Zarathustra cerca di aiutarlo ma, non riuscendoci, lo invita a mordere il serpente e così si salva e la vicenda si chiude con una risata liberatoria del pastore. Quale è il significato di ciò? Il serpente che si morde la coda simboleggia il tempo concepito come ciclico e che in un primo tempo può essere concepito come un qualcosa di soffocante, perchè l'idea che tutto ritorni è insostenibile poichè nessuno vorrebbe ripetere all'infinito la propria vita, proprio perchè la nostra vita non è così perfetta da poter aspirare ad essere desiderata per l'eternità. Il morso al serpente sta a significare che è vero che la dottrina dell'eterno ritorno può essere soffocante, ma solo per chi ha un'esperienza di vita non pienamente realizzata. L'oltreuomo, invece, che sa vivere in superficie e vivere pienamente la sua esistenza come un'opera d'arte, può per davvero desiderare di riviverla in eterno e tagliar la testa al serpente vuol dire spezzare il circolo del tempo che ritorna su se stesso e inserirsi in questo circolo ma se tutto torna su se stesso, si può obiettare, non c'è la possibilità di entrare in questo circolo; e questo è l'apparente paradosso della dottrina dell'eterno ritorno. E' vero che non ci si può infilare nel circolo a nostro piacimento, ma tutto si spiega se, come ci rammenta Zarathustra, teniamo presente che le apparenze ingannano e la teoria dell'eterno ritorno è diversa da come sembra.

Del resto, sarebbe assurdo che ora Nietzsche ci dicesse, prospettando i cicli dell'eterno ritorno, come procede il mondo: secondo la logica della volontà di potenza, egli vuole proporci un'interpretazione particolarmente forte del mondo, non una verità, ma un'immagine del mondo che valga la pena di essere vissuta; in altri termini, ci sta dicendo che se ci mettiamo nella prospettiva dell'oltreuomo e se quindi sappiamo vivere pienamente la vita, varrà la pena anche decidere di vivere come se la vita dovesse eternamente ritornare, momento per momento. Soltanto una vita pienamente vissuta si può desiderare che ritorni in eterno, ma solamente un qualcosa concepito come eternamente ritornante assume un valore assoluto tale da poter vivere pienamente la vita: nella dottrina del tempo lineare, ogni istante distrugge quello precedente, ogni cosa è travolta da quella che viene dopo e quindi se accetto tale dottrina non posso vivere pienamente, perchè so che ogni istante sarà distrutto da quello successivo; nella dottrina dell'eterno ritorno, invece, posso vivere la vita fino in fondo perchè ogni cosa che faccio ha un valore assoluto, poichè si sfugge tempo lineare per cui ogni cosa che si fa viene mangiata (e quindi privata di significato) da quella successiva (il mito di "Cronos", ovvero il tempo, che divora i propri figli).

Se l'eterno ritorno viene considerato non come dottrina metafisica, ma come interpretazione, allora il paradosso per cui si entra nel circolo si dilegua: posso decidere di vivere come se ci fosse l'eterno ritorno, desiderando con ardore di rivivere ogni singolo istante della vita per l'eternità ( amor fati ), quasi come se al "no" alla vita di Schopenhauer si sostituisse un "sì" eterno ad essa: " la mia formula per la grandezza dell'uomo é amor fati: che cioè non si vuole nulla diverso da quello che é, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l'eternità " ( Ecce Homo ). E così, la fase precedente al nichilismo, quella cioè dei valori morali e di Dio, simboleggia l'eternità, mentre quella del nichilismo passivo, privo di valori assoluti, è il tempo lineare che tutto travolge e nulla ha senso; l'ultima fase, quella del nichilismo attivo, è il divenire continuo che assume valore assoluto e tutto ciò è quanto accade nella dottrina dell'eterno ritorno, la quale fa assumere dignità di assoluto al divenire, tutto fluisce ma in modo circolare. E così si capisce la vicenda del pastore: soffocato in principio dall'interpretazione banalizzante dell'eterno ritorno, riesce ad entrare nel circolo dell'eterno ritorno e col riso esprime la sua piena felicità.

CRONOLOGIA DELLA VITA DI NIETZSCHE

L'uomo é qualcosa che deve essere superato. (Così parlò Zarathustra)


1844

Il 15 ottobre nasce a Röken, non lontano da Lipsia, Friedrich Wilhelm Nietzsche, primogenito del pastore Karl Ludwig, a sua volta figlio di un pastore, e di Franziska Oehler, figlia anche lei di un pastore: è il giorno del compleanno del re, che il padre ammira molto, tanto da chiamare il figlio con gli stessi nomi. Il padre era stato precettore alla corte di Altenburg. Oltre ai genitori vivono in casa la nonna paterna, la sorella del padre Rosalie e una sorellastra di lui, Friederike.

1846

Il 10 luglio nasce la sorella di Nietzsche, Elisabeth.

1848

Nasce il fratello di Nietzsche, Joseph, che morirà due anni dopo. I moti del 1848 sconvolgono il padre, fervente monarchico, che alla fine di agosto si ammala (affezioni al sistema nervoso e al cervello).

1849

Il 30 luglio muore il padre in seguito ad un progressivo aggravamento dei disturbi avvertiti l'anno precedente.

1850

La madre si trasferisce a Naumburg con i due figli ; la decisione di trasferirsi a Naumburg fu presa dalla nonna paterna, che aveva in quella cittadina molti parenti. Anche le due zie si trasferiscono nella stessa casa. Nietzsche intorno a Pasqua comincia a frequentare la locale scuola. Amicizia con i coetanei Wilhelm Pinder e Gustav Krug.

1851
Insieme a Pinder e Krug entra nella scuola privata del candidato Weber, dove si insegna religione, latino e greco. In casa Krug prova le prime emozioni musicali. La madre gli regala un pianoforte. Gli viene impartita un' educazione musicale.

1856
Scrive poesie e compone musica. Muore la nonna materna. Trasferimento in un' altra casa, senza la zia Rosalie.

1858
La famiglia si trasferisce per la seconda voltain un' altra casa di Naumburg. In ottobre entra nella scuola di Pforta. Continua a comporre musica, sopratutto sacra e a scrivere poesie. Vari progetti letterari.

1859

Inizio dell' amicizia con Paul Deussen. carl von Gersdorff arriva a Pforta

1864

Conclude gli studi ginnasiali a Pforta. Dopo le vacanze estive viene immatricolato come studente di teologia a Bonn. Diventa membro del seminario di storia dell' arte e dell' associazione accademica Gustav-Adolf. Aderisce con Deussen alla Burschensheft "Franconia". Tra le altre segue le lezioni di filologia classica di Ritschl.

1865

Alla fine di gennaio decide di non comporre più musica. In maggio decide di trasferirsi a Lipsia per studiare filologia classica. Intanto anche Ritschl, per porre fine alla polemica con Otto Jahn, decide di trasferirsi a Lipsia. Si accentuano in Nietzsche alcuni disturbi che si erano manifestati già negli anni della scuola: catarro e reumatismi. Soffre di forti dolori al capo e di nausea. Dopo il trasferimento a Lipsia viene curato da due medici per sifilide. Continua gli studi su Teognide. Legge Schopenhauer.

1866

Tiene conferenze su Teognide e Suida. Inizia gli studi su Diogene e Laerzio. Stringe amicizia con Erwin Rohde. Lo studio su Teognide esce sul "Rheinisches Museum", XXII nuova serie. In gennaio tiene una conferenza sulla tradizione degli scritti aristotelici. Studia Omero e Democrito. Legge Kant (forse però solo attraverso l'esposizione di Kuno Fischer ). Il 9 ottobre comincia il servizio militare nel reparto a cavallo di un reggimento di artiglieria di stanza a Naumburg.

1868

Scrive varie recensioni di opere di filologia classica. Progetta una dissertazione, sul problema del rapporto tra Omero e Esiodo. Vorrebbe laurearsi in filosofia con una tesi su Kant. Legge la critica del giudizio di Kant e la storia del materialismo di di Lange. In marzo si ferisce gravemente al petto cadendo da cavallo. Alla metà di ottobre può lasciare il servizio militare e tornare a Lipsia. La sera dell' 8 novembre in casa dell' orientalista Hermann Brockhaus incontra per la prima volta Richard Wagner.

1869

Ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca presso l' Università di Basilea, grazie all' appoggio di Ritschl e di Usener. In aprile raggiunge Basilea. Il 28 maggio tiene la profusione sul tema: Omero e la filologia classica. Si reca spesso, d' ora in poi, a Tribschen, dove vivono Richard e Cosima Wagner. L' Università di Lipsia gli ha intanto confermato il dottorato sulla base degli studi da lui pubblicatisul "Rheinisches Museum", compreso quello sulle fonti di Diogene Laerzio. Con grande rispetto entra in rapporto con Jakob Burckhardt.Rinuncia alla cittadinanza prussiana senza tuttavia chiedere quella svizzera.

1870

Tra gennaio e febbraio tiene due conferenze, una sul dramma musicale greco, l' altra su Socrate e la tragedia. Queste due conferenze, insieme allo scritto sulla visione dionistica del mondo, non pubblicato, costituiscono il primo nucleo del libro sulla nascita della tragedia. Conosce Franz Overbeck, di cui diventa vicino di casa. Il 9 aprile viene nominato professore ordinario. In giugno Rohde si reca a Berlino per visitare Nietzsche. In agosto in occasione della guerra franco-prussiana, Nietzsche chiede un congedo per arruolarsi come infermiere volontario. Viene però colpito dalla difterite e da dissenteria ; in settembre viene rimpatriato su un treno di feriti. Dopo un periodo di convalescenza a Naumburg, il 21 ottobre riparte per Basilea. Durante il secondo giorno di viaggio ha delle frequenti crisi di vomito.

1871

Pubblica il Certamen quod dicitur Homeri et Hesiondi e gli indici della nuova serie del "Rheinisches Museum fur Philologie" (1842-1869). Nei mesi di gennaio e febbraio porta a termine la prima stesura della nascita della tragedia: l' editore Engelmann di Lipsia la rifiuta. In ottobre il manoscritto è accettato dall' editore di Wagner, Fritzsch. Il 29 dicembre il libro è pronto per essere messo in vendita. In gennaio Nietzsche aveva chiesto la cattedra di filosofia lasciata libera da Gustav Teichmuller. La domanda non viene accolta. Nietzsche aveva anche proposto Rohde come proprio successore. Tra luglio e agosto tenta ancora di far ottenere all' amico una cattedra a Zurigo: anche questo tentativo fallisce. Viene introdotto in casa Bachofen.

1872
Esce La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Wagner esprime in una lettera a Nietzsche il suo entusiasmo per il libro. Il 16 gennaio tiene la prima delle 5 conferenze Sul futuro delle nostre istituzioni educative ; l' ultima risale al 23 marzo. In maggio, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf, che l' anno precedente aveva fatto con grande rispetto visita a Nietzsche, pubblica un opuscolo contro di lui. Wagner e Rohde prendono le difese di Nietzsche. Alla fine di luglio, riceve una visita di Deussen. Il 31 agosto incontra Malwida von Meysenburg, fervente wagneriana e sostenitrice dei moti del '48. Nietzsche vorrebbe lasciare l' insegnamento universitario per dedicarsi interamente alla propaganda wagneriana. In maggio si era recato a Bayreuth, dove i Wagner si erano trasferiti per edificare il tempio della musica wagneriana, ma inaspettatamente non vi si reca durante le vacanze natalizie. Scrive il testo Su verità e menzogna in senso extranormale e progetta Il libro del filosofo.


1873

Esce, di nuovo presso l' editore Fritzsch di Lipsia, la prima delle Considerazioni inattuali, quella su David Strauss. Scrive La filosofia nell' epoca tragica dei Greci, senza concluderne la stesura ; questo scritto doveva rientrare in un' opera più ampia sui presocratici. Progetta una seconda Inattuale, con il titolo Il filosofo come medico della cultura. Dalla biblioteca universitaria di Basilea prende in prestito numerose opere di fisica e chimica. A partire da quest' anno, si accentuano tutte le sue sofferenze fisiche, soprattutto emicranie e vomito.

1874

Escono la seconda edizione della Nascita della tragedia e la seconda e la terza delle Inattuali, quella Sull' utilità e il danno degli studi storici per la vita e quella su Schopenhawer come educatore. In aprile compose l'inno dell'amicizia per pianoforte a quattro mani. Fa dei progetti di matrimonio. In settembre, Rohde passa due settimane a Basilea. Entra in un rapporto più stretto con Paul Rèe, che già nel ì73 aveva seguito il corso di Nietzsche sui presocratici. Trascorre le vacanze natalizie a Naumburg, dove i suoi amici Krug e Pinder gli presentano le loro mogli.

1875

Abbandona il progetto di scrivere una quarta Inattuale su noi filologi; decide invece di pubblicare come quarta Inattuale Richard Wagner a Bayreuth, che in un primo momento gli era sembrata non pubblicabile. Per tuto l' anno i suoi appunti hanno come tema la religione. Gli viene fatto dono, da parte di due suoi allievi (uno è Adolf Baumgartner, con la madre del quale Nietzsche ha stretto l' anno precedente una fruttuosa amicizia: Marie Baumgartner ha tradotto in in francese la terza Inattuale), degli appunti relativi alle lezioni di Burckhardt sulla storia della cultura greca. Legge con interesse gli studi sulla storia della chiesa antica di Overbeck e le Considerazioni psicologiche di Rèe. In ottobre gli rende visita Gersdorff. All' inizio dell' semestre invernale, arriva a Basilea, per seguire le lezioni di Nietzsche e di Overbeck, il giovane musicista Heinrich Koselitz, più noto con lo pseudonimo di Peter Gast: diventerà uno dei discepoli più fedeli.

1876
Prima dell' inizio del festival Bayreuth, previsto per agosto, esce la quarta Inattuale, Richard wagner a Bayreuth, presso l'editore Schmeitzner di Chemnitz. Il 23 luglio Nietzsche arriva a Bayreuth dove rimane fino al 27 agosto ; riparte cioè prima della conclusione del festival. Le sue condizioni di salute sono intanto peggiorate. In settembre deve curarsi gli occhi con l' atropina. Prima dell' estate ha dovuto ridurre l'attività didattica ; a partire dal mese di ottobre ottiene un anno di congedo per motivi di salute. Parte con paulRèe per l' Italia. A Ginevra si unisce a loro Albert Brenner, un allievo di Nietzsche. Il 22 ottobre a arrivano a Genova, da dove si imbarcano per Napoli. Il 27 ottobre sono a Sorrento, ospiti di Malwida von Meysenburg, nella Villa Rubinacci, da lei presa in affitto. La sera stessa Nietzsche rende visita ai Wagner, anch' essi a Sorrento. Prima della sua partenza, Overbeck si era sposato e Rohde aveva annunciato il suo fidanzamento. In giugno e luglio aveva dettato a Peter Gast degli aforismi per una ulteriore Inattuale: questi aforismi confluiranno in Umano, troppo umano. Muore Ritschl.

1877

Marie Baumgartner ha tradotto in francese anche la quarta Inattuale, che esce presso Schmeitzner. Serate di lettura a Sorrento: Tucidide, il Vangelo di Matteo, Voltaire, Diderot, Michelet, Ranke, Storia dei papi. Verso la metà di maggio arriva a Ragaz, per cure termali ; Overbeck gli fa visita ; Nietzsche gli parla della sua intenzione di abbandonare definitivamente la cattedra. Alla metà di giugno raggiunge Rosenlauibad, percorrendo l' ultimo tratto di strada a piedi, tra l' 11 e il 17 giugno. A Rosenlauibad legge, tra l' altro, il libro di Rée sull' origine dei sentimenti morali. Ancora progetti matrimoniali ( se necessario sposerebbe anche una donna presa dalla strada ). In agosto Rohde si sposa. Il primo settembre lascia Rosenlauibad per tornare a Basilea e riprendere l' attività universitaria. Il 2 settembre comincia a dettare a Peter Gast il testo di Umano, troppo umano, che già il 3 dicembre viene offerto all' editore Schmeitzner, che dovrà tenerlo segreto fino al maggio dell' anno successivo. Riceve l' ultima lettera di Cosima Wagner.

1878

La rottura con Wagner é ormai definitiva. In gennaio Nietzsche regala le partiture con dedica donategli da Wagner. In maggio esce la prima parte di Umano, troppo umano. In agosto compare sui " Bayreuther Blatter " un velato attacco di Wagner contro Nietzsche. Alla fine di dicembre il manoscritto della seconda parte di Umano, troppo umano é pronto.

1879

Le condizioni di salute di Nietzsche peggiorano. Spesso non é in grado di tenere le sue lezioni universitarie. A partire dal 19 marzo cessa interamente la sua attività didattica. Si reca a Ginevra per essere sottoposto a delle cure. In maggio chiede ed ottiene di essere collocato a riposo. Trascorre le settimane successive a Wiesen e a St. Moritz. In settembre raggiunge Naumburg. E' intanto uscita la seconda parte di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi. In appendice: Opinioni e sentenze diverse. Durante l' estate a St. Moritz dà vita a Il viandante e la sua ombra.

1880

Esce, sempre presso Schmeitzner Il viandante e la sua ombra. E' probabile che già in gennaio abbia cominciato a prendere i primi appunti per Aurora. Tra le letture di questo periodo particolarmente numerose ed assidue quelle riguardanti il problema morale ; legge anche il libro di Overbeck, pubblicato nel '73, Sulla cristianità della nostra attuale teologia. Il 10 Febbraio lascia Naumburg diretto a Riva del Garda dove lo raggiunge pochi giorni dopo Peter Gast. Il 15 marzo raggiungono entrambi Venezia. Paul Rèe aiuta finanziariamente Peter Gast con grande discrezione. Luglio e agosto a Marienbad. Quando apprende che Schmeitzner si occupa di pubblicazioni antisemite, manifesta tutta la sua indignazione. All' inizio di settembre ritorna a Naumburg, che lascia quasi subito per recarsi a Heidelberg e poi a Basilea, per incontrare gli Overbeck. In ottobre si reca a Locarno, quindi a Stresa. A partire dall' 8 novembre si stabilisce a Genova, con l' intenzione di vivere nella più completa solitudine.

1881

Il manoscritto di Aurora dopo essere stato decifrato e riscritto da Peter Gast, come del resto è accaduto per le altre opere di Nietzsche, viene inviato a Schmeitzner per la stampa. Il libro esce nei primi giorni di luglio. Progetta un soggiorno a Tunisi insieme a Gersdorff. In maggio lascia Genova diretto a Vicenza, dove lo attende Peter Gast. Insieme proseguono per Recoaro: durante questo soggiorno viene coniato per Koselitz lo pseudonimo di Peter Gast. All' inizio di luglio raggiunge per la prima volta Sils-Maria dove tornerà ogni estate. Durante un' escursione ha l' idea dell' eterno ritorno. Il 1° ottobre ritorna a Genova. La salute è sempre pessima,anche la vista subisce un peggioramento. Il 27 novembre assiste per la prima volta alla Carmen di Bizet: ne è entusiasta.

1882

All' inizio dell' anno lavora ad una prosecuzione di Aurora. Alla fine di gennaio spedisce a Peter Gast le prime tre parti. L' opera, compresa la la quarta parte, uscirà alla fine di agosto con il titolo La gaia scienza, sempre presso Schmeitzner. In febbraio Paul Rèe visita Nietzsche a Genova, portandogli una macchina da scrivere. Alla fine di marzo, a bordo di un mercantile a vela va a Messina, dove rimane fino al 20 aprile. La stesura degli Idilli di Messina precede però di alcuni giorni questo viaggio. Questi idilli, le uniche poesie pubblicate da Nietzsche al di fuori di un' opera aforistica, vengono pubblicati nel numero di maggio della "Internationale Monatsschrift" pp. 269-75. Su invito di Malwida von Meysenbug e di Paul Rèe, Nietzsche, proveniente da Messina, arriva a Roma il 24 aprile. A Roma conosce in casa Meysenbug Lou von Salomè, che vorrebbe sposare. Incarica Rèe di portare la sua proposta a Lou. Lou parte con la madre per il lago d' Orta dove Nietzsche e Rèe le raggiungono pochi giorni dopo. Lunga passeggiata di Lou e Nietzsche sul "monte sacro". Grande irritazione di Rèe per la loro lunga assenza. I tre avevano in precedenza progettato di trascorrere insieme un periodo di studio a Vienna o a Parigi. Tra l' 8 e il 13 maggio Nietzsche visita Overbeck a Basilea. In seguito raggiunge a Lucerna Rèe e Lou. Il 16 maggio Nietzsche torna a Naumburg, mentre Rèe e Lou si recano a Stibbe, nella Prussia orientale, presso la madre di Rèe. Nietzsche che ha svelato le sue intenzioni alla sorella affitta una casa a Tautenburg, per trascorrervi un periodo di tempo con Lou e la sorella. Nella casa di Tautenburg Lou resta dal 7 al 26 agosto. Il 27 agosto Nietzsche si reca a Naumberg e in seguito a Lipsia, dove incontrerà per l' ultima volta Rèe e Lou. Il 18 novembre riparte per Genova. In seguito si trasferisce a Portofino, a Santa Margherita e poi, dal 3 dicembre a Rapallo. La prima parte di Così parlò Zarathustra risale a questo periodo.

1883

Fino a febbraio resta a Rapallo, dove gli arriva la notizia della morte di Wagner, Alla fine di febbraio si trasferisce nuovamente a Genova. Mentre esce la prima parte di Zarathustra, Nietzsche scrive la seconda, che uscirà ancora nel corso dell' anno, e prepara la terza. Frequenti litigi e riconciliazioni con la sorella, che rivede in Giugno a Roma in casa di Malwida von Meysenbug. Trascorse l' estate a Sils-Maria. In settembre torna a Naumburg, quindi decide di trascorrere l' inverno a Nizza.

1884

Il 18 gennaio conclude la stersura della terza parte di Zarathustra, che uscirà in aprile. Nuovi litigi con la sorella, a causa del suo fidanzamento con Bernhard Forster, un antisemita e un wagneriano. In febbraio da Nizza scrive a Peter Gast che la musica è la cosa migliore e che mai come in quel momento vorrebbe essere musicista. Conversazioni con il dottor Joseph Paneth di Vienna, uno zoologo interessato alla filosofia e un amico di Freud. Il 20 aprile lascia Nizza diretto a Venezia, dove lo attende Peter Gast. Rompe i rapporti anche con la madre. Dalla metà di luglio alla fine di settembre soggiorna a Sils-Maria. Tra il 26 e il 28 agosto gli fa visita Heinrich von Stein, di cui riporta un' ottima impressione. Come già in altri momenti, ritorna l' idea della vita monacale, di un ordine filosofico (con Lou e Rèe). La madre e la sorella gli propongono un incontro a Naumburg per una riconciliazione. Nietzsche dapprima rifiuta, poi propone un incontro a metà strada, a Zurigo. Dalla fine di settembre alla fine di ottobre è a Zurigo, dove avviene la riconciliazione con la sorella. Il 4 ottobre scrive alla madre in tono benevolo. Incontra Gottfried Keller. Trascorre il mese di novembre a Mentone, quindi ritorna a Nizza. Il progetto per la quarta parte dello Zarathustra risale alla metà di novembre.

1885

Non trovando un editore disposto a pubblicare Zarathustra IV, Nietzsche chiede a Gersdorff un aiuto finanziario per farlo stampare privatamente. Il 9 aprile lascia Nizza e raggiunge Peter Gast a Venezia. All' inizio di maggio le prime copie di Zarathustra IV sono inviate a Overbeck: l' editore dell' edizione privata è Naumanndi Lipsia. Il 22 maggio, la sorella si sposa con il dott. Forster, che ha intenzione di fondare una colonia tedesca sulle basi dei principi razzial. Nietzsche non è presente alle nozze. Il 7 giugno arriva a Sils-Maria, dove resterà fino alla metà di settembre. In seguito resta fino al 1° Novembre a Naumburg, poi raggiunge Monaco, quindi Firenze. L' 11 novembre è nuovamente a Nizza.

1886

Per la pubblicazione di Al di là del bene e del male deve nuovamente ricorrere all' edizione privata, presso Naumann ; le prime copie sono pronte all'inizio di agosto. Dopo il fallimento dell' Editore Schmeitzner le opere di Nietzsche pubblicate presso di lui vengono trasferite presso l' editore Fritzsch, che ripubblica, con nuove prefazioni di Nietzsche: I due volumi di Umano, troppo umano. Fritzsch ripubblica anche La nascita della tragedia. Ovvero: grecità e pessimismo, di cui Nietzsche premette un tentativo di autocritica. BurcKhardt scrive a Nietzsche che Al di là del bene e del male si spinge troppo lontano rispetto alla sua vecchia testa. Durante l' estate a Sils-Maria, progetta un' opera in quattro volumi sulla volontà di potenza e un' altra sull' eterno ritorno. Intanto, in febbraio, la sorella e il marito sono partiti per il Paraguay. Tra maggio e giugno, Nietzsche lasciata Nizza é a Naumburg e a Lipsia, dove assiste alle lezioni di Rohde, che da aprile é diventato professore. Dopo il soggiorno estivo in Engadina, trascorre una parte del mese di ottobre a Ruta Ligure, poi ritorna a Nizza. Prepara le prefazioni per le nuove edizioni di Aurora e della Gaia scienza.

1887

In giugno escono le nuove edizioni di Aurora e della Gaia scienza ( quest' ultima comprende ora un quinto libro e un' appendice costituita dalle Canzoni del principe Vogelfrei ), presso Fritzsch. Anche lo Zarathustra viene ripubblicato presso lo stesso editore: questa edizione comprende soltanto le prime tre parti. Il 3 aprile Nietzsche lascia Nizza diretto diretto a Cannobio, sul Lago Maggiore. Trascorre poi una settimana a Zurigo, fino al 6 maggio, quindi raggiunge Chur, dove resta fino all' 8 giugno. A Chur apprende del fidanzamento di Lou con il dottor Andreas ; grande depressione. Rompe l' amicizia con Rohde per il giudizio irrispettoso da lui espresso circa H. Taine, con il quale Nietzsche aveva avuto nell' autunno precedente un intenso scambio epistolare. A partire dal 12 giugno è a Sils-Maria, dove scrive la Genealogia della morale, che esce presso Neumann in novembre ; le spese sono di nuovo a carico di Nietzsche. Dopo aver trascorso alcune settimane a Venezia, il 22 ottobre ritorna a Nizza. Riceve la prima lettera da Georg Brandes, professore dell' università di Copenhagen, che l' anno seguente terrà un corso su Nietzsche. Tra le pubblicazioni di quest' anno bisogna ricordare anche una composizione musicale, l' inno alla vita, per coro misto e orchestra (la melodia risale al 73/74, mentre le parole sono quelle di una strofa della poesia preghiera alla vita di Lou von Salomè): anche in questo caso l' editore è Fritzsch.

1888

Nietzsche resta a Nizza fino al 2 aprile, quindi raggiunge Torino, di cui riporta un' ottima impressione. A Nizza lavora all' opera sulla "svalutazione di tutti i lavori" ossia a quella che diventerà L' anticristo. A Torino lavora al caso Wagner, che il 17 luglio invia a Neumann per la stampa. Il 5 giugno ha intanto lasciato Torino per recarsi a Sils-Maria, dove resta fino al 20 settembre. Trascorre poi l' ultima parte dell' anno nuovamente a Torino. A Sils-Maria lavora al libro sulla volontà di potenza e scrive il Crepuscolo degli idoli. A Torino scrive Ecce homo, concluso il 4 novembre e spedito a Neumann, e Nietzsche contra Wagner, spedito a a Neumann il 15 dicembre. Intanto è uscito il caso Wagner ed è stata portata a termine la stampa di tutte le altre opere di Nietzsche scritte durante questo anno, compresa Ditirambi di Dioniso.

1889

Il 3 gennaio Nietzsche da gravi segni di squilibrio mentale ; nei giorni successivi scrive lettere esaltate ad amici e a personaggi pubblici. Burckhardt riceve una di queste lettere e, allarmato, avverte Overbeck, che l' 8 gennaio è a Torino ; con lui Nietzsche ritorna a Basilea, dove viene ricoverato in una clinica per malattie nervose. "La diagnosi è paralisi progressiva". Il 17 gennaio la madre accorsa a Basilea, riporta a casa il figlio nella clinica universitaria per malattie nervose di Jena: con lei ci sono due infermieri. Presso l' editore Neumann escono intanto il Crepuscolo degli idoli, Nietzsche contra Wagner, Ecce homo. Di quest' ultima opera Overbeck aveva consigliato a Peter Gast di rimandare temporaneamente la pubblicazione. Nei primi giorni di giugno, a causa del fallimento finanziario della progettata impresa coloniale in Paraguay, il marito della sorella di Nietzsche si toglie la vita. In novembre compare Julius Langbehn, uno studioso di storia dell' arte che offre la sua collaborazione: accompagna Nietzsche nelle sue passeggiate fuori dalla clinica e parla con lui. La reazione di Nietzsche è, dopo tre settimane, negativa. Dopo il febbraio dell' anno seguente, Langbehn, che avrebbe voluto ottenere la tutela di Nietzsche, scompare dalla scena.

1890

Il 24 marzo Nietzsche può lasciare la clinica e abitare con la madre a Jena. Il 13 maggio madre e figlio lasciano Jena e tornano Naumburg: è quasi una fuga. Il 16 dicembre la sorella rientra dal Paraguay.

1891-97

Le condizioni di Nietzsche peggiorano rapidamente: nel '92 non è più in grado di riconoscere nessuno degli amici che gli fanno visita, sovente ha degli eccessi d' ira, tanto che Peter Gast teme per l' incolumità della madre. Nel '93 subentra una paralisi della spina dorsale, che gli impedisce di uscire per le passeggiate che fino ad allora la madre gli aveva fatto fare; in casa deve servirsi di una sedia a rotelle. A partire dal '94 Nietzsche che non parla più, spesso urla mentre il volto esprime grande serenità. Il 20 aprile 1897, all' età di 71 anni, muore la madre di Nietzsche. La sorella porta il malato a Weimar presso di se. Ma chi si occupa materialmente del malato è Alwine Freytatag, da anni al servizio della madre. Intanto nel '92, l' editore Fritzsch cede i diritti delle opere di Nietzsche a Neumann e Peter Gast comincia a curare un' edizione delle opere: in autunno esce lo Zarathustra, che per la prima volta comprende tutte le sue quattro parti. In seguito escono le Considerazioni inattuali, compreso il capitolo ecce homo ad esse relativo. Nel '93 escono umano, troppo umano, Al dì là del bene e del male e genealogia della morale. All ' inizio del '94 la sorella di Nietzsche blocca l' edizione di Peter Gast e fonda il Nietzsche-Archiv che si occuperà d' ora in poi dell' edizione completa.

1900

Verso mezzogiorno di sabato 25 agosto Nietzsche muore.

Analisi delle Opere
LA NASCITA DELLA TRAGEDIA

Nel 1871 Federico Nietzsche pubblica la sua memorabile opera La nascita della tragedia. In essa il grande pensatore tedesco introduce per la prima volta la distinzione tra apollineo e dionisiaco: la prima delle due categorie, caratteristica del sogno, si traduce in immagini di serena compostezza e trova la sua manifestazione più compiuta nelle arti figurative; l'altra, propria dell'ebbrezza, attiene alle pulsioni sotterranee dell'inconscio e si esprime nella musica. Il classicismo tradizionale aveva privilegiato solo la componente apollinea dello spirito greco, ma dietro l'enigmatico sorriso del Dio solare (Apollo) si cela il volto mutevole del suo fratello notturno, il nume delle orge e dei misteri: nella tragedia in virtù di un miracolo metafisico della "volontà" ellenica, compaiono in ultimo accoppiati l'uno nell'altro, e in questo accoppiamento generale si generano l'opera d'arte, altrettanto dionisiaca che apollinea, che é la tragedia attica. L'intuizione nietzscheana, pur espressa nello stile immaginoso e folgorante del profeta del superuomo, ha non solo il merito di aver gettato le basi per i successivi approfondimenti del problema, ma soprattutto quello di aver colto il carattere di coincidentia oppositorum, di sintesi dialettica dei contrari, che é il fulcro stesso del dramma greco, elemento questo che troverà riscontri precisi in molte delle teorie elaborate più tardi.Tra i libri pubblicati da Nietzsche, se escludiamo gli scritti filologici, questo è l'unico dedicato ai Greci.

Nessun altro libro di Nietzsche ha alle spalle una preparazione così lunga e faticosa. Per dieci anni il giovane studioso vive tra i suoi libri, accetta la tradizione della filologia, ammonisce i suoi amici a reprimere la fantasia, a rispettare il metodo, a controllare le ipotesi. Poi scrive questo libro, dove tutto è contraddetto. In esso Nietzsche propone una nuova visione della classicità, non quella della cultura europea che riflette la civiltà greca della decadenza, quando la sua forza creativa si è estinta, ma l'originario spirito greco, fatto di due elementi: un elemento dionisiaco oscuro, irrazionale, indefinito e ambiguo, che avverte la caoticità dell'essere, la vitalità, la spontaneità, l'ebbrezza e che si esprime con la musica e la danza, un elemento apollineo, luminoso, ben definito, che produce un mondo di forme limpide e definite e che si esprime con la scultura e le arti figurative. Nella grande tragedia greca (Eschilo e Sofocle) si compongono i due impulsi: la musica vi rappresenta il dionisiaco, la vicenda dell'eroe la definitezza apollinea. Noi siamo circondati dallo spettacolo, tutto oggi è spettacolo, non soltanto il teatro, il cinema, la televisione. Oggi anche gli uomini d'azione guardano, più che non agiscano. Perciò si rimane atterriti, quando viene qualcuno a rivelare che cosa fu la tragedia greca. D'un tratto ci si accorge che quello non era soltanto un vedere, che quello spettacolo era l'essenza del mondo, contagiante, soverchiante gli oggetti che crediamo reali. Quindi la sensazione moderna "questo è soltanto uno spettacolo" è l'inverso dell'emozione della tragedia greca che faceva dire "questa è soltanto la verità quotidiana".

L'uomo di oggi va a teatro per rilassarsi, per scaricarsi dal peso di tutti i giorni, perchè ha bisogno di qualcosa che sia soltanto spettacolo. Lo spettatore della tragedia greca veniva e "conosceva" qualcosa di più sulla natura della vita perchè veniva contagiato dall'interno, investito da una contemplazione, cioè da una conoscenza, che già esisteva prima di lui, che saliva dall'orchestra e suscitava la sua contemplazione, si confondeva con essa. E se la via dello spettacolo fosse la via della conoscenza, della liberazione, della vita insomma? Tale è la domanda posta da La nascita della tragedia. Già Euripide tende ad eliminare dalla tragedia l'elemento dionisiaco, col predominio del raziocinio; poi Socrate e Platone sono "gli strumenti di dissoluzione greca, gli pseudogreci, gli antigreci". Socrate fu ostile alla vita, volendo dominare e soffocare l'istintività spontanea in nome della ragione. Un brano dall'opera "La nascita della tragedia": Apollineo e dionisiaco.

Questi nomi li prendiamo in prestito dai greci, i quali rendono percepibili all'intelligenza le profonde dottrine della loro visione estetica non già per il mezzo di concetti astratti, ma con raffigurazioni chiare ed incisive della mitologia. Alle loro due divinità che simboleggiavano l'arte, Apollo e Dioniso, si riallaccia la nostra teoria, che nel mondo greco esiste un contrasto, enorme per l'origine e i fini, fra l'arte plastica, cioè l'apollinea, e l'arte non plastica della musica, cioè la dionisiaca; questi due istinti così diversi camminano uno accanto all'altro, per lo più in aperto dissidio, stimolandosi reciprocamente a sempre nuove e più gagliarde reazioni per perpetuare in sé incessantemente la lotta di quel contrasto, su cui la comune parola di "arte" getta un ponte che è solo apparente: finchè in ultimo, riuniti insieme da un miracolo metafisico prodotto dalla "volontà" ellenica, essi appaiono finalmente in coppia e generano in quest'accoppiamento l'opera d'arte della tragedia attica, che è tanto dionisiaca quanto apollinea. Uno degli aspetti dell'insuperabile fascino di quest'opera consiste proprio, probabilmente, nella peculiare mescolanza di filologia e filosofia, in una misura e con risultati che non trovano precedenti nella grande filologia-filosofia romantica. La Nascita della tragedia é insieme una reinterpretazione della Grecità, una rivoluzione filosofica ed estetica, una critica della cultura presente e un programma di rinnovamento di essa. Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici. L'enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura [...] fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici.

Proprio gli dei olimpici sono il mezzo con cui i greci sopportano l'esistenza, della quale hanno visto la caducità, la vicenda dolorosa di vita e morte, soffrendone in modo profondo a causa della loro esasperata sensibilità; gli dei olimpici giustificano la vita umana vivendola essi stessi, perchè la vivono in una luce senza ombre e fuori dall'angoscioso incombere della morte. La portata liberatoria delle figure degli dei olimpici si esercita solo se essi rimangono in un rapporto profondo con il dionisiaco, cioè con il mondo del caos al quale pure devono aiutarci a sfuggire. Il rapporto fra apollineo e dionisiaco é innanzitutto un rapporto fra forze all'interno dell'uomo singolo, che all'inizio dell'opera Nietzsche paragona agli stati del sogno (l'apollineo) e dell'ebbrezza (il dionisiaco); e che funziona nello sviluppo della civiltà come la dualità dei sessi nella conservazione della specie. Tutta la cultura umana é frutto del gioco dialettico di questi due impulsi.

Sul piano della specifica teoria dell'arte, la dualità permette di leggere le varie fasi dell'arte greca in relazione alla lotta tra impulso dionisiaco e apollineo, lotta che si dispiega anche come conflitto tra popoli diversi, nel succedersi di invasioni e assestamenti che caratterizza la storia della Grecia arcaica. Così l'arte dorica si dispiega solo come risultato di una resistenza dell'apollineo agli assalti, che sono anche veri e propri attacchi di popoli invasori, del dionisiaco, dei culti orgiastici di origine barbarica. Nella lotta dei due princìpi avversi, la storia greca antica si suddivide in 4 grandi periodi artistici ; dall'età del bronzo, con le sue titanomachie e la sua aspra filosofia popolare, si sviluppò, sotto il dominio dell'istinto di bellezza apollinea, il mondo omerico; questa magnificenza "ingenua" venne di nuovo inghiottita dal fiume irrompente del dionisiaco, e di fronte a questa nuova potenza l'apollineo si elevò alla rigida maestà dell'arte dorica e della visione dorica del mondo. Al predominio dell'uno o dell'altro impulso si legano poi le diverse arti: se la musica é arte prevalentemente dionisiaca, la scultura e l'architettura sono apollinee, e così l'epopea. Ed é la tragedia attica che si prospetta come la più perfetta ed equilibrata sintesi tra i due impulsi: secondo Nietzsche essa nasce dal coro dei Satiri, ossia la processione sacra in cui i partecipanti si trasformano in finti esseri naturali. Questo mondo non é più un mondo di fantasia, situato arbitrariamente fra cielo e terra; bensì un mondo di realtà e credibilità pari a quella che possedeva, per il Greco religioso, l'Olimpo con tutti i suoi abitatori.

Ma la tragedia greca va intesa, secondo Nietzsche, come coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini. Ma il profeta del superuomo indaga anche perchè la tragedia ad un certo punto sia morta e giunge alla nota conclusione che l'autore di questo suicidio é stato Euripide, che ha portato lo spettatore sulla scena: ha trasformato il mito tragico in un susseguirsi di vicende razionalmente concatenate e comprensibili, di stampo sostanzialmente realistico. E se Euripide trasforma in senso realistico e razionale il mito tragico, lo fa per soddisfare le esigenza di un determinato spettatore, Socrate, il quale inaugura nella mentalità greca una visione razionale del mondo e delle vicende umane, secondo la quale al giusto non può accadere nulla di male, nè nella vita terrena nè nell'aldilà. E la stessa introduzione euripidea del prologo, con il quale spiega fin da principio l'azione, toglie alla tragedia ogni tensione epica e eccitante incertezza. E visto che tutto deve andare razionalmente, si intende anche la necessità del deus ex machina. Se c'é una struttura razionale dell'universo, come crede Socrate, allora il tragico perde il suo significato, non ha più senso. Nietzsche arriva a criticare il carattere unilaterale e riduttivo della cultura tedesca del suo tempo, in cui predomina l'uomo teoretico alla Socrate.

Questi corrisponde al mondo della scienza e della divisione tecnica dei compiti; esso é caratterizzato dalla fiducia nella possibilità di correggere il mondo per mezzo del sapere, in una vita guidata dalla sola scienza. Il prototipo e il capostipite di tale modello culturale é proprio Socrate, che inaugura il metodo di comprensione della realtà mediante concetti. Con ciò l'arte stessa viene subordinata al concetto e si stempera nella visione delle forme apollinee, di cui non si coglie la radice profonda nel dolore e nella durezza della vita. Nietzsche vede la possibilità di una ripresa dello spirito tragico, andato perduto per colpa di Euripide e Socrate, una ripresa intesa come sapienza che si volge con immobile sguardo all'immagine totale del mondo, cercando di cogliere in essa l'eterna sofferenza come sofferenza propria. Si tratta di andare oltre i limiti della cultura teoretica, incapace di poter scrutare, sulla base della causalità, l'intima essenza delle cose e di superare lo spirito critico-storico della cultura presente,che si riduce a raccattare elementi disgregati dietro la spinta di una eccessiva brama di sapere, e riannodare il legame tra vita e mito. In questa fase del suo pensiero, Nietzsche risulta particolarmente influenzato dalla metafisica di Schopenhauer, con la distinzione tra mondo della rappresentazione e mondo della volontà, sia dal dramma musicale wagneriano, che intende essere opera d'arte totale, con la fusione di musica, mito, azione, testo poetico e plasticità scenica. si Riportiamo qui sotto un passo in cui Nietzsche parla della visione dionisiaca del mondo:

I
I Greci, che esprimono e al tempo stesso nascondono la dottrina segreta della loro visione del mondo nei loro dèi, hanno stabilito come duplice fonte della loro arte due divinità Apollo e.Dioniso. Questi nomi rappresentano nel dominio dell'arte dei contrari stilistici, che incedono l'uno accanto all'altro quasi sempre in lotta tra loro, e appaiono fusi una volta soltanto, quando culmina la «volontà» ellenica, nell'opera d'arte della tragedia attica. In due stati, difatti, l'uomo raggiunge il sentimento estatico dell'esistenza, nel sogno e nell'ebbrezza.

La bella illusione del mondo del sogno dove ogni uomo è artista pieno, è madre di ogni arte figurativa e altresì come vedremo, di una metà importante della poesia. Noi godiamo in una comprensione immediata della figura, tutte le forme ci parlano; non vi è nulla di indifferente e di non necessario. Nella vita suprema di questa realtà di sogno traluce ancora tuttavia il nostro sentimento della sua illusorietà solo quando cessa questo sentimento, si presentano gli effetti patologici, in cui il sogno non ristora più e cessa la forza naturale risanatrice di quello stato. Entro tale limite non sono tuttavia soltanto le immagini piacevoli e benigne a essere da noi ricercate con quella perspicacia universale in noi stessi: anche ciò che è serio, triste, torbido, oscuro viene contemplato con la stessa gioia, senonché anche qui il velo dell'illusione si muove svolazzando e non può nascondere totalmente le forme fondamentali della realtà. così mentre il sogno è il giuoco del singolo uomo con il reale, l'arte dello scultore (in senso ampio) è il giuoco con il sogno. La statua come blocco di marmo è qualcosa di assai reale, ma la realtà della statua in quanto figura di sogno è la persona vivente del dio. Sintanto che la statua rimane di fronte agli occhi dell'artista come immagine fantastica, egli giuoca ancora con il reale: se traduce questa immagine nel marmo egli giuoca con il sogno. Orbene, in quale senso Apollo poteva essere considerato come il dio dell'arte? Solo in quanto è il dio delle rappresentazioni di sogno. Egli è in tutto e per tutto il «risplendente» nella sua radice più profonda è il dio del sole e della luce, che si manifesta nel fulgore. La «bellezza» è il suo elemento: a lui si accompagna la gioventù eterna. Ma anche la bella illusione del mondo del sogno è il suo dominio: la verità superiore, la perfezione, di questi stati in antitesi alla realtà diurna lacunosamente comprensibile, lo innalzano a dio vaticinante, ma altrettanto sicuramente a dio artistico. Il dio della bella illusione dev'essere al tempo stesso il dio della conoscenza vera. Quel tenue confine, peraltro, che l'immagine di sogno non può oltrepassare, se non vuol agire patologicamente là dove la parvenza non soltanto illude ma inganna, non può mancare nell'essenza di Apollo: quella delimitazione piena di misura, quella libertà dai moti più selvaggi, quella saggezza e quiete del dio plastico. Il suo occhio dev'essere «solarmente» calmo: su di esso, anche quando si adira e guarda di malumore, sta la consacrazione della bella parvenza. L'arte dionisiaca per contro si fonda sul giuoco con l'ebbrezza, con il rapimento.

Sono soprattutto due forze, che portano l'ingenuo uomo naturale all'oblio di sé nell'ebbrezza, ossia l'impulso primaverile e la bevanda narcotico. I loro effetti sono simboleggiati nella figura di Dioniso. In entrambi gli stati viene spezzato il principium individuationis, l'elemento soggettivo svanisce completamente di fronte alla violenza prorompente dell'elemento generalmente umano, anzi universalmente naturale. Le feste di Dioniso non solo stringono il legame tra uomo e uomo, ma riconciliano anche uomo e natura. Spontaneamente la terra offre i suoi doni e gli animali più feroci si avvicinano pacificamente: il carro di Dioniso, incoronato di fiori, è tirato da pantere e da tigri. Tutte le divisioni di casta, stabilite tra gli uomini dalla necessità e dall'arbitrio, scompaiono: lo schiavo è uomo libero, il nobile e l'uomo di basse origini si riuniscono nei medesimi cori bacchici. Il vangelo dell' «armonia universale» si aggira da un luogo a un altro in schiere sempre più numerose: cantando e danzando, l'uomo si manifesta come membro di una comunità superiore e più ideale; ha disimparato a camminare e a parlare. C'è di più egli si sente preda di un incantesimo ed è realmente diventato qualcosa di differente. Come gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche risuona da lui qualcosa di soprannaturale. Egli sente se stesso come dio, e quello che altrimenti viveva solo nella sua immaginazione, ora egli lo sente in se stesso. Che cosa sono ora per lui i ritratti e le statue? L'uomo non è più artista: è diventato opera d'arte, si aggira ora in estasi e in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dèi. Si rivela qui il potere artistico della natura, non più quello di un solo uomo: un'argilla più nobile, un marmo più prezioso vengono qui plasmati e sgrossati, ossia l'uomo.

Quest'uomo formato dall'artista Dioniso sta rispetto alla natura nello stesso rapporto in cui la statua sta rispetto all'artista apollineo. Se dunque l'ebbrezza è il giuoco della natura con l'uomo, la creazione dell'artista dionisiaco è allora il giuoco con l'ebbrezza. Questo stato, se non lo si è sperimentato personalmente, lo si può intendere solo simbolicamente: è qualcosa di simile a quando si sogna e al tempo stesso si avverte che il sogno è appunto un sogno. Il seguace di Dioniso deve così trovarsi nell'ebbrezza e al tempo stesso stare fuori di sé come un osservatore in agguato. La maestria artistica dionisiaca non si rivela in un'alternanza di assennatezza e di ebbrezza, bensì nella loro consistenza. Questa consistenza caratterizza il punto culminante della grecità: in origine soltanto Apollo è il dio ellenico dell'arte, e fu la sua potenza ad ammansire Dioniso che veniva all'assalto dall'Asia, al punto che fra essi poté sorgere la più bella lega fraterna. Qui si può comprendere con la massima facilità l'incredibile idealismo della natura ellenica: un culto naturale, che presso gli Asiatici significava lo scatenamento più rozzo degli istinti inferiori, una vita animalesca pansessuale, che per un determinato tempo spezzava tutti i vincoli sociali, diventò presso di loro una festa di redenzione del mondo, un giorno di trasfigurazione. Tutti gli impulsi sublimi del loro essere si manifestarono in questa idealizzazione dell'orgia. Mai tuttavia la grecità aveva corso un pericolo più grande che all'approssimarsi tempestoso del nuovo dio. D'altro canto, mai la sapienza di Apollo delfico si mostrò in una luce più bella. Dapprima Apollo, ricalcitrante, avvolse il possente avversario con la più sottile delle reti, cosicché quest'ultimo quasi non si accorse di andare in giro come prigioniero a metà. Quando la classe sacerdotale di Delfi ebbe indovinato il profondo influsso del nuovo culto sui processi rigenerativi della società e lo ebbe favorito in conformità ai suoi fini politico-religiosi, quando l'artista apollineo ebbe imparato con avveduta moderazione dall'arte rivoluzionaria dei culti bacchici, quando infine il dominio annuale nell'ordinamento delfico del culto fu spartito tra Apollo e Dioniso, allora entrambi gli dèi uscirono, si può dire, come vincitori dalla loro gara: una conciliazione sul campo di battaglia.

Se si vuol vedere con piena chiarezza, con quale violenza l'elemento apollineo sottomise l'aspetto irrazionalmente soprannaturale di Dioniso, si pensi al fàto che nel periodo antico della musica; il génos dithyrambikón era al tempo stesso l'esykhastikón. Quanto più possentemente poi crebbe lo spirito artistico apollineo, tanto più liberamente si sviluppò il dio fratello Dioniso: nello stesso tempo in cui lo spirito apollineo giunse a una visione piena, per così dire immobile della bellezza, nell'epoca di Fidia, Dioniso interpretò nella tragedia gli enigmi e i terrori del mondo, ed espresse nella musica tragica il più intimo pensiero della natura, la trama della «volontà» entro e al di sopra di tutte le apparenze. Se la musica è anche arte apollinea, allora a rigore è soltanto il ritmo a sviluppare la sua forza figurativa, per la rappresentazione di stati apollinei: la musica di Apollo è architettura in suoni, precisamente in suoni appena accennati, quali appartengono alla cetra. Viene cautamente tenuto lontano proprio l'elemento che costituisce il carattere della musica dionisiaca, anzi della musica in generale, ossia la forza sconvolgente del suono e il mondo assolutamente incomparabile dell'armonia. Per quest'ultima il Greco aveva la più fine sensibilità come dobbiamo desumere dalla rigorosa caratterizzazione delle tonalità anche se il bisogno di un'armonia realizzata, realmente risonante, era presso di loro assai minore che nel mondo moderno.

Nella successione armonica, - e già nella sua semplificazione la cosiddetta melodia - la «volontà» si manifesta in modo del tutto immediato, senza essere entrata precedentemente in una apparenza. Ogni individuo può servire come simbolo, per così dire come caso singolo per una regola generale. Viceversa poi l'artista dionisiaco renderà immediatamente comprensibile l'essenza di ciò che appare: egli domina anzi sul caos della volontà che non ha ancora acquistato una figura, e da ciò in ogni momento creativo può produrre un mondo nuovo, ma altresì quello antico, noto come apparenza. In quest'ultimo senso egli è un musicista tragico. Nell'ebbrezza dionisiaca, nell'infuriare tumultuoso di tutte le tonalità dell'anima a causa dell'eccitazione narcotico oppure nello scatenamento degli impulsi primaverili, la natura si manifesta nella sua forza suprema: essa lega di nuovo assieme i singoli esseri e fa che si sentano unificati; a questo modo il principium individuationis appare come un permanente stato di debolezza della volontà. Quanto più la volontà è intristita, tanto più tutto si frantuma nella singolarità, quanto più egoisticamente l'individuo si sviluppa, tanto più debole è l'organismo cui esso serve. In quegli stati si manifesta come un carattere sentimentale della natura, un «sospiro della creatura» per quello che ha perduto.

Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore, lo struggente lamento per una perdita irreparabile. La natura rigogliosa celebra i suoi Saturnali e al tempo stesso i suoi riti funebri. Gli affetti dei suoi sacerdoti sono mescolati nel modo più mirabile, i dolori suscitano piacere, il giubilo strappa al petto accenti strazianti. Il dio, o lysios, ha liberato ogni cosa da se stessa, ha trasformato tutto. Il canto e la mimica di masse così eccitate, in cui la natura si presentava come voce e come movimento, era qualcosa di assolutamente nuovo e inaudito per il mondo greco-omerico; c'era qualcosa di orientale che anzitutto esso, con la sua enorme forza ritmica e figurativa, doveva dominare, e del resto dominò nello stesso tempo in cui dominò lo stile dei templi egiziani. Fu il popolo apollineo a incatenare con la bellezza quell'istinto strapotente: esso ha sottoposto al giogo gli elementi più pericolosi della natura, le sue bestie più feroci. Si ammira al massimo la potenza idealistica della grecità quando si confronta la sua spiritualizzazione delle feste di Dioniso con quello che è sorto presso altri popoli dalla stessa origine. Feste simili sono antichissime e rintracciabili ovunque: le più famose si ritrovano a Babilonia, sotto il nome di Sacee. Qui, in feste che duravano cinque giorni, ogni vincolo statale e sociale veniva spezzato; il nucleo di esse peraltro stava nella sfrenatezza sessuale, nell'annientamento di ogni legame familiare attraverso una illimitata dissolutezza.

L'antitesi a ciò è offerta dal quadro delle feste greche di Dioniso, che Euripide traccia nelle Baccanti; da questo quadro spira la stessa leggiadria, la stessa ebbrezza musicale di trasfigurazione, che Scopa e Prassitele hanno tradotto in scultura. Un messaggero racconta di essere salito con le greggi, nella calura meridiana, sulle cime dei monti: è il momento giusto e il luogo giusto, per vedere ciò che mai si vede; ora Pan dorme, ora il cielo è lo sfondo immoto di un fulgore, ora il giorno fiorisce. Su un prato montano il messaggero scorge tre cori di donne, distese qua e là sul terreno e piene di contegno; molte donne sono appoggiate a tronchi di abete. Tutte sonnecchiano. All'improvviso la madre di Penteo comincia a esultare, il sonno è scacciato, tutte saltano su un modello di nobili costumi - le giovani fanciulle e le donne sciolgono i capelli sulle spalle; la pelle di capriolo viene riordinata se nel sonno i nastri e i fiocchi si sono sciolti. Ci si cinge con serpenti, che familiarmente lambiscono le gote; alcune donne prendono in braccio lupacchiotti e giovani caprioli, e li allattano. Tutte si adornano con corone d'edera e fiori di convolvolo; un colpo di tirso sulle rocce e l'acqua sgorga fuori; un colpo con il bastone sul terreno e sale uno zampillo di vino. Dolce miele gocciola dai rami quando qualcuno tocca il terreno solo con la punta delle dita, salta fuori latte bianco come neve. È tutto un mondo incantato, la natura celebra la sua festa di riconciliazione con l'uomo. Il mito dice che Apollo ha di nuovo ricomposto Dioniso sbranato.

Tale è l'immagine di Dioniso rigenerato da Apollo, salvato dalla sua lacerazione asiatica. II Nella perfezione in cui già ci si presentano in Omero, gli dèi greci non possono certo intendersi come prodotti della necessità e del bisogno: tali esseri sicuramente non sono stati inventati da un animo scosso dall'angoscia. Non è per ritrarsi dalla vita, che una geniale fantasia ha proiettato nel vuoto le loro immagini. Attraverso queste parla una religione della vita, non già una religione del dovere o dell'ascetismo o della spiritualità Tutte queste figure esprimono il trionfo dell'esistenza, un rigoglioso sentimento di vita accompagna il loro culto. Esse non pretendono: in loro è divinizzare ciò che sussiste, sia esso buono o cattivo. Confrontata alla serietà alla santità e al rigore di altre religioni, la religione greca corre il pericolo di essere sottovalutata come un divertimento fantastico - nel caso in cui non ci si rappresenti un tratto di profondissima sapienza, spesso disconosciuto, mediante cui quella realtà epicurea degli dèi d'improvviso appare come una creazione dell'incomparabile popolo di artisti, e quasi come la sua suprema creazione. È la filosofia del popolo, quella svelata ai mortali dall'incatenato dio silvano: «La cosa migliore è di non esistere, e la migliore dopo questa è di morire presto». È questa stessa filosofia che costituisce lo sfondo di quel mondo di dèi. Il Greco conosceva i terrori e le atrocità dell'esistenza, ma li velò per potere vivere: una croce nascosta tra le rose, secondo il simbolo di Goethe. Quel fulgente mondo olimpico ha affermato il suo dominio soltanto perché l'oscuro governo dellamoîra, che determina per Achille la morte precoce e per Edipo le nozze orrende, doveva venir nascosto attraverso le risplendenti figure di Zeus, di Apollo, di Hermes eccetera. Se qualcuno avesse tolto di mezzo l'illusione artistica di quel mondo intermedio, si sarebbe dovuto seguire la sapienza del dio silvano, del seguace dionisiaco.

Fu tale stato di necessità onde il genio artistico di questo popolo ha creato tali dèi, Perciò una teodicea non fu mai un problema ellenico: ci si guardò dall'addossare agli dèi l'esistenza del mondo, e quindi la responsabilità per la sua configurazione. Anche gli dèi sono sottomessi all'anánke: questo è un riconoscimento della più rara sapienza. Vedere la propria esistenza - quale si presenta - in uno specchio trasfigurante, e difendersi con questo specchio dalla Medusa, ecco la strategia geniale della «volontà» ellenica, in generale per poter vivere. Come avrebbe infatti potuto sopportare altrimenti l'esistenza quel popolo infinitamente sensibile, così splendidamente recettivo al dolore, se tale esistenza non gli si fosse rivelata, avvolta da una gloria superiore, nei suoi dèi? Lo stesso impulso che trae alla vita l'arte, in quanto integrazione e compimento che inducono a continuare la vita, fece sorgere altresì il mondo olimpico, un mondo della bellezza, della quiete, del godimento. Sotto l'influsso di una tale religione, la vita viene intesa nel mondo omerico come qualcosa in sé desiderabile: la vita cioè nel chiaro splendore solare di tali dèi. Il dolore degli uomini omerici si riferisce alla dipartita da questa esistenza, soprattutto a una precoce dipartita: quando in genere si leva un lamento, questo risuona per «Achille dalla breve vita», per i rapidi mutamenti della stirpe umana, per la scomparsa dell'epoca eroica. Non è indegno dei più grandi eroi il desiderare ardentemente una lunga vita, sia pure come salariati. Mai la «volontà» si è espressa più apertamente che nella grecità il cui lamento è ancora un canto di lode per la volontà.

Perciò l'uomo moderno si strugge per quell'epoca in cui egli crede di avvertire la piena consonanza tra natura e uomo; perciò la grecità è la parola risolutiva per tutti coloro che vanno cercando fulgidi modelli per la loro cosciente affermazione della volontà, perciò infine è sorto dalle mani di sensuali scrittori il concetto di «serenità greca», cosicché in modo irriverente una vita dissoluta di fannulloni osa giustificarsi, anzi innalzarsi, con la parola «greco». In tutte queste rappresentazioni che da quanto è più nobile si sviano in quanto è più volgare, la grecità è intesa in modo troppo rozzo e semplice, e in un certo senso è stata raffigurata secondo l'immagine di nazioni non ambigue, per così dire unilaterali (per esempio i Romani). Tuttavia il bisogno di illusione artistica dovrebbe essere supposto altresì nella visione del mondo di un popolo che suole trasformare in oro tutto ciò che tocca. In questa visione del mondo noi troviamo del resto realmente, come già si è accennato, un'enorme illusione, la stessa illusione di cui la natura si serve così regolarmente per raggiungere i suoi scopi. Il vero scopo viene coperto da un'immagine illusoria: tendiamo le mani verso questa, e la natura raggiunge quello attraverso il nostro errore.

Nei Greci la volontà volle intuire se stessa trasfigurata in opera d'arte: per glorificarsi, le sue creature dovettero sentire se stesse come degne di glorificazione, dovettero rivedere se stesse in una sfera superiore, sollevate per così dire in una sfera ideale, senza che questo mondo perfetto dell'intuizione agisse come imperativo o come rimprovero. Questa è la sfera della bellezza, dove essi contemplano le loro immagini in uno specchio, gli dèi olimpici. Con quest'arma la volontà ellenica lottò contro il talento, correlativo a quello artistico, del dolore e della sapienza del dolore. Da questa lotta e come monumento della vittoria di questa volontà è nata la tragedia. L'ebbrezza del dolore e il bel sogno hanno i loro differenti mondi divini: la prima penetra con l'onnipotenza del suo essere nei pensieri più intimi della natura, riconosce il terribile impulso all'esistenza e al tempo stesso la morte continua di tutto ciò che entra nell'esistenza; gli dèi che essa crea sono buoni e cattivi, rassomigliano al caso, incutono terrore con una sistematicità che si manifesta all'improvviso, sono spietati e privi di gusto per il bello. Essi sono parenti della verità e si avvicinano al concetto: raramente e difficilmente assumono una figura. Il contemplarli pietrifica: come si potrebbe vivere con loro? Ma non lo si deve: questa è la loro dottrina.

Da questo mondo divino, se non lo si poteva velare totalmente come un segreto degno di punizione, si doveva distogliere lo sguardo mediante la splendente creazione di sogno - posta al suo fianco - del mondo olimpico: tanto più in alto perciò si infiammano i colori di quest'ultimo e tanto più sensuali diventano le sue figure, quanto più fortemente si fa valere la verità o il simbolo di essa. Mai però la lotta tra verità e bellezza fu più grande che durante l'invasione del culto di Dioniso: in esso la natura si svelava e parlava con terrificante chiarezza del suo segreto, ossia con il suono, di fronte al quale la seducente illusione quasi perdette il suo potere. Questa sorgente sgorgava in Asia, ma in Grecia dovette diventare fiume, poiché qui per la prima volta trovò ciò che in Asia non le era stato offerto, la più eccitabile sensibilità e recettività al dolore, accoppiate alla più sottile perspicacia e riflessione. Come poté Apollo salvare la grecità? Il nuovo venuto fu accolto nel mondo della bella illusione, nel mondo degli dèi olimpici: a lui furono sacrificati molti onori spettanti alle più ragguardevoli divinità per esempio a Zeus e ad Apollo. Non si sono mai fatti tanti complimenti con un forestiero; per di più era anche un forestiero terribile (hostis in ogni senso), abbastanza possente da demolire la casa che l'ospitava. In tutte le forme della vita cominciò una grande rivoluzione: ovunque penetrò Dioniso, anche nell'arte.

La contemplazione, la bellezza e l'illusione circoscrivono la sfera dell'arte apollinea: si tratta del mondo trasfigurato dell'occhio, che crea artisticamente nel sogno, con le palpebre abbassate. Anche la poesia epica vuol condurci a questo stato di sogno: non dobbiamo veder nulla con gli occhi aperti e dobbiamo pascerci delle immagini interiori, alla cui produzione cerca di stimolarci il rapsodo con i suoi concetti. L'effetto delle arti figurative viene qui raggiunto attraverso una strada più lunga: mentre lo scultore ci conduce, con il suo marmo sgrossato, verso il dio vivente, da lui contemplato in sogno, in modo tale che la figura - la quale propriamente si presenta come télos - diventa chiara tanto per lo scultore quanto per lo spettatore, e il primo conduce il secondo a seguirlo nella contemplazione attraverso la figura mediatrice della statua, il poeta epico invece, che pure vede la stessa figura vivente e vuole anch'egli presentarla all'intuizione di altri, non pone tra sé e gli uomini alcuna statua, ma piuttosto racconta in che modo quella figura dimostra la propria vita con movimenti, suoni, parole e azioni, e ci costringe a ricondurre una grande quantità di effetti alla loro causa, obbligandoci a una composizione artistica. Egli ha raggiunto il suo scopo, quando vediamo chiaramente di fronte a noi la figura, o il gruppo, o l'immagine, ossia quando ci comunica quello stato di sogno in cui egli stesso ha anzitutto prodotto quelle rappresentazioni. La spinta a creare plasticamente, impressa dalla poesia epica, dimostra come la lirica sia assolutamente diversa dall'epica, poiché la prima non tende mai a formare immagini. L'elemento comune tra le due è soltanto qualcosa di materiale, la parola, e ancor più generalmente il concetto.

Quando parliamo di poesia, non intendiamo una categoria che sia coordinata con l'arte figurativa e con la musica, ma intendiamo piuttosto un conglomerato di due mezzi artistici in sé totalmente diversi, l'uno dei quali indica una strada verso l'arte figurativa, e l'altro una strada verso la musica: entrambi sono però soltanto vie che conducono alla creazione artistica, e non già arti. In questo senso, naturalmente, anche la pittura e la scultura sono soltanto mezzi artistici: la vera arte è il poter creare immagini, non importa poi che si tratti di una creazione primitiva oppure indotta. Su questa qualità che è universalmente umana, si fonda l'importanza dell'arte per la cultura. L'artista - come colui che con strumenti artistici costringe all'arte - non può essere al tempo stesso l'organo assorbente della comunicazione artistica. Il culto figurativo della civiltà apollinea, sia che questa si manifestasse in un tempio, in una statua oppure nell'epos omerico, trovò uno scopo sublime nell'esigenza etica della misura, che corre parallela all'esigenza estetica della bellezza. La misura stabilita come esigenza è possibile solo nel caso in cui la misura, il limite siano considerati conoscibili. Per mantenere i propri limiti, li si deve conoscere: di qui l'esortazione apollinea gnôthi seautón.Ma il solo specchio in cui il Greco apollineo poteva vedere, cioè riconoscere se stesso, era il mondo degli dèi olimpici: qui peraltro egli riconosceva la sua essenza più peculiare, avvolta dalla bella illusione del sogno. La misura, sotto il cui giogo si moveva il nuovo mondo di dèi (di fronte al mondo abbattuto dei Titani), era quella della bellezza: il limite che il Greco doveva mantenere era quello della bella illusione. Il fine più intimo di una cultura rivolta all'illusione e alla misura può certo essere soltanto quello di velare la verità. L'instancabile indagatore al servizio della verità così come il tracotante Titano, viene richiamato con l'ammonizione del medén ágan.

Con Prometeo viene mostrato alla grecità un esempio di come un eccessivo avanzamento della conoscenza umana agisca in modo ugualmente rovinoso per chi promuove tale avanzamento e per chi ne usufruisce. Chi con la sua sapienza vuol sostenersi di fronte al dio, deve, come dice Esiodo, métron ékhein sophíes. In un mondo così costruito e artificiosamente difeso penetrò allora il suono estatico della festa di Dioniso, dove tutto l'eccesso della natura in gioia, dolore e conoscenza si manifestò in uno stesso tempo. Tutto quello che sino allora valeva come limite e come determinazione di misura si dimostrò a quel punto una artificiosa illusione: l' «eccesso» si svelò come verità. Per la prima volta il canto popolare demonicamente affascinante mugghiò in tutta l'ebrietà di un sentimento strapotente: che cosa significava in contrario il salmodiante artista di Apollo, con gli accordi timidamente accennati della sua kithára? Ciò che prima si era trapiantato entro una casta, nelle corporazioni poetico-musicali, e al tempo stesso era stato isolato da ogni partecipazione profana, ciò che doveva mantenersi, con la violenza del genio apollineo, al livello di una semplice architettonica, ossia l'elemento musicale, si spogliò ora di ogni costrizione: la ritmica, che prima si era mossa soltanto nella più semplice scansione, sciolse le sue membra nella danza baccantica: risonò la voce strumentale, non più spettralmente attenuata come prima, ma mille volte potenziata dalla massa e accompagnata dalle basse risonanze degli strumenti a fiato. E la cosa più misteriosa si realizzò: venne allora al mondo l'armonia, che nel suo movimento fa immediatamente comprendere la volontà della natura.

In compagnia di Dioniso si fecero ormai udire cose che nel mondo apollineo stavano artificiosamente nascoste: tutto il fulgore degli dèi olimpici impallidì dinnanzi alla sapienza di Sileno. Un'arte che nella sua ebbrezza estatica diceva la verità, scacciò le Muse delle arti dell'illusione; nell'oblio di sé degli stati dionisiaci perì l'individuo con i suoi limiti e le sue misure: eminente un crepuscolo degli dèi. Qual era la mira della volontà, che pure in definitiva è unitaria, nel concedere un accesso, contro la propria creazione apollinea, agli elementi dionisiaci? Ciò riguardava una nuova e superiore mekhané dell'esistenza, ossia la nascita del pensiero tragico. III L'estasi dello stato dionisiaco, con il suo annientamento delle barriere e dei limiti abituali dell'esistenza, contiene nel suo perdurare un elemento letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto nel passato., Attraverso questo abisso dell'oblio si dividono così l'uno dall'altro il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra di nuovo nella coscienza, viene sentita come tale con disgusto: il frutto di quelle esperienze è uno stato d'animo ascetico, negatore della volontà. Ciò che è dionisiaco viene contrapposto nel pensiero come un ordine superiore del mondo a un ordine volgare e dappoco: il Greco voleva una fuga assoluta da questo mondo della colpa e del destino. Difficilmente si dava pace con un mondo dopo la morte: la sua brama andava più in alto, al di là degli dèi; egli negava l'esistenza assieme al suo variopinto, luccicante rispecchiamento negli dèi. Nella consapevolezza del risveglio dall'ebbrezza, egli vede ovunque l'atrocità o l'assurdità dell'esistenza umana. Ciò gli dà la nausea. Ora egli comprende la sapienza del dio silvano. Qui viene raggiunto il confine più pericoloso che la volontà ellenica potesse permettersi con il suo principio fondamentale apollineo-ottimistico. Qui tale volontà agì subito con la sua naturale forza risanatrice, per far ripiegare nuovamente quello stato d'animo negatore: i suoi strumenti furono l'opera d'arte tragica e l'idea tragica. Non poteva assolutamente avere l'intenzione di mitigare, o addirittura di reprimere lo stato dionisiaco: una sottomissione diretta era impossibile, e quand'anche fosse stata possibile, era troppo pericolosa poiché quell'elemento, trattenuto nella sua effusione, si sarebbe aperto altrove una strada e sarebbe penetrato in tutte le arterie vitali. Si trattava anzitutto di trasformare quei pensieri di disgusto per l'atrocità e l'assurdità dell'esistenza in rappresentazioni con cui si potesse vivere: queste sono il sublime in quanto soggiogamento artistico dell'atroce, e il ridicolo in quanto scaricarsi artistico dal disgusto per l'assurdo.

Questi due elementi intrecciati assieme vengono riuniti in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza, che giuoca con l'ebbrezza. Il sublime e il ridicolo costituiscono un passo al di là del mondo della bella illusione, poiché in entrambi i concetti viene sentita una contraddizione. D'altro canto essi non coincidono affatto con la verità sono un velame della verità il quale è bensì più trasparente della bellezza, ma risulta pur sempre un velame. In questi concetti noi troviamo dunque un mondo intermedio tra bellezza e verità dove è possibile riunire Dioniso e Apollo. Questo mondo si rivela in un giocare con l'ebbrezza, non già nell'essere completamente assorbiti essa. Nell'attore noi riconosciamo l'uomo dionisiaco, il poeta, il cantore, il danzatore istintivo, in quanto però uomo dionisiaco rappresentato. L'attore cerca di raggiungere questo modello nella commozione della sublimità o anche in uno scoppio di risa: egli va oltre la bellezza e tuttavia non cerca la verità. Rimane sospeso a eguale distanza dalle due. Egli non tende alla bella parvenza, bensì all'illusione, non tende alla verità bensì alla verosimiglianza. (Simbolo, segno della verità. Dapprima l'attore non era naturalmente un isolato: doveva piuttosto venir presentata la massa dionisiaca, cioè il popolo. Di qui il coro ditirambico. Giocando con l'ebbrezza, l'attore stesso, come anche il coro circostante degli spettatori, doveva per così dire scaricarsi dell'ebbrezza. Dal punto di vista del mondo apollineo, la grecità era qualcosa che si doveva risanare ed espiare: Apollo, il vero dio della salute e dell'espiazione, salvò il Greco dall'estasi chiaroveggente e dal disgusto per l'esistenza, mediante l'opera d'arte del pensiero tragico e comico. Il nuovo mondo dell'arte, quello del sublime e del ridicolo, quello della «verosimiglianza», si fondava su un'intuizione degli dèi e del mondo differente dalla concezione anteriore della bella parvenza.

La conoscenza degli orrori e dell'assurdità dell'esistenza, di un ordine turbato e di una sistematicità irrazionale, e in generale la conoscenza del più mostruoso dolore in tutta quanta la natura aveva svelato le figure - nascoste così ingegnosamente - della Moira e delle Erinni, di Medusa e di Gorgona: gli dèi olimpici correvano il massimo pericolo. Con l'opera d'arte tragica e comica essi furono salvati, venendo immersi a loro volta nel mare del sublime e del ridicolo: essi cessarono di essere soltanto «belli» e assorbirono per così dire in se stessi quell'antico ordinamento di dèi e la sua sublimità. Si separarono ormai in due gruppi (soltanto pochi rimasero sospesi in una posizione intermedia), da un lato come divinità sublimi e d'altro lato come divinità ridicole. Soprattutto Dioniso ricevette quella duplice natura. Due tipi di uomini, cioè Eschilo e Sofocle, mostrano nel modo migliore come oggi si potrebbe rivivere il periodo tragico della grecità. Al primo, come pensatore, il sublime si presenta soprattutto nella forma di una grandiosa giustizia. Per lui, uomo e dio stanno in una strettissima comunione soggettiva: la divinità la giustizia, la moralità e la felicità sono per lui intrecciate assieme in modo unitario. L'individuo, uomo o Titano, viene pesato su questa bilancia. Gli dèi sono ricostruiti in base a questa norma di giustizia. Così per esempio la credenza popolare in un demone che acceca e seduce alla colpa - un residuo di quel primordiale mondo divino, detronizzato dagli dèi olimpici - viene corretta, poiché questo demone viene trasformato in uno strumento nella mano di Zeus e della sua giusta punizione. Il pensiero altrettanto primordiale - e del pari estraneo agli dèi olimpici - della maledizione di una stirpe viene spogliato di tutta la sua crudezza, poiché per Eschilo l'individuo non è spinto al delitto da una necessità e chiunque può liberarsene. Mentre Eschilo trova il sublime nella superiorità della giustizia olimpica, Sofocle lo scopre invece - in modo sorprendente - nell'imperscrutabilità della giustizia olimpica. Su tutti i punti egli ricostituisce la prospettiva popolare. Il non meritare un destino orrendo sembrava a lui qualcosa di sublime e gli enigmi veramente insolubili dell'esistenza umana ispirarono la sua Musa tragica. La sofferenza trova in lui la sua trasfigurazione e viene concepita come qualcosa di santificante.

Il distacco tra l'umano e il divino è incommensurabile; è quindi conveniente la più profonda sottomissione e rassegnazione. La vera virtù è la sophrosyne, propriamente una virtù negativa. L'umanità eroica è la più nobile umanità: priva di quella virtù il suo destino dimostra quell'abisso invalicabile. Non esiste la colpa, ma soltanto una mancanza di conoscenza sul valore dell'uomo e sui suoi limiti. Questo punto di vista è in ogni caso più profondo e più interiore di quello eschileo, si avvicina notevolmente alla verità dionisiaca e la esprime senza molti simboli: ciononostante, ritroviamo qui il principio etico di Apollo intrecciato con la visione dionisiaca del mondo. In Eschilo, il disgusto si risolve nel brivido sublime di fronte alla sapienza dell'ordine cosmico, che è difficilmente riconoscibile solo per la debolezza dell'uomo. In Sofocle, questo brivido è ancora più violento, poiché quella sapienza è del tutto insondabile. È questo lo schietto stato d'animo della devozione priva di lotta, mentre la devozione eschilea ha continuamente il compito di giustificare la giustizia divina e si trova perciò sempre di fronte a nuovi problemi. Il «confine dell'uomo», che Apollo comanda di cercare, è per Sofocle riconoscibile, ma è più stretto e più limitato di quello inteso nell'epoca predionisiaca di Apollo. Che l'uomo manchi della conoscenza di sé è il problema di Sofocle; che l'uomo manchi della conoscenza sugli dèi, è il problema di Eschilo. Devozione, mirabile maschera dell'istinto vitale! Abbandonarsi a un mondo perfetto di sogno, che fornirà la suprema saggezza morale! Fuggire di fronte alla verità per poterla adorare da lontano, nascosta nelle nubi! Conciliazione con la realtà poiché essa è enigmatica; avversione per chi decifra gli enigmi, perché noi non siamo dèi; gioioso inginocchiarsi nella polvere, beata quiete nell'infelicità, suprema alienazione di sé compiuta dall'uomo nella sua suprema espressione. Esaltazione e trasfigurazione dei mezzi di terrore e della terribilità dell'esistenza, intendendo tutto ciò come strumento per salvarci dall'esistenza; vita piena di gioia nel disprezzo della vita; trionfo della volontà nella sua negazione.

Su questo piano conoscitivo esistono soltanto due vie, quella del santo e quella dell'artista tragico: ciò che li accomuna è il fatto che, nonostante la più chiara conoscenza della nullità dell'esistenza, essi possono tuttavia continuare a vivere, senza sentire una frattura nella loro intuizione del mondo. Il disgusto di continuare a vivere viene sentito come un mezzo per giungere alla creazione, tanto nel santo quanto nell'artista. Il terribile o l'assurdo è esaltante, poiché è terribile o assurdo solo apparentemente. La forza dionisiaca dell'incantesimo si conferma valida anche al culmine estremo di questa visione del mondo: tutto ciò che è reale si risolve in illusione, e dietro di esso si manifesta la natura unitaria della volontà avvolta completamente dalla gloria della sapienza e della verità da uno splendore accecante. L'illusione e la follia giungono al loro apice. Ora non sembrerà più incomprensibile che quella medesima volontà, la quale in quanto apollinea dava un ordinamento al mondo greco, accogliesse in sé l'altra sua forma di manifestazione, la volontà dionisiaca. La lotta fra le due forme in cui appare la volontà aveva uno scopo straordinario, quello cioè di creare una possibilità più alta di esistenza, e di giungere poi in questa a una glorificazione ancora superiore (attraverso l'arte).

La forma di tale glorificazione non era più l'arte dell'illusione, bensì l'arte tragica: in quest'ultima peraltro viene completamente assorbita quell'arte dell'illusione. Apollo e Dioniso si sono riuniti. Allo stesso modo che nella vita apollinea è entrato l'elemento dionisiaco, e allo stesso modo che l'illusione si è consolidata qui come limite, così pure l'arte tragica dionisiaca non è più «verità». Quel canto e quella danza non sono più l'ebbrezza istintiva della natura: la massa corale eccitata dionisiacamente non è più la massa popolare colta inconsciamente dall'impulso primaverile. La verità viene. ora simboleggiata, si serve dell'illusione, può e deve quindi usare le arti dell'illusione. Già qui si rivela tuttavia una grande differenza rispetto all'arte precedente: ora i mezzi artistici dell'illusione sono chiamati in aiuto tutti assieme, e la statua cammina, gli apparati scenici dipinti si spostano, e con lo stesso sfondo scenico viene presentato di fronte agli occhi ora il palazzo e ora il tempio. Osserviamo così al tempo stesso una certa indifferenza verso l'illusione, che deve qui deporre le sue eterne pretese, le sue esigenze sovrane. L'illusione non viene più goduta come illusione, bensì come simbolo, come segno della verità. Di qui la fusione - in sé urtante - dei mezzi artistici. Il segno più evidente di questo disprezzo dell'illusione è la maschera. Lo spettatore si trova quindi di fronte all'esigenza dionisiaca, che tutto quanto gli si presenti come incantato, che egli veda sempre qualcosa di più del simbolo e che tutto il mondo visibile della scena e dell'orchestra sia il regno del miracolo.

Ma dov'è la forza che può disporre il suo animo a credere nei miracoli, e per cui egli può vedere ogni cosa come dovuta a un incantesimo? Che cos'è che può vincere la forza dell'illusione, depotenziandola come simbolo? IV Ciò che noi chiamiamo «sentimento» risulta, secondo l'insegnamento di una filosofia che si muova sulle tracce di Schopenhauer, un complesso di rappresentazioni inconsce e di stati della volontà. Le tendenze della volontà si manifestano peraltro come piacere o dolore e in ciò rivelano unicamente una differenza quantitativa. Non vi sono diverse specie di piacere, bensì gradi differenti e un numero sterminato di rappresentazioni concomitanti. Con piacere, noi dobbiamo intendere il soddisfacimento di una volontà unica, e con dolore il suo non soddisfacimento. In qual modo, orbene, si comunica il sentimento? Parzialmente - ma assai parzialmente - esso può trasferirsi in pensieri, cioè in rappresentazioni coscienti. Ciò vale naturalmente solo per la parte delle rappresentazioni concomitanti. Anche su questo terreno del sentimento, d'altronde, rimane sempre un resto irriducibile. È unicamente del resto riducibile, che si occupa il linguaggio, e quindi il concetto: in base a ciò viene determinato il limite della «poesia» nella capacità di esprimere il sentimento. Le altre due specie di comunicazione sono completamente istintive, prive di coscienza, e tuttavia operanti conformemente a un fine. Si tratta del linguaggio dei gesti e di quello dei suoni. Il linguaggio dei gesti consiste in simboli universalmente comprensibili, e viene prodotto da movimenti riflessi.

Questi simboli sono visibili: l'occhio che li vede trasmette senz'altro lo stato che ha prodotto il gesto e che è da questo simboleggiato. Chi vede, sente in sé per lo più - per simpatia - un'azione dei nervi sulle medesime parti del volto o sulle medesime membra, il cui movimento egli percepisce. Simbolo vuol significare qui un riflesso parziale e del tutto imperfetto, un segno allusivo, sulla cui comprensione ci si deve accordare: in questo caso tuttavia la comprensione universale è istintiva, cioè non dominata da una chiara coscienza. Che cosa simboleggia dunque il gesto, rispetto a quell'entità duplice che è il sentimento? Evidentemente la rappresentazione concomitante, poiché soltanto questa può essere accennata, in modo incompleto e parziale, dal gesto visibile: un'immagine può essere simboleggiata solo attraverso un'immagine. La pittura e la scultura presentano l'uomo mentre gestisce: esse cioè imitano il simbolo e hanno raggiunto il loro effetto quando noi comprendiamo il simbolo. La gioia di chi contempla consiste nella comprensione del simbolo, nonostante la sua apparenza. L'attore invece presenta il simbolo realmente, non soltanto per l'illusione: l'effetto esercitato su di noi peraltro non si fonda sulla comprensione di tale simbolo. Piuttosto, noi ci immergiamo nel sentimento simboleggiato, senza arrestarci alla gioia dell'illusione, alla bella parvenza. Così nel dramma la decorazione non suscita affatto la gioia dell'illusione: noi la intendiamo invece come simbolo e comprendiamo il reale che ne è accennato. Fantocci di cera e piante vere, accanto ad altre semplicemente dipinte, sono qui perfettamente ammissibili, per dimostrare che in questo caso noi ci rappresentiamo concretamente la realtà, non una illusione artificiosa. Il compito consiste qui nella verosimiglianza, non più nella bellezza.

Ma che cos'è la bellezza? - «la rosa è bella» significa soltanto: la rosa ha una buona parvenza, ha qualcosa di piacevolmente luminoso. Con ciò non si dice nulla sulla sua essenza. Essa piace, in quanto parvenza suscita piacere: in altre parole, attraverso il suo apparire la volontà è soddisfatta, il piacere di esistere viene in tal modo accresciuto. Essa è - nella sua parvenza - un riflesso fedele della sua volontà o in forma equivalente: essa corrisponde, nella sua parvenza, alla determinazione della specie. Quanto più essa fa questo, tanto più è bella; se poi essa corrisponde nella sua essenza a quella determinazione, è allora «buona». «Un bel dipinto» significa soltanto: la rappresentazione che noi abbiamo di un dipinto è in questo caso realizzata; se invece noi chiamiamo «buono» un dipinto, designiamo allora la nostra rappresentazione di un dipinto come tale da corrispondere all'essenza del quadro. Per bel quadro, d'altronde, si intende per lo più un quadro che rappresenti qualcosa di bello: tale è il giudizio dei profani. Costoro gustano la bellezza del contenuto: ed è così che noi dobbiamo gustare le arti figurative nel dramma. Quest'ultimo tuttavia non può avere come compito di rappresentare soltanto cose belle: basta che un oggetto sembri vero. L'oggetto rappresentato deve essere colto in modo massimamente sensibile e vivo. Esso deve agire come verità: un'esigenza, questa, antitetica a quella fatta valere in ogni «opera della bella illusione». Peraltro, se il gesto simboleggia, rispetto al sentimento, le rappresentazioni concomitanti, con quale simbolo sarà mai comunicata la comprensione dei moti della volontà come tale? Quale è in questo caso la mediazione istintiva? La mediazione del suono. Per essere precisi, sono i differenti aspetti del piacere e del dolore - senza alcuna rappresentazione concomitante - che risultano simboleggiati dal suono. Tutto ciò che noi possiamo dire, per caratterizzare i diversi sentimenti di dolore, consiste in immagini di rappresentazioni chiarite attraverso il simbolismo del gesti. Ciò accade, per esempio, quando a proposito di un improvviso terrore noi parliamo di «mazzate, crampi, sussulti, punture, ferite, morsi, stimoli, del dolore. Con ciò sembra trovata l'espressione di certe «forme intermittenti» della volontà; in breve - nel simbolismo del linguaggio dei suoni - questa è una ritmica.

La ricchezza delle gradazioni della volontà, la quantità mutevole della gioia e del dolore, sono da noi riconosciute nella dinamica del suono. Ma la vera essenza della volontà si nasconde, senza potersi esprimere con un'immagine, nell'armonia. La volontà e il suo simbolo - l'armonia - costituiscono assieme, in estrema analisi, la logica pura. Mentre la ritmica e la dinamica sono in certo modo ancora aspetti esteriori della volontà che si rivela in simboli e portano in sé ancora l'impronta dell'apparenza, l'armonia è invece il simbolo dell'essenza pura della volontà. Nella ritmica e nella dinamica, perciò la singola apparenza deve essere ancora caratterizzata come apparenza e da questo lato la musica può essere elaborata come arte dell'illusione. Il resto irriducibile, l'armonia, parla della volontà al di fuori e all'interno di tutte le forme dell'apparenza, e quindi non è semplicemente un simbolismo del sentimento, bensì un simbolismo del mondo. Nella sfera della volontà il concetto è del tutto impotente. Ora possiamo comprendere l'importanza del linguaggio dei gesti e dei suoni per l'opera d'arte dionisiaca. Nell'originario ditirambo primaverile del popolo l'uomo non vuole esprimersi come individuo, bensì come appartenente alla sua specie. Che egli cessi di essere un uomo individuale, viene espresso attraverso il simbolismo dell'occhio, il linguaggio dei gesti: egli infatti parla e gestisce - in verità con un linguaggio di gesti potenziato, ossia con i movimenti della danza - come satiro, come essere naturale in mezzo a esseri naturali. Attraverso il suono egli esprime peraltro i più intimi pensieri della natura: si rende qui immediatamente comprensibile non soltanto il genio della specie, come avviene con il gesto, bensì il genio dell'esistenza come tale, la volontà. Con il gesto egli rimane dunque entro i limiti della specie, ossia entro il mondo dell'apparenza mentre col suono egli dissolve per così dire il mondo dell'apparenza nella propria unità primordiale, e il mondo di Maja scompare di fronte al suo incantesimo.

Ma quand'è che l'uomo naturale giunge al simbolismo del suono? Quand'è che il linguaggio dei gesti non è più sufficiente? Quand'è che il suono diventa musica? Soprattutto nei supremi stati di piacere e di dolore della volontà, quando la volontà tripudia oppure è mortalmente atterrita, in breve nell'ebbrezza del sentimento: nel grido. In confronto allo sguardo, quanto più potente e più immediato è il grido! Anche le commozioni meno violente della volontà hanno tuttavia il loro simbolismo sonoro. In generale, a ogni gesto corrisponde un suono, ma soltanto l'ebbrezza del sentimento riesce a potenziarlo in un puro accordo sonoro. «La fusione più intima e più frequente di un certo simbolismo del gestire con il suono viene chiamata linguaggio. Quando si parla, con il suono e la sua cadenza, la forza e il ritmo della sua risonanza, viene simboleggiata l'essenza della cosa, e con il movimento della bocca viene simboleggiata la rappresentazione concomitante, l'immagine, l'apparenza dell'essenza.

I simboli possono e debbono essere di molte specie: essi tuttavia si accrescono istintivamente, con una grande e saggia regolarità. Un simbolo contrassegnato è un concetto, e poiché quando si conserva qualcosa nella memoria il suono svanisce completamente, nel concetto si conserva allora solamente il simbolo della rappresentazione concomitante. Ciò che si può designare e distinguere, lo si «concepisce». Nel potenziarsi del sentimento, l'essenza della parola si rivela più chiaramente e più sensibilmente attraverso il simbolo del suono: perciò la parola risuona allora maggiormente. Il recitativo è per così dire un ritorno alla natura: il simbolo, che si ottunde con l'uso, ritrova in tal caso la sua forza originaria. Con la successione delle parole, cioè con una catena di simboli, deve venir rappresentato simbolicamente qualcosa di nuovo e di più grande: in questa elevazione a potenza, diventano nuovamente necessarie la ritmica, la dinamica e l'armonia. Questa cerchia più ampia domina ora quella più ristretta della parola singola: si rende necessaria una scelta delle parole, una nuova disposizione di esse, e comincia la poesia. Il recitativo di una frase non consiste in una successione ordinata dei suoni delle parole: una parola ha infatti unicamente un suono del tutto relativo, poiché la sua essenza, il suo contenuto rappresentato dal simbolo, è differente a seconda della sua posizione. In altri termini, in base all'unità superiore della frase e dell'essenza da essa simboleggiata, il simbolo individuale della parola viene determinato continuamente in modo nuovo. Una catena di concetti costituisce un pensiero: quest'ultimo è dunque l'unità superiore delle rappresentazioni concomitanti.

L'essenza della cosa non può essere raggiunta dal pensiero: che peraltro esso agisca su di noi come motivo, come stimolo della volontà si può spiegare per il fatto che il pensiero è già divenuto al tempo stesso un simbolo contrassegnato che accenna a un'apparenza della volontà ossia a un moto e a una manifestazione della volontà. Il pensiero, tuttavia, se è pronunciato - cioè attraverso il simbolismo del suono - agisce in modo incomparabilmente più forte e più diretto. Se cantato, esso raggiunge il culmine del suo effetto, quando il melos costituisce il simbolo comprensibile della sua volontà: se tale non è il caso, la successione dei suoni agisce su di noi, e la successione delle parole, ossia il pensiero, ci rimane lontano e indifferente. Ora, secondo che la parola debba agire prevalentemente come simbolo della rappresentazione concomitante, oppure come simbolo del moto originario della volontà, secondo cioè che debbano venir simboleggiate immagini oppure sentimenti, si distingueranno due vie della poesia, quella epica e quella lirica. La prima porta all'arte figurativa e la seconda alla musica: il diletto per l'apparenza domina la poesia epica, mentre nella lirica si rivela la volontà. La prima si libera dalla musica, e la seconda rimane sua alleata. Nel ditirambo dionisiaco, peraltro, l'esaltato seguace di Dioniso viene stimolato a potenziare massimamente tutte le sue facoltà simboliche: qualcosa di mai sentito - l'annientamento dell'individuazione, l'unificazione nel genio della specie, anzi della natura - tende a manifestarsi. Ora l'essenza della natura vuole esprimersi: è necessario un nuovo mondo di simboli, e le rappresentazioni concomitanti si trasformano in simboli attraverso le immagini di un potenziato essere umano. Tali rappresentazioni si manifestano con la massima energia fisica attraverso l'intero simbolismo del corpo, attraverso i movimenti della danza.

Anche il mondo della volontà desidera peraltro un'inaudita espressione simbolica, e le potenze dell'armonia, della dinamica, della ritmica si accrescono d'un tratto tumultuosamente. Altresì la poesia, che si trovava distribuita in due mondi, raggiunge ora una nuova sfera, ottenendo al tempo stesso la sensibilità dell'immagine, come nell'epos, e l'ebbrezza e sentimento nel suono, come nella lirica. Per cogliere l'intero scatenarsi di tutte queste forze simboliche, bisogna raggiungere quella stessa esaltazione dell'essere, la quale le ha create: il seguace ditirambico di Dioniso viene compreso soltanto dal suo simile. Perciò tutto questo nuovo mondo artistico si agita nella sua affascinante e sconosciuta magnificenza, sostenendo terribili lotte, entro la grecità apollinea.

CONSIDERAZIONI INATTUALI

L'uomo é difficile da scoprire, ed egli é per se stesso la più difficile delle scoperte.
Con lo sguardo rivolto alla Grecia antica, Nietzsche si sente alieno al mondo moderno, erede dell'ottimismo socratico, e intraprende una battaglia contro il presente e la sua mancanza di vera cultura, scrivendo le "Considerazioni inattuali": esse sono inattuali poichè enunciano tesi contrastanti con i valori dominanti e operano per costruire un nuovo futuro, anzichè per avere successo nell'immediato e conquistare l'attualità.

Le "Considerazioni inattuali" sono quattro volumi che nascono come opere di transizione e di formazione, in cui la mancanza di uno stile autonomo, inconfondibile, si sente. Nel secondo, più interessante, dal titolo Sull'utilità e il danno della storia per la vita tratta del sapere storico, Nietzsche sostiene che i fatti in sé sono stupidi: occorre l'interpretazione. Sono le teorie ad essere intelligenti. Il senso della storia è spesso nemico della vita, perchè ci rende schiavi del passato, passivi. Ne consegue una sfiducia nella propria capacità creativa, e il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie ambulanti, che annulla la personalità: "nessuno osa più esporre se stesso, ma ciascuno prende la maschera di uomo colto, di dotto, di poeta". Si diventa così "uomini che non vedono quello che anche un bambino vede". In particolare riconosce che: la storia archeologica si ferma al mediocre, si attarda ad ammirare il passato, anche nei suoi aspetti mediocri e meschini, per giustificare la presente mediocrità la storia monumentale cerca nel passato esempi e modelli positivi, che mancano nel presente, onde poter guardare al futuro con sicurezza che ciò che è stato possibile in passato lo sarà ancora solo la storia critica è davvero positiva, in quanto non si limita a favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare. Nietzsche non nega la storia, ma la vuole subordinata alla vita.. [...] Ma che la vita abbia bisogno del servizio della storia, deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la proposizione che sarà più tardi da dimostrare - secondo cui un eccesso di storia danneggia l'essere vivente. In tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione. A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia, in quanto sia permesso distinguere una specie di storia monumentale, una specie antiquaria e una specie critica. [...] La storia occorre innanzitutto all'attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente. [...] L'uomo invidia l'animale, che subito dimentica [...] l'animale vive in modo non storico, poichè si risolve nel presente [...] l'uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte. Per ogni agire ci vuole oblìo: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma anche oscurità. La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro dipendono [...] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto...
Così dice Nietzsche a proposito delle "Considerazioni inattuali" nella propria autobiografia, "Ecce homo": "Sono scritti sostanzialmente polemici. Dimostrano che io non ero un sognatore, che mi fa piacere anche di sguainare la spade; forse anche che ho il polso pericolosamente sciolto. Il primo assalto (1873) fu diretto contro la cultura tedesca che già allora consideravo con un disprezzo senza limiti. Senza senso, senza sostanza, senza scopo: una semplice opinione pubblica. [...] La seconda considerazione inattuale (1874) mette in luce ciò che vi é di pericoloso, ciò che corrode e avvelena la vita nel nostro modo di coltivare la scienza: la vita, malata a causa di questo congegno, di questo meccanismo privo di personalità, a causa dell'impersonalità del lavoratore e della falsa economia nella divisione del lavoro. Il fine: la cultura, va perduto; il mezzo: il movimento scientifico moderno, ne é barbarizzato. [...] Nella terza e nella quarta Considerazione inattuale, come indici di un concetto superiore di cultura, del ristabilimento del concetto di cultura, sono opposti due casi di egoismo, di educazione di se stessi, due tipi per eccellenza fuori dal loro tempo, pieni di sovrano disprezzo per tutto ciò che intorno a loro si chiamava impero, cultura, cristianesimo, Bismarck, successo; dico Schopenhauer e Wagner, oppure, con una parola sola, Nietzsche."

E nelle Considerazioni inattuali uno dei temi portanti é quello riguardante la storia; ora per Nietzsche "non esistono fatti, ma solo interpretazioni", vale a dire che ogni fatto che ci viene tramandato o semplicemente raccontato non é mai il fatto in sè, ma é sempre un'interpretazione da parte di chi ce lo racconta. La cultura moderna appare a Nietzsche soprattutto in preda ad una "ipertrofia" del sapere storico: la malattia storica. Alla descrizione e alla cura di questa nociva malattia, Nietzsche tenta di provvedere con la seconda delle "Considerazioni inattuali", intitolata "Sull'utilità e sul danno della storia per la vita". Essa é inattuale perchè smaschera gli elementi potenzialmente dannosi contenuti in ciò che per l'epoca presente rappresenta un vanto: la formazione e la conoscenza storica. Il criterio per formulare questa valutazione é dato dalla vita: la storia favorisce e incrementa oppure blocca e atrofizza la vita e l'azione? L' oblio per Nietzsche é necessario alla vita: per poter vivere nel presente, bisogna poter dimenticare il passato, che altrimenti ci sovrasterebbe e paralizzerebbe. Questo non significa che la storia, fondata sulla memoria del passato, sia inevitabilmente sempre perniciosa: la cosa importante é ricordare nel momento giusto e nella misura adeguata. La storia deve quindi essere posta al servizio della vita, non viceversa: il tema della vita e del suo primato su qualsiasi altra cosa é il filo che lega l'intera produzione nietzscheana.

Per valutare il carattere positivo o negativo della storia occorre assumere come criterio di riferimento e di misura la vita, ma per comprendere il posto da assegnare alla storia nella vita, senza che ciò si tramuti in un danno per la vita stessa, occorre partire da un chiarimento del rapporto che intercorre tra vita e oblio. La vita, come accennavamo, può fiorire solo grazie all'oblio, perchè é questo che permette di immergersi totalmente nella vita, nell'immediatezza del presente: se non c'é oblio la vita diventa impossibile perchè rimane paralizzata dal passato. La storia invece é memoria: essa dovrà, dunque, entrare a far parte della vita solo nella misura in cui incrementerà e favorirà la vita stessa; al di là di questo, essa genererà solo un blocco e un'atrofizzazione della vita. Nietzsche distingue tre tipi di storia, ognuno dei quali é necessario per il vivente, ma può anche svolgere una funzione negativa nei confronti della vita.

E Nietzsche distingue tra 3 forme di storia: la storia archeologica si ferma al mediocre, si attarda ad ammirare il passato, anche nei suoi aspetti mediocri e meschini, per giustificare la presente mediocrità; la storia monumentale cerca nel passato esempi e modelli positivi, che mancano nel presente, onde poter guardare al futuro con sicurezza che ciò che è stato possibile in passato lo sarà ancora; solo la storia critica è davvero positiva, in quanto non si limita ad favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare: essa trascina il passato davanti al tribunale, lo giudica e lo condanna. Il tema storico, nelle Considerazioni inattuali, é davvero forte e sentito, e Nietzsche arriva a dire, come in parte già accennato all'inizio: " l'uomo invidia l'animale, che subito dimentica [..] l'animale vive in modo non storico, poiché si risolve nel presente [..] l'uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte. Per ogni agire ci vuole oblìo: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma anche oscurità. La serenità, la buona coscienza, la lieta azione la fiducia nel futuro dipendono [..] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto. "

Ma analizziamo più in profondità le 4 considerazioni inattuali che costituiscono il testo: Ecco, subito, venirci incontro nella prima considerazione Davide Strauss, confessore, scrittore, filisteo della coltura, razionalista, senza fede, senza passione, adiposo di ottimismo, incapace di comprendere la nuova spiritualità, rappresentante perfetto della indifferenza, non originale, diffidente, avaro, soddisfatto, attaccato a irti squallori di schemi logici, non vivente l'attualità della vita. L'autore di Vom alten und neuen Glauben è antipatico come ogni omiciattolo che vuole riuscirci troppo simpatico. Nietzsche nella Prima Inattuale condanna la scienza e la storia. La realtà, Egli scrive, è dramma. E lo viene provando con la vita che fin d'ora (1873) si manifesta ardua. La Seconda Inattuale è pungente di ostilità, in nome della natura, contro il sapere storico. La Grecia presocratica e la coltura tragica, di cui Nietzsche è l'apostolo nella Germania del secolo decimonono, riempiono di attualità questo scritto del '73-'74 intorno all'utilità e al danno della storia per la vita. L'assoluto nietzscheano che squilla nell'Origine della Tragedia è non storico e soprastorico insieme. In questa Seconda Inattuale il problema storico è posto naturalisticamente come problema di utilità per la vita. Nietzsche odia i famuli alla Wagner goethiano. Di fronte alla storia Nietzsche afferma la vita. Vita è agire, vita è dimenticare. La vita è antistorica per Nietzsche. La creazione della vita da parte del genio forma il tessuto della Terza Inattuale. La coscienza etica si afferma in senso individualistico. L'individuo apporta l'eticità vivendo liberamente, in libertà geniale. L'avvento del genio giustifica di per sé stesso l'esistenza. Rammentiamoci del Prometeo incatenato di Eschilo e del Prometeo goethiano. L'individuo geniale è intuito da Nietzsche padrone e creatore della storia. Spinto dal turbine delle passioni ardenti, volatore sull'ala degl'istinti, volontario come una creazione dal nulla, agitantesi come quelle freie Mächle ohne Ethik che Nietzsche abbraccia religiosamente, Egli segue, unica norma, il comando della concreta realizzazione del proprio essere. Intorno all'uomo di genio il deserto: quale contatto tra l'unico e le sparute determinazioni dei valori degli sparuti uomini affaccendantisi? Artista, il genio è libero da ogni legge: l'arte è vita in senso religioso. L'estetica tragica è, sappiamo già, eroica.

V'è un'antitesi granitica tra quanto afferma il genio, e la negazione filitea. Irrazionalissimo, filosofo, poeta, eroe della verità, risolutamente opposto alla freddezza neutra di neutri scienziati, ecco una splendida imagine di genio ribelle in "Arturo Schopenhauer", che conosce e accetta la verità che atterrisce. Lo Schopenhauer della "Terza Inattuale" ("Schopenhauer educatore") è tutto nietzscheano: è uno Schopenhauer ridotto al sistema nervoso della volontà che scatta negl'impulsi lucidi di Nietzsche. Schopenhauer educa Nietzsche creando la coscienza individuale. Educare vuol dire rivelare la personalità del discepolo. Autobiografica, questa Terza Inattuale ci chiarifica la potenza, veramente geniale, di Nietzsche che interpreta soggettivamente Schopenhauer, cercando in lui la soluzione di problemi propri. Contro l'educazione e la coltura contemporanee vibra Nietzsche i suoi attacchi violenti. Si può parlare di "alchimia psicologica", a questo riguardo? Comunque, anche il Castiglioni nel suo lucido saggio ammette la giustezza nietzscheana della concezione etica del genio. Del quale si celebra, dionisiacamente, l'apoteosi nella Quarta Inattuale. L'eroe è glorificato in Riccardo Wagner a Bayreuth. Il mito wagneriano è ardente di ispirazione prometea. Wagner è chi afferma Dioniso. L'antitesi Dioniso-Apollo si riflette tragicamente anche in Wagner. L'irrazionale avvampa di ragione intima, misteriosa. Anche Wagner, come Prometeo, è plasmatore di uomini tragici che superano l'umanità.

UMANO, TROPPO UMANO

Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane,ah! troppo umane...
Con "Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi" (1878) Nietzsche prende le distanze sia da Schopenhauer, sia da Wagner e imbocca la via del rischiaramento logico-scientifico, inteso come "storia della genesi del pensiero". Scritti in poco più di un anno, le Opinioni e sentenze diverse e Il viandante e la sua ombra ( riuniti nell'edizione del 1886 col titolo di Umano, troppo umano ) sono testimonianze, nell'attività di Nietzsche, di un ripiegamento su se stesso: é uno stato d'animo ciclico nella sua vita, anche se talora viene mascherato, come in questo caso. Le cose non lo sospingono e gli uomini l'hanno lasciato solo, cosicchè l'autore può interessarsi più di se stesso, come fa qui il viandante, costretto a parlare con la sua ombra. Discorrendo con sè, si parla più facilmente di sè. Questo fatto tuttavia non appare in primo piano, e il lettore si trova di fronte a concreti argomenti di storia, di arte, morale, com'era naturale, del resto, perchè nell'opera di Nietzsche questo risulta il periodo più imparziale, scientifico, obiettivo. Tale oggettività é però raggiunto paradossalmente, ossia attraverso una concentrazione e una speculazione interiore. Lo dice chiaramente egli stesso: Il mio modo di riportare le cose della storia consiste propriamente nel raccontare "esperienze" personali, prendendo a spunto epoche e uomini del passato. Non é qualcosa di organico-solo cose singole mi si sono chiarite, altre no. I nostri storici della letteratura sono noiosi, perchè si impongono di parlare e di giudicare di tutto, anche dove non hanno "vissuto". La stessa critica del cristianesimo si muove con una compostezza contemplativa e riflessiva.

Indagando la nascita delle rappresentazioni di questo mondo, Nietzsche propugna una "chimica delle idee dei sentimenti morali, religiosi ed estetici", per mostrare che "anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali molto bassi e persino spregiati": per esempio il razionale dall'irrazionale, la logica dall'illogicità, il disinteresse dalla brama, l'altruismo dall'egoismo e la verità dagli errori. Egli inoltre si propone di sostituire al pathos del possesso di verità assolute "quel pathos, certo più mite e meno altisonante, della ricerca della verità".

Vista nel suo insieme, quest'opera di Nietzsche, la cui dedica a Voltaire testimonia la simpatia per l'illuminismo e la cultura filosofica francese, si presenta come un aggiornato discorso sul metodo. Tale metodo consiste nel saper rendere giustizia alla conoscenza disdegnando "tutto ciò che acceca e confonde il giudizio sulle cose", per conoscerle invece "in modo puro" ponendole "nella luce migliore" ed esaminandole "con occhio attento".

Va poi data una spiegazione del titolo: Umano, troppo umano. Nietzsche si sforza di guardarsi intorno ma tutto ciò che vede é ancora troppo volgare, troppo legato all'uomo e ai suoi errori di sempre: non é ancora arrivato il superuomo e anche il migliore degli uomini é ancora troppo umano.La pubblicazione di "Umano, troppo umano", dedicato a Voltaire, segna una vera e propria svolta nella filosofia di Nietzsche. Egli continua l'aspra polemica nei confronti della cultura del proprio tempo e delle esaltazioni del progresso storico, ma non scorge più nell'arte la via per uscire dalla decadenza, bensì nella scienza. Il pensatore tedesco ora guarda con interesse e simpatia, da una parte, all'illuminismo e alla tradizione dei moralisti francesi del Seicento e del Settecento e, dall'altra, alle scienze naturali. In questa fase la scienza é valutata in modo positivo da Nietzsche non tanto perchè in grado di pervenire a conoscenze oggettive, quanto come forma di atteggiamento metodico e, insieme, libero e spregiudicato di fronte ai valori correnti, ai presupposti, alle abitudini e alle regole imposte dalla società. Infatti, la scienza stessa ha la sua origine e la sua giustificazione nei bisogni della vita e i suoi risultati si sono storicamente trasformati in condizioni di vita, cosicchè la conoscenza si é imposta come un bisogno tra gli altri, essenziale per vivere e, in quanto tale, ha assunto un potere sempre più vasto nel mondo moderno. Ma questo potere crescente non dipende dal fatto che la scienza sia un sapere disinteressato, che abbia come scopo la "verità" e sia capace di carpirla.

Intanto, é necessario osservare, a parere di Nietzsche, che anche l' "errore" può essere utile alla vita e che la stessa promozione della scienza nell'età moderna é avvenuta grazie ad alcuni errori inconsapevoli. Alla scienza, infatti, sono stati erroneamente attribuiti il potere di cogliere la bontà e la sapienza divina che regge l'universo e la prerogativa di essere lo strumento fondamentale per realizzare la felicità umana. Sono questi errori che hanno fatto aumentare l'importanza della scienza nella vita moderna. In realtà, la rappresentazione del mondo, fornita dalle scienze, non coglie affatto le cose come sono in se stesse, in quanto non può andare oltre l'apparenza. Anche la scienza, infatti, ben lontana dall'essere disinteressata e pacifica e, quindi, in contrasto con i presunti istinti cattivi degli uomini, nasce dal bisogno vitale di avere certezze e rassicurazioni, per poter sopravvivere: é tale esigenza che ha fatto escogitare i princìpi erronei sui quali si fonda la scienza, come l'esistenza di legami causali tra cose ed eventi o la possibilità di numerare e di compiere astrazioni e generalizzazioni, al fine di cogliere presunte essenze stabilite delle cose. Ammettere che la scienza possa nascere da errori e finzioni pare in contrasto con i consueti giudizi di valore, eppure é possibile, secondo Nietzsche, che l'apparenza, l'illusione, l'interesse personale abbiano per la vita un valore superiore alla verità e al disinteresse, anzi é possibile che i due piani siano intrecciati, anzichè contrastanti.

La filosofia e la scienza hanno la loro origine più profonda e recondita, più che nell'istinto di conoscenza, in un istinto vitale che si é servito della conoscenza come strumento per la vita stessa. Così dice Nietzsche in un celebre aforisma del testo:

Prossimi alla follia. - La somma dei sentimenti, delle conoscenze, delle esperienze, l'onere complessivo della civiltà, insomma, è divenuto così grande che c'è un pericolo generalizzato di sovreccitazione della capacità nervosa e mentale, anzi, le glassi colte dei paesi europei sono ormai completamente nevrotiche e in quasi tutte le grandi famiglie c'è qualcuno prossimo alla follia. E' vero che oggi si favorisce la salute in tutti i modi; ma fondamentalmente rimane la necessità di una riduzione di quella tensione del sentimento, di quello schiacciante onere della civiltà che, anche qualora dovesse venire pagato con gravi perdite, ci fa tuttavia fortemente sperare in un nuovo Rinascimento. L'intera opera é talvolta pervasa da un senso di ambiguità, con il quale il pensatore tedesco vuol dimostrare che ciò che é bene può anche essere male (e viceversa): Pieno di riguardi. - Non voler offendere né danneggiare nessuno può essere segno di una mentalità equa, ma anche di una timorosa, egli afferma amaramente; oppure egli dice con un pizzico di ironia che l'ipocrita più raffinato. - Non parlare per niente di sé è un'ipocrisia molto raffinata.

Ma anche in quest'opera sullo sfondo c'é l'idea tipicamente nietzscheana della volontà di potenza, secondo la quale ogni nostra azione ha come fine ultimo l'aumento del nostro potere:

Bontà materna. - Certe madri hanno bisogno di figli felici onorati; altre di figli infelici: altrimenti la loro bontà materna non può manifestarsi. Ma non mancano le critiche rivolte ai bugiardi e agli ipocriti, contro cui Nietzsche si scaglia per tutto il corso della sua vita: Contro i visionari. - Il visionario nega la verità di fronte a se stesso, il bugiardo solo di fronte agli altri. Ed é poi evidente in un certo senso il biasimo mosso alla società moderna, con i suoi costumi e le sue mode:Musica d'oggi. - Questa musica modernissima, con i suoi polmoni forti e i nervi deboli, è la prima a spaventarsi di se stessa. Troppo e troppo poco. - Oggi gli uomini vivono troppe cose e riflettono troppo poco: hanno insieme fame e colica, e perciò diventano sempre più magri, per quanto mangino. Chi oggi dice: "Non mi è mai successo niente", è uno sciocco. Dura é anche la critica ai deboli, a quelli che, secondo la morale cristiana, esercitano l'indulgenza e la pazienza: Non far valere il proprio diritto. - Esercitare il potere costa fatica e richiede coraggio. Perciò tanti non fanno valere il loro buon, buonissimo diritto, perché questo diritto è una specie di potere, e loro invece sono troppo pigri o troppo vigliacchi per esercitarlo. Indulgenza e pazienza vengono chiamate le virtù che mascherano questi difetti.

Ma che cosa é, in buona fine, la chimica delle idee e dei sentimenti ? Ce lo spiega Nietzsche nell'apertura di "Umano, troppo umano": "I problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto quasi la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall'irrazionale, ciò che sente da ciò che é morto, la logica dall'illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall'egoismo, la verità dagli errori? La filosofia metafisica ha potuto finora superare questa difficoltà negando che l'una cosa nasce dall'altra e ammettendo per le cose stimate superiori un'origine miracolosa, che scaturirebbe immediatamente dal nocciolo e dall'essenza della 'cosa in sè'. Invece la filosofia storica, che non é più affatto pensabile separata dalle scienze naturali, ed é il più recente di tutti i metodi filosofici, ha accertato in singoli casi (e questo sarà presumibilmente il suo risultato in tutti i casi), che quelle cose non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o metafisica, e che alla base di tale contrapposizione sta un errore di ragionamento: secondo la sua spiegazione, non esiste, a rigor di termini, nè un agire altruistico nè un contemplare pienamente disinteressato, entrambe le cose sono soltanto sublimazioni, in cui l'elemento base appare quasi volatilizzato e solo alla più sottile osservazione si rivela ancora esistente.

Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci veramente dato, é una chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimentiamo in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e della società, e perfino nella solitudine: ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse col risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e perfino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini? L'umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull'origine e i princìpi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sè l'inclinazione opposta?"

Ma in "Umano, troppo umano" Nietzsche tratta anche di politica, prevedendo con grande acutezza una ormai prossima democratizzazione dell'Europa; per quel che riguarda il socialismo, Nietzsche, suo acerrimo nemico, ravvisa in Platone l'archegeta di tale movimento; ma la parte più affascinante é quella conclusiva: l'opera si conclude infatti con quello che il pensatore tedesco definisce un "aureo motto": "All'uomo sono state poste molte catene, affinchè egli disimpari a comportarsi come un animale; e veramente egli è divenuto più mite, spirituale, gioioso e assennato di tutti gli animali. Ma ora soffre ancora del fatto di aver portato per tanto tempo le catene, di aver mancato per tanto tempo di aria buona e di movimento libero; queste catene però sono, lo ripeterò sempre di nuovo, gli errori gravi e insieme sensati delle idee morali, religiose e metafisiche. Solo quando anche la malattia delle catene sarà superata, la prima grande meta sarà veramente raggiunta: la separazione dell'uomo dagli animali.- Ora noi siamo impegnati nel nostro lavoro di togliere le catene e ci è necessaria, in tale circostanza, la massima prudenza.

La libertà dello spirito può essere data solo all'uomo nobilitato; a lui solo rende vicino l'alleggerimento della vita spargendo balsamo sulle sue ferite; egli per primo può dire di vivere per la gioia e per nessun altro scopo; e su ogni altra bocca il suo motto sarebbe pericoloso: pace intorno a me e un prender piacere a tutte le cose più vicine.- Con questo motto per singoli uomini, egli si circonda di un'antica, grande e toccante parola, che fu detta per tutti, e che si è fermata sopra l'umanità intera, come un motto e un simbolo, per cui è destinato a perire chiunque ne adorni troppo presto la propria bandiera,- per cui è perito il cristianesimo. Ancora, così sembra, non è tempo che a tutti gli uomini possa accadere come a quei pastori che videro rischiarato il cielo sopra di sé e udirono quella parola: 'Pace in terra e agli uomini un prender piacere gli uni agli altri'.- Questo è ancora il tempo degli individui."

Vi é poi il celeberrimo dialogo tra il viandante e la sua ombra: é Nietzsce che dialoga con se stesso, per molti versi.
*
* *

L'ombra: Giacché è tanto tempo che non ti sento parlare, vorrei dartene un'occasione.

Il viandante: Parla - dove? e chi? è quasi come se sentissi parlare me stesso, solo con voce più debole della mia.

L'ombra (dopo una pausa): Non sei contento di avere un'occasione di parlare?

Il viandante: Per dio e per tutte le cose a cui non credo, è la mia ombra che parla: la sento, ma non ci credo.

L'ombra: Accettiamolo e non pensiamoci oltre, tra un'ora sarà tutto finito.

Il viandante: Pensai proprio così, quando in un bosco vicino a Pisa vidi prima due e poi cinque cammelli.

L'ombra: E' bene che ambedue siamo ugualmente indulgenti verso di noi, se per una volta la nostra ragione tace: così anche nel nostro colloquio non ci adireremo e non metteremo subito le manette all'altro se la sua parola ci suonerà incomprensibile. Se proprio non si sa rispondere, basta già dire qualcosa: questa è l'equa condizione alla quale io mi intrattengo con qualcuno. In un dialogo un po' lungo, anche il più savio diventa una volta pazzo e tre volte babbeo.

Il viandante: Le tue modeste pretese non sono lusinghiere per colui al quale le confessi.

L'ombra: Debbo dunque lusingare?

Il viandante: Pensavo che l'ombra dell'uomo fosse la sua vanità: ma questa non chiederebbe mai: "debbo dunque lusingare?".

L'ombra: La vanità umana, se ben la conosco, non domanda neppure, come io ho già fatto due volte, se può parlare: parla sempre.

Il viandante: Solo adesso mi accorgo quanto sono scortese nei tuoi confronti, mia cara ombra: non ho ancor neppure fatto parola su quanto mi rallegra di ascoltarti, e non solo di vederti. Lo sai, io amo l'ombra come amo la luce. Perché esistano la bellezza del volto, la chiarezza del discorso, la bontà e fermezza del carattere, l'ombra è necessaria quanto la luce. Esse non sono avversarie: anzi si tengono amorevolmente per mano, e quando la luce scompare, l'ombra le scivola dietro.

L'ombra: E io odio quel che odi tu, la notte; amo gli uomini perché sono seguaci della luce, e mi allieta lo splendore che è nel loro occhio quando conoscono e scoprono, loro, gli infaticabili conoscitori e scopritori. Quell'ombra che tutte le cose mostrano quando su di esse cade il sole della conoscenza - io sono anche quell'ombra.

Il viandante: Credo di capirti, anche se ti sei espressa in modo un po' umbratile. Ma avevi ragione: i buoni amici si dicono talvolta una parola oscura, come segno d'intesa, che dev'essere un enigma per ogni altra persona. E noi siamo buoni amici. Perciò basta con i preamboli! Centinaia di domande premono il mio animo, e il tempo in cui tu potrai rispondervi è forse troppo breve. Vediamo su che cosa incontrarci in fretta e pacificamente.

L'ombra: Ma le ombre sono più timide degli uomini: non dirai a nessuno come abbiamo parlato insieme!

Il viandante: Come abbiamo parlato insieme? Il cielo mi guardi da lunghi ed elaborati dialoghi scritti! Se Platone avesse avuto meno gusto a elaborare, i suoi lettori avrebbero più gusto a lui. Un dialogo che nella realtà delizia è, se trasformato in scrittura e letto, un quadro con prospettive del tutto false: tutto è troppo lungo o troppo corto. - Tuttavia potrò forse comunicarti su che cosa ci siamo accordati?

L'ombra: Questo mi basta; perché tutti vi riconosceranno solo le tue opinioni; nessuno si ricorderà dell'ombra.

Il viandante: Forse ti sbagli, amica! Sinora nelle mie opinioni si è vista più l'ombra che me.

L'ombra: Più ombra che luce? E' possibile?

Il viandante: Sii seria, cara matta! La mia prima domanda esige subito serietà!

L'ombra: Di quel che hai detto, più di tutto mi è piaciuta una promessa: che volete ridiventare buoni vicini delle cose prossime. Questo tornerà a vantaggio anche di noi, povere ombre. Perché, ammettetelo, sinora ci avete calunniato anche troppo volentieri.

Il viandante: Calunniato? Ma perché non vi siete difese? Avevate pur vicine le nostre orecchie.

L'ombra: Ci sembrava appunto di esservi troppo vicine per poter parlare di noi stesse.

Il viandante: Delicato! Assai delicato! Ah, voi ombre siete "uomini migliori" di noi, me ne accorgo.

L'ombra: Eppure ci avete chiamato "importune" - noi, che almeno una cosa sappiamo fare - tacere e attendere - nessun inglese lo sa far meglio. £ vero, ci si trova molto, molto spesso al seguito dell'uomo, ma mai come sue schiave. Quando l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo: a tanto arriva la nostra libertà.

Il viandante: Ahimè, tanto più spesso è la luce a fuggir l'uomo e allora anche voi lo abbandonate.

L'ombra: Ti ho abbandonato spesso con dolore: a me, avida di sapere, tante cose dell'uomo sono rimaste oscure, perché non posso esser sempre intorno a lui. Pur di possedere una totale conoscenza dell'uomo, sarei volentieri la tua schiava.

Il viandante: Lo sai tu, lo so io, se tu da schiava non diventeresti improvvisamente padrona? Oppure se tu rimarresti schiava ma, disprezzando il tuo padrone, condurresti una vita di umiliazione, di disgusto? Accontentiamoci ambedue della libertà, così come è rimasta a te - a te e a me! Giacché la vista di un essere non libero amareggerebbe le mie gioie più grandi; le migliori cose mi ripugnerebbero, se qualcuno dovesse dividerle con me, - non voglio sapere di schiavi intorno a me. Per questo non amo il cane, il pigro e scodinzolante parassita, che è diventato "cane" solo come servo degli uomini, e di cui essi sogliono addirittura decantare la fedeltà al padrone e il fatto di seguirlo come la sua. -

L'ombra: Come la sua ombra, essi dicono. Forse anch'io oggi ti ho seguito per troppo tempo? E' stato il giorno più lungo, ma ne siamo alla fine, abbi ancora un attimo di pazienza! Il prato è umido, ho i brividi.

Il viandante: Oh, è già tempo di separarsi? E ho dovuto alla fine farti ancora male, l'ho visto: sei diventata più scura.

L'ombra: Arrossivo, nel colore in cui posso farlo. Mi è venuto in mente che spesso sono stata ai tuoi piedi come un cane, e che tu allora -

Il viandante: E, in tutta fretta non potrei farti ancora

L'ombra: Nessuno, tranne quello che ebbe il "cane" filosofico davanti al grande Alessandro: togliti un poco dal sole, ho troppo freddo.

Il viandante: Che debbo fare?

L'ombra: Cammina sotto quei pini e guarda i monti: il sole tramonta.

Il viandante: Dove sei? Dove sei?

AURORA. PENSIERI SUI PREGIUDIZI MORALI

Con questo libro comincia la mia campagna contro la morale.

"Aurora" é l'opera con cui Nietzsche si avvia verso quella "guarigione", che viene a coincidere con la sua perfetta maturità, ed é anche l'opera in cui diventa centrale la "passione della conoscenza", a cui Nietzsche si abbandonerà fino all'ultimo. Lo stile aforistico raggiunge qui uno dei suoi apici: con le sue antenne ipersensibili Nietzsche si avvicina ai temi più vari: dal Cristianesimo ai valori morali moderni, dalla dècadence alla "cattiva coscienza", dalla civiltà greca al romanticismo tedesco. E ce li presenta col gesto più fermo e insieme delicato, in un libro dove -egli stesso ci consiglia- si può "metter la testa dentro e sempre di nuovo fuori, senza trovare intorno a sè nulla di consueto".

L'opera fu composta nel 1881 e dimostra il desiderio di Nietzsche di scavare nei presupposti della morale, che vengono ricondotti principalmente alla pressione della paura e del conformismo sociale ( "spirito del gregge" ). D'altro canto in tutte le forme della morale, anche quelle del sacrificio e dell'ascetismo proprie del Cristianesimo, si cerca di soddisfare comunque il senso della potenza, che é il connotato di ogni agire umano. " Con questo libro comincia la mia campagna contro la morale ", dirà Nietzsche stesso, nell'anelito di conservare la vivezza delle intuizioni primitive. La ricerca dell'essenza della morale si sviluppa attraverso la critica di quelli che sono stati posti come i suoi fondamenti tradizionali: il dovere (Kant), l'utile (Spencer), la compassione (Shopenhauer). A sostituirli sembra intervenire il concetto di paura. Lo stretto condizionarsi reciproco degli uomini nella società (per cui il valore di un uomo risiede completamente nel giudizio che il prossimo si forma su di lui) anticipa il futuro concetto di "gregge" e costituisce il terreno da cui sorge il concetto stesso di morale; in contrapposizione a ciò va delineandosi ora, per la prima volta, il concetto di "individuo", che sintetizza ciò che gli uomini intendono per immorale.

La critica della società moderna si avvia a diventare argomento predominante. "Si corrompe nel modo più sicuro un giovane, se gli si insegna a stimare chi la pensa come lui più di chi la pensa diversamente". La bruciante sentenza eraclitea, "ho indagato me stesso", viene qui raccontata in un libro intero: meditando su di sè, Nietzsche vi ha trovato il mondo; su tutti gli oggetti che illustra, lui ha lasciato l'impronta di sè, del conoscitore. Il lettore più ingenuo potrebbe rimanere incantato dal bel apparato artistico messo in atto da Nietzsche con "Aurora", pensando che in realtà non voglia comunicare nulla, ma é Nietzsche stesso ad esortare alla diffidenza, ad andare oltre il significato superficiale: "Non c'é cosa che artisti, poeti e scrittori temano di più di quell'occhio che vede la loro piccola frode... quell'occhio che chiede loro conto se vollero vendere poco per molto" (af. 223). In "Umano, troppo umano" il filosofo tedesco aveva presentato una scienza fatta di intuizioni, in "La gaia scienza" fornirà ancora una scienza, la cui indicazione é di identificarsi con la poesia, qui lui dà sempre una scienza, la cui indicazione é di identificarsi con la poesia, qui lui dà sempre una scienza, i cui contenuti sono più variegati e fluttuanti, non appartengono alla sfera politica e statale, raramente si concentrano su figure di filosofi o artisti.

Ed é bene citare due esempi per quale nobilissimo alibi egli usi della parola scienza in Aurora: nell'af. 76, in cui si tratta della calunnia cristiana contro l'amore e la procreazione, troviamo scritto: "Infine questa diabolizzazione di Eros ha avuto un epilogo da commedia [...] che fin nel bel mezzo della nostra epoca, la vicenda amorosa é divenuta l'unico reale interesse comune a tutti gli ambienti- in una esagerazione inconcepibile all'antichità, esagerazione cui seguirà più tardi, quando che sia, anche uno scoppio di ilarità". Ecco un bell'esempio di scienza, intesa come pura intuizione, basata sulla pura esperienza immediata. E' una valutazione del presente (1800) illuminata da un giudizio del passato (visione del mondo cristiana): ed é per questo che si può parlare di vera e propria intuizione storica, in cui Nietzsche apre una prospettiva nella storia, passata, presente e futura. Ma sarebbe riduttivo intendere l'intera scienza nietzscheana come "intuizione storica"! Nietzsche, nella prefazione, non esita a definire il suo libro come "pessimista fin nel cuore della morale, fino a trascendere la fiducia nella morale", ritenendolo così una produzione tedesca a tutti gli effetti; egli non concorda, come già ci aveva dato modo di intendere nella "Nascita della tragedia", nel trovare a tutto una spiegazione razionale e dice esplicitamente, a proposito: "Tutte le cose che vivono a lungo, s'impregnano a poco a poco di ragione, a tal punto che la loro provenienza dall'irrazionale diventa perciò improbabile"; e del resto "com'é venuta nel mondo la ragione?Com'é giusto che arrivasse, in un modo irrazionale, attraverso il caso."

Così Nietzsche può muover guerra al concetto di causalità ( con la quale si vedono solo le figure di cause ed effetti, senza però capire nulla di più profondo!), a quello di finalità ( non abbiamo gli occhi al fine di vedere: é il caso che ce li ha donati!) e a quello di volontà (ridiamo di chi dice "voglio che esca il sole!" e allo stesso modo dovremmo ridere di chi dice di voler ogni altra cosa!). Gli stessi matrimoni sono dettati dal caso, spiega Nietzsche per dar la prova alla tribuna dei lettori che esso impera ovunque: "Se fossi un dio, e un dio benigno, i matrimoni degli uomini mi farebbero perdere la pazienza più di ogni altra cosa. Il fatto che un individuo possa arrivare ben lontano, ai suoi 70, anzi ai suoi 30 anni, fa stupire anche gli dei! Ma se poi si osserva come abbandoni il patrimonio e il retaggio delle sue lotte e delle sue vittorie, l'alloro della sua umanità, appendendolo al primo posto che trova, dove una femminuccia lo coglie; se si osserva quanto é valente nel conquistare e incapace nel conservare, anzi come non pensi affatto che potrebbe preparare una vita ancor più ricca di vittorie mediante la procreazione, si viene a perdere, come già si é detto, la pazienza, e si dice a se stessi: dall'umanità, a lungo andare, non può venir fuori nulla; i singoli vengono sprecati, e la causalità dei matrimoni rende impossibile ogni razionalità di un grande cammino dell'umanità- cessiamo di essere gli appassionati spettatori e giullari di questa commedia senza meta!"

Ed é tipicamente un pregiudizio morale dei dotti il credere di sapere ogni cosa meglio nel presente che nel passato. Ma i pregiudizi cristiani sono altrettanto forti e arrivano a porre limiti alla conoscenza umana: "Chi vorrà ribellarsi alla deduzione cui amano giungere i credenti: la scienza non può essere vera perchè nega Dio. Di conseguenza essa non deriva da Dio; di conseguenza non é vera, poichè Dio é la verità? Non nell'inferenza, bensì nel presupposto sta l'errore: e se Dio appunto non fosse la verità, e questo appunto fosse provato? Se egli fosse la vanità, la bramosia del potere, l'impazienza, il terrore, l'estasiato ed inorridito delirio degli uomini?" (af. 93).E d'altronde la sottomissione ad una morale, spiega Nietzsche, é qualcosa non morale! Ed ecco che poi Nietzsche analizza la società tedesca e la sua morale: lo spirito tedesco é particolarmente incline ad ubbidire agli ordini impartiti, ma, al momento giusto, sa anche acquisire la sua autonomia e la sua creatività personale: i Tedeschi sono capaci di grandissime cose, ma é improbabili che le facciano secondo Nietzsche! Ed é per questo che insito in loro vi é qualcosa di superiore, che prima o poi dovrà manifestarsi. In tutta l'opera aleggia un clima particolare, si potrebbe dire desueto alle istanze di cui Nietzsche si fa portavoce: si ha la sensazione che il pensatore tedesco non voglia lasciar trapelare dove si rivolge la sua simpatia e dove la sua antipatia. Così si preoccupa persino di non offendere troppo il Cristianesimo, come fa invece nelle altre opere, riconoscendogli, qua e là, qualche pregio.

Ma c'é un punto in cui Nietzsche cade in trappola, applicando con eccessiva disinvoltura questa tecnica del rovesciamento. Ed é quando, con stupefazione, lo ascoltiamo tessere un elogio della dialettica, la sua bestia nera di sempre: nell'af. 544 leggiamo infatti: "Lo vedo bene: i nostri giovinetti [...] pretendono oggi dalla filosofia proprio il contrario di quel che ne ricevevano i Greci. Chi non sente il continuo tripudio che pervade ogni battuta e ogni replica in un dialogo platonico, il tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale, che cosa comprende di Platone, che cosa dell'antica filosofia? Quando si praticava il gioco asciutto e rigoroso del concetto...". Non si crede alle proprie orecchie, ma Nietzsche ribadisce: "Socrate fu colui che scoprì l'incantesimo [...] della causa e dell'effetto, del fondamento e della conseguenza: e noi uomini moderni siamo così abituati alla necessità della logica e così educati ad essa, che essa rappresenta per la nostra lingua il sapore normale, necessariamente spiacevole agli ingordi e ai boriosi. Quel che si distacca da esso, li manda in solluchero...". E in questo periodo Nietzsche é impegnatissimo nella vita politica, numerosissime sono le sue meditazioni su Napoleone e Paolo. Ma in Aurora questo non affiora e domina incontrastata la dichiarazione "dello Stato, il meno possibile!" (af. 179).

Qui si teorizza la conoscenza come supremo valore della vita e nel far questo Nietzsche si sforza di debellare il valore contrapposto, l'azione. Dal momento che é sul metro della conoscenza che l'azione viene giudicata: "Tutte le azioni sono essenzialmente ignote" (af. 116). Ma la preminenza del conoscere sull'agire non é solo puramente speculativa, si tratta anche di una preminenza morale: "E così sarebbe forse l'impulso ad agire, nient'altro, in definitiva, che un fuggire a se stessi?" (af. 549).

Splendido é poi il finale dell'opera, in cui Nietzsche arriva a paragonare gli ingegni superiori agli uccelli che spiccano il volo, che tanto più si innalzano e tanto più sembrano piccoli a quelli che non possono volare: evidente é il significato allegorico: chi si eleva al di sopra degli altri uomini, non viene compreso, viene anzi osteggiato, si cerca di tirarlo giù per riportarlo al pari dell' "armento". "Quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare. Tutti questi arditi uccelli che spiccano il volo nella lontananza, nell'estrema lontananza, di sicuro, a un certo momento non potranno più andare oltre e si appollaieranno su un pennone o su un piccolo scoglio- e per di più grati di questo miserevole ricetto! Ma a chi sarebbe lecito trarne la conseguenza che non c'è più dinanzi a loro nessuna immensa, libera via, che sono volati tanto lontano quanto è possibile volare? Tutti i nostri grandi maestri e precursori hanno finito coll'arrestarsi; e non è il gesto più nobile e il più leggiadro atteggiamento, quello con cui la stanchezza si arresta: sarà così anche per me e per te! Ma che importa a me e a te! Altri uccelli voleranno oltre! Questo nostro sapere e questa nostra fiducia spiccano il volo con essi e si librano in alto, salgono a picco sul nostro capo e oltre la sua impotenza, lassù in alto, e di là guardano nella lontananza, vedono stormi d'uccelli molto più possenti di quanto siamo noi, i quali agogneranno quel che agognammo noi, in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare, mare! E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere l'India, ma che fu il nostro destino a naufragare nell'infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure"

COSI' PARLO' ZARATHUSTRA

Fra i miei scritti sta a sè il mio Zarathustra. Con esso io ho fatto all'umanità il più grande regalo che le sia mai stato fatto.
L' idea di Così parlò Zarathustra Balenò a Nietzsche come una folgorazione nell' agosto del 1881, in Engadina ( Svizzera ), " 6000 piedi al di là dell' uomo e del tempo ". Essa coincise con il rivelarsi dell' " eterno ritorno ", una delle teorie più fortemente nietzschiane. Lo Zarathustra rielabora e ripresenta tutto ciò che Nietzsche era stato fino allora in una forma assolutamente nuova, e soprattutto in una forma incompatibile con i canoni della filosofia occidentale. " Un libro per tutti e per nessuno " é il sottotitolo di Così parlò Zarathustra: proprio perchè obbliga il pensiero a parlare immediatamente, fuori da ogni tecnicismo, in una forma poetica e profetica: tutti possono leggerlo, ma chi può capirne fino in fondo il significato ? Probabilmente nessuno. Non a caso ogni volta che si apre questo libro carico di enigmi, esso appare sorprendente e diverso, quasi se non si esaurisse mai il suo significato. Nietzsche era consapevole di questa ambiguità e di questa polisemia del suo libro, e in certo modo dell' intera sua opera ; in una lettera del 1884 scriveva: " Chissà quante generazioni dovranno trascorrere per produrre alcune persone che riescano a sentire dentro di sè ciò che ho fatto ! E anche allora mi terrorizza il pensiero di tutti coloro che, ingiustificatamente e del tutto impropriamente, si richiameranno alla mia autorità. Ma questo é il tormento di ogni grande maestro dell' umanità: egli sa che, in date circostanze del tutto accidentali, può diventare con la stessa facilità una sventura o una benedizione per l' umanità ".

Così parlò Zarathustra è l'opera che riassume il pensiero dell'ultima fase intellettuale di Nietzsche. L'opera è scritta secondo un modello che richiama lo stile del Nuovo Testamento e questa scelta di stesura in forma profetica ci fa intuire come Nietzsche, da questo periodo della sua vita in poi, si senta investito di un compito epocale, una convinzione di dover provocare un mutamento radicale di civiltà, mutamento concepito in solitudine e in un totale isolamento intellettuale. In questa opera Nietzsche prende congedo dal moralista e dallo psicologo e prende i toni di un profeta e di un lirico. Negli scritti successivi tale rottura va perduta, ed anche il respiro profetico. L'esame del contenuto porta comunque a scoprire una continuità di sviluppo: che Al di là del bene del male abbia i medesimi contenuti di Così parlò Zarathustra lo dice Nietzsche stesso; che un'uguale tematica sia già presente nella Gaia scienza è facilmente dimostrabile da un'analisi dell'opera e dei relativi frammenti postumi. Ma i contenuti non sono l'essenziale per Nietzsche: in quest'opera ciò che conta è il dettaglio, la singola visione, il tempo, il colore musicale, piuttosto che non i pensieri di fondo. Questo non inteso letterariamente (che sia essenziale la forma) ma filosoficamente. Piuttosto la forma è rivelatrice di un tentativo particolare di comunicazione, dove ciò che importa è anzitutto quello che vuol essere comunicato. Poesia e filosofia consistono in questo: rievocare, collegare (in un certo modo e in una certa forma) immagini, sentimenti e concetti preesistenti; e dove venga usato un linguaggio simbolico, alludere (attraverso una trasposizione immaginativa) a immagini, sentimenti e concetti già costituiti. Ma quando questi manchino, ossia quando ciò che è manifestato da un'espressione non sia esso stesso espressione, bensì una certa immediatezza di vita, fuori della rappresentazione e della coscienza, allora intervengono forme espressive analoghe a quelle di Così parlò Zarathustra.

Questo libro sembra sorgere perciò dalla sfera delle espressioni primitive, ed è arduo classificarlo come opera filosofica. Una filosofia è di regola una manipolazione di concetti, i quali esprimono oggetti sensibili, mentre qui immagini e concetti non esprimono né concetti né cose concrete, sono simboli di qualcosa che non ha volto, sono espressioni nascenti. Così parlò Zarathustra è "un libro per tutti", è stato un serio tentativo di portare la filosofia su un piano esoterico, strappandola al tecnicismo, all'isolamento di cerchie senza risonanza, alla derisione che viene riservata a un'arte pretenziosa fuori moda. E' anche "un libro per nessuno", una battaglia di vasta portata,: ma quello che sul fondo di essa vi è di remoto, nascosto, inaccessibile, intorbida la chiarezza della comunicazione. La melanconia di Zarathustra, i suoi lunghi silenzi, i sogni orrendi, l'ora senza voce, alludono di continuo ad una natura precocemente armata contro la vita, esposta al contagio pessimistico. Ma non c'è solo sensibilità, ma anche reattività, quella di un superuomo che declassa la ragione e afferma di nuovo la naturalità. Ma chi é Zarathustra, il folgorante profeta del superuomo, in fin dei conti ? Egli é il " senzadio " per eccellenza, il sostenitore della teoria del superuomo e dell' eterno ritorno ; dopo essersi allontanato dalla sua città che aveva 30 anni e dopo averne passati 10 sui monti, in un luogo ameno e isolato, in compagnia di se stesso e dei suoi amici animali, all' età di 40 anni sente il bisogno di tornare in mezzo agli uomini per metterli a conoscenza della teoria del superuomo, per insegnare loro ad apprezzare il mondo terreno per quello che é, senza vivere aspettando un presunto mondo ultraterreno che non può che non esserci.

Giunto a trent' anni, Zarathustra lasciò il suo paese e il lago del suo paese, e andò sui monti. Qui godette del suo spirito e della sua sua solitudine, nè per dieci anni se ne stancò. Alla fine si trasformò il suo cuore, - e un mattino egli si alzò insieme all' aurora, si fece al cospetto del sole e così gli parlò: - "Astro possente ! Che sarebbe la tua felicità, se non avessi coloro ai quali tu risplendi ! Per dieci anni sei venuto quassù, alla mia caverna: sazio della tua luce e di questo cammino saresti divenuto, senza di me, la mia aquila, il mio serpente. Noi però ti abbiamo atteso ogni mattino e liberato dal tuo superfluo ; di ciò ti abbiamo benedetto. Ecco ! La mia saggezza mi ha saturato fino al disgusto ; come l' ape che troppo miele ha raccolto, ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei spartire i miei doni, finchè i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza. Perciò devo scendere a giù in basso: come tu fai la sera, quando vai dietro al mare e porti la luce al mondo infero, o ricchissimo fra gli astri ! Anch' io devo al pari di te, tramontare, come dicono gli uomini, ai quali voglio discendere. Benedicimi, occhio pacato, scevro d' invidia anche tu alla vista di una felicità troppo grande ! Benedici il calice, traboccante a far scorrere l' acqua d' oro, che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza ! Ecco ! Il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo". Così cominciò il tramonto di Zarathustra. Zarathustra fa il suo arrivo in città e al vedere una folla non può resistere: ecco allora che pronuncia la teoria del superuomo ( oltreuomo ), sostenendo che l' uomo in sè non sia un punto di arrivo, ma di partenza per dare un qualcosa di più, il superuomo appunto ; questi afferma la vita accettandone la sofferenza, il dolore e le contraddizioni che l'accompagnano con gioioso (dionisiaco) amore per l'esistenza; è un creatore di valori ed è per questo privo di valori fissi e immutabili, al di là del bene e del male, artefice di una "morale autonoma ".

Ecco come Zarathustra arringa la folla: Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una gran massa di popolo: era stata promessa infatti l'esibizione di un funambolo. E Zarathustra parlò così alla folla:Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo? Che cos'è per l'uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha da essere l'uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all'uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l'uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. E il più saggio tra voi non è altro che un'ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell'imperscrutabile più del senso della terra! In passato l'anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma questa anima era anch'essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di questa anima! Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell'anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere? Davvero, un fiume immondo è l'uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L'ora del grande disprezzo. L' ora in cui vi prenda lo schifo per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù. L' ora in cui diciate: " Che importa la mia felicità ? Essa é indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l' esistenza ! " L' ora in cui diciate: " Che importa la mia ragione ! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo ? Essa é indigenza e feccia e un miserabile benessere ". L' ora in cui diciate: " Che importa la mia virtù ! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male ! Tutto ciò é indigenza e feccia e benessere miserabile ! ". L' ora in cui diciate: " Che importa la mia giustizia ! Non mi vedo trasformato in brace ardente Ma il giusto é brace ardente ! ". L' ora in cui diciate: " Che importa la mia compassione ! Non é forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini ? Ma la mia compassione non é crocefissione ". Avete già parlato così ? Avete mai gridato così ? Ah, vi avessi già udito gridare così ! Non il vostro peccato - la vostra accontentabilità grida al cielo, la vostra parsimonia nel vostro peccato grida al cielo! Ma dov'è il fulmine che vi lambisca con la sua lingua! Dov'è la demenza che dovrebbe esservi inoculata? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è quel fulmine e quella demenza! - Zarathustra aveva detto queste parole, quando uno della folla gridò: "Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!". E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all'opera.

Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell'uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell'uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all'altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli vuole il proprio tramonto. Io amo colui che lavora e inventa, per costruire la casa al superuomo, e gli prepara la terra, l'animale e la pianta: giacché così egli vuole il proprio tramonto. Io amo colui che ama la sua virtù: giacché virtù è volontà di tramontare e una freccia anelante. Io amo colui che non serba per sè una goccia di spirito, bensì vuol essere in tutto e per tutto lo spirito della sua virtù: in questo modo egli passa, come spirito, al di là del ponte. Io amo colui che della sua virtù fa un' inclinazione e un destino funesto: così egli vuole vivere, e insieme non più vivere, per amore della sua virtù. Io amo colui che non vuole avere troppe virtù. Una virtù é più virtù di due, perchè essa é ancor più il cappio cui si annoda un destino funesto. Io amo colui l' anima del quale si dissipa e non vuol essere ringraziato, nè dà qualcosa in cambio: giacchè egli dona sempre e non vuol conservare se stesso. Io amo colui che si vergogna quando il lancio dei dadi riesce in suo favore e si domanda: son forse un baro ? egli infatti vuole perire. Io amo colui che getta avanti alle proprie azioni parole auree e mantiene più di quanto prometta: egli infatti vuole il proprio tramonto. Io amo colui che giustifica gli uomini dell' avvenire e redime quelli del passato: a causa degli uomini del presente egli infatti vuole perire. Io amo colui che castiga il suo dio perchè ama il suo dio: giacchè dovrà perire per l' ira del suo dio. Io amo colui l'anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le cose sono dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto. Io amo colui che è di spirito libero e di libero cuore: il suo cervello, in tal modo, non è altro che le viscere del cuore, ma il suo cuore lo spinge a tramontare. Io amo tutti coloro che sono come gocce grevi, cadenti una a una dall'oscura nube incombente sugli uomini: essi preannunciano il fulmine e come messaggeri periscono. Ecco, io sono un messaggero del fulmine e una goccia greve cadente dalla nube: ma il fulmine si chiama superuomo. E' particolarmente forte e carica di significati la definizione di uomo come cavo teso tra bestia e superuomo: spetta a ciascuno di noi scegliere la parte verso la quale " forzare ".

Tuttavia la folla non apprezza le parole di Zarathustra, sentendosi incapace di dar vita al superuomo, e preferisce assistere allo spettacolo del funambolo, uno spettacolo che non mette in crisi le loro concezioni e non stravolge un mondo che a loro pareva consolidato, come invece fa Zarathustra. Ecco che il funambolo cammina sul filo teso tra due torri, un cavo teso proprio come é l' uomo per Nietzsche ; improvvisamente però egli precipita e si schianta al suolo: é il destino dell' uomo dai bassi ideali, che si ostina a seguire la tradizione del bene e del male, senza lasciarsi ammaestrare dagli insegnamenti di Zarathustra: una volta precipitato, egli é ancora in vita, ma gli resta poco prima di morire: Zarathustra gli si avvicina incuriosita ed egli fa le sue ultime riflessioni prima della morte, cercando di immaginare, secondo la tradizione religiosa, che cosa gli toccherà dopo la vita: sapevo da un pezzo che il diavolo mi avrebbe fatto lo sgambetto, egli dice a Zarathustra ; ma questi gli spiega che non c' é nessun aldilà, nessun " mondo dietro al mondo ": Sul mio onore amico, rispose Zarathustra, le cose di cui parli non esistono: non c' é il diavolo e nemmeno l' inferno. La tua anima sarà morta ancor prima del corpo: ormai non hai più nulla da temere !. Il funambolo, in fin di vita, accetta quanto Zarathustra gli dice e nell' atto di esalare l' anima cerca di protendere la sua mano verso quella di Zarathustra per ringraziarlo. Successivamente il saggio Zarathustra espone la grande teoria delle tre metamorfosi per diventare superuomini: attraverso le tre figure del cammello, leone, fanciullo Nietzsche riesce a spiegare il procedere umano verso la propria autoliberazione dagli idoli della superstizione e della colpa (religione e morale) verso l'innocenza dionisiaca del superuomo. Il cammello rappresenta l'uomo che teme e riverisce, che si piega davanti alla grandezza di Dio assumendo volontariamente su di sé i grandi tormenti del mondo. L'uomo poi diventa leone quando combatte contro la morale che gli è stata imposta riconoscendo il suo stato di alienazione precedente. Ma il leone possiede una "libertà da..." e non una "libertà di..." e allora per dare nuove leggi il leone deve diventare fanciullo, che rappresenta l'innocenza. I motti sono "tu devi" per il cammello, "io voglio" per il leone e "io sono" per il fanciullo.

Leggiamo l' intero passo in cui é descritto il processo: Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente - e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato. Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? - così chiede lo spirito paziente, - affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza. Non è forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore? Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell'erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell'anima? Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi? Oppure è: scendere nell'acqua sporca, purché sia l'acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuol fare paura? Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé: come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nel suo deserto. Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? "Tu devi" si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice "io voglio". "Tu devi" gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l'oro, e su ogni squama splende a lettere d'oro "tu devi!". Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei draghi: "tutti i valori delle cose risplendono su di me". "Tutti i valori sono già stati creati, e io sono ogni valore creato. In verità non ha da essere più alcun `Ìo voglio''!". Così parla il drago. Fratelli, perché il leone è necessario allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? Creare valori nuovi - di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione - di questo è capace la potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone. Prendersi il diritto per valori nuovi - questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa più sacra il "tu devi": ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà dal suo amore: per questa rapina occorre il leone. Ma ditemi, fratelli che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo. Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo. Ma Zarathustra porta un insegnamento non coglibile da tutti, ma indirizzato a pochi, agli uomini superiori: "Ah fratelli, questo dio che creai era opera e follia umana, come tutti gli dei! Uomo era, e solo un povero frammento di uomo e di io: dalla mia cenere e dalla mia vampa venne a me, questo fantasma: E in verità non mi venne dall’aldilà! Ma che avvenne fratelli? Superai me stesso, me stesso sofferente, portai la mia cenere al monte, trovai per me una fiamma più limpida. Ed ecco! Il fantasma si allontanò da me!...Un nuovo orgoglio mi insegnò il mio io, e io lo insegno agli uomini: non nascondere più la testa nella sabbia delle cose celesti, ma portala libera e scoperta, una testa terrena che crea un senso alla terra....Malati e moribondi erano quelli che disprezzavano corpo e terra e inventarono il cielo e le redentrici gocce di sangue."; il messaggio di fondo é sempre lo stesso, mantenersi fedeli alla terra senza credere in un "mondo dietro il mondo".

Dall' esperienza cittadina Zarathustra arriva a capire che gli uomini non riescono a comprendere fino in fondo le sue teorie, lo ritengono ancora qualcosa di mezzo tra un pagliaccio e un cadavere. D' altronde Zarathustra, in seguito, dirà per indurre gli uomini superiori a tenersi lontano dal " volgo ": Voi, uomini superiori, imparate questo da me: sul mercato nessuno crede a uomini superiori. E, se volete parlare lì, sia pure ! Ma la plebe dirà ammiccando: «Noi siamo tutti uguali, l' uomo é uomo ; davanti a Dio siamo tutti uguali !». Davanti a Dio ! Ma questo Dio é morto. Davanti alla plebe, però, noi non vogliamo essere uguali. Uomini superiori, fuggite il mercato ! ; é evidente che il popolo non vorrà mai riconoscere l' esistenza di uomini superiori ( superuomini ), un pò perchè legato alla tradizione cristiana che vuole gli uomini tutti uguali a Dio, un pò perchè, come Nietzsche dirà in Umano, troppo umano si cerca l' uguaglianza proprio perchè si ha timore di risultare inferiori nel confronto: si cerca cioè di tirare giù dal suo volo l' uomo superiore, per riportarlo al livello degli altri uomini, a terra. Ecco allora che il principale nemico di Zarathustra diventa lo " spirito di gravità ", questa forza che attira ogni cosa verso terra, impedendo all' uomo di elevarsi verso il cielo: Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare. E quando ho visto il mio demonio, l' ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne: era lo spirito di gravità, grazie a lui tutte le cose cadono. Non con la collera, col riso si uccide. Orsù, uccidiamo lo spirito di gravità. Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre. Ho imparato a volare: da quel momento non voglio più essere urtato per smuovermi. Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso é un dio a danzare, se io danzo. Nietzsche dichiara guerra allo spirito di gravità facendo dire a Zarathustra: Nutrito di cose innocenti, con poco, sempre pronto e impaziente di volare, di volar via, questa é la mia specie: come potrebbe non esservi qualcosa degli uccelli ! Tanto più che io sono nemico dello spirito di gravità, come lo sono gli uccelli: e ne sono nemico mortale, arcinemico, nemico da sempre ! [...] Colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine ; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola la leggera. Lo struzzo corre più veloce del più veloce dei cavalli, ma anche lui ficca ancora pesantemente la testa nella terra pesante: così pure l' uomo, che ancora non sa volare. Pesante é per lui la terra e la vita ; e così vuole che sia lo spirito di gravità ! Ma chi vuol divenire leggero e un uccello, non può non amare se stesso: questo é il mio insegnamento.

L' uomo deve essere superato ripete incessantemente Zarathustra per tutta l' opera, e il primo grande passo da fare per superarlo e lasciarsi alle spalle tutta la tradizione religiosa, più che mai quella cristiana col suo Dio nel quale é dichiarata inimicizia alla volontà di vivere ( l' Anticristo ), un Dio che limita la potenza umana ; il vero Dio diventa l' uomo, anzi, il superuomo: I fichi cadono dagli alberi, essi sono buoni e dolci ; la loro rossa pelle si screpola, quando cadono. Io sono un vento del settentrione per fichi maturi. Così, simili a fichi, cadono a voi questi insegnamenti, amici miei: bevetene il succo, la loro dolce polpa ! Tutt' intorno é autunno e cielo puro e pomeriggio. Guardate la pienezza intorno a noi ! Bello é guardare verso mari lontani, dalla sovrabbondanza.Un tempo nel guardare verso mari lontani si diceva Dio ; ora però io vi ho insegnato a dire: superuomo. Dio é una supposizione ; ma io voglio che il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra volontà creatrice. Forse che potreste creare un dio ? Dunque non parlatemi di dèi ! Certo, voi potreste creare il superuomo. Forse non voi stessi, fratelli ! Ma potreste creare in voi i padri e gli antenati del superuomo: e questo sia il vostro creare migliore ! Dio é una supposizione: ma io voglio che il vostro supporre trovi i suoi confini entro ciò che é possibile pensare. Forse che potreste pensare un Dio ? Ma ciò significhi per voi volontà di verità: che tutto sia trasformato sì da poter essere pensato, visto e sentito dall' uomo ! Voi dovete pensare fino in fondo i vostri sensi stessi ! E ciò che avete chiamato mondo, deve ancora essere da voi creato: esso deve diventare la vostra ragione, la vostra immagine, la vostra volontà, il vostro amore ! E in verità per la vostra beatitudine, o voi che conoscete ! E come vorreste sopportare la vita senza questa speranza, voi che conoscete ? Voi non dovreste essere generati nè nell' incomprensibile nè nell' irrazionale. Ma, affinchè vi apra tutto il mio cuore, amici: se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio ! Dunque non vi sono dèi. Bene, ora ho tratto la conclusione ; ora però essa trae me: dio é una supposizione: ma chi potrebbe bere tutto il tormento di questa supposizione senza morire ? Deve essere tolta al creatore la sua fede e all' aquila il suo librarsi in lontananze d' aquila ? Dio é un pensiero che rende storte tutte le cose dritte e fa girare tutto quanto é fermo. Come ? Il tempo sarebbe abolito, e tutto ciò che é perituro sarebbe solo una menzogna ? Pensare queste cose é vortice e vertigine per gambe umane, e vomito per lo stomaco: davvero, abbandonarsi a simili ipotesi io lo chiamo avere il male del capogiro. Io lo chiamo cattivo e ostile all' uomo tutto questo insegnare l' Uno e il Pieno e l' Immoto e il Satollo e l' Imperituro. Ogni Imperituro non é che un simbolo ! E i poeti mentono troppo. Invece i migliori simboli debbono parlare del tempo e del divenire: una lode essi debbono essere e una giustificazione di tutto quanto é perituro !

Creare, questa é la grande redenzione dalla sofferenza, e il divenire lieve della vita. Ma perchè vi sia colui che crea é necessaria molta sofferenza e molta trasformazione. Sì, molto amaro morire dev' essere nella vostra vita, o voi che create ! Solo così siete coloro che difendono e giustificano ogni cosa peritura. Per essere il figlio di nuovo generato, colui che crea non può non voler essere anche la partoriente e non volere i dolori della partoriente. Davvero, attraverso cento anime io ho camminato la mia via e attraverso cento culle e dolori del parto. Molte volte ho già preso congedo: io conosco gli ultimi istanti che spezzano il cuore. Ma così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino. O, se debbo parlarvi più sinceramente: proprio un tal destino vuole la mia volontà. Tutto quanto é sensibile soffre in me ed é in ceppi: ma il mio volere viene sempre a me come mio liberatore e apportatore di gioia. Volere libera: questa é la vera dottrina della volontà e della libertà, così ve la insegna Zarathustra. Non più volere e non più valutare e non più creare ! Ah, rimanga sempre da me lontana questa grande stanchezza ! Anche nel conoscere io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire ; e se nella mia conoscenza é innocenza, ciò accade perchè in essa é volontà di generare. Via da Dio e dagli dèi mi ha allettato questa volontà: che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi esistessero ! Ma la mia ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l' uomo ; così il martello viene spinto verso la pietra. Ah, uomini, nella pietra é addormentata un' immagine, l' immagine delle mie immagini ! Ah, che essa debba dormire nella pietra più dura e più informe ! E ora il mio martello infuria crudelmente contro la sua prigione. Dalla pietra un polverio di frammenti: che mi importa ? Io voglio compiere la mia opera: un' ombra venne infatti a me, la più silenziosa e lieve di tutte le cose é venuta una volta da me ! La bellezza del superuomo venne a me come un' ombra. Ah, fratelli ! Che mai possono importarmi ancora gli dèi !. Un ateismo radicale, che nasce dalla teoria secondo la quale Dio sarebbe morto: con il decadimento di tutti i valori, religiosi e non, é decaduto anche Dio stesso:Dio é morto ; a causa della sua compassione per gli uomini é defunto Iddio. [...]

E' già da molto tempo che gli antichi dèi finirono: e, invero, ebbero una buona e lieta fine da dèi ! Essi non trovarono la morte nel crepuscolo, questa é la menzogna che si dice ! Piuttosto: essi risero una volta da morire, fino a uccidere se stessi ! Questo accadde, quando la più empia delle frasi fu pronunciata da un dio stesso, questa: Vi é un solo dio ! Non avrai altro dio accanto a me ! Un vecchio dio barbuto e burbero, un dio geloso trascese a questo modo: e allora tutti gli dèi risero e barcollarono sui loro seggi e gridarono: Ma non é proprio questa la divinità, che vi siano dèi ma non un dio ? Chi ha orecchi intenda. Questo é un punto di partenza per il superuomo, il cui agire pare davvero illimitato ( neanche Dio può limitarlo, visto che é morto ): Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva. D' altronde l' uomo ha sempre vissuto nel timore di Dio e di un altro mondo, arrivando così a svalutare quello in cui trascorre la sua vita: ecco allora che é arrivato a vivere tristemente, nel timore di peccare e di commettere torto a Dio: ma da quando vi sono uomini, l' uomo ha gioito troppo poco: solo questo, fratelli, é il nostro peccato originale !. Zarathustra, il senzadio, capisce che gli uomini comuni non fanno per lui, il loro carattere non si confa alle istanze della dottrina di cui si fa portavoce ; soprattutto gli uomini che parlano ancora di bene e male ( come se esistessero ! ), quelli che sono per il " volgo " i buoni, che insegnano l' uguaglianza: per Zarathustra essi sono tarantole: Ecco la tana della tarantola ! Vuoi vederla tu stesso ? Qui pende la sua ragnatela: toccala, che frema. Eccola venire docilmente: benvenuta, tarantola ! Nero sta sul tuo dorso il tuo triangolo e distintivo ; e io so anche che cosa si annida nella tua anima. Vendetta si annida nella tua anima: dove tu mordi, si forma una nera schianza ; con la vendetta il tuo veleno fa venire le vertigini all' anima ! Così io parlo per similitudine a voi, che fate venire le vertigini alle anime, voi predicatori dell' uguaglianza ! Tarantole siete voi per me, e in segreto smaniose di vendetta !... così parla a me la giustizia: - gli uomini non sono uguali - E neppure devono diventarlo ! Che sarebbe il mio amore per il superuomo se io parlassi diversamente ? Per mille ponti e sentieri devono sospingersi verso il futuro, e tra loro deve essere posta sempre più guerra e diseguaglianza: così mi fa parlare il mio grande amore !...Invero Zarathustra non é vento che ruoti vorticoso ; e se anche é un danzatore, non sarà mai un danzatore per morso di tarantola ! ; questi uomini sono tarantole che, come se in combutta con lo spirito di gravità, vogliono impedire al superuomo di emergere, di elevarsi al di sopra di tutto e di tutti, vogliono impedirgli di volare, ostinandosi a parlare di bene e di male, di uguaglianza e di solidarietà: Anche io ho imparato a fondo l' arte di attendere, ma soltanto di attendere me stesso. E sopra ogni altra cosa ho imparato a stare e andare e camminare e saltare e arrampicarmi e danzare. Ma questa é la mia dottrina: chi vuole imparare un giorno a volare, deve prima di tutto imparare a stare e andare e camminare e arrampicarsi e danzare: il volo non si impara in volo !

Io ho imparato ad arrampicarmi con scale di corda fino a più di una finestra, a gamba lesta mi sono inerpicato su per alti alberi di nave: star seduto sugli alti alberi della nave della conoscenza, mi parve non piccola beatitudine, palpitare come le fiammelle su alti alberi di nave: una piccola luce, é vero, purtuttavia un grande conforto per naviganti e naufraghi sperduti ! Per vie di molte specie e in molti modi sono giunto alla mia verità ; non fu una sola scala, quella su cui salii per giungere alla vetta, dove il mio occhio dilaga nelle mie remote lontananze. E solo malvolentieri ho sempre chiesto le strade, ciò é sempre stato contrario al mio gusto ! Preferivo interrogare e tentare le strade da solo. Il mio cammino é sempre stato, in tutto e per tutto, un tentativo e un interrogativo ; in verità bisogna anche imparare a rispondere a questo interrogare ! Ma questo é il mio gusto: non un buon gusto, nè cattivo, bensì il mio gusto, di cui non mi vergogno più e che più non celo. «Questa insomma é la mia strada, dov' é la vostra ?», così rispondo a quelli che da me vogliono sapere la strada. Questa strada, infatti, non esiste ! ; ma quella di Zarathustra non é una semplice presa di posizione contro il volgo, che gli si é dimostrato nemico: lui ha provato a propugnare presso il popolo le sue teorie dell' oltreuomo e della morte di Dio, ma esso non le ha accettate: Chi presso gli uomini tutto volesse comprendere, dovrebbe toccare tutto. Ma le mie mani sono troppo pulite per farlo. Già non sopporto di respirare il loro respiro ; ahimè, aver dovuto vivere così a lungo in mezzo al loro strepito e al loro alito cattivo ! Oh silenzio beato intorno a me ! Oh puri aromi ! Oh come questo silenzio attinge il suo puro respiro dalle profonde cavità del petto ! Oh, come sta in ascolto, questo silenzio beato ! Ma laggiù in basso, là tutti parlano e nessuno presta attenzione. Anche a divulgare la saggezza propria con squillo di campane: ai mercanti sul mercato basterà far tintinnare pochi soldi, per sovrastarne il suono ! Tutti parlano presso di loro, nessuno é più capace di intendere. Tutto va a finire nell' acqua, nulla più in profonde sorgenti. Tutti parlano presso di loro, ma nulla riesce più e giunge alla fine. Tutti starnazzano, ma chi ha voglia di rimanere in silenzio sul suo nido a covar l' uova ? Tutti presso di loro parlano, e tutto viene logorato a forza di parole. E ciò che ieri era troppo duro perfino per il tempo e per la sua zanna: oggi penzola rosicchiato a brandelli dal muso degli uomini d' oggi. Tutti presso di loro parlano, e tutto viene messo in piazza. E ciò che un tempo si chiamò segreto e intimità di anime profonde, oggi viene strombazzato per le strade da ogni genere di schiamazzatori. O natura dell' uomo, bizzarra natura ! Strepito per vicoli bui ! Or sei di nuovo dietro di me: il più grande dei miei pericoli é dietro di me ! Il più grande dei miei pericoli fu sempre quello di risparmiare gli altri e di averne compassione ; e ogni natura umana vuol essere risparmiata e sopportata. Con verità rattenute, con una mano folle e un cuore infatuato e ricco di piccole bugie compassionevoli: così ho sempre vissuto tra gli uomini. Ho seduto tra loro travestito, disposto a misconoscere me stesso, per poter sopportare loro, e ripetendo sempre a me stesso: folle, tu non conosci gli uomini !

Si disimpara a conoscere gli uomini, se si vive tra gli uomini: troppo in tutti gli uomini é solo facciata, a che servono tra loro occhi che mirano e che cercano nella lontananza ! E quando disconoscevano me: io, pazzo, proprio per questo avevo più riguardi per loro che per me: avvezzo alla durezza verso me stesso, e spesso vendicando su me stesso la mia clemenza. Punzecchiato da mosche velenose e scavato, come una pietra, da molte gocce di perfidia, così sedevo in mezzo a loro e per di più cercavo di convincermi: i piccoli non hanno colpa della loro piccolezza ! Specialmente quelli che si dicono buoni trovai che erano le più velenose delle mosche: essi punzecchiano in piena innocenza, essi mentono in perfetta innocenza: e come potrebbero essere giusti verso di me ! Chi vive in mezzo ai buoni, la compassione gli insegna a mentire. La compassione rende l' aria intanfita in tutte le anime libere. La scempiaggine dei buoni, infatti, é senza fondo. Nascondere me stesso e la mia ricchezza, questo ho imparato laggiù in basso: perchè non ne trovai uno che non fosse povero di spirito. Questa fu la menzogna della mia compassione: tutti li conoscevo, per ognuno la mia vista e il mio olfatto mi dicevano che cosa per lui fosse spirito a sufficienza e che cosa troppo spirito ! I loro saggi legnosi io li chiamavo saggi e non di legno, così imparai a ingozzare le parole. Zarathustra ha provato con entusiasmo a far passare le sue teorie, ma ha capito che l' uomo é difficile da scoprire, ed egli é per se stesso la più difficile delle scoperte. D' altronde l' idea di un uomo superiore agli altri, come detto, non può che trovare opposizione presso il popolo: non é facile il superuomo, il capire che come uomini non si é un fine ma solo un mezzo per il superuomo, un ponte: Vi sono vie e maniere di molte specie che portano al superamento: ma qui, vedi tu ! Solo un pagliaccio può pensare: «l' uomo può anche essere saltato d' un balzo». Supera te stesso anche nel tuo prossimo: e un diritto che puoi togliere in prede, non devi lasciartelo dare ! Ciò che tu fai, nessuno può rifartelo a sua volta. Vedi, non esiste remunerazione. Chi non é capace di comandare a se stesso, ha da obbedire. E vi sono certi che sanno comandare a se stessi, ma molto ci manca a che sappiano anche obbedire a se stessi !. Zarathustra decide così di tenersi distante dal popolo e di allontanarsi dalla città a lui cara, " Vacca Pezzata ", per far ritorno sulla montagna alla sua caverna: tuttavia il suo permanere presso gli uomini non é stato vano ; certo, ha capito che essi preferiscono forzare dalla parte delle bestie piuttosto che verso quella del superuomo, si é accorto che un superuomo non c' é ancora stato ( Ancora non é esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l' uomo più grande e il più meschino. Sono ancora troppo simili l' uno all' altro. In verità anche il più grande io l' ho trovato troppo umano ! ), ma tuttavia é arrivato a scoprire che in ogni uomo é insita la volontà di potenza, ogni azione é motivata dal cercare di aumentare il proprio potere: Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza ; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole é indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che é ancora più debole: a questo piacere, però, non sa rinunciare. E come il piccolo si dà al grande, per avere diletto e potenza sull' ancora più piccolo: così anche ciò che é più grande dà se stesso e, per amore della potenza, mette a repentaglio la sua vita.

Ma Zarathustra é il grande distruttore della morale classica, imposta dal razionalismo socratico: la più grande liberazione deve però riguardare l’idea cristiana della morte, idea strutturata secondo il modello cristiano - borghese di dominio. La paura della morte è la paura della sanzione finale dell’insensatezza dell’esistenza: Molti muoiono troppo tardi, e alcuni muoiono troppo presto. Suona ancora strano l’insegnamento: "muori al momento giusto!". Muori al momento giusto: questo insegna Zarathustra. In verità, chi non vive al momento giusto, come potrebbe morire al momento giusto? Bisognerebbe che non fosse mai nato! Questo consiglio ai superflui. Zarathustra dunque ritorna sulla sua montagna arricchito di nuove esperienze, ha una conoscenza più profonda dell' uomo di quanto non avesse prima. Ecco che Zarathustra matura la teoria dell' eterno ritorno: Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compassione. Ma la compassione è l'abisso più fondo: quanto l'uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l'affonda nel dolore. Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice: "Questo fu la vita? Orsù! Da capo!". Ma in queste parole sono molte squillanti fanfare. Chi ha orecchi, intenda. "Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte son io: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo - tu non potresti sopportarlo!". Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta carraia. "Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all'indietro: dura un'eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti - è un'altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l'un contro l'altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: "attimo''. Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno?". "Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo". "Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi, sciancato - e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno?". ; ma il superuomo non può che apprezzare l'eternità, l'eterno ritorno, perché è un rinnovarsi continuo della sua volontà di potenza e del suo dominio sul mondo: un dominio che dovrà ritornare all'infinito, per l'eternità: ed è questo l' "amor fati" che proclama Zarathustra, l'amore per l'eterno ritorno delle cose; egli continua a ripetere "ti amo eternità!

Una volta abbandonata definitivamente la città e il mercato, Zarathustra dialoga a riguardo della dottrina dell' eterno ritorno con i suoi stessi animali, che, a differenza del volgo, lo ascoltano entusiasti, quasi come a dire che essi sono superiori perchè in fondo l' uomo é il più crudele degli animali: ecco che io muoio e scompaio, diresti, e in un attimo sono un nulla. Le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, esso mi creerà di nuovo ! Io stesso appartengo alle cause dell' eterno ritorno. Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con quest' aquila, con questo serpente, non a nuova vita o a vita migliore o a una vita simile: io torno eternamente a questa stessa identica vita. Zarathustra narra di una passeggiata su un impervio sentiero di montagna, in cui lo segue lo spirito di gravità, metà talpa, metà nano, metà storpio, il suo demonio e nemico capitale, il quale gli canta una sorta di ritornello che contiene una versione da nani dell' eterno ritorno: O Zarathustra, sussurrava beffardamente sillabando le parole, tu, pietra filosofale ! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve cadere ! [ A un certo punto si trovano di fronte ad una porta carraia ]. «Guarda questa porta carraia ! Nano ! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all' indietro: dura un' eternità. E quella lunga via fuori dalla porta e in avanti é un' altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi due sentieri ; sbattono la testa l' uno contro l' altro: e qui, a questa porta carraia, convengono. In alto sta scritto il nome della porta: attimo. Ma, chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si contraddicano in eterno ?». «Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità é ricurva, il tempo stesso é un circolo». Tu, spirito di gravità !, dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera !.

Sulla sua montagna Zarathustra ritrova la pace: ma essa viene improvvisamente sconvolta da un grido d'aiuto lanciato dalla foresta: é l'umanità che ha bisogno di Zarathustra e dei seuoi insegnamenti. Ecco allora che il vecchio senzadio non esita a scendere dal monte e si lancia alla ricerca di chi ha emesso l'urlo per potergli prestare soccorso: si imbatte in un indovino già incontrato anni addietro e poi in una coppia di re: anch'essi, come Zarathustra, sono alla disperata ricerca di un uomo superiore, nauseati dalla volgare società comune. Con Zarathustra condividono l'ideale che l'uomo più elevato sulla terra deve anche essere il signore di tutti. Non vi é nel destino dell'uomo sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Proseguendo la sua ricerca, Zarathustra si imbatte in un ferito che, dopo l'incertezza iniziale, si rivela onorato di essere al cospetto del celebre senzadio: dopo averlo aiutato e rincuorato, Zarathustra, tipico eroe romantico che non trova pace, non demorde nella sua ricerca e incontra un mago che gli si rivolge con una sfilza di ritornelli magici e di filastrocche: anch'egli comunque nutre grande rispetto nei confronti del celebre vegliardo ed é pronto a seguire i suoi preziosi insegnamenti. Ma probabilmente il punto culminante nei vari incontri di Zarathustra é quello con il vecchio papa: il vecchio senzadio gli domanda se é vero, come si dice, che Dio é morto: il vecchio papa annuisce. Dio é morto per colpa degli uomini? No di certo: che colpe può avere l'uomo verso Dio? E' Dio stesso che l'ha creato e deve risponderne! Se la colpa era dei nostri orecchi, perchè ci dette degli orecchi che lo udivano male? domanda Zarathustra con insistenza. Fu il buon gusto alla fine che portò l'uomo a dire: Basta con un Dio così!Meglio nessun Dio, meglio costruirsi il destino con le proprie mani, meglio essere un folle, meglio essere noi stessi Dio!.

Dopo essersi in seguito imbattuto nell'uomo più brutto del mondo, nel mendicante volontario, e perfino nella sua stessa ombra, Zarathustra rincasa: alla fine egli invita nella sua caverna tutti i personaggi che ha incontrato ed essi accettano l'invito con gioia. A questo punto ciascuno di loro apprende finalmente che cosa significhi vivere, senza il timore di Dio o di forze soprannaturali e quello che sembra apprezzare maggiormente é l'uomo più brutto: Io sono per la prima volta felice di aver vissuto tutta quanta la mia vita. E l'attestare questo non mi basta ancora. Vale la pena di vivere sulla terra. Occorre imparare ad apprezzare il nostro mondo, senza speranze in una vita ultraterrena!

LA GAIA SCIENZA

Nessun vincitore crede al caso.

E' qualcosa di nuovo, di piacevolmente nuovo rispetto alle opere precedenti. Nietzsche ha recuperato la salute ed esprime nel suo scritto una visione matura del mondo umano, un distacco composto. Il tema dominante dell'opera: "la sfera della conoscenza deve essere unita a quella della gioia". Egli polemizza contro i filosofi che, da Platone in poi, hanno congiunto la conoscenza con la repressione degli istinti naturali, con l'astrazione dal mondo sensibile o addirittura con la condanna dell'esistenza. Vi é una radicale critica in generale del pensiero scientifico, cui viene rimproverato il tentativo di spiegare tutto col nesso di causa ed effetto. Questo tipo di spiegazione ci consente di descrivere meglio il divenire nella successione delle sue immagini, ma non ce lo fa comprendere nei suoi aspetti qualitativi e per di più frammenta il flusso dell'accadere in elementi isolati; ed ecco che possiamo spiegare il singolare titolo dell'opera: la scienza moderna, a parere di Nietzsche, come accennavamo é soltanto la forma più recente e nobile dell'ideale ascetico, essa ha ancora fiducia nelle verità come valore in sè, superiore ad ogni altro e, quindi, non é in grado di contrastare questo ideale. E' tuttavia possibile quella che Nietzsche definisce gaia scienza, che si rivolge ai senzapatria, figli dell'avvenire e a disagio nel proprio tempo, amanti del pericolo e dell'avventura, avversi a ogni ideale, i quali non hanno intenzione di regredire ad alcun passato nè lavorare per il progresso, ossia per l'affermarsi dell'uguaglianza e della concordia tra gli uomini. Per raggiungere questo stato di gaiezza bisogna abbandonare la morale corrente, porsi liberi al di là del bene e del male e quindi staccarsi da parecchie cose, ma per far questo occorre acquisire una condizione di leggerezza: e Nietzsche paragona questo stato a quello della "danza".

La prima domanda che é bene porsi per costruire una gaia scienza é se i cosiddetti valori morali siano segno di impoverimento o di pienezza della vita. Ma é radicale anche la critica mossa alla religione: Avete sentito di quell'uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: "Cerco Dio! Cerco Dio!"? - E poiché proprio là si trovano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "Si è forse perduto?" disse uno. "Si è smarrito come un bambino"? fece un altro. "Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? E' emigrato?" gridavano e ridevano in una gran confusione. L'uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se n'è andato Dio?" gridò "ve lo voglio dire! L'abbiamo ucciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? [...] Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso. Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti". La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che "niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano". Questa incondizionata volontà di verità, che cos'è dunque? [...] Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è la verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna? Ed ecco che nell'agosto del 1881, in Engadina, "6000 piedi al di là dell'uomo e del tempo", Nietzsche ebbe la folgorazione dell'eterno ritorno, il vero mistero filosofico della sua vita. Ed é di questo periodo l'elaborazione del testo che stiamo prendendo in esame, la "Gaia scienza", libro che "rivela da cento segni la prossimità di qualcosa di incomparabile".

Qui lo stile di Nietzsche sembra raggiungere la sua perfezione: all'implacabile spirito indagatore, a cui già si dovevano "Umano, troppo umano" e "Aurora", si associa ora quello spirito della danza che attendeva di presentarsi nella figura di Zarathustra, il quale diceva in continuazione "potrei credere solo in un Dio che sapesse danzare". Così la scienza diventa gaia, e già nel titolo si offre il richiamo a "quella unità di cantore, cavaliere e spirito libero che differenzia quella meravigliosa e precoce civiltà dei Provenzali da tutte le civiltà equivoche". E insieme ora si afferma definitivamente in Nietzsche quella "riabilitazione dell'apparenza" che segnerà l'ultima fase del suo pensiero. Tutte le tensioni laceranti che sfoceranno nella follia sono già presenti in queste pagine, ma ancora sovranamente dominate: e con quanta saggezza e con che spirito profetico egli prevedeva l'affermarsi del nichilismo, la perdita definitiva di tutti i valori tradizionali, primo fra tutti il Cristianesimo, cancro dell'universo! Sicchè per un lettore che voglia avvicinarsi all'opera di Nietzsche, il folgorante profeta del superuomo, forse questo é libro é il più consigliabile: muovendosi fra le sue pagine ripercorrerà quel labirinto che Nietzsche é stato. Il libro si avvia con la constatazione da parte del filosofo che tutti gli uomini in ultima istanza fanno quel che giova alla conservazione della specie umana, agendo mossi non tanto da un sentimento sublime, quanto piuttosto da un puro e semplice istinto.

Molti hanno cercato e molti in futuro cercheranno di trovare un senso razionale alla vita, chiedendosi il perchè e provando a trovare una spiegazione. Ma la cosa più importante é imparare ad apprezzare la vita, senza mai perdere il senso della terra, annebbiati da eventuali vite ultraterrene! Ed ecco che Nietzsche constata amaramente che ai più manca la coscienza intellettuale, e che esigendola si finisce per essere in città popolose come deserti! E qui Nietzsche ne approfitta per riprendere la distinzione a lui cara tra nobile e volgare, asserendo comunque che fino ad oggi a permettere la conservazione della razza umana sono sempre state le persone più vigorose ecattive: e qui la mente del lettore può soffermarsi sulla figura del Duca Valentino, verso il quale in più occasioni Nietzsche dimostra simpatia. E l'errore della specie umana consiste proprio nell'aver voluto trovare un perchè ad ogni cosa, nel tentativo di razionalizzare tutto, facendo morire il senso del tragico presente fino ad Eschilo e a Sofocle, massimi esponenti della tragedia greca. E' a partire da Euripide che si é avviato questo esasperato processo di razionalizzazione che ha portato in trionfo il dio Apollo, il solare dio della razionalità, a discapito di Dionisio, il notturno Dio dei festini e della tragedia. Ma in fin dei conti che spiegazione razionale vi potrà mai essere nel vivere? Che cosa significa vivere? Nietzsche prova a dare una sua spiegazione: Che significa vivere? Vivere - ecco quel che significa: respingere da sè senza tregua qualcosa che vuole morire; vivere- vuol dire essere crudeli e spietati contro tutto ciò che sta diventando debole e vecchio in noi. Vivere-vuol dire: essere senza pietà per i moribondi, i miserabili e i vecchi? Essere sempre di nuovo assassini? Eppure il vecchio Mosè ha detto: "Non uccidere!" Ma la grande e aspra polemica che Nietzsche muove nell'opera é indirizzata alla scienza, che facilmente conduce all'adorazione della verità oggettiva, rende l'uomo schiavo dell'oggettività esterna, e contrapposta alla vita. Ma in realtà non ci sono dati, fatti oggettivi (antipositivisticamente), ma solo interpretazioni:"Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti".

La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che "niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano". Questa incondizionata volontà di verità, che cos'è dunque? [...] Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre plu incredibile, se niente più si rivela divino salvo I'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?"(La gaia scienza, 344). E Nietzsche, ancora, denuncia lo schematismo degli scientisti, che non si accorgono della polimorfia del reale, pretendendo di ricondurlo a pochi princìpi meccanici. "Il vostro amore per la realtà, oh, é un antico, antichissimo "amore"!In ogni percezione, in ogni impressione sensibile c'é un frammento di questo vecchio amore [...] Ecco laggiù una montagna! Ecco una nuvola! Ma che cosa é poi reale? Tirate via da tutto questo, voi sobri, il fantasma e l'insieme degli ingredienti umani! [...] Per noi non ci sono realtà- e nemmeno per voi sobri-e non siamo affatto così lontani gli uni dagli altri come pensate e forse la nostra buona volontà di tirarci fuori dall'ebbrezza é altrettanto rispettabile quanto la vostra convinzione d'essere del tutto incapaci d'ebbrezza": qui prorompe tutto il nichilismo nietzscheiano, con un vigore straordinario: che senso ha parlare di realtà?

Questa é la domanda che sta sullo sfondo di tutta la sua filosofia. Ma destinataria delle sue critiche non é solo la scienza, che Nietzsche definisce beffardamente gaia, ma la fede in Dio, più precisamente nel Dio cristiano, a suo avviso morto ucciso dagli uomini. Nietzsche é indubbiamente il più radicale ateo della storia della filosofia. Per lui infatti Dio in quanto tale si oppone all'uomo: deve morire, affinchè l'uomo viva: non c'é spazio per tutti e due! Nietzsche d'altronde si schiera contro gli atei volgari(i ridanciani) che non si rendono conto della posta in gioco, e credono che sia facile "sbarazzarsi" di Dio. Mentre si tratta di un'opera titanica, da far tremare le vene ai polsi: "Come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare, bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? Con che acqua potremo lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande per noi la grandezza di questa azione?"(La Gaia scienza, n.125).

La vera grande battaglia che Nietzsche porta avanti é contro Dio: credere in un Dio che punisce e in un mondo ultraterreno non fa altro che rimpicciolire l'uomo e fargli perdere il senso della terra! "Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna-un'immensa orribile ombra. Dio é morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi, noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!". Bisogna in primo luogo evitare di attribuire vita all'universo, come avevano fatto Platone e Giordano Bruno, ad esempio: esso non si nutre, non vegeta, non ha leggi, non ha neppure istinto di autoconservazione, che é caratteristica degli esseri viventi! Solo senza pregiudizi, solo senza timore verso un Dio che non c'é, l'uomo può trovare la sua serenità: "Il più grande avvenimento recente, che Dio é morto, che la fede nel Dio cristiano é divenuta inaccettabile, comincia già a gettare le sue prima ombre sull'Europa. A quei pochi almeno, i cui occhi, la cui diffidenza negli occhi é abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio [...] Perfino noi, per nascita divinatori d'enigmi, noi che siamo in attesa per così dire sulle montagne, piantati fra l'oggi e il domani, noi primogeniti e figli prematuri del secolo venturo, noi che già dovremmo scorgere le ombre che ben presto avvolgeranno l'Europa: com'é che perfino noi le guardiamo salire senza una vera partecipazione a questo ottenebramento, soprattutto senza preoccuparci e temere per noi stessi? [...] In realtà, noi filosofi e spiriti liberi, alla notizia che il vecchio Dio é morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d'attesa- finalmente l'orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non é sereno, finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell'uomo della conoscenza é di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi é ancora mai stato un mare così aperto." Ma che cosa é che ha portato l'uomo in passato all'errore di credere in un'entità superiore, in cui credere e di cui aver paura? Secondo Nietzsche a portare l'uomo alla fede é stata la mancanza di volontà, l'incapacità di comandare, il preferire essere comandati al comandare, dando così vita ad una vera e propria morale degli schiavi: "La fede é sempre tanto più ardentemente desiderata, tanto più urgentemente necessaria, laddove manca la volontà: la volontà infatti, come passione del comando, é il più decisivo segno di riconoscimento del dominio esercitato su se stessi e della forza." Interessante risulta poi nel testo una sorta di "auto-intervista" di Nietzsche:

Ma che cosa sono alla fin fine le verità dell'uomo? Sono gli errori inconfutabili dell'uomo. Chi ha grandezza é crudele verso le sue virtù e le sue riflessioni di second'ordine. Con una grande meta si é superiori perfino alla giustizia, non solo alle proprie azioni e ai propri giudici.
Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e insieme alla propria suprema speranza.

In che cosa credi? In questo: che i pesi di tutte le cose devono essere nuovamente determinati.

Che cosa dice la tua coscienza? Devi diventare quello che sei.

Dove stanno i tuoi più grandi pericoli? Nella compassione.

Che cosa ami negli altri? Le mie speranze.

Chi chiami cattivo? Chi mita solamente a incutere vergogna.

Che cosa é per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno.


Che cosa é il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi.

AL DI LA' DEL BENE E DEL MALE

Scritto a Sils-Maria, a Nizza, nel 1885-86, l'Al di là fu stampato dal Naumann di Lipsia nel 1886. I 296 aforismi che lo compongono si aggruppano vastamente in 9 capitoli: I pregiudizi dei filosofi; Lo spirito libero; Lo spirito religioso; Massime e intermezzi; Storia naturale della morale; Noi altri sapienti; Le nostre virtú; Popoli e Patrie; Che cosa è nobile. Sono essi la glorificazione, come ogni opera nietzscheana, come lo Zarathustra specialmente, della vita quale istinto, interesse, volontà, energia. Al di là del Bene e del Male, si afferma la vita che opera per amore, ed è il nucleo per sé stesso della morale. Il libro, europeista e spirito-liberista, si scaglia nel suo prologo contro il platonismo creatore dello spirito e del bene in sé, contro il dommatismo serio e balordo incapace di conquistare la verità che è femmina...; e, di scatto, nel suo primo capitolo Nietzsche afferma che la verità dei metafisici si fonda su una credenza.

Non v'è divinità occulta per Nietzsche, ma attività istintiva. Ecco la biologia nascondersi dietro la logica. Nietzsche vuole che un giudizio, vero o falso non conta, valga se accelera e conserva la vita, mantiene e sviluppa la specie. La menzogna è condizione vitale. Kant è un Tartufo, Spinoza è un ciarlatano. I filosofi che vantano piú la sottile freddezza razionalistica sono i crociati di un desiderio. L'acredine umoristica nietzscheana contro gli scienziati fa abbrividire, mentre dei filosofi Nietzsche dice, quasi senz'avvedersene, che ogni istinto brama il dominio; cosí aspira a filosofare... Nulla di impersonale in un filosofo. La filosofia è istinto tirannico che crea il mondo a propria imagine, è la piú intellettuale volontà di potenza: I veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l’"a che scopo" degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato — essi protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza. — Esistono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Non devono forse esistere tali filosofi?. Al positivismo che si destreggia nel suo baraccone di fiera, agitando gli stracci piú variopinti, Nietzsche contrappone lo scetticismo antirealista di ricercatori minuziosi della conoscenza: importa a Nietzsche l'andarsene. Ecco tutto. Contro i giudizi sintetici a priori kantiani e contro l'atomismo delle anime sferra Nietzsche i suoi attacchi. Egli è un violento del moto: nega alla fisiologia, dominata dall'"essere" di Spinoza, che l'istinto di conservazione sia il fondamentale. La vita è, ripete Egli con sempre maggiore intuizione di autoverità, anzitutto, volontà di potenza. Certo i darwinisti e antifinalisti contemporanei aveano ben da opporsi a simili audacie nietzscheane: la teoria della forza minima e, aggiunge il polemista ardente, della stupidità massima, sono le teorie fisiche in voga. Gli organi di senso non sono fenomeni, in senso idealistico. Nietzsche si dichiara avversario delle certezze immediate: l'io penso, l'io voglio, non hanno diritto di cittadinanza nel regno di questo autosaggiatore ispirato. Il venerabile io è spolverato con sparutezza compunta da Nietzsche e ridotto a galante e sopportabile piú che quisquilia. Nella volontà, in cui si drappeggia un pregiudizio popolare, Egli intuisce una molteplicità di sensazioni da scomporsi: sensazione del punto di partenza della volontà, del punto d'arrivo, del va e vieni, e, anche, sensazione muscolare. Subentra la riflessione: in ogni atto volitivo v'è un pensiero che lo dirige. È, in fine, e piú c'importa, esso atto una tendenza al comando. Un volontario comanda qualcosa a sé stesso. Nietzsche analizza acutamente il sentimento complesso di piacere prodotto dal trionfo sugli ostacoli: è il rallegramento del sovrano per l'eroismo del proprio popolo. Io significa effetto. Numerose anime lo costituiscono.

La morale, dunque, è, per Nietzsche, la dottrina dei rapporti di potenza sotto i quali il fenomeno vita si svolge. Nietzsche indaga la ragione di parentela filosofica nella parentela linguistica degl'indiani, dei greci, dei germani. Anche qui un lampo di genio per una scienza futura. La volontà forte nella vita reale vince la volontà debole. Il determinismo è mitologia. Non esiste né causa, né successione, né finalità, né legge, né numero, né libertà, né scopo. Tutto è volontà di potenza. La psicologia, la scienza dei solitari e dei poeti, la scienza delle scienze, è studiata da Nietzsche come morfologia e come dottrina dell'evoluzione nella terribile e nuda volontà di potenza. Ma la tartuferia morale grida allo scandalo. Nel secondo capitolo dell'Al di là, Nietzsche raccomanda ai filosofi "cavalieri dalla triste figura" della verità, di esser prudenti, in nome dell'innocenza e della "neutralità sottile", e di non istrioneggiare il martirio. Il sacrifizio alla Bruno o alla Spinoza è da commediante. Rifuggirsi in leggera e vibrante solitudine è necessario. D'altronde, l'indignazione induce alla menzogna. L'uomo superiore deve, invece, aprir l'orecchio dell'anima a tutte le lascive facezie dei satiri, a tutte le sfumature volgari dei cinici. Certo è privilegio di pochi simili forza temeraria che moltiplica all'infinito i rischi della vita. Questa lode può sperarsene? Nessuna: il grande e il raro - ha nome di follia. Lo spirito nobile, lungi dal sí e dal no, espressione del gusto peggiore, quello dell'assoluto, anela alle nuances che sono le caratteristiche dei sommi artisti, è incline al dubbio che insorge contro la giovinezza dell'entusiasmo, contro l'astrologia e l'alchimia moralistiche, per inebriarsi del carattere erroneo del mondo. Quale contraddizione essenziale tra il vero e il falso? Si tratta di prospettiva, di gioco di ombre, di valori illusori. Nietzsche aggiunge che non conviene nell'apparenza o nella rappresentazione di un Berkeley o di uno Schopenhauer. La realtà degl'istinti proclamata da Nietzsche è, sappiamo, lo sviluppo e la differenziazione d'una sola forma fondamentale di volontà, la volontà di potenza.

Certo la dottrina nietzscheana è di forte agrume per chi argomenta sulla virtú e sulla felicità. Ma Stendhal scrive che per essere buon filosofo bisogna essere secco, chiaro, preciso, che bisogna essere buon banchiere. Non dimentichiamo poi che le cose profonde amano la maschera. I destini e le crisi degli spiriti rari e delicati eleggono vie discrete e secrete dove la stessa sottile confidenza dal passo leggero non può indugiarsi a cogliere fiori. Ecco rivelarsi il senso nietzscheano della solitudine filosofica: nel tormentoso saggio che lo spirito libero fa su sé stesso, scrive pascalianamente l'autore di Zarathustra, le persone piú care sono da allontanarsi, con la pietà, la scienza, la patria. E bisogna anche, scrive nietzscheanamente Nietzsche, non restare legato alle nostre virtú. S'illumina, vedete, nella creazione critica di questo periodo, la visione lirico-umoristica del profeta del fuoco. Il furore di Nietzsche sa anche carezzare qui: passano brividi sempre in quell'eroica anima gentile. Lo spasimo di Nietzsche si acuisce nell'esaltazione della durezza, della violenza, della schiavitú, del pericolo, dell'artificio, di tutto ciò che nell'uomo è belluino e serpentesco.

Nel terzo capitolo, Lo spirito religioso, si pone il problema della fede quale è propria dei primi cristiani e di Pascal. In Pascal è suicidio della ragione. La fede cristiana è, originariamente, un sacrificio, nel senso di insulto a sé stesso, mutilazione di sé. La nobile luce di tolleranza di Roma antica esige la nuova espressione di assoluto, di tirannico, senza lieve ombra di scetticismo. La voluttà esuberante di penitenza, negazione del mondo, annientamento del volere, è sintomo di nevrosi religiosa. Nel santo, Nietzsche vede la successione immediata dei contrasti, o di aspetti morali contraddittori. Nietzsche, analizzando la passione per Dio, timida e ardente nella Guyon, aspra e irta in S. Agostino, accenna alla crisi sessuale. La Chiesa ha canonizzato la donna isterica. In fatto di santità, Nietzsche scrive che la sola volontà di potenza ha tratto uomini potentissimi a inchinarsi al santo, considerato come un enimma d'impero su sé stesso e di privazione volontaria. La morale di Nietzsche non comporta simile "mostro di negazione". Il genio di questo filosofo è tutto per l'impeto affermatore, per l'eternità di quanto è stato ed è, per la grandezza grandiosa dello spettacolo di lotta universale. Se non che in lui l'istinto tragico non esclude il sorriso indulgente e profondo per la necessaria superficialità degli uomini. Il filosofo che abbraccia nella sua coscienza lo sviluppo completo dell'umanità può servirsi, comunque, delle religioni per la sua opera di educazione. Innegabilmente, bouddhismo e cristianesimo hanno insegnato ai minimi a elevarsi all'apparenza d'un ordine superiore e a restare soddisfatti della grama realtà. Ma guai a chi fa fini a sé stesse delle religioni! Queste pur nobili manifestazioni elevano a canone di vita la sofferenza e considerano la vita come una malattia. Cosí trionfa la sparuta miseria degli odierni europei. Entriamo ora più nel dettaglio.

Va subito detto che "Al di là del bene e del male" è anzitutto una sfida al cervello del lettore: tutti, anche senza saperlo, si sentono provocati. Il filosofo, che sente di non essersi ancora pienamente realizzato come tale, vuole affermarsi anche sul terreno teoretico, mira a legiferare sui principi dell'esistenza. Nietzsche intrappola il lettore con una domanda: "Che cos'è aristocratico?". E per contro "Che cos'è volgare?". Insiste sul tema della maschera. Esaminando l'agire degli aristocratici, si scopre che esso esprime prima di ogni altra cosa il loro istinto del distacco, e lo manifesta con una molteplicità di maschere, che vengono fraintese dai volgari come gli unici, veri volti. I libri, le opere. le filosofie - se dietro c'è un aristocratico - sono soltanto maschere. Lui stesso dichiara che conta solo indicare la propria natura, che non interessa il bisogno di nobiltà: " Chi è aristocratico non sente il bisogno di esserlo, chi ne sente il bisogno non lo è". Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e collegati tra loro: cosicchè mi si sono finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza. Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi. [...] Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di "buono" venga tenuto in onore in mezzo a costoro, vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa felicità non è genuina. All'opposto vengono messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l'esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l'operosità, l'umiltà, la gentilezza ad essere poste in onore. [...] La morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria. I genitori rendono involontariamente il figlio simile a loro - questo lo chiamano "educazione" -, nessuna madre, nel profondo del suo cuore, dubita di aver partorito a se stessa una proprietà, partorendo un figlio, nessun padre si nega il diritto di sottometterlo alle sue idee e ai suoi criteri di valore. Un tempo addirittura al padre pareva giusto disporre a suo piacimento della vita e della morte del figlio appena nato (come tra gli antichi germani). [...] Poco per volta mi si è chiarito che cosa è stata fino a oggi ogni grande filosofia: cioè la confessione del suo ideatore, una specie di mémoires involontari e inavvertiti... Di conseguenza non credo che il padre della filosofia sia un "istinto della conoscenza", ma che qui, come ovunque, un altro istinto si sia servito della conoscenza (e della falsa conoscenza!) come strumento. Ma chi consideri gli istinti fondamentali dell'uomo per chi vedere in che misura essi possano aver avuto un ruolo di geni ispiratori (o demoni, o coboldi), troverà che tutti gli istinti hanno già praticato la filosofia, e che ciascuno di essi vorrebbe fin troppo volentieri presentarsi come lo scopo finale dell'esistenza e signore legittimo di tutti gli altri istinti. Ciascun istinto infatti aspira al dominio: e come tale cerca di fare filosofia. [...] Un filosofo: un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie; che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall'esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un'aria sinistra. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso fugge da se stesso, ha paura di se stesso - ma che è troppo curioso per non "tornare a sé stesso" ogni volta. [...] Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano "così deve essere!", essi determinano in primo luogo il "dove" e l'"a che scopo" degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato - essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro "conoscere" è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza. - Esistono oggi tali filosofi? Sono già esistiti tali filosofi? Non devono forse esistere tali filosofi?."

Al di là del bene e del male" è un libro di riflessioni e aforismi che ha come motivo conduttore la ridefinizione dei concetti di "aristocraticità" e "volgarità". Questo binomio tematico, che in D'Annunzio assumerà toni esaltati di puro edonismo estetico e letterario, comporta in realtà, da parte di Nietzsche, una consapevole provocazione nei confronti del "senso comune": l'aristocratico non è colui che è "diverso dagli altri" - il "migliore" nel senso letterale ed etimologico della parola -, ma l'individuo, chiunque esso sia, che è disposto ad accettare la consapevolezza della profonda natura "animale" o "naturale" dell'uomo. L'"animale umano" non è dunque un essere inferiore a cui si contrappongono i "superuomini" aristocratici, ma è l'uomo reale, nelle sue naturali determinazioni, le stesse che l'indole "aristocratica" fa proprie con un atto di libero pensiero. Si pongono pertanto due possibilità: subire supinamente questa condizione, adattandosi a una vita alienata, da "animale d'armento", salvo poi negarla facendo ricorso a costruzioni metafisiche e valori che servono solo a mascherare ipocritamente la propria debolezza (e tali sono per Nietzsche le ideologie politiche di massa e il cristianesimo stesso); oppure prenderne atto con un gesto di volontà, trasformando questa consapevolezza in una forma di superiorità morale nei confronti dell'ipocrisia corrente. Solo questa coraggiosa accettazione della propria vera natura rende libero il filosofo nei confronti della massa.

La superiorità dell'"aristocratico" non è comunque nella liberazione edonistica degli istinti (il "piacere" dannunziano), bensì nell'accettazione del dolore, nella capacità di vivere positivamente la sofferenza senza fuggire da essa: "La profonda sofferenza rende nobili; essa divide". Fortissima e dagli aspri toni é la condanna nietzschiana alla democrazia presente nel testo: "Diciamo subito ancora una volta quel che già abbiamo detto cento volte: giacché oggi non sono ben disposti gli orecchi a intendere certe verità, le nostre verità! Ci è già abbastanza noto quanto suoni offensivo annoverare, senza fronzoli e non metaforicamente, l'uomo in genere tra gli animali; e ci verrà quasi considerata una colpa l'aver costantemente usato, proprio in riferimento agli uomini delle "idee moderne", le espressioni "armento", "istinti dell'armento" e simili. Che importa! Non possiamo fare altrimenti: sta proprio in questo, infatti, la nostra nuova conoscenza. Abbiamo riscontrato che l'Europa ha raggiunto l'unanimità in tutti i suoi principali giudizi morali, senza escludere quei paesi in cui domina l'influsso europeo: si sa, evidentemente, in Europa quel che Socrate riteneva di non sapere e ciò che quel vecchio famoso serpente aveva un tempo promesso di insegnare - si "sa" oggi che cos'è bene e male. Deve allora aver suoni aspri e tutt'altro che gradevoli agli orecchi la nostra ogn' or rinnovata insistenza nel dire che è l'istinto dell'uomo animale d'armento quel che in lui crede di saperne abbastanza a questo proposito, celebra se stesso con la lode e il biasimo e chiama se stesso buono: come tale, questo istinto è arrivato a farsi strada, a predominare e a signoreggiare sugli altri e guadagna sempre più terreno in armonia a quel crescente processo di convergenza e di assimilazione fisiologica di cui esso è un sintomo. La morale è oggi in Europa una morale da armento - dunque, stando a come intendiamo noi le cose - nient'altro che un solo tipo di morale umana, accanto, avanti, e dopo la quale molte altre, soprattutto morali superiori, sono o dovrebbero essere possibili.

Contro una tale "possibilità", contro un tale "dovrebbe", questa morale però si difende con tutte le sue forze: essa si affanna a dire con ostinazione implacabile "io sono la morale in sé e non v'è altra morale se non questa!" - anzi, sostenuta da una religione che appagava le più sublimi concupiscenze delle bestie da mandria, lusingandole, si è giunti al punto che persino nelle istituzioni politiche e sociali troviamo una espressione sempre maggiormente evidente di questa morale: il movimento democratico costituisce l'eredità di quello cristiano. Leggendo che La morale è oggi in Europa una morale da armento, non dobbiamo ridurre questo enunciato a un puro e semplice gesto di disprezzo nei confronti delle masse, ma inserirlo nella giusta cornice scientifica d tipo illuminista che connota il pensiero di Nietzsche in questa fase del suo percorso filosofico: per Nietzsche la "moralità" non è una qualità spirituale di carattere superiore infusa da un Ente di natura divina, bensì è una proprietà dell'essere vivente simile a tutte le altre, comprese quelle biologiche. Ecco un altro passo tratto da "Al di à del bene e del male" che può chiarire il significato di questo pensiero: "3. Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto loro le bucce, mi sono detto: occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per quanto riguarda l'ereditarietà e l'"innatismo". Come l'atto della nascita non può essere preso in considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, così l'"esser cosciente" non può essere contrapposto, in una qualche maniera decisiva, all'istinto, - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze fisiologiche di una determinata specie di vita."

Nietzsche, come al solito, muove un'accesa polemica nei confronti di Socrate, accusato di falsità e di ipocrisia (so di non sapere, egli diceva per mettere in difficoltà l'avversario), biasimato per aver introdotto il concetto di "uomo virtuoso", facendo così, insieme ad Euripide, morire il senso del tragico razionalizzando ogni cosa: in questo passo di Al di là del bene e del male, il riferimento è alla teoria dialettica di Socrate, fatta propria da Platone, secondo cui la vera conoscenza - soprattutto la vera conoscenza del bene - non è nel possesso di una comune opinione, nella supina ripetizione di ciò che tutti pensano, ma nella ricerca "filosofica", o "noetica", di una verità nascosta dietro l'apparenza del mondo sensibile. Una costante dell'intera opera di Nietzsche, poi, é l'attacco al cristianesimo, che troverà la sua massima espressione nell'Anticristo: in Al di là del bene e del male, vi é una condanna totale e senza mezzi termini dell'esperienza "storica" del Cristianesimo, vale a dire della sua trasformazione in istituzione politica e culturale. Per tutta l'opera Nietzsche teorizza la somiglianza strutturale e ideologica tra il cristianesimo come "sistema di valori" e qualsiasi altra forma di ideologia sociale che abbia come scopo la liberazione dell'uomo dalla sofferenza. La sofferenza, il dolore, per il nostro filosofo non è eliminabile da un'esistenza che voglia essere autenticamente libera. Nella Volontà di potenza, Nietzsche, nemico accanito del Socialismo, del Comunismo e della democrazia, simpatizzante per l'aristocrazia, definirà il Socialismo come una balorda interpretazione dell'ideale cristiano.

Resta ora da chiarire il titolo dell'opera, Al di là del bene e del male: esso é riferito al superuomo, tutto assorbito dalla vita terrena, ateo, senza inutili speranze ultraterrene, creatore di valori, rinnegatore dei valori tradizionali: egli é appunto al di là del bene e del male comunemente detti, ossia é su "un altro pianeta", ha un'altra scala di valori da lui stesso impostata e riconosciuta. In Al di là del bene e del male é evidente la precisa consapevolezza che Nietzsche ha del significato e dell'importanza dell'interpretazione nella decifrazione della realtà e del suo senso. Pensare di poter esprimere direttamente la "verità" è ingenuità o malafede; occorre operare anche in filosofia come opera la vita nella sua immediatezza: celandosi dietro una maschera. Egli stesso scrisse, a questo proposito: "Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. (...) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà." La maschera è dunque un mezzo ambiguo, dietro il quale da un lato la verità ama nascondersi per salvaguardare la propria profondità; ma che dall'altro noi utilizziamo per non vedere la realtà, per sfuggire da essa. "Nel terzo saggio di questo libro ho presentato un modello di quel che in un caso del genere intendo per "interpretazione" - a questo saggio è fatto precedere un aforisma ed esso stesso ne rappresenta il commento. Indubbiamente, per esercitare in tal modo la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa, che oggidì è stata disimparata proprio nel modo più assoluto - ed è per questo che per giungere alla "leggibilità" dei miei libri occorre ancora del tempo - una cosa per cui si deve essere quasi vacche e in ogni caso non "uomini moderni": il ruminare...".

La modernità a cui si riferisce Nietzsche è la nostra modernità delle macchine, della velocità ad ogni costo. Una modernità che non lascia più spazio all'attenzione e alla profondità, che fa, appunto, della velocità una maschera per nascondere la propria angoscia ed impotenza. Ruminare, quindi, nel senso di lasciarsi tempo, di ripensare a lungo su ciò che si è letto, di non voler cogliere "subito tutto", di essere, cioè, il contrario di un uomo moderno. Da: Al di là del bene e del male, afor. 38: "Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto le loro bucce, mi sono detto: occorre anche considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per quanto riguarda l'ereditarietà e l'"innatismo". Come l'atto della nascita non può essere preso in considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, cosl l'"esser cosciente" non può essere contrapposto, in una qualche maniera decisiva, all'istintivo - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze fisiologiche di una determinata specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza sia meno valida della "verità": simili apprezzamenti, con tutta la loro importanza regolativa per noi, potrebbero, pur tuttavia, essere soltanto apprezzamenti pregiudiziali, una determinata specie di "niaiserie", come può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. Supposto, cioè, che non sia proprio l'uomo la "misura delle cose"...".

Alla radice della filosofia e della morale - dice in sostanza Nietzsche in questo aforisma - c'è l'istinto di conservazione e di accrescimento della vita. Dietro ogni grande teoria filosofica, ogni ideale morale o misticismo religioso, c'è la volontà di vivere, concepita come una forza naturale sempre uguale a se stessa. "Comunque sia da concepire questo "fondo", resta in ogni caso che, nella demitizzazione, esso si oppone al mito come il vero al falso, è il criterio di verità in base a cui la favola si rivela favola. Ora, uno dei miti, anzi il mito che Nietzsche si è applicato con più calore a distruggere, è proprio la credenza nella verità. "Anzitutto, scuotere la credenza nella verità". Non in qualche verità determinata, ma nella verità come tale." G. Vattimo, citato, p. 136. Leggiamo ora l'aforisma 16: "Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di sé, i quali credono che vi siano "certezze immediate", per esempio "io penso", o, come era la superstizione di Schopenhauer, "io voglio": come se qui il conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale "cosa in sé", e non potesse aver luogo una falsificazione né da parte del soggetto, né da parte dell'oggetto." … se il "soggetto" della conoscenza, colui che conosce, può falsificare i dati della sua conoscenza sovrapponendovi le proprie "verità" prefabbricate e le proprie teorie morali; così anche l'"oggetto", la cosa che si vuole conoscere, si nasconde dietro un'apparenza, una serie di maschere, che caratterizza tutto ciò che è vivo: la vita ama nascondersi per difendersi... "Ma non mi stancherò di ripetere che "certezza immediata", così come "assoluta conoscenza" e "cosa in sé", comportano una "contradictio in adjecto": ci si dovrebbe pure sbarazzare, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure fin che vuole il volgo, che conoscere sia un conoscere esaustivo; il filosofo deve dirsi: se scompongo il processo che si esprime nella proposizione "io penso", ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, - come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un'attività e l'effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un "io", infine, che sia già assodato che cos'è caratterizzabile in termini di pensiero, - che io sappia che cos'è pensare. Se io, infatti, non mi fossi già ben deciso al riguardo, su quale base potrei giudicare che quanto appunto mi sta accadendo non sia forse un "volere" o un "sentire"? Ebbene, quell'"io penso" presuppone il confronto del mio stato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che cosa esso sia: a causa di questo rinvio a un diverso "sapere", esso non ha per me, in nessun caso, un'immediata certezza."

Malgrado la sua critica nei confronti del linguaggio filosofico tradizionale, in questo caso Nietzsche "ricade" nel meccanismo della confutazione logica: egli asserisce, infatti, che la "certezza" cartesiana circa il fondamento primario dell'"io penso" - al di sotto dell'io, della coscienza, non c'è nulla poiché è il pensare che costituisce il fondamento di ogni certezza - è contraddetta dall'esistenza, accanto al "pensare", di altri stati della coscienza quali il "volere" e il "sentire". In base a quale principio assoluto possiamo dunque stabilire che prima viene il pensare e poi tutto il resto? In base, sostiene Nietzsche, a una semplice nostra decisione in tal senso. Ma proprio Nietzsche ci ha insegnato che una decisione non crea una verità. " - Al posto di quella "certezza immediata", alla quale il popolo, nel caso in questione, può credere, il filosofo si ritrova in tal modo nelle mani una serie di problemi della metafisica, vere e proprie questioni di coscienza dell'intelletto, che così si formulano: "Donde prendo il concetto del pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare d'un io e perfino d'un io come causa, e infine ancora d'un io come causa dei pensieri?". Chi, richiamandosi a una specie d'intuizione della conoscenza, si sentisse così fiducioso da rispondere, come fa colui che dice: "Io penso e so che questo almeno è vero, reale, certo" -troverebbe oggi pronti in un filosofo un sorriso e due punti interrogativi: "Signor mio, gli farebbe forse capire il filosofo, è improbabile che lei non si sbagli: ma perché poi verità a tutti i costi?." Per comprendere il significato di quest'ultima frase, leggiamo questi altri due brevi aforismi tratti da La volontà di potenza: "Contro il valore di ciò che rimane eternamente uguale (vedi l'ingenuità di Spinoza, come pure di Cartesio) c'è il valore di ciò che è più breve e transeunte, il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita". "Non "conoscere" ma schematizzare, - imporre al caos tutta la regolarità e tutte le forme sufficienti al nostro bisogno pratico". Dunque la verità a tutti i costi è un bisogno pratico di sopravvivenza dell'uomo; solo di quell'uomo, però, che teme, per debolezza, la forza vitale del "divenire", del caotico cambiamento che caratterizza la vita.

Il seguente aforisma (n. 289), sempre tratto da Al di là del bene e del male, è stato giudicato "una delle pagine più belle che Nietzsche abbia mai scritto". In esso emerge con forza quel concetto di profondità insondabile del "vero" che ha connotato gran parte del pensiero del Novecento: "Negli scritti di un eremita si ode ancor sempre qualcosa coma la eco del deserto, qualcosa dei bisbigli e del timido guardarsi attorno della solitudine…" Malgrado l'apparenza, anzi, proprio "dietro di essa", deserto e solitudine nascondono ancora qualcosa; l'eremita ascolta proprio questo "qualcosa". "… dalle sue più forti parole, dal suo stesso grido affiora ancora una nuova e più pericolosa specie di silenzio, di tacita segretezza. Chi di anno in anno, ogni giorno e ogni notte, è stato in un intimo contrasto e colloquio con l'anima sua, chi nella sua caverna - può essere un labirinto, ma anche una miniera d'oro - è divenuto un orso antidiluviano o un disseppellitore o un custode di tesori e un drago…" Il "nuovo" filosofo che Nietzsche intende essere non è colui che dà chiarezza, ma colui che scava nella profondità senza paura di sporcarsi; nella profondità dell'esistenza infatti si trova l'oscurità (che la nostra "coscienza" ritiene fangosa) di una condizione vitale elementare di cui è stolto avere paura, perché in essa si cela il tesoro della vita. Il filosofo, come il drago della mitologia sassone, è il custode del tesoro celato nel cuore della terra. "… finisce per ricevere, persino nelle sue idee, un tono di luce crepuscolare, un profumo tanto d'abisso che di muffa, qualcosa di incomunicabile e di ripugnante che investe con un soffio gelido chiunque gli passi accanto. L'eremita non crede che un filosofo - posto che un filosofo sia sempre stato, prima di tutto, un eremita - abbia mai espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni: non si scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé? - dubiterà, anzi, che un filosofo possa avere in generale "estreme e intime" opinioni, pensando invece che ci sia in lui, dietro ogni caverna, una caverna ancor più profonda - un mondo più vasto, più strano, più ricco al di sopra d'una superficie, un abisso sotto ogni fondo, sotto ogni "fondazione". Ogni filosofia è filosofia di proscenio - questo è un giudizio da eremita: "V'è qualcosa di arbitrario nel fatto che costui si sia arrestato qui, abbia rivolto lo sguardo indietro e intorno a sé, non abbia, qui, scavato più profondamente e abbia messo in disparte la vanga - c'è pure qualcosa di sospetto in tutto ciò". Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondimento, ogni parola anche una maschera."

GENEALOGIA DELLA MORALE

Composta da Nietzsche nell'estate del 1887 e pubblicata agli inizi dell'inverno di quello stesso anno, la "Genealogia della morale" nacque come scritto polemico, presentandosi all'insegna di una consapevole provocazione. Alcune delle più controverse teorie sociali di Nietzsche, come per esempio la contrapposizione fra morale dei signori e morale del gregge, vengono ampiamente esposte e argomentate in questo libro. Ma ogni riferimento sociale rimarrebbe opaco se non lo si connettesse al suo presupposto "metafisico": l'indagine sull' "origine dei nostri pregiudizi morali" presuppone l'interrogativo sull' "origine del male", a cui Nietzsche dichiara di essersi dedicato sin dal suo "primo gioco d'infanzia letterario": "a quel tempo, ebbene, com'é logico, resi l'onore a Dio e feci di lui il padre del male". Nietzsche sapeva benissimo che questo suo scritto sarebbe suonato "urtante all'orecchio". Ma sapeva anche che, nella sua epoca come nella nostra, questo é inevitabile per ogni ricerca che metta radicalmente in questione la bontà dei buoni sentimenti e si offra quale amaro antidoto alle perorazioni di coloro che "a quel che pretendono non danno il nome di rivalsa, bensì di 'trionfo della giustizia'". In quanto tale, con tutte le sue contraddizioni e dolorose tensioni, la "Genealogia della morale" rimane un saggio prezioso.

La "Genealogia della morale", come accennato, fu concepita e presentata da Nietzsche come un'integrazione e un chiarimento rispetto alle tesi enunciate in "Al di là del bene e del male", pubblicato l'anno precedente. E' lo scritto con il quale Nietzsche conclude il periodo della sua battaglia contro la morale occidentale e cristiana, iniziata con "Umano, troppo umano". Rispetto ai primi scritti di questo periodo, costruiti come raccolte di aforismi, la Genealogia della morale presenta una maggiore sistematicità e un andamento più argomentativo. Essa risulta infatti articolata in tre dissertazioni, ciascuna con un proprio titolo, e, precisamente: 1 ) buono e malvagio, buono e cattivo; 2 ) colpa, cattiva coscienza e simili; 3 ) che significano gli ideali ascetici? Il primo effetto prodotto dalla cattiva coscienza consiste nell'interpretare in chiave morale i propri istinti animali e, quindi, come cattivi, ossia costituenti di per sè una colpa, in quanto sarebbero contrastanti con la volontà di Dio. Il positivo viene così interamente spostato fuori di sè e della propria natura e riconosciuto solo i Dio, mentre tutto ciò che é umano, compresi se stessi e la propria natura, diventa il negativo. Tra questi due poli si instaura una distanza incolmabile, sulla quale si fondano le nozioni di inferno e di pena eterna. Alla radice di queste operazioni Nietzsche vede una volontà inconsapevole di crudeltà, che raggiunge il suo apice proprio quando é rivolta contro se stessi: qui si radica la "volontà di pensarsi castigato" eternamente, senza mai poter scontare interamente e definitivamente da sè la colpa, con la conseguenza che l'esistenza e l'uomo stesso vengono spogliati di ogni valore, per identificare il valore stesso con Dio. E strettamente connesso a queste argomentazioni é l'ascetismo, che si basa sul presupposto di concepire l'uomo come un essere imperfetto e incompleto, mancante di qualcosa. Ciò significa che l'uomo non ha in se stesso la giustificazione della propria esistenza, ma deve cercarla altrove, fuori di sè e soltanto fuori di sè: nella negazione di se stesso può trovare un significato per la propria vita. L'ascetismo agli occhi di Nietzsche presenta solo un aspetto positivo: l'aver dato un senso alla sofferenza, che é un dato ineliminabile, ma che appare assurdo e privo di senso a colui che soffre.

Come intuibile, con la "Genealogia della morale" Nietzsche si impegna con una nuova profondità a rovesciare tutti gli apprezzamenti di valore già dati nella tradizione europea. In particolare, la morale platonico-cristiana, con i suoi valori di compassione, umiltà, rassegnazione e uguaglianza appiattita sul livello dei più deboli e rinunciatari, viene stigmatizzata come "morale degli schiavi", che dicono un "no" secco alla vita, e del risentimento contro le virtù praticate positivamente dagli aristocratici (magnanimità, coraggio, capacità di eccedere e di donare). In quest' opera c'è poi un riavvicinamento a Schopenauer. Infatti nella prefazione egli dice: "...il mio grande maestro Schopenhauer". La parentela del nuovo principio filosofico della "volontà di potenza" con il principio schopenhaueriano della "volontà di vivere" è evidente e indiscutibile (e lo dice Nietzsche stesso). La prima si presenta anzi come una variante della seconda. In entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale, che è in noi. La differenza rispetto a questa sostanza si riduce al fatto che Schopenhauer la rifiuta e vuole negarla, Nietzsche invece l'accetta e vuole affermarla. In quest'opera cominciano a delinearsi gli argomenti e le tesi contro la scienza. [...] Mentre ogni morale aristocratica nasce da una trionfale affermazione di sé, la morale degli schiavi oppone sin dal principio un no a ciò che non fa parte di essa, a ciò che è differente da sé ed è il suo non-io; e tale è il suo atto creatore. Questo capovolgimento del colpo d'occhio valutativo, questo punto di vista che si ispira necessariamente all'esterno invece di fondarsi su se stesso, appartiene in proprio al risentimento.

Della "Genealogia della morale" ce ne parla Nietzsche stesso in "Ecce homo", la sua autobiografia: "Le tre dissertazioni di cui é composta questa genealogia sono forse, per quel che riguarda l'espressione, le intenzioni e l'arte della sorpresa, ciò che di più inquietante é stato scritto finora. Dioniso é, si sa, anche il dio dell'oscurità. Tutte le volte, un principio che si deve indurre in errore, freddo, scientifico, perfino ironico, messo in rilievo con intenzione, tirato in lungo con intenzione. A poco a poco l'agitazione cresce: guizzano singoli lampi; da lontano, delle verità molto spiacevoli si fanno sentire con un cupo brontolìo; finchè da ultimo si arriva ad un tempo feroce in cui ogni cosa incalza con una formidabile tensione. In chiusura, tutte le volte, fra denotazioni spaventose appare tra dense nubi una nuova verità. La verità della prima dissertazione é la psicologia del cristianesimo: l'origine del cristianesimo dallo spirito del risentimento e non, come si crede generalmente, dallo spirito; per sua natura, un movimento di reazione, la grande sollevazione contro il dominio di valori nobili. La seconda dissertazione dà la psicologia della coscienza: la quale non é, come generalmente si crede, la voce di dio nell'uomo, ma é l'istinto della crudeltà che, poichè non gli é più possibile di sfogarsi all'esterno, si rivolta indentro. La crudeltà é mostrata qui per la prima volta come uno dei più antichi e più necessari fondamenti della civiltà. La terza dissertazione risolve il problema donde venga l'immensa potenza dell'ideale ascetico, dell'ideale del prete, sebbene esso sia l'ideale dannoso per eccellenza, un'aspirazione alla fine, un ideale di decadenza. Risposta: non perchè, come generalmente si crede, dio agisca dietro il sacerdote, ma 'faute e mieux', perchè finora fu l'unico ideale, perchè non ha avuto concorrenti. Poichè l'uomo preferisce di volere il Nulla piuttosto che non volere nulla... Soprattutto, mancava un controideale, fino a Zarathustra. Sono stato compreso? Tre importanti studi preparatori d'uno psicologo, per un'inversione di tutti i valori. Questo libro contiene la prima psicologia del prete". Nella "Genealogia della morale" Nietzsche ne approfitta per trattare un tema che riprenderà poi nell'Anticristo: il tema, come accennavamo, del senso di colpa, del doversi ad ogni costo sentire colpevoli di fronte ad un Dio creatore della morale: "Si sarà già intuito che i criteri di valutazione dei sacerdoti possono facilmente separarsi da quelli cavalleresco - aristocratici, fino a diventare il loro opposto. I giudizi di valore cavalleresco - aristocratici presuppongono una prestanza fisica, una salute florida, ricca, debordante e insieme tutto ciò che ne condiziona il mantenimento, guerra, avventura, caccia, danza, tornei, insomma tutto quello che comporta una vita attiva, forte, libera, serena. I criteri di valutazione sacerdotali hanno altri presupposti...C'è qualcosa di malsano in queste aristocrazie sacerdotali e nelle abitudini che le dominano, aliene all'azione, parte sentimentalmente esplosive e parte malinconicamente assopite, qualcosa la cui conseguenza pare essere quella nevrastenia e quella cagionevolezza intestinale che sembra inevitabilmente endemica tra i sacerdoti di ogni tempo... I sacerdoti sono, come è noto, i nemici più crudeli. E per quale ragione poi? Perché sono i più impotenti. L'impotenza genera in loro un odio che arriva a diventare mostruoso e sinistro, spiritualissimo e tossico al massimo grado. Nella storia universale coloro che più degli altri sono stati capaci di odio, e di genialità nell'odio, sono sempre stati i preti - a paragone della genialità della vendetta sacerdotale, ogni altra dote intellettuale può appena essere presa in considerazione...gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che non ritenne di aver ricevuto la dovuta soddisfazione dai propri nemici e sopraffattori, se non dopo averne radicalmente ribaltato i valori, cioè solo grazie ad un atto della più spirituale vendetta. Sono stati gli Ebrei che hanno osato ribaltare e mantenere, stringendo i denti dell'odio più abissale (l'odio dell'impotenza), l'equazione aristocratica di valore buono = aristocratico in "i miserabili solo sono i buoni, i poveri, gli impotenti, i sofferenti, gli indigenti, i malati, i brutti sono gli unici ad essere pii, beati in Dio, solo a loro è concessa la beatitudine - là dove voi, al contrario - voi, nobili e potenti, voi sarete per l'eternità i malvagi, i crudeli, i corrotti, gli insaziabili, gli empi, e sarete anche per l'eternità infelici, dannati e maledetti" (Genealogia della morale, 8).

Il Dio originario degli Ebrei è la naturale espressione della potenza del popolo ebraico ed è pertanto concepito antropomorficamente come padre e come re, potente e vendicativo. Ma nel tempo questa potenza viene meno e a man mano che Dio appare sempre meno reale, anche il concetto di Dio subisce un processo di moralizzazione e di purificazione: viene introdotta l'idea di peccato, colpa, aldilà che trasforma la sua decadenza, la sua morte sulla croce, in un nuovo dio, il Dio dei cristiani. In questo modo la sconfitta storica di Gesù, la sua morte sulla croce, è spacciata per una vittoria e il progetto storico del cristianesimo è una gigantesca mistificazione per cui i più nichilisti, i più impotenti diventano i padroni del mondo in nome di una entità inesistente che loro stessi gestiscono e amministrano. Ciò avviene inculcando agli uomini un perverso sistema di divieti, di giudizi e di scale di valori assolutamente arbitrari con lo scopo di spegnere i essi tutte le reattività, indebolirlo, renderlo simile a loro reprimendo le pulsioni naturali. L'uomo, spinto a soffocare i propri impulsi e a vergognarsene, trova il suo sfogo nel mondo interiore dove trovano spazio angoscia e inquietudine. L'uomo, che crede di essere arrivato sul gradino più alto dell'evoluzione, è destinato a diventare sempre più malato, come sempre più malata è la sua produzione artistica e letteraria, piena com'è di lacrimevoli retoriche su pentimenti, rimorsi, problemi di coscienza e problemi esistenziali. La morale ha riempito l'uomo di mostri interiori e lo ha trasformato in una povera bestia acculturata. Chiunque pensi che il disprezzo di Nietzsche per la morale, per il cristianesimo, per la cultura, sia un elogio alla violenza, dimostra di non avere capito nulla. Nietzsche non è il filosofo del potere, ma il filosofo del divenire, ed è per questo che accanto al cristianesimo combatte il socialismo, l'anarchismo, il femminismo e il concetto stesso di ideologia. Ogni ideologia nasce da uno stato di malessere e di "risentimento", al pari del cristianesimo. L'idea ebraica e cristiana del libro che cambia la vita è ereditata dal socialismo in cui gli intellettuali prendono il posto dei preti ed è ereditata dal femminismo in cui le donne prendono il posto dei preti e degli intellettuali e così via. Le ideologie sono teorie sempre confutabili che hanno in comune il fatto di proporre libri programmatici, precetti, ideali nella cui genericità e universalità nessuno si riconosce. Queste considerazioni permettono a Nietzsche di interpretare il processo storico e filosofico dell'età moderna in modo profondamente originale. Il movimento che da Lutero e dalla Riforma protestante porta a Leibniz, a Kant, alla filosofia tedesca, assume qui un significato regressivo: la rivolta del mondo tedesco contro Roma è la rivincita della teologia e della morale nei confronti di quel sano scetticismo veramente progressivo e creativo del Rinascimenti italiano. L'importanza fondamentale dell' Italia e della sua cultura consiste nel fatto che in questo paese si è tentato di uccidere Dio prima che in qualsiasi altro luogo, proprio nel Rinascimento, quando si è riconosciuto il carattere temporale e politico dei condizionamenti metafisici.

IL CASO WAGNER

Dopo la Genealogia della Morale, s'inizia un periodo vivacemente polemico e genialmente paradossale in cui Nietzsche si fa il legislatore della propria profezia. La nudità psicologica si fa piú incisiva; la forma stilistica del pensiero nietzscheano diventa piú cruda e precisamente superba. Chi annuncia l'era tragica dell'Europa è compreso di una strana febbre di chiarezza e di orgoglio. Il celebre Caso Wagner, compiuto a Sils-Maria nel luglio del 1888, e apparso nelle librerie di Torino nel settembre dello scorso anno, riesce a far parlare le gazzette cosí squallidamente mute prima per Nietzsche, per il carattere pamphletaire di quest'opera del terribile specialista, per dirla alla Berthelot. Wagner è per Nietzsche artista moderno per eccellenza, senza natura, senza coltura, senza istinto. Ma Wagner ha saputo, con acutissima perspicacia, scoprire i bisogni, le necessità interiori, dell'anima de' suoi tempi. Wagner è un ciarlatano che ha suonato insieme tutte le campane: la brutalità, l'idiozia, l'artificio sono le sue armi. Il retore dell'arte massiccia, africanamente fantasioso, preziosamente orientale, informe, scompositore dello stile, col suo coraggio ha saputo teorizzare i propri difetti. Wagner, narcotizzatore misterioso, sbigottisce come un sogno cupo, come un incubo, le anime malate. Gli istinti nichilisti, la fatica, la morte sono glorificati dal Maestro che ha reso musicalmente l'antipotenza e l'antivolontà. Wagner è il decadente per eccellenza, quello che Nietzsche, nella "Volontà di potenza" definirà "un grande punto interrogativo del nostro secolo".

La musica secondo Nietzsche é stata privata del suo carattere affermativo e trasfiguratore del mondo per diventare una vera e propria musica di decadenza e non più il flauto di Dioniso: in essa non é più insita una volontà di vivere che si estrinseca in ogni istante, bensì predominano i temi cupi di chi rifiuta la vita. Ed ecco che tutto "Il caso Wagner" non é altro che un enorme "problema musicale", come lo definisce Nietzsche stesso in "Ecce homo": e Nietzsche si proclama pronto a muover guerra contro Wagner, il suo grande amico del passato, schierando i campo i "pezzi più grossi della mia artiglieria". Nietzsche era particolarmente affascinato dalla musica in quanto forma artistica, per di più tipicamente dionisiaca ed egli arriva più volte a sostenere che l'arte sia più importante della verità (anche perchè, in fin dei conti, che cosa é la verità?). Il grande pensatore tedesco dice di disprezzare in Wagner l'eccessivo spirito religioso e l'antisemitismo sfrenato: e qui abbiamo la conferma decisiva dell'errata interpretazione nazista del pensiero nietzscheano che, indebitamente, lo ha sempre fatto passare per antisemita. Ma la critica aspra e polemica mossa al musicista tedesco non trova le sue radici in complessi edifici argomentativi, quanto piuttosto nel mettere in luce i danni arrecati da Wagner alla cultura tedesca: sì, perchè "Wagner non é un sillogismo, ma una malattia" che se non trattata con la giusta terapia può infettare l'intero mondo tedesco ed europeo. Ed ecco allora che troviamo Nietzsche nei panni di medico indaffarato a trovare un rimedio a questa malattia di nome "Wagner". Wagner secondo Nietzsche ha tutte le istanze dell'uomo moderno: il sovreccitamento e l'esaltazione, la pomposità delle rappresentazioni, il teatro rivolto alle masse, all' 'armento'.

E strettamente congiunto alla decadenza wagneriana é l'idealismo stesso che caratteristica il musicista tedesco, il cercare in modo esasperato la redenzione dell'uomo (anche dalla donna!), la conoscenza. Wagner é poi imbevuto del pessimismo di Schopenhauer, da cui Nietzsche si é saggiamente distaccato. E poi non mancano le critiche all'ideale wagneriano secondo il quale la musica non sarebbe un punto di arrivo, ma solo un mezzo per arrivare oltre, a qualcosa di superiore: Nietzsche non può accettare questo, da grande estimatore dell'arte quale egli é: non vi é un "oltre la musica", non vi é una verità recondita cui l'uomo può accedere tramite le leggiadre sinfonie musicali: tutta la verità é insita nella musica stessa, massima espressione artistica di tipo dionisiaco. Certo, Wagner si può ammirare: è un seduttore in grande stile, convince gli incerti senza condurli alla consapevolezza di ciò che viene fatto loro credere, occulta il più nero oscurantismo nei luminosi involucri dell' "ideale". I giovani con Wagner diventano imbecilli, cioè "idealisti"; in questo senso Parsifal è un capolavoro. Dunque, l'adesione a Wagner deve far sì che la vita riesca in singoli individui, in singoli esemplari e non realizzi la felicità dei più, della maggior parte delle persone. Il "dramma di sè" deve essere "ritrovamento di sè". Occorre prendere potere su se stessi che significa anche prendere potere sui nostri "pro" e sui nostri "contro". Leggi ancora: "aver potere sul bene e sul male". Questo ci libera dall'obbligo di solidarizzare con gli altri i quali invece ostacolano proprio la formazione del super uomo. Nel 1854 Wagner si avvicina a Schopenhauer concependo il mito non solo come passato inverato dalla storia, ma come il presente che spiega il passato imperniando il dramma sull'azione negativa della volontà, poi supera Schopenhauer affermando la possibilità di un' azione redentrice. Rielaborando le antiche leggende dell' "Edda", del "Niebelungenlied", Wagner infonde nei personaggi uno spirito universale sì che l'angoscia degli dei antichi, le passioni dei nani e dei giganti, l'anima degli eroi si identificano con le nostre angosce, con le nostre passioni, con i nostri stessi ideali Due le idee madri in Wagner: l'idea di una caduta originale e quella di una redenzione. Il male entra nel mondo per una colpa, un fallo e fatalmente allarga il proprio influsso venefico fino a dominare tutti gli esseri viventi e persino gli stessi dei. La caduta da uno stato di innocenza e la coscienza della colpa spingono i personaggi wagneriani al bisogno di un riscatto: siamo alla vigilia dell'idea della redenzione. E poiché nessuno può essere nello stesso tempo colpevole e redentore, ecco allora profilarsi l'eroe redentore: l'uomo puro tra i puri potrà essere l'eroe degno della missione e riportare l'umanità alla purezza, perdonando e obliando la "caduta". Niente di più lontano da Nietzsche; il filosofo rifiuta decisamente l'equivalenza pena = colpa. E' vero che la sofferenza conferisce distinzione, virtù, valore e nobiltà, ma l'ascesi di Nietzsche ha un'altra direzione; ciò che è terribile è la mancanza di senso del dolore, è la sua gratuità che suscita ribellione. Occorre dunque trovarne una interpretazione. Poiché il senso del dolore ha varie interpretazioni, trovare il "senso in sé " è cosa che non esiste. E' compito rimesso a ciascuno di noi trovare l'interpretazione del nostro dolore personale. Solo così avrà "senso" per ciascuno di noi e ne renderà possibile l'accettazione.

Dunque il dolore può assumere più forme perché di per sé non ha valore, ma riceve il valore di "riflesso", il valore che ogni uomo dà al proprio dolore. La sofferenza non deriva da colpa, c'è e basta; è la lotta titanica con il dolore che ci porta a rinascere alla vita. Morale, religione, metafisica sono solo giustificazioni. Il dolore ha senso nel preciso momento in cui io gliene do uno. Dice Nietzsche: "davanti al tiranno (dolore) io sono senza colpa". Profonde divergenze ideologiche e filosofiche allontanano quindi Nietzsche da Wagner, per quanto Nietzsche abbia indubbiamente sentito il fascino della musica wagneriana, e non solo.

Già nel 1854 Nietzsche aveva composto al ginnasio alcuni brani musicali; nel 1860 aveva fondato l'associazione musicale e letteraria "Germania" per la quale il filosofo scriverà saggi, poesie, composizioni musicali. Dopo l'allontanamento da Wagner, Nietzsche farà l'elogio della Carmen di Bizet, dimostrando di amare un altro tipo di musica. Anche Wagner era stato grande ammiratore di Nietzsche fervente entusiasta allorché nel 1872 era uscita "la nascita della tragedia dallo spirito della musica". Persino Cosima Wagner riceve con gratitudine gli omaggi e le dediche letterarie e musicali che le indirizzò il filosofo. Ma già nel luglio 1876, quando esce la quarta "inattuale": "Richard Wagner a Bayreuth", il filosofo avverte il suo congedo da Wagner. Intanto le condizioni di salute di Nietzsche si aggravano sempre più e allorchè esce nel 1878 "umano, troppo umano", Cosima e Richard Wagner si chiudono in un silenzio ostile. Di lì a poco Wagner non esisterà più per Nietzsche se non nelle opere e nei brani che lo riguardano. Solo nel 1889, in piena crisi psichica e ormai prossimo al manicomio, Nietzsche ricorderà il nome Wagner, scrivendo a Cosima un biglietto "Arianna, io ti amo", paragonando Cosima ad Arianna. Si concluse erroneamente per un infelice amore di Nietzsche per Cosima Wagner; in realtà niente mostra tracce di un autentico amore ad eccezione di quel sentimento che legò Nietzsche al Lou Salomè, sua discepola e compagna dalla quale fu poi abbandonato.

IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI

Ovvero come si filosofa col martello

Il "Crepuscolo degli idoli" appartiene a quei mesi brucianti del 1888 che videro l'ultima fioritura degli scritti di Nietzsche. In questo libretto leggero, sinuoso, acuminato, Nietzsche sembra cercare una pausa di temibile "ozio", un respiro all'interno della laboriosa formazione della sua grande opera incompiuta: la "Trasvalutazione". E' un gioco guerresco, teatrale, che vuole aggirare, auscultare e rovesciare tutti quegli idoli che accompagnano la nostra storia. Il Nietzsche che qui racchiude in una abbagliante parabola la millenaria vicenda attraverso la quale "il mondo vero divenne favola" é lo stesso che, superata la soglia iniziatica nella sua critica della décadence, ne annuncia la conclusione paradossale: che l'unica critica adeguata della décadence é quella che ci obbliga ad "andare avanti, voglio dire un passo dopo l'altro più in là nella décadence".

Nietzsche stesso scrive a proposito del "Crepuscolo degli idoli" in "Ecce homo", la sua autobiografia: "Questo scritto, che non arriva a 150 pagine, sereno e fatale nell'intonazione- un demone che ride- scritto in così pochi giorni che io esito a dirne il numero, é fra i libri, una vera eccezione: non c'é nulla di più sostanzioso, di più indipendente, di più rivoluzionario: di più cattivo. Se ci si vuole fare rapidamente un'idea del modo in cui erano capovolte tutte le cose, prima di me, si cominci da questo scritto. Ciò che sulla copertina é chiamato idolo é semplicemente quello che finora si é chiamato verità. Crepuscolo degli idoli; in lingua povera: la vecchia verità si avvicina alla sua fine... Non c'é realtà, non c'é idealità che non sia toccata in questo libro (toccata: che prudente eufemismo!). Non solo gli idoli eterni, ma anche i più recenti e, conseguentemente, i più caduchi: le idee moderne, ad esempio. Un gran vento soffia tra gli alberi e dappertutto cadono a terra dei frutti: delle verità. Vi é in esso la soverchia abbondanza di un autunno troppo ricco: si inciampa tra le verità, se ne schiaccia anche qualcuna: ce ne sono troppe... Ma ciò che si finisce per avere in mano non sono più cose problematiche, sono cose precise". Nietzsche arriva anche a definire quest'opera come la somma di tutte le sue principali eterodossie filosofiche; non gli idoli dell'epoca, ma gli ideali, gli idoli eterni vengono qui ausculati e sfiorati col martello come con un diapason. Sicchè il martello con cui Nietzsche filosofeggia sembra piuttosto il martelletto di un mineralogo che un rozzo strumento distruttore; é anzi un diapason grazie al quale gli idoli eterni, gli ideali, emettono quel sordo rumore che tradisce viscere enfiate. Già in "Umano, troppo umano" Nietzsche aveva potuto pronunciarsi contro gli ideali, suoi eterni nemici: "Dove voi vedete cose ideali, io vedo cose umane,ah! troppo umane... ".

Il "Crepuscolo degli idoli" rappresenta una "fisiologizzazione" del pensiero del filosofo tedesco, che ha al suo centro il concetto di décadence. La decadenza nella filosofia (da Socrate), nella religione e nella morale (cristianesimo), nella politica (democrazia e socialismo) nell'arte e nella letteratura é condizionata fisiologicamente. Ciò vuol dire che essa é espressione del decadere della vita. Il pessimismo non é un problema, ma solo un sintomo, il nome giusto per esso é nichilismo, ma il nichilismo a sua volta non é la causa ma la logica stessa della décadence. Sotto i nomi più rispettati e venerati, i valori nichilistici, i valori del declino della vita, si sono imposti e dominano la modernità. E il processo di decadenza non può nè deve essere arrestato, checchè ne pensino i vari filosofi e i preti. L'umanità, sotto il grande peccato originale della ragione, l'immortale irrazionalità, che ha fondato la morale, é giunta alle forme attuali della decadenza. Nietzsche non ha da contrapporre alcun antidoto, intende solo descrivere la decadenza, andarne a caccia, farla vedere dietro ogni idolo, ogni ideale. La sua é solo una diagnosi, non vi é un solo imperativo volto al miglioramento. Un'infinita scala di individui, di infinite volontà di potenza, ciascuna con la loro prospettiva, ciascuna separata e in tensione con tutte le altre; questa sembra essere la visione finale. Dopo l'annullamento del dualismo "mondo vero-mondo apparente" tutte le prospettive di tutte le volontà di potenza non sono nè vere nè false: sono però reali, e restituite all'innocenza del divenire. E sul finire del "Crepuscolo degli idoli" troviamo anche la concezione dell'eterno ritorno e dell'amor fati, tipiche della filosofia nietzscheana, espresse come "fede di Dioniso": "Io, l'ultimo discepolo del filosofo Dioniso, io il maestro dell'eterno ritorno...". E poi vi é la celebre sintesi dell'argomento del Crepuscolo degli idoli: "La volontà di sistema é una mancanza di onestà". Non un sistema della volontà di potenza, ma la negazione e il superamento della volontà di potenza nel pensiero dell'eterno ritorno dell'identico é il significato filosofico del Crepuscolo degli idoli. Nella prefazione, Nietzsche esordisce sostenendo amaramente che "vi sono nel mondo più idoli che realtà", e sono proprio questi idoli, ossia questi ideali, che hanno fatto imboccare al mondo la strada della décadence, dalla quale non si può tornare indietro; certo, il pensatore tedesco sa che non tutti comprenderanno le sue teorie e preferiranno aggrapparsi agli idoli, senza staccarsene per nulla al mondo: e così Nietzsche può dire: "Uomini postumi-,come me, ad esempio- vengono compresi peggio di quelli attuali, ma ascoltati meglio. Più esattamente: noi non siamo mai compresi- di qui la nostra autorità..." (af. 15).

Nietzsche dichiara così guerra a tutti gli ideali, una guerra che lo vede combattere da solo contro tutti quanti gli uomini, che non riescono a capirlo; e così egli si avvia a smascherare uno dei più gradi creatori di ideali: Socrate, con cui ha esordio la grande decadenza. Il suo errore consisterebbe nell'aver introdotto l'ideale della virtù e della dialettica e se i suoi precetti furono accolti dagli Ateniesi, fu solo perchè egli "affascinava: sembrava essere un medico, un salvatore". Il ragionamento socratico viene da Nietzsche così riassunto: "Ragione = virtù = felicità significa solamente che si deve imitare Socrate e stabilire in permanenza contro gli oscuri appetiti una luce diurna, la luce diurna della ragione": Nietzsche riprende qui il tema caratteristico della "Nascita della tragedia", secondo il quale Socrate introducendo a tutti i costi la razionalità avrebbe ucciso il senso del tragico, il dionisiaco. Nietzsche non può che disapprovare Socrate anche per il fatto che egli volle morire, andando contro la morte con animo tranquillo: l'intera sua vita non fu altro che un "no" alla vita, in attesa di una vita ultraterrena. Ma i velenosi strali di Nietzsche sono indirizzati a molti altri filosofi dell'antichità e l'unico a salvarsi é Eraclito, da cui Nietzsche stesso riprende lo stile aforismatico e con cui ha in comune il profondo senso aristocratico: "Eraclito avrà ragione in eterno ad affermare che l'essere é una vuota finzione. il mondo 'apparente' é l'unico mondo: il 'vero mondo' é solo un'aggiunta mendace". E poi, come al solito, Nietzsche muove aspre critiche al Cristianesimo sostenendo che, un pò come per Socrate, "attaccare le passioni alla radice significa attaccare alla radice la vita: la prassi della Chiesa é ostile alla vita".

Dopo di che il pensatore tedesco procede mettendo in luce "4 grandi errori" commessi dall'uomo nel corso della storia, 4 idoli da lui innalzati e venerati: il primo errore consiste nello scambiare la causa con l'effetto, il secondo consiste invece nella falsa causalità, il terzo nell'immaginare cause che in realtà non esistono, e il quarto nella convinzione del libero arbitrio. Dopo aver mosso qualche critica alla presente società tedesca, Nietzsche passa ad esaminare i concetti di bello e brutto, sottolineando come nella realtà non vi siano un bello e un brutto in sè, come aveva sostenuto Platone: "Nel bello l'uomo pone se stesso come misura della perfezione; [...] l'uomo in fondo si rispecchia nelle cose, considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine; [...] l'uomo ha umanizzato: ecco tutto". Le considerazioni nietzscheane poi volgono alla politica ed egli attacca gli anarchici, quei riottosi che rifiutano ogni autorità e incitano gli altri a comportarsi come loro, nella convinzione che ognuno debba essere responsabile del fatto che loro se la passano male... essi sono perennemente in collera e sono un "no" netto alla vita; da qui il pensatore tedesco prende lo spunto per muovere una critica alle rivoluzioni che muovono dal principio secondo il quale "se io sono una canaglia, dovresti esserlo anche tu". L'anarchico, il socialista e il cristiano sono tutte forme di decadenza, di insozzatori del mondo. Nel mare magnum delle critiche, Nietzsche non rinuncia però a elogiare anche qualche personaggio del passato: per esempio, egli nutre simpatia per Tucidide e Machiavelli, affini "per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà- non nella ragione e meno ancora nella morale": essi hanno rifiutato ogni ideale, mettendo perfino in discussione l'idea di bene e di male. Riportiamo qui qualche aforisma del Crepuscolo degli idoli:

- Per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio, dice Aristotele. Manca il terzo caso: bisogna essere l'uno e l'altro, un filosofo.

- E che? l'uomo è soltanto un errore di Dio? Oppure Dio è soltanto un errore dell'uomo?

-Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volonta' di sistema è una mancanza di onesta'.

- Chi non sa' porre la propria volonta' nelle cose, vi pone almeno un senso: crede, cioè, che in esse esista gia' una volonta'

- Che non si commettano vilta' verso le proprie azioni! Che non le si pianti poi in asso! Il rimorso è sconveniente.

- "Ogni verita' è semplice". Non è questa una doppia menzogna?

- E che? tu cerchi? vorresti decuplicarti, centuplicarti? cerchi seguaci? Cerca zeri!

- "Spirito tedesco": da diciott'anni una contradictio in adjecto.

- Quando la donna ha virtù virili, c'è da scappare: e se non ha alcuna virtù virile, è lei stessa a scappare.

- Il verme calpestato si rattrappisce. E questo è intelligente. Diminuisce infatti la probabilita' di venir calpestato un'altra volta. Nel linguaggio della morale: umiltà.
-

Erano gradini per me, li ho saliti; a tal fine ho dovuto oltrepassarli. Ma quelli credevano che volessi riposarmi su di loro...

Come il "mondo vero" finì per diventare favola

Il mondo vero, irraggiungibile per il saggio, il pio, il virtuoso - egli vive in quel mondo, egli è quel mondo.
(La più antica forma dell'idea, relativamente intelligente, semplice, convincente. Parafrasi della proposizione "Io, Platone, sono la verità".)
Il mondo vero, irraggiungibile per ora, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso ("al peccatore che fa penitenza").
(Progresso dell'idea: diventa più sottile, più insidiosa, meno comprensibile - diventa donna, diventa cristiana...)
Il mondo vero, irraggiungibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un dovere, un imperativo.
(Il vecchio sole, in fondo, ma attraverso la nebbia e scetticismo; l'idea divenuta sublime, pallida, nordica, konigsberghese.)
Il mondo vero - irraggiungibile? Comunque non raggiunto. E, in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Dunque neppure consolante, liberatorio, vincolante: a che potrebbe vincolarci qualcosa di sconosciuto?
(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo.)
Il "mondo vero" - un'idea che non serve più a niente, che non vincola nemmeno più - un'idea divenuta inutile, superflua, dunque un'idea confutata: eliminiamola!
(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; rossore di vergogna di Platone; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi.)
Il mondo vero lo abbiamo eliminato: quale mondo è rimasto? Quello apparente forse?... Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!
(Mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine dell'errore più lungo; culmine dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA.)

L' ANTICRISTO

Ciò che ci divide non è il fatto che noi non troviamo nessun Dio, né nella storia, né nella natura, né dietro la natura, - ma che quello che è stato adorato come Dio noi non lo troviamo affatto "divino", ma al contrario pietoso, assurdo, dannoso, non solo perché è un errore, ma perché è un crimine contro la vita...

L'Anticristo é il testo con cui Nietzsche si scaglia apertamente contro il Cristianesimo, colpevole di rendere e mantenere ignoranti le persone e di aver causato nella storia milioni di vittime. All' Anticristo spetta la funzione di chiudere i conti con il Cristianesimo, oggetto sempre più ossessivo delle analisi e degli attacchi dell'ultimo Nietzsche. Il tono é ultimativo, da manifesto, preludio a un'azione che doveva essere un attacco radicale a tutta la nostra civiltà. Ma, al tempo stesso, Nietzsche si mostra qui ancora una volta di una sottigliezza psicologica prodigiosa, come dimostrano le parole bellissime, e profondamente amiche sulla figura di Cristo. Mentre la condanna del Cristianesimo e della morale convogliano in sè quella, più generale, contro tutte le forze nemiche della vita e capaci di camuffarsi dietro le potenze della religione e della cultura. Contro di esse Nietzsche scende definitivamente in guerra, giungendo a siglare, alla fine, la sua "legge contro il Cristianesimo" col nome terribile dell'Anticristo, in quanto "trasvalutatore di tutti i valori".

E' un libro che si conviene ai pochissimi, dice Nietzsche stesso nella prefazione: forse di questi non ne vive ancora uno. Nietzsche era profondamente convinto che il cristianesimo fosse nato e fosse morto anche se la sua agonia é durata 2000 anni, quando i discepoli di Gesù non hanno perdonato i suoi nemici. L'argomentazione di questa tesi, prende le mosse dalla convinzione che per il cristianesimo: "E' in sè completamente indifferente il fatto che una cosa sia vera o no, ma é estremamente importante, invece, fino a che punto sia creduta. Così ad esempio, se é insita una felicità nei credenti redenti dal peccato, come premesse di ciò, non é necessario che l'uomo sia peccatore, ma che si senta peccatore." In questo modo il cristianesimo ha sostituito la verità con la fede che qualcosa sia vero. Anzi alla ricerca della verità ha posto un "divieto", e ha sostituito questa, che é la più autentica delle virtù, con le virtù teologali: fede, speranza e carità, che sono 3 "accorgimenti" a cui il cristianesimo é ricorso per distogliere l'uomo dalla ricerca della verità, e poterlo così "signoreggiare, addomesticare, dominare".
A che scopo i Greci? A che scopo i Romani?

L'intero lavoro del mondo antico per nulla: non trovo parole per esprimere il mio sentimento davanti a qualcosa di così mostruoso. - E in considerazione del fatto che il suo era lavoro preparatorio, che quella gettata con granitica presunzione era appunto solo l'infrastruttura di un lavoro millenario, l'intero senso del mondo antico fu vano!... A che scopo i Greci? A che scopo i Romani? - Tutte le premesse per una civiltà colta, tutti i metodi scientifici erano già là, si era già affermata la grande, l'incomparabile arte di ben leggere - questo presupposto per la tradizione della cultura, per l'unità della scienza; la scienza della natura, unita con la matematica e la meccanica, era sulla migliore delle strade - il senso dei fatti, l'ultimo e più prezioso di tutti i sensi, aveva le sue scuole, la sua tradizione vecchia ormai di secoli! Ci rendiamo conto di ciò? Tutto l'essenziale era trovato, per potersi accingere al lavoro: i metodi, si deve dirlo dieci volte, sono l'essenziale, anche la cosa più difficile, anche quella che ha più a lungo contro di sé abitudini e pigrizie. Ciò che noi oggi, con assoluto autodominio, - poiché noi tutti abbiamo ancora in qualche modo nel nostro sangue i cattivi istinti, quelli cristiani - ci siamo riconquistati, lo sguardo aperto alla realtà, la mano prudente, la pazienza e la serietà nelle più piccole cose, l'intera rettitudine della conoscenza - esisteva già! già più di duemila anni fa! E per di più il tatto e il gusto buono e fine!

 Non come addestramento mentale! Non come educazione "tedesca", con maniere da villani! Ma come corpo, come gesto, come istinto - in una parola, come realtà... Tutto invano Nel giro di una notte, nulla più che un ricordo! - Greci! Romani! La nobiltà dell'istinto, il gusto, la ricerca metodica, il genio dell'organizzazione e dell'amministrazione, la fede, la volontà d'avvenire umano, il grande sì a tutte le cose visibile nella forma di imperiimi romanum, visibile a tutti i sensi, lo stile grande non più solo arte, ma diventato realtà, verità, vita...

 E non seppellito nel giro di una notte per un evento naturale! Non calpestato da Germani e altri plantigradi! Devastato invece da astuti, occulti, invisibili, anemici vampiri! Non vinto - solo dissanguato!... La nascosta sete di vendetta, l'invidia piccina diventa padrona! Tutto ciò che è miserevole, che soffre di sé, che è travagliato da cattivi senti­menti, l'intero mondo da ghetto dell'anima, d'un colpo portato in alto. - Non v'è che da leggere un qualsiasi agitatore cristiano, sant'Agostino per esempio, per capire, per fiutare che razza di immondi compari sono in tal modo venuti a galla. C'inganneremmo in tutto e per tutto se si presumesse nei capi del movimento cristiano un qualche difetto d'intelletto: sono avveduti, oh se sono avveduti fino alla santità, i signori Padri della Chiesa! Ciò che manca loro è ben altro. La natura li ha trascurati - essa dimenticò di donar loro una dote modesta di istinti rispettabili, decenti, puliti...

Detto in confidenza, questi non sono nemmeno dei maschi... Quando l'Islam disprezza il cristianesimo, ha mille volte ragione di farlo: l'Islam ha dei maschi per presupposto...

Purtroppo non è solo il discorso di uno psicopatico...

Presento un paio di saggi di ciò che questa gentucola si è messa in testa, di quello che ha messo in bocca al proprio maestro: semplici professioni di fede di "anime belle".
"E se taluni non vi vogliono ricevere ne ascoltare, allontanatevi da loro e scuotete la polvere dai vostri piedi, per fare testimonianza contro di loro. Io vi dico: in verita Sodoma e Gomorra nel giudizio finale saranno trattate meno dura-mente di una simile citta" (Marco 6, 11). - Com'e evangelico!...
"E se taluno scandalizzerà uno dei piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse scagliato in mare" (Marco 9, 42). - Com'e evangelico!... "Se il tuo occhio ti dà scandalo, strappalo; e meglio per te entrare, con un occhio solo, nel regno di Dio, che avere due occhi ed essere gettato nel fuoco dell'inferno; dove il verme non muore e il fuoco non si spegne mai" (Marco 9, 47). - Non è precisamente all'occhio che si allude...
"In verità vi dico, qui ci sono alcuni che non gusteranno la morte prima di vedere il regno di Dio giungere con forza" (Marco 9, 1). - Si mente bene, leone...
"Chi mi vuol seguire, rinneghi se stesso e prenda la sua croce sopra di sé e mi segua. Perché..." (Nota di uno psicologo. La morale cristiana è confutata dai suoi perché: i suoi "motivi" confutano, - questo è cristiano), (Marco 8, 34).
"Non giudicate, affinché non siate giudicati. Con la misura con cui voi giudicherete, si farà giudizio di voi" (Matteo 7, 1). - Che concezione della giustizia, di un giudice "giusto"!...
"Se voi amate coloro che vi amano, quale ricompensa riceverete per questo! Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se vi comportate da amici coi vostri fratelli, che cosa fate di strano? Non fanno così anche i pubblicani?" (Matteo 5, 46). - Principio dell'"amore cristiano": in fin dei conti vuol essere pagato bene...
"Ma se voi non perdonate agli uomini le loro colpe, anche vostro Padre non perdonerà a voi" (Matteo 6, 15). - Molto compromettente per il detto "padre"...
"Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sara dato" (Matteo 6, 33). - Tutto ciò: cioè cibo, vestiario, tutto quanto e più necessario nella vita. Un errore, a dir poco... Subito dopo Dio appare in qualita di sarto, perlomeno in certi casi...
"Rallegratevi allora e saltate: perché ecco, il vostro premio in cielo e grande. Lo stesso fecero i vostri padri ai profeti" (Luca 6, 23). Branco di svergognati! Già si paragonano ai profeti... "Non sapete che voi siete il tempio di Dio, e che lo spirito di Dio abita in voi? Se taluno guasterà il tempio di Dio, Dio guasterà lui, poiché il tempio di Dio, che voi stessi siete, è santo" (Paolo, I Corinzi 3, 16). - Non si disprezzerà mai abbastanza roba del genere... "Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo? E se il mondo deve essere giudicato da voi, non siete voi idonei abbastanza a giudicare cose minori?" (Paolo, I Corinzi 6, 2). Purtroppo non è solo il discorso di uno psicopatico... Questo spaventoso impostore prosegue testualmente: "Non sapete, che noi giudicheremo gli angeli? Quanto piu dunque giudicheremo dei beni temporali!"...
"Non ha Dio cambiato in follia la saggezza di questo mondo? Poiché, non avendo il mondo con la sua saggezza riconosciuto Dio nella sua saggezza, e piaciuto a Dio di rendere beati, con una folle predicazione, coloro che credono in lui... Non sono eletti molti saggi secondo la carne, né molti potenti, ne molti nobili. Ma ciò che è folle agli occhi del mondo, fu eletto da Dio, per svergognare i saggi; e chi è debole agli occhi del mondo fu eletto da Dio per svergognare chi è forte. E chi agli occhi del mondo e ignobile e disprezzato fu eletto da Dio, e chi non è niente, per rendere niente chi è qualche cosa. Affinché al suo cospetto nessuna came si vantasse" (Paolo, i Corinzi 1, 20 ss.). - Per intendere questo passo, testimonianza di primissimo ordine sulla psicologia di ogni morale da Ciandala, si legga la prima dissertazione nella mia Genealogia della Morale: in essa, per la prima volta, veniva messa in luce la contrapposizione tra una morale nobile e una morale da Ciandala nata sul risentimento e sulla sterile vendetta. Paolo fu il maggiore fra tutti gli apostoli della vendetta...

Per preti e dèi è finita quando l'uomo diventa scientifico

Abbiamo veramente capito la famosa storia che sta all'inizio della Bibbia, - a proposito della dannata paura di Dio di fronte alla scienza?
Non l'abbiamo capita. Questo libro di preti par excellence ha inizio, come si conviene, con la grande difficoltà interiore del prete: per lui c'è solamente un grande pericolo, di conseguenza per "Dio" c'è solamente un grande pericolo.
II vecchio Dio, tutto "spirito", tutto sommo sacerdote, tutto perfezione, va a spasso nel suo giardino: solo che si annoia. Contro la noia lottano invano perfino gli dèi. Che cosa fa lui? Inventa l'uomo, l'uomo è divertente... Ma, guarda un po', anche l'uomo s'annoia. La pietà di Dio per l'unica miseria che tutti i paradisi comportano, è sconfinata: tosto egli creò anche altri animali.
Primo passo falso di Dio: l'uomo non trovò divertenti gli animali - dominava su di loro, non voleva essere neppure "animale". - Allora Dio creò la donna. E in effetti a quel punto con la noia fu finita, - ma anche con qualcos'altro! La donna fu il secondo passo falso di Dio. - "La femmina è per sua natura serpente: Eva" - ogni prete lo sa; "ogni malanno al mondo viene dalla femmina" - anche questo sa ogni prete. "Da essa viene quindi anche la scienza"...
Solo attraverso la donna l'uomo apprese ad assaggiare i frutti dell'albero della conoscenza. - Che cosa era successo? Il vecchio Dio fu preso da una dannata paura. L'uomo stesso era divenuto il suo più grande passo falso, egli si era creato un rivale, la scienza rende simili a Dio, - per preti e dèi è finita quando l'uomo diventa scientifico! - Morale: la scienza è il proibito in sé, - essa sola è proibita. La scienza è il primo peccato, il seme di tutti i peccati, il peccato originale. La morale è soltanto questo. - "Tu non devi conoscere": - il resto consegue da ciò. - La dannata Paura non impedì a Dio di essere furbo. Come ci si difende dalla scienza? Per lungo tempo questo divenne il suo primo problema. Risposta: fuori l'uomo dal paradiso!
La felicità, l'ozio inducono a pensare - tutti i pensieri sono cattivi pensieri... L'uomo non deve pensare. - E il "prete in sé" inventa il bisogno, la morte, il pericolo mortale della gravidanza, ogni sorta di miseria, vecchiaia, fatica, la malattia soprattutto - nient'altro che strumenti della lotta contro la scienza! Il bisogno non consente all'uomo di pensare... E a onta di ciò, che orrore! L'opera della conoscenza s'innalza torreggiante, invadendo il ciclo, oscurando gli dèi - che fare? - II vecchio Dio inventa la guerra, divide i popoli, fa sì che gli uomini si annientino a vicenda ( - i preti hanno sempre avuto bisogno della guerra...). La guerra - grande guastafeste della scienza, tra l'altro! Incredibile! La conoscenza, l'emancipazione dal prete, avanza perfino a dispetto delle guerre. - E al vecchio Dio si presenta una decisione estrema: "l'uomo è divenuto scientifico, - non c'è altro da fare, bisogna annegarlo."...

La psicologia del prete: il prete domina grazie all'invenzione del peccato

Mi avete capito. L'inizio della Bibbia contiene l'intera psicologia del prete. - II prete conosce solo un grande pericolo: la scienza - la sana nozione di causa ed effetto. Ma la scienza prospera totalmente solo in condizioni fortunate - bisogna aver tempo, bisogna avere spirito in eccedenza, per "conoscere"... "Dunque bisogna rendere l'uomo infelice" - questa, in ogni tempo, fu la logica del prete. - Già si indovina che cosa, innanzitutto, coerentemente a questa logica, è venuto con ciò al mondo: il "peccato"... È l'invenzione del concetto di colpa e punizione, dell'intero "ordine morale del mondo" a porsi contro la scienza - contro l'affrancamento dell'uomo dal prete... Non fuori, ma dentro di sé deve guardare l'uomo; non deve, come il discente, guardare con sagacia e prudenza nelle cose; non deve in generale guardare per nulla: deve soffrire... e deve soffrire in guisa tale da aver sempre bisogno del prete.

- Basta coi medici! Un salvatore ci vuole. - II concetto di colpa e di castigo, ivi compresa la dottrina della "grazia", della "redenzione", del "perdono" - menzogne da cima a fondo e senza alcuna realtà psicologica - sono inventate apposta per distruggere il senso di causalità dell'uomo: sono l'attentato contro il concetto di causa ed effetto! - E non un attentato col pugno, col coltello, con sincerità nell'odio e nell'amore! Ma partendo dagli istinti più vili, più subdoli, più bassi! Un attentato da preti! Un attentato da parassiti! Un vampirismo di livide sanguisughe del sottosuolo!... Quando le naturali conseguenze di un'azione non sono più "naturali", ma vengono attribuite dal pensiero agli spettri concettuali della superstizione, a "Dio", agli "spiriti", alle "anime", come conseguenze puramente "morali", come premio, castigo, avvertimento, mezzi educativi, allora la premessa della conoscenza è distrutta - allora si è commesso il più grande crimine contro l'umanità. - Il peccato, ripeto, questa forma autolesionista, par excellence dell'uomo, è inventato per rendere scienza, cultura, ogni innalzamento e nobiltà dell'uomo, impossibili; il prete domina grazie all'invenzione del peccato.

Essa creò miserie per perpetuare se stessa...

Con ciò sono alla conclusione e pronuncio il mio giudizio. Condanno il cristianesimo, levo contro la Chiesa cristiana l'accusa più spaventosa che mai sia uscita dalla bocca di un accusatore. Essa è per me, la suprema tra tutte le corruttele immaginabili, essa ha avuto la volontà della estrema possibile corruttela. La Chiesa cristiana, con la sua depravazione, non lasciò nulla d'intatto, essa ha fatto d'ogni valore un non-valore, di ogni verità una menzogna, d'ogni rettitudine un'infamia dell'anima. Che osino parlarmi ancora delle sue benemerenze "umanitarie"!
Il sopprimere una qualsiasi miseria andava contro la sua più profonda utilità: essa visse di miserie, essa creò miserie per perpetuare se stessa... Il verme del peccato, per esempio: solo la Chiesa ha arricchito l'umanità con questa miseria! - L'eguaglianza delle anime davanti a Dio", questa falsità, questo pretesto per le rancunes d'ogni anima vile, questo esplosivo concettuale, il quale alla fine si è fatto rivoluzione, idea moderna e principio di decadimento per l'intero ordine sociale - è dinamite cristiana... Benemerenze "umanitarie" del cristianesimo! Far crescere dalla humanitas un'autocontraddizione, un'arte dell'autolesionismo, una volontà di menzogna ad ogni costo, una avversione, un disprezzo per tutti i buoni e retti istinti! - Queste sarebbero le benedizioni del cristianesimo, per me!

- II parassitismo come unica prassi della Chiesa; che col suo ideale anemico di "santità" beve fino all'ultima goccia ogni sangue, ogni amore, ogni speranza di vivere: l'ai di là come volontà di negazione d'ogni realtà; la croce quale segno di riconoscimento per la più sotterranea congiura mai esistita - contro salute, bellezza, costituzione bennata, coraggio, spirito, bontà dell'anima, contro la vita medesima...
Questa eterna accusa al cristianesimo io voglio scrivere su tutti i muri ovunque siano muri - possiedo caratteri per far vedere anche i ciechi... Io chiamo il cristianesimo unica grande maledizione, unica grande intima perversione, unico grande istinto di vendetta, per il quale nessun mezzo è abbastanza velenoso, occulto, sotterraneo, piccino - io lo chiamo unico imperituro marchio d'abominio dell'umanità...
E noi computiamo il tempo a partire dal dies nefastus con cui questa calamità principiò - dal primo giorno del cristianesimo! -Perché non piuttosto dal suo ultimo! - Da oggi! - Trasvalutazione di tutti i valori!

LEGGE CONTRO IL CRISTIANESIMO

Data nel dì della salute, nel primo giorno dell'anno uno (- il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)

Guerra mortale contro il vizio:

il vizio è il Cristianesimo

  Prima proposizione.
 - Viziosa è ogni specie di contronatura. La più viziosa specie d'uomo è il prete; egli insegna la contronatura. Contro il prete non si hanno motivi, si ha la prigione.
  Seconda proposizione.
 - Partecipare ad un ufficio divino è un attentato alla pubblica moralità. Si deve essere più severi contro i protestanti che contro i cattolici, più severi contro i protestanti liberati che contro quelli di stretta osservanza. Il delittuoso dell'esser cristiani cresce vieppiù ci si avvicini alla scienza. Il criminale dei criminali è quindi il filosofo.
  Terza proposizione.
 - Il luogo esecrando in cui il cristianesimo ha covato le sue uova di basilisco sia distrutto pietra su pietra e sia il terrore di tutta la posterità quale luogo abominevole della terra. Su di esso si allevino serpenti velenosi.
  Quarta proposizione.
 - La predicazione della castità è istigazione pubblica alla contronatura. Ogni disprezzo della vita sessuale, ogni contaminazione della medesima mediante la nozione di "impurità" è vero e proprio peccato contro il sacro spirito della vita.
  Quinta proposizione.
 - Chi mangia alla stessa tavola di un prete sia proscritto: con ciò egli si scomunica dalla retta società. Il prete è il nostro Ciandala - lo si deve mettere al bando, affamare, menare in ogni specie di deserto.
  
  Sesta proposizione.
Si chiami la storia "sacra" col nome che merita in quanto storia maledetta; le parole "Dio", "salvatore", "redentore", "santo" siano usate come oltraggi, come epiteti da criminali.
  
Settima proposizione.
Il resto è conseguenza.

LA VOLONTA' DI POTENZA

Saggio di una trasmutazione di tutti i valori

"La volontà di potenza" é un insieme di scritti nietzscheani raccolti (1901) dalla sorella Elisabeth e dal discepolo e copista Peter Gast, raccolti in modo arbitrario e condizionato dalle simpatie razziste e autoritarie. Tuttavia non é per questo che si può accusare eccessivamente la sorella-parafulmine, sostenendo che Nietzsche non avrebbe mai scritto un'opera così: essa, in linea di massima, rispecchia le idee del filosofo tedesco, se facciamo eccezione per alcune manomissioni di forte sapore nazista. "La volontà di potenza" può essere considerata come grande summa del pensiero nietzscheano: e le troviamo davvero tutte le sue teorie, dalla volontà di potenza (che dà il nome all'opera), all'eterno ritorno, al nichilismo, al binomio apollineo-dionisiaco, al superuomo. In realtà quest'opera corposa si suddivide in 4 libri:

  Libro 1
  Il nichilismo europeo
  Libro 2
  Critica dei valori supremi finora riconosciuti
  Libro 3
  Principio di una nuova posizione di valori.
  Libro 4
  Disciplina e selezione

La forma predominante é quella, tipicamente nietzscheana, dell'aforisma. Il primo libro si apre con la constatazione che "il nichilismo é davanti alla porta [...] in una interpretazione determinata, in quella della morale cristiana sta il nichilismo": é proprio il "tramonto del cristianesimo" che ha aperto la porta al nichilismo, ossia alla perdita di tutti i valori, perfino la nozione di bene e di male. Del resto non poteva perdurare oltre la morale cristiana, morale "che si volge contro il Dio cristiano (il senso della veracità, altamente sviluppato dal cristianesimo, prova nausea di fronte alla falsità e alla menzogna di tutte le interpretazioni cristiane del mondo e della storia)". Ecco che ora viene a sostituirsi all'esecrabile morale cristiana la morale secondo la quale tutto é privo di senso, "tutte le interpretazioni del mondo sono false". Il nichilismo, in altre parole, é la conseguenza dell'interpretazione dei valori dell'esistenza, finora ammessa. Nichilismo significa che "i valori supremi sono svalutati. Manca lo scopo. Manca la risposta alla domanda: dove?".

Ma Nietzsche non si limita a criticare il cristianesimo in tutto e per tutto e gli riconosce qualche merito, ad esempio l'aver per molto tempo fornito all'uomo un valore assoluto, o l'aver fatto apparire il male pieno di significato, o ancora l'aver impedito all'uomo di disprezzarsi come tale: "In summa: la morale fu il grande antidoto contro il nichilismo teorico e pratico". Il nichilismo stesso, spiega Nietzsche, ha come premessa che non vi sia verità alcuna, che non esista una assoluta natura delle cose, quelle che Platone chiamava "cose in sè": si é stati sempre portati a credere che esistessero dei valori (questo é bene, quest'altro no), ma il nichilismo porta a considerare gli uomini stessi come fissatori dei valori. "Il nichilista filosofo é persuaso che tutto ciò che accade é privo di senso e invano": ma il nichilismo non é altro che un'espressione della decadenza che sta investendo il mondo, una decadenza che ha le sue pesanti conseguenze ( lo scetticismo, il libertinaggio dello spirito, la corruzione dei costume, i metodi di cura psicologici e morali). Ma dire che é espressione, non significa dire che ne é causa: esso é solo la "logica" della decadenza, i cui tipi principali sono la perdita della forza per reagire agli stimoli o lo scambiare la causa con l'effetto il sentire la vita come base del male. Tutti i supremi giudizi di valore finora ammessi sono riconducibili a "giudizi degli esauriti": si chiamò Dio ciò che indebolisce e l'"uomo buono" é una forma di autodecadenza.

Ma Nietzsche si oppone con vigore: "Io insegno a dir no a tutto ciò che rende debole; io insegno a dir sì a tutto ciò che rafforza, che accumula energia, che giustifica il sentimento della forza": il suo é un volersi opporre ai deboli, agli stanchi di vivere, alle masse che seguono la morale cristiana e socialista ("l'istinto del gregge"). E contro il socialismo, che nell'Ottocento andava sempre più affermandosi, Nietzsche muove un'aspra polemica: " che altro é se non una balorda incomprensione di quell' ideale morale cristiano ?... ci saranno sempre troppi possidenti perchè il socialismo possa significare altro che un attacco di malattia ; e questi possidenti sono come un uomo di una fede: si deve possedere qualche cosa per essere qualche cosa. Ma questo é il più vecchio e il più sano di tutti gli istinti: io aggiungerei: si deve voler avere di più di quanto si ha, per diventare di più... Nella dottrina del socialismo si nasconde malvagiamente una volontà di negare la vita...". E non é questo che vuole Nietzsche: nello Zarathustra, egli invitava a restare fedeli alla Terra, non facendosi ingannare da promesse ultraterrene, e anche qui in fondo é lo stesso: occorre amare la vita e la terra, proprio come farà il superuomo (quando ve ne sarà uno). Ed emerge l'aristocrazia di cui si fa portavoce il pensatore tedesco, a discapito delle masse democratiche e socialisteggianti: non é nella massa che vanno riposte le speranze, ma nei singoli!

Il libro secondo de "La volontà di potenza" é dedicata alla critica dei valori supremi finora riconosciuti e si apre, come c'era da aspettarsi, con una critica alla religione, come svalutazione dell'uomo, impotente di fronte ad un ipotetico Dio: "Tutta la bellezza e la magnificenza che abbiamo prestato alle cose reali e immaginate, io voglio rivendicarla come proprietà e opera dell' uomo: come la sua più bella apologia. L' uomo come poeta, pensatore, Dio, amore, forza ; ammiriamo la sua regale generosità, con cui ha fatto doni alle cose per impoverire se stesso e sentirsi miserabile ! Finora il suo maggiore disinteresse fu questo, che egli ammirò e adorò e seppe nascondere a se stesso che egli stesso aveva creato ciò che ammirava." La religione, secondo il filosofo tedesco, nasce per errore ed ignoranza dell'uomo: allo stesso modo in cui ancor oggi esso ritiene che la collera sia la causa del suo adirarsi o che lo spirito sia la causa del suo pensare, così in tempi lontanissimi, a un livello ancora più ingenuo, egli spiegò quei medesimi fenomeni con l'aiuto di entità divine. L'idea che ogni cosa sia causata da un Dio, non fa che sminuire l'uomo, che finisce per non essere la causa di nulla: la conseguenza é che l'uomo non ha osato attribuire a sè (come era giusto invece fare) ogni avvenimento; ne consegue che per Nietzsche la religione é "il parto mal riuscito di un dubbio sull'unità della persona [...] per cui tutto ciò che nell'uomo é grande e forte fu concepito dall'uomo come sovraumano, come estraneo; [...] la religione ha abbassato il concetto di uomo". Ma l'invenzione della religione, e se ne accorge anche Marx, può avere anche un'altra funzione oltre a quella di spiegare fenomeni cui non si trova una risposta: é uno dei mezzi con cui "si può fare degli uomini ciò che si vuole: purchè si possegga un eccesso di forze creatrici e si possa imporre la propria volontà per lunghi periodi di tempo": sì, perchè si deve avere la forza creatrice per inventare un Dio e la forza materiale per imporlo. Ma Nietzsche, pur aborrendo il Cristianesimo, non può non provare simpatia nella figura del Cristo, non tanto come "uomo della morale", quanto piuttosto come uomo dal senso di giustizia: e del resto "La Chiesa é esattamente ciò contro cui Gesù predicò e contro cui insegnò ai suoi discepoli a combattere". La vita esemplare non é quella sostenuta dal Cristianesimo: per Nietzsche, al contrario ( ed é bene aggiungere "al contrario", visto e considerato l'atteggiamento cristiano nei secoli) "La vita esemplare consiste nell'amore e nell'umiltà; nella pienezza di cuore, che non esclude nemmeno l'infimo; nel rinunciare completamente al voler avere ragione, a difendersi, a vincere nel senso del trionfo personale; nel credere alla felicità quaggiù, sulla terra, nonostante la miseria, le avversità e la morte; nel riconciliarsi con il prossimo, nell'astenersi dalla collera e dal disprezzo; nel non volere ricompense; nel non legarsi a nessuno; nel non avere signori in senso spirituale e più che spirituale; in una vita molto fiera posta sotto il segno della volontà e di una vita povera e servizievole".

Il cristianesimo per Nietzsche é una "religione per masse volgari", un cercare di equiparare tutti, un nascondere la superiorità di certi individui su altri dietro l'usbergo dell'uguaglianza nell'altra vita; l'ideale cristiano, poi, fa sempre presa sui "falliti", coloro che non riescono ad affermarsi e han bisogno di protezione e di una beatitudine futura: "L'uomo superiore si distingue dall'inferiore per la sua intrepidezza e la sua sfida alla sventura; [...] il cristianesimo con la sua prospettiva di beatitudine é un modo di pensare tipico di un genere di uomini sofferenti e impoveriti". La conclusione cui giunge Nietzsche é che il cristianesimo vada abbattuto, ed egli é peraltro convinto (a ragion veduta) che nel secolo venturo (1900) esso si sgretolerà definitivamente. La seconda critica ai valori supremi é indirizzata alla morale ("per morale intendo un sistema di valutazioni che aderisce alle condizioni di vita di una creatura"): "La costante della storia europea dopo Socrate é il tentativo di ricondurre i valori morali a dominare tutti gli altri valori; e in modo tale che debbano essere guide e giudici non solo della vita, ma anche della conoscenza, delle arti, delle aspirazioni politiche e sociali; [...] l'intera morale dell'Europa ha per base ciò che giova al gregge: [...] quanto più una qualità del gregge appare pericolosa, tanto più sistematicamente ottiene considerazione". Il problema che si pone Nietzsche é di farci capire che un bene e un male assoluti non ci sono, non sono quelli fissati da Dio (che é morto): egli é consapevole che non tutti possono capirlo e soprattutto non vogliono: il gregge (ossia le masse volgari) non potranno mai afferrare il messaggio nietzscheano: "La mia filosofia é orientata verso la gerarchia: non verso una morale individualistica. Il modo gregario di sentire deve regnare nel gregge, ma non fuori di esso.". Ma che senso può avere dire ad uno, secondo i dettami della morale, "devi essere così" ? "Un uomo quale deve essere: questa frase ci suona tanto sciocca quanto quest'altra: un albero, quale deve essere". Ma Nietzsche va contro la morale, la ribalta, in lui vi é una trasvalutazione di tutti i valori morali tradizionali: Oggi, quando ogni "l'uomo deve essere così e così" ci strappa una leggera ironia e teniamo per fermo che un uomo, a dispetto di tutto, diventa soltanto quello che é già, nelle cose della morale abbiamo appreso a capovolgere in modo curioso il rapporto di causa ed effetto". Ma in fin dei conti cosa é nella morale che dà fastidio a Nietzsche? "La morale sostiene di sapere qualcosa, cioè che cosa sia buono o cattivo. Questo significa voler sapere a quale scopo l'uomo esista, conoscerne la meta, la destinazione."

Ma Nietzsche muove una critica non solo ai preti e agli uomini "buoni", ma anche ai filosofi e alle loro superstizioni: il grande bersaglio di Nietzsche é Socrate, che ha introdotto il concetto di uomo virtuoso: ma per il pensatore tedesco un uomo già per il fatto di essere detto virtuoso, ossia di essere ricondotto ad uno "schema", é inferiore! Anche Kant viene aspramente criticato, con la sua legge morale. Ne consegue che "I veri filosofi (dei Greci) sono quelli che precedono Socrate..." e le simpatie di Nietzsche si soffermano sulla figura dello scettico Pirrone di Elide. Pirrone era convinto, da buono scettico, dell'inesistenza di una verità assoluta: e l'errore dei filosofi sta proprio nell'aver creduto che ve ne fosse una: "Che cosa é verità? Inerzia,l'ipotesi che ci rende soddisfatti;il minimo dispendio di forza intellettuale". Ecco allora che, smontata la morale tradizionale, nel terzo libro della "Volontà di potenza" Nietzsche si ingegna nel porre il principio di una nuova posizione di valori: avvia la sua riflessione sulla "volontà di potenza come conoscenza", prendendo i considerazione i metodi finora usati dai filosofi; vi é una radicale critica all' "io" di Cartesio e Kant: Nietzsche sembra abbracciare le posizioni di Hume, il quale intendeva l'io come "fascio di percezioni": l'io non esiste, noi siamo solo il punto di incontro di percezioni, un punto di incontro in cui si estrinseca la volontà di potenza, di dominare sugli altri.

E finalmente Nietzsche giunge ad una definizione di verità, o almeno, del criterio con cui raggiungerla: "Il criterio della verità si trova nell'aumento della sensazione di potenza". Radicale é la critica al determinismo: "La necessità non é uno stato di fatto, ma un'interpretazione". E Nietzsche sembra anche sostenere la tesi dell'inconoscibilità: "Conoscere é un riportare qualcosa a qualcos'altro: é per sua natura un regressus in infinitum. Ciò che si ferma é la pigrizia, la stanchezza". Ed ecco che subentra in tutta la sua vitalità la volontà di potenza: Si deve trasformare la credenza "é così e così" nella volontà "deve diventare così e così". E sull'interpretazione del mondo Nietzsche critica il meccanicismo di matrice cartesiana, rifiutando il concetto stesso di atomo. Ma c'é anche una aspra polemica nei confronti di Darwin, che si ritrova anche nel quarto e ultimo libro della Volontà di potenza, "Disciplina e selezione": "L'uomo come specie non é in progresso. Si raggiungono bensì tipi superiori, ma non si conservano; [...] l'uomo come specie non rappresenta un progresso in confronto con qualsiasi altro animale". Tutto il 4° libro é dedicato appunto alla selezione e alla disciplina: al rapporto tra l'uomo forte e l'uomo debole, tra gli uomini superiori e le masse; sono passi in cui il linguaggio di Nietzsche assurge a toni altisonanti, forti ed intransigenti: "I diritti che un uomo si prende sono proporzionali ai doveri che si impone, ai compiti rispetto a cui si sente all'altezza. La maggioranza degli uomini non ha diritto all'esistenza, ma costituisce una disgrazia per gli uomini superiori; [...] quando mancano gli uomini superiori, si rendono semidei o dei i grandi uomini del passato; [...] la tirannia é un affare da uomini grandi: questi fanno fessi gli uomini dappoco. [...] nel Teagete di Platone compare la frase: ognuno vorrebbe poter essere il signore di tutti gli uomini, e magari Dio. Questa mentalità deve tornare ad esistere.[...] La massima elevazione della consapevolezza della propria forza nell'uomo é ciò che crea il superuomo.". E torna ancora una volta la contrapposizione tra ciò che é aristocratico e ciò che non lo é, contrapposizione particolarmente cara a Nietzsche. Nel libro quarto, "disciplina e selezione", Nietzsche mette poi ancora una volta a confronto de due divinità, il Cristo dei Cristiani e il Dioniso dei Greci; lo scetticismo radicale che erode le fondamenta metafisiche e cristiane della cultura occidentale, a parere di Nietzsche, va portato fino in fondo, affinchè l'umanità sappia creare un "nuovo Dio" che Nietzsche indica in Dioniso, contrapposto non più ad Apollo, come nell'antica Grecia, ma al Crocefisso. Quindi un Dio della natura e della gioia di vivere, nei limiti che la natura concede, contro il Dio della trascendenza e della glorificazione della sofferenza che abita quel "mondo dietro il mondo" che Platone da un lato e il cristianesimo dall'altro hanno inaugurato: "I due tipi: Dioniso e il Crocifisso. Da stabilire: il tipico uomo religioso è una forma di dècadence (i grandi innovatori sono, tutti insieme e uno per uno, malati ed epilettici)? Così non lasciamo da parte un tipo dell'uomo religioso, il tipo pagano? Il culto pagano non è una forma di riconoscenza alla vita e di affermazione della vita? Il suo supremo rappresentante non dovrebbe essere un'apologia e una divinizzazione della vita? Un tipo di spirito ben riuscito e traboccante, estatico… Un tipo di spirito che accoglie in sé le contraddizioni e i problemi della vita, e li redime? Qui io pongo il Dioniso dei Greci: l'affermazione religiosa della vita, della vita intera, non negata né dimezzata; che l'atto sessuale susciti pensieri di profondità, di mistero, di rispetto, è tipico. Dioniso contro il Crocifisso: eccovi il contrasto. Non è una differenza nel martirio: piuttosto, il martirio ha un altro senso. In un caso, la vita stessa, la sua eterna fecondità e il suo ritornare determina il tormento, la distruzione, la volontà di annientamento…

Nell'altro, la sofferenza, il Crocifisso come innocente, è un'obiezione contro questa vita, è la formula della sua condanna. E si capisce: il problema è quello del senso della sofferenza: o un senso cristiano o un senso tragico. Nel primo caso la sofferenza è la via che conduce ad un'esistenza beata; nel secondo, si ritiene che l'essere sia abbastanza beato da giustificare anche una sofferenza mostruosa. L'uomo tragico approva anche la sofferenza più aspra: è abbastanza forte, ricco, divinizzatore per farlo; il cristiano dice di no anche alla sorte più felice che ci sia sulla terra: ed è abbastanza debole, povero, diseredato per soffrire della vita in ogni sua forma… il Dio in croce è una maledizione scagliata sulla vita, un dito levato a comandare di liberarsene- Dioniso fatto a pezzi è una promessa di vita; la vita rinasce in eterno e ritornerà in patria, tornerà alla distruzione." E nell'ultima parte, dulcis in fundo, il pensatore tedesco ci ripresenta l'eterno ritorno, centrale nella sua filosofia, il "cerchio dell'essere". E per sopportare il pensiero di un eterno ed infinito ritorno é necessario essere liberi dalla morale, fare una trasmutazione di tutti i valori. "Io voglio insegnare il pensiero che dà a molti il diritto di sopprimersi-il grande pensiero che seleziona e disciplina". E celebre per la sua forza espressiva é la chiusura del libro: "E sapete voi che cosa é per me il mondo? Devo mostrarvelo nel mio specchio? Questo mondo é un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa nè più piccola nè più grande, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità é una grandezza invariabile [...] Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, a meno che non ci sia uno scopo nella felicità del ciclo senza volontà, a meno che un anello non dimostri buona volontà verso di sè, per questo mondo volete un nome?Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo é la volontà di potenza e nient'altro! E anche voi siete questa volontà di potenza e nient'altro!"

ECCE HOMO

come si diviene ciò che si é

"Ecce homo" é la grande biografia di Federico Nietzsche, il testo con cui egli si presenta una volta per tutte al suo popolo di lettori: nell'inoltrarsi dell'autunno del 1888, egli decide di dar vita in una sola settimana al libro conclusivo della sua opera, con cui fornisce una spiegazione anche degli altri testi. Ne parla agli amici, a Gast, a Overbeck come di un preludio alla grande opera della trasvalutazione di tutti i valori e annuncia con tono apocalittico che fra un paio di anni il mondo sarà in convulsioni. La previsione della crisi era esatta, sebbene il tempo ne fosse anticipato, poichè si può veramente dire che la crisi iniziata nel 1914 é la stessa che Nietzsche si attendeva.

E in "Ecce homo" Nietzsche riprende tutte le sue teorie classiche, dall'eterno ritorno all'attacco al cristianesimo; ma quest'opera é un qualcosa di più che una semplice autobiografia, é più un'interpretazione della propria vita e della propria opera; la ragione dello scritto la enuncia Nietzsche stesso nelle sue lettere indirizzate agli amici: riteneva necessario di presentarsi e di precisare il suo essere prima di compiere l'atto della trasmutazione di tutti i valori. E così scrive appunto nella prefazione di "Ecce homo": "Poichè prevedo che fra breve dovrò presentarmi all'umanità col più grave problema che le sia mai stato posto, mi pare indispensabile dire chi sono. [...] Io non sono affatto un orco, un mostro di immoralità: sono il contrario di quella specie d'uomo che finora é stata onorata come virtuosa.[...] Sono un discepolo del filosofo Dioniso, preferirei essere un satiro piuttosto che un santo. [...] L'ultima cosa che io mi sognerei di promettere sarebbe di migliorare l'umanità. Io non innalzo nuovi idoli; gli antichi forse potrebbero imparare da me che cosa significhi avere i piedi d'argilla. Rovesciare gli idoli- così io chiamo gli ideali- ecco il mio compito.[...] Chi sa respirare l'aria che circola nei miei scritti, sa che é l'aria delle grandi altezze, che é un'aria fine. [...] La filosofia nel senso in cui finora l'ho interpretata e vissuta io, é libera vita tra i ghiacci, in alta montagna, é la ricerca di tutto ciò che vi é di strano e di enigmatico nell'esistenza, di tutto ciò che finora era inibito dalla morale".

E così si avvia la riflessione nietzscheana sulla propria esistenza, che talvolta si estende ad indagare sull'esistenza del genere umano in generale; e il resoconto della propria vita, viene da Nietzsche intrecciato abilmente alle opere, che sono quel che dureranno anche dopo la sua morte. Particolare amore e predilizione Nietzsche dimostra per lo Zarathustra, il suo libro sa sempre più venerato, in cui affiorano tutte le sue teorie: la critica della morale, del cristianesimo, l'eterno ritorno, il superuomo... un libro che, purtroppo, non sempre é stato compreso, e d'altronde il suo sottotitolo ("un libro per tutti e per nessuno") lo lasciava intendere. Nietzsche con "Ecce homo" dimostra di nutrire grande amore nella vita e nella sua stessa personalità: e così per tutta l'opera egli proverà a spiegare al lettore "perchè sono tanto saggio", "perchè sono tanto accorto" e "perchè scrivo così buoni libri"; la prima parte dell'opera é dedicata alla vita di Nietzsche, la vita movimentata, i numerosi soggiorni in Italia e, soprattutto a Torino, città di cui era come non mai entusiasta ("la migliore cucina é la piemontese!", egli sostiene) ; dopo di che egli passa ad un'introspezione, cimentandosi nell'analizzare il suo carattere: "io sono per natura battagliero", dice, e riassume in quattro proposizioni la sua tattica di guerra: 1) attaccare solo le cose vittoriose o aspettare finchè non diventino tali; 2) attaccare solo le cose in cui si é certi di non trovare compagni che supportino: occorre agire da soli; 3) non attaccare mai le persone, bensì servirsi di esse per rendere visibile qualche male comune, ma difficile a essere colto; 4) attaccare solo cose da cui é esclusa qualunque antipatia personale.

Detto questo, Nietzsche spiega perchè é tanto accorto: lo é perchè non ha mai "riflettuto su problemi che non sono problemi", non si é mai sprecato. Egli é "accorto" perchè ha smascherato Dio come supposizione dell'uomo, come "no" alla vita: ma Nietzsche ci tiene a specificare che il suo non é un ateismo "volgare", ma é un istinto: "In me l'ateismo non é nè una conseguenza, nè tanto meno un fatto nuovo: esso esiste in me per istinto. Sono troppo curioso, troppo incredulo, troppo insolente per accontentarmi di una risposta così grossolana. Dio é una risposta grossolana, un'indelicatezza contro noi pensatori: anzi, addirittura, non é altro che un grossolano divieto contro di noi: non dovete pensare!". Ma un altro grande problema che Nietzsche si pone in "Ecce homo" é quello del nutrimento e in questo frangente colma di elogi la cucina piemontese. Si tratta ora di rispondere alla domanda "perchè scrivo libri così buoni?": il primo problema da affrontare, comunque, secondo Nietzsche, é se essi sono o non sono compresi: il pensatore tedesco deve constatare che essi non sono ancora compresi, ma un giorno lo saranno: "Sarei in aperta contraddizione con me stesso se mi aspettassi di trovare già oggi orecchie e mani disposte ad accogliere le mie verità: che oggi non mi si ascolti, che non si voglia prender nulla da me, mi sembra non solo naturale, ma anche giusto". Ed é proprio per questo che Nietzsche si ritiene un ottimo scrittore, perchè non lo si comprende ancora, perchè parla alle razze future, perchè i suoi scritti, per quei pochi che sanno comprenderne il significato profondo, sanno portare ad alta quota. Ma la domanda ultima e nello stesso tempo più significativa che Nietzsche si pone é "perchè sono una fatalità?"; egli sostiene di conoscere il proprio destino: un giorno si riconnetterà il suo nome a qualcosa di terribile, di una crisi come non ce ne furono altre, del più tremendo urto di coscienza, d'una sentenza pronunciata contro tutto ciò che era stato creduto: " Io non sono un uomo, sono dinamite". Ma ciò di cui Nietzsche ha paura é di diventare un "santo", di essere venerato come un fondatore di religioni: "Non c'é nulla in me del fondatore di religioni: non voglio credenti, non parlo alle masse; ho paura che un giorno mi facciano santo"; dice esplicitamente di preferire essere un buffone piuttosto che un santo: i santi hanno sempre mentito e nel futuro ci sarà un'enorme lotta tra la verità e la menzogna: "Ci saranno guerre come non ci sono mai state sulla terra. Soltanto a cominciare da me c'é al mondo una grande politica". Ed é lui, l'uomo Nietzsche, ad aver scoperto la verità, ad essersi differenziato per aver smascherato il cristianesimo: "Il concetto di Dio fu trovato come antitesi a quello di vita, in esso fu riunito in una terribile unità tutto ciò che vi era di dannoso, di velenoso, di calunnioso, tutto l'odio mortale contro la vita. Il concetto dell'al di là, del vero mondo fu creato per disprezzare l'unico mondo che ci sia, per non conservare più alla nostra realtà terrena alcuno scopo, alcuna ragione, alcun compito! I concetti di anima, di spirito, e, infine, anche quello di anima immortale, furono inventati per insegnare a disprezzare il corpo, a renderlo malato- cioè santo - per opporre a tutte le cose che meritano di essere trattate con serietà nella vita".

GLORIA E ETERNITA'
1
 
Da quanto tempo ormai
siedi sulla tua sventura?
Attento! tu mi covi ancora
un uovo,
un uovo di basilisco
dal tuo lungo rantolo.
 
Come - Zarathustra striscia lungo la montagna? -
 
Diffidente, ulcerato, cupo,
un lungo guatatore -,
ma improvviso un lampo,
chiaro, terribile, uno schianto dall'abisso verso il cielo: - alla montagna stessa si scuotono
i visceri...
 
Dove odio e fulmine
divennero uno, una maledizione-,
abita ora sulle montagne l'ira di Zarathustra,
una nube di tempesta che striscia per la sua via.
 
Si rimpiatti chi ha un'ultima coperta!
A letto voi delicati!
Ora rombano tuoni sulle volte,
ora trema quanto è muro e trave,
ora guizzano lampi e verità gialle di zolfo -
Zarathustra maledice...
 
2
 
Questa moneta,
con cui tutto il mondo paga,
gloria -,
con i guanti tocco questa moneta,
con nausea la calpesto sotto di me.
 

Chi vuol essere pagato?
Chi si fa comprare...
Chi è in vendita acciuffa
con grasse mani questo clingclang della gloria per tutti!
 
- Li vuoi comprare?
Si fanno tutti comprare.
Ma offri molto!
fa' tintinnare una grossa scarsella!
- se no li rafforzi,
se no rafforzi la loro virtù...
 
Sono tutti virtuosi.
Gloria e virtù - fanno rima
Finché vive
il mondo paga il blabla della virtù c
ol cracra della gloria -,
il mondo vive di questo chiasso...
 
Davanti a tutti i virtuosi
voglio essere
debitore della colpa,
chiamarmi colpevole di ogni grande colpa!
Davanti a tutte le bocche sonore della gloria
la mia ambizione mi vuole verme -,
fra questa gente mi garba
essere l'infimo...
 
Questa moneta, con cui
tutto il mondo paga,
gloria -,
con i guanti tocco questa moneta,
con nausea la calpesto sotto di me.
 
3
 
Silenzio! -
Di grandi cose - io vedo grande! -
si deve tacere
o dire grande:
di' grande, mia incantata saggezza!
 
Io vedo in alto -
là si rivoltano mari di luce:
o notte, o silenzio, o chiasso di quiete mortale!...
Io vedo un segno -,
dalla più lontana lontananza
cala lenta su di me una costellazione scintillante...
 
4
 
Supremo astro dell'essere!
Tavola di eterne figure!
Tu vieni a me? -
Ciò che nessuno ha scorto,
la tua muta bellezza -
come? non fugge davanti ai miei sguardi?
 
Stemma della necessità!
Tavola di eterne figure!
- ma tu già lo sai:
ciò che tutti odiano,
ciò che solo io amo,
che tu sei eterno!
che tu sei necessario!
 
Il mio amore si accende
in eterno solo della necessità.
 
Stemma della necessità!
Supremo astro dell'essere!
- mai raggiunto da desiderio, mai macchiato da no,
eterno sì dell'essere,
sono il tuo sì in eterno:
perché io ti amo, o eternità!

PENSIERI DI NIETZSCHE SU VARI PERSONAGGI
 

ELENCO
Omero Eraclito Parmenide Sofisti Socrate Platone Tucidide Epicuro Stoici Pirrone Paolo Francesco d'Assisi Lutero Raffaello Cellini Shakespeare Cartesio Don Giovanni Hume Lessing Kant Rousseau Voltaire Napoleone Fichte Hegel Goethe Mill Schopenhauer Offenbach Comte Wagner

OMERO
Il fatto più grande nella cultura greca rimane comunque questo, che Omero sia divenuto così per tempo panellenico. Tutta la libertà spirituale e umana che i Greci raggiunsero é da riportare a questo fatto. Nello stesso tempo però esso fu anche la tipica fatalità della cultura greca, perchè Omero appiattì, centralizzando, e dissolse i più seri istinti di indipendenza. Di tempo in tempo si elevò dal più profondo della natura greca la protesta contro Omero; ma egli rimase sempre vittorioso. Tutte le grandi potenze spirituali esercitano, oltre alla loro azione liberatrice, anche un'azione oppressiva; ma certo fa differenza che sia Omero o la Bibbia o la scienza a tiranneggiare gli uomini. (Umano, troppo umano; af. 262)

ERACLITO
Metto da parte, con sommo rispetto, il nome di Eraclito. Se il restante popolo dei filosofi rigettava la testimonianza dei sensi, perchè questi indicavano molteplicità e cambiamento, egli rifiutava la loro testimonianza perchè essi mostravano le cose come se avessero durata e unità. Anche Eraclito fece torto ai sensi. Essi non mentono nè nel modo che credevano gli Eleati, nè in quello che credeva lui- in generale essi non mentono. E' soltanto quel che noi facciamo della loro testimonianza che introduce in essi la menzogna, per esempio la menzogna dell'unità, la menzogna della causalità, della sostanza, della durata... La "ragione" é la causa del nostro falsificare la testimonianza dei sensi. In quanto essi ci mostrano il divenire, lo scorrere, il cambiamento, non mentono... Ma Eraclito avrà ragione in eterno nell'affermare che l'essere é una vuota finzione. Il mondo "apparente" é l'unico mondo: il "vero mondo" é solo un'aggiunta mendace... (Crepuscolo degli idoli)

PARMENIDE
Parmenide ha detto: "non si pensa ciò che non é"- noi assumiamo la posizione diametralmente opposta e diciamo: "ciò che può venir pensato, deve sicuramente essere una finzione". (La volontà di potenza, af. 539)

SOFISTI
I sofisti non sono altro che dei realisti: riformulano tutti i valori e le pratiche più comuni elevandole al grado di valori- hanno il coraggio, proprio di tutti gli spiriti forti, di conoscere la loro immoralità. Si crede forse che quelle piccole libere città greche, che volentieri si sarebbero divorate fra loro per rabbia e gelosia, fossero guidate da princìpi di filantropia e onestà? Si rimprovera forse a Tucidide quel discorso che egli fa pronunciare agli ambasciatori ateniesi inviati a Melo per trattarne la distruzione o la sottomissione? Parlare di virtù in mezzo a queste terribili tensioni era possibile solamente a dei perfetti Tartufi- o a gente che viveva appartata, a eremiti, a gente fuggita o uscita dalla realtà... Tutta gente che diceva di no per poter vivere. I sofisti erano greci: quando Socrate e Platone presero le parti della virtù e della giustizia, furono ebrei, o non so cos'altro. La tattica del Grote per difendere i sofisti é sbagliata: vuole elevarli al grado di uomini d'onore e di vessilliferi della morale- ma il loro onore fu quello di non imbrogliare nessuno con le grandi parole e le grandi virtù... (La volontà di potenza, af. 429)

SOCRATE
Per i suoi natali Socrate apparterrebbe al popolo minuto: Socrate era plebe. E' noto, e lo si può vedere anche oggi, quanto egli fosse brutto. Ma la bruttezza, un'obiezione di per se stessa, é tra i Greci quasi una confutazione. E Socrate era poi veramente un greco? La bruttezza é abbastanza spesso l'espressione di uno sviluppo ibrido, ostacolato dall'incrocio. In altri casi, essa appare come un'involuzione nello sviluppo. Gli antropologi che si interessano di criminologia ci dicono che il delinquente tipico é brutto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma il delinquente é un décadent. Era Socrate un delinquente tipico? Per lo meno a ciò non contraddice quel famoso giudizio fisionomico che aveva un suono così urtante per gli amici di Socrate. Uno straniero che si intendeva di facce, allorchè venne ad Atene, disse in faccia a Socrate che egli era un monstrum- che nascondeva in sè tutti i vizi e le bramosie peggiori. E Socrate si limitò a rispondere: "Lei mi conosce, signore!". E' un indice della décadence in Socrate non solo la confessata sregolatezza e anarchia degli istinti; precisamente a essa rinvia anche la superfetazione della logica e quella malvagità da rachitico che lo caratterizza. Non dimentichiamo nemmeno quelle allucinazioni acustiche che sono state interpretate in senso religioso, come il demone socratico. Tutto in lui é esagerato, buffo, caricatura, tutto é al tempo stesso occulto, pieno di secondi fini, sotterraneo. Cero di capire da quale idiosincrasia provenga quell'equazione socratica di ragione= virtù=felicità: la più stravagante equazione che sia mai esistita e che ha contro di sè, in particolare, tutti gli istinti dei più antichi Elleni. Con Socrate il gusto dei Greci degenera a favore della dialettica: che cosa avviene esattamente in questo momento? Innanzitutto viene sconfitto in tal modo un gusto aristocratico; con la dialettica la plebe rialza il capo. (Il crepuscolo degli idoli)

Questo brusco rovesciamento del gusto a favore della dialettica é un grande punto interrogativo. Che cosa accadde propriamente? Socrate, il plebeo che impose quel cambiamento, ottenne la vittoria sopra un gusto più nobile, il gusto di chi eccelle: la plebe giunse alla vittoria grazie alla dialettica. Prima di Socrate, tutta la buona società rifiutava le maniere della dialettica: si credeva che mettesse a nudo le anime; si metteva in guardia la gioventù contro di essa. Perchè questo sfoggio di motivi? A qual fine dimostrare? Contro gli altri, si possedeva l'autorità. Si comandava e basta. Inter pares, si possedeva la propria origine, che é pure un'autorità: e, come ultima risorsa, ci si intendeva! Non c'era posto per la dialettica. Anzi, si diffidava di un simile presentare in pubblico i propri argomenti. Tutto ciò che é dabbene non tiene pronti in mano i propri motivi. C'é qualcosa di sconveniente nel mostrare tutte le 5 dita. Ciò che si può dimostrare ha poco valore. Che la dialettica susciti diffidenza, che convinca poco, é del resto cosa risaputa per istinto dagli oratori di tutti i partiti. Nulla é più facile da cancellare che un effetto dialettico. La dialettica può essere soltanto una legittima difesa. Bisogna trovarsi in uno stato di necessità, avere il bisogno di estorcere un proprio diritto: prima, non si fa uso della dialettica. Perciò furono dialettici gli ebrei, lo fu Reineke Fuchs, lo fu Socrate. Si ha in mano uno strumento spietato. Si può tiranneggiare. Si denuda l'avversario, vincendolo. Si lascia che sia il suo sacrificio a dimostrare che non siamo degli idioti. Si rende l'avversario furioso e desolato, mentre noi restiamo freddi e trionfalmente ragionevoli- si snerva l'intelligenza dell'avversario. L'ironia del dialettico é una forma di vendetta plebea: la ferocia degli oppressi sta nelle fredde pugnalate del sillogismo. (La volontà di potenza, af. 431)

Missionari divini. Anche Socrate sente se stesso come missionario divino; ma in ciò si può ancora sentire una certa traccia di attica ironia e di gusto di scherzare, da cui quell'idea insopportabile e arrogante viene mitigata. Ne parla senza unzione: le sue immagini, del freno e del cavallo, sono semplici e non sacerdotali, e il vero compito religioso che egli si sente assegnato, di mettere il Dio alla prova in cento modi, per vedere se ha detto la verità, fa concludere a un atteggiamento ardito e libero, con cui qui il missionario si pone a fianco del suo Dio. Quel mettere alla prova il Dio é uno dei più sottili compromessi fra religiosità e libertà di spirito che siano mai stati ideati.- oggi non abbiamo più bisogno neanche di questo compromesso. (Aurora, af. 72)

Se tutto va bene, verrà il tempo in cui, per promuovere il proprio avanzamento morale e spirituale, si prenderanno in mano i "Memorabili" di Socrate a preferenza della Bibbia, e in cui Montaigne e Orazio saranno utilizzati come messaggeri e guide per la comprensione del più semplice e imperituro mediatore-saggio, Socrate. A lui riconducono le strade delle più diverse maniere filosofiche di vita, che sono in fondo le maniere di vita dei diversi temperamenti, stabiliti dalla ragione e dall'abitudine, e tutti quanti rivolti con la loro punta verso la gioia di vivere e di se stessi; dal che si potrebbe concludere che l'aspetto più peculiare di Socrate é stato un prendere parte a tuti i temperamenti.- Rispetto al fondatore del cristianesimo, Socrate ha in più la gioconda forma di serietà e quella saggezza piena di birbonate, che costituisce per l'uomo lo stato d'animo migliore. Inoltre aveva un intelletto più grande. (Aurora, af.86)

Socrate trovò la donna che gli occorreva - egli però non l'avrebbe certo cercata, se l'avesse conosciuta bene: così lontano anche l'eroismo di questo spirito libero non sarebbe andato. In realtà Santippe lo spinse sempre più verso la sua particolare professione, rendendogli casa e focolare inabitabili e inospitali: gli insegnò a vivere per le strade e dappertutto dove si poteva chiacchierare e oziare, facendo così di lui il più grande dialettico ambulante di Atene: il quale da ultimo dovette paragonare se stesso alle redini importune poste da un dio sul colle del bel cavallo Atene per non fargli aver pace. (Umano, troppo umano; af. 433)

PLATONE

Platone: un grande "Cagliostro"- si pensi a come lo giudicò Epicuro; a come lo giudicò Timone, l'amico di Pirrone. E' forse fuori dubbio la probità di Platone? Ma noi sappiamo per lo meno che pretese di insegnare come una verità assoluta qualcosa che lui stesso non riteneva una verità, neppure condizionata: ossia l'esistenza particolare e l'immortalità personale delle anime. (La volontà di potenza, af. 428)
Consideriamo i filosofi della Grecia, ad esempio Platone. Separò gli istinti dalla polis, dalla lotta, dal valore militare, dall'arte e dalla bellezza, dai misteri, dalla fede nella tradizione e negli antenati... Fu il seduttore dei nobles, sedotto lui stesso dal roturier Socrate... Negò tutte le premesse del 'greco eccellente' di vecchio stampo, introdusse la dialettica nella pratica quotidiana, cospirò coi tiranni, predicò una politica dell'avvenire e diede l'esempio della più perfetta separazione degli istinti da ciò che é antico. E' profondo e passionale in tutto ciò che é antiellenico... (La volontà di potenza, af. 435)
La filosofia di Platone ricorda gli anni medi della trentina, in cui una corrente fredda e una calda sogliono ribollire l' una sull' altra, sicchè si formano polvere e delicate nuvolette e, in circostanze favorevoli e sotto i raggi del sole, un incantevole arcobaleno. (Umano, troppo umano)
Per Platone, la cui sensualità e il cui fanatismo erano sovraeccitabili, il fascino del concetto diventò così grande che finì inavvertitamente per venerarlo e divinizzarlo come una forma ideale. Ubriacatura dialettica: coscienza di esercitare con essa un dominio su di sè- strumento della volontà di potenza. (La volontà di potenza, af. 431)

Due uomini tanto fondamentalmente diversi come Platone e Aristotele concordavano su ciò che costituisce la suprema felicità, non soltanto per loro e per gli esseri umani, ma anche in sè, perfino per gli dei delle estreme beatitudini: lo trovavano nel conoscere, nell'attività di un intelletto ben esercitato, che sa rinvenire e inventare. (Aurora, af. 550)

TUCIDIDE

Tucidide, immediatamente prima che la notte scenda su Atene (la peste e la rottura della tradizione), la fa brillare ancora una volta come uno sfolgorante tramonto, destinato a far dimenticare la brutta giornata che lo ha preceduto. (Umano, troppo umano; af. 474)
Il mio ristoro, la mia predilizione, la mia terapia contro ogni platonismo é stato, in ogni tempo, Tucidide. Tucidide, e forse il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà- non nella "ragione" e meno che mai nella "morale"... Contro la deplorevole tendenza ad abbellire i Greci, a idealizzarli, che il giovane "educato sui classici" si porta nella vita come ricompensa del suo ammaestramento liceale, non vi é cura così drastica come Tucidide. Lo si deve rivoltare rigo per rigo e decifrare i suoi nascosti pensieri così esattamente come le sue parole-: esistono pochi pensatori così ricchi di segreti pensieri. In lui la cultura dei sofisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile in mezzo alla frode morale e ideale delle scuole socratiche dilaganti allora da ogni parte. La filosofia greca come dècadence dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone é un codardo di fronte alla realtà- conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sè- di conseguenza tiene sotto il suo dominio anche le cose... (Crepuscolo degli idoli)

EPICURO

Un giardino, fichi, piccoli formaggi e insieme tre o quattro buoni amici: fu questa la sontuosità di Epicuro. (Umano, troppo umano)
Epicuro ha vissuto in tutti i tempi, e vive ancora, sconosciuto a quelli che si dissero e si dicono epicurei, e senza fama presso i filosofi. Del resto egli stesso dimenticò il suo nome: fu il bagaglio più pesante che avesse mai gettato via. (Umano, troppo umano)
Sì, sono fiero di sentire il carattere di Epicuro in modo diverso, forse, da chiunque altro, e soprattutto di gustare in tutto ciò che di lui leggo e ascolto la gioia pomeridiana dell'antichità - vedo il suo occhio che guarda un vasto,albicante mare, oltre gli scogli delle coste su cui si posa il sole, mentre grandi e piccole fiere giuocano nella sua luce, sicure e placide come questa luce e quell'occhio stesso. Una tale gioia l'ha potuta inventare solo un uomo che ha perpetuamente sofferto, la gioia di un occhio davanti al quale il mare dell'esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, abbrividente velo di mare: non era mai esistita prima di allora una tale compostezza della voluttà. (La gaia scienza, af. 45)
La lotta contro la 'fede antica' intrapresa da Epicuro fu, in senso stretto, una lotta contro il cristianesimo preesistente- lotta contro il vecchio mondo intristito, moralizzato, inacidito da sentimenti di colpa, diventato decrepito e infermo. (La volontà di potenza, af. 438)

L'epicureo si sceglie la situazione, le persone e perfino gli avvenimenti che si armonizzano con la sua costituzione intellettuale estremamente eccitabile, egli rinuncia al resto, vale a dire al più, perchè sarebbe per lui un cibo troppo forte e pesante. (La gaia scienza, af.306)

Epicuro, l'acquietatore d'anime della tarda antichità, comprese meravigliosamente, come ancor oggi così raramente si comprende, che per tranquillizzare l'animo non é affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche. Sicchè a coloro che erano tormentati dalla 'paura degli dèi', gli bastava dire:" se ci sono gli dèi, essi non si preoccupano di noi ",- invece di disputare sterilmente e da lontano sulla questione suprema, se ci siano in genere dèi. Questa posizione é molto più favorevole e forte: si danno all'altro alcuni passi di vantaggio, rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena quegli si accinge a dimostrare il contrario,- che gli dèi si preoccupano di noi,- in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero, affatto da sè, senza astuzia da parte dell'interlocutore? Costui deve solo avere abbastanza umanità e finezza da nascondere la sua compassione per questo spettacolo. Da ultimo l'altro giunge alla nausea, l'argomento più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affermazione; si raffredda e va via con lo stesso stato d'animo che é anche dell'ateo puro: "cosa importa poi a me degli dèi? Che il diavolo se li porti!".- In altri casi, specie quando un'ipotesi a metà fisica e a metà morale aveva offuscato l'animo, egli non confutava questa ipotesi, bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso fenomeno c'era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva stare ancora diversamente. Anche nel nostro tempo la pluralità delle ipotesi, per esempio sull'origine dei rimorsi della coscienza, basta per togliere dall'anima quell'ombra che così facilmente nasce dal ruminare un'ipotesi unica, la sola visibile, e pertanto cento volte sopravvalutata.

- Chi dunque desidera largire conforto, a infelici, malfattori, ipocondriaci, morenti, si ricordi delle due espressioni tranquillizanti di Epicuro, che si possono applicare a moltissime questioni. Nella forma più semplice esse suonerebbero all'incirca: primo: posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così, ma può anche essere diversamente. (Il viandante e la sua ombra; af.8)

STOICI

Stoico. C'é una serenità nello stoico, quando si sente oppresso dal rituale che lui stesso ha prescritto al proprio tenore di vita; quivi egli gode se stesso come dominatore. (Aurora, af.251)
Lo stoico si esercita a trangugiare pietre e vermi, schegge di vetro e scorpioni e a essere insensibile alla nausea; il suo stomaco deve infine diventare indifferente a tutto ciò che vi travasa il caso dell'esistenza. (La gaia scienza, af.306)

PIRRONE

La stanchezza saggia: Pirrone. Vivere fra gli umili, umilmente. Nessuna fierezza. Vivere alla maniera comune; onorare e credere ciò che tutti credono. Stare in guardia di fronte a scienza e spirito e anche contro tutto ciò che gonfia... Con semplicità: indescrivibilmente paziente, noncurante, dolce; apaqeia, di più: prauths. Un buddista per la Grecia, cresciuto nel tumulto delle scuole: giunto tardi; stanco; la protesta dell'uomo stanco contro lo zelo dei dialettici; l'incredulità dell'uomo stanco nei confronti dell'importanza di tutte le cose. Ha visto Alessandro, ha visto i penitenti indiani. Su simili uomini tardivi e raffinati tutto ciò che é basso, povero, perfino idiota esercita una seduzione. Narcotizza: distende i nervi (Pascal). D'altra parte, in mezzo al tumulto e scambiati per gente qualunque, sentono un pò di calore: hanno bisogno di calore questi stanchi... Superare la contraddizione: nessuna lotta; nessuna volontà di distinguersi, negare gli istinti greci.(Pirrone viveva con una sorella che era levatrice). Travestire la saggezza, perchè cessi di renderci distinti; darle un manto di povertà e di cenci: fare i lavori più umili; andare al mercato a vendere maialetti... Dolcezza; serenità, indifferenza: nessuna virtù che esiga un contegno; farsi uguali agli altri anche nella virtù: ultima vittoria su di sè, ultima indifferenza. (La volontà di potenza, af. 437)

PAOLO

Cerca la potenza contro il giudaismo dominante, il suo movimento è troppo debole... trasvalutazione del concetto di 'giudeo': la 'razza' é messa da parte: ma ciò significò negare il fondamento. Il 'martire', il 'fanatico', il valore di ogni fede... Il cristianesimo é la forma degenerata del vecchio mondo al colmo dell'impotenza, dove vengono a galla gli strati sociali e i bisogni più malati e insani. Di conseguenza, altri istinti dovettero farsi avanti, per creare un'unità, una potenza che difende se stessa- insomma fu necessaria una specie di stato di emergenza come quello da cui gli ebrei ricevettero il loro istinto di autoconservazione... Sono, a questo punto, di incalcolabile importanza le persecuzioni dei cristiani- la comunanza nel pericolo, le conversioni di massa come unico mezzo per metter fine alle persecuzioni individuali (perciò Paolo fece l'uso più disinvolto del concetto di 'persecuzione'). (La volontà di potenza, af. 173)

FRANCESCO D'ASSISI

Francesco d'Assisi: innamorato, popolare, poeta, combatte contro la gerarchia delle anime, a favore delle più umili. Nega la gerarchia delle anime: tutti uguali 'di fronte a Dio'. L'ideale popolare: l'uomo buono, il disinteressato, il santo, il saggio, il giusto. O Marco Aurelio! (La volontà di potenza, af. 360)

LUTERO

Lutero, il grande benefattore. Quel che costituisce il più considerevole risultato dell'azione di Lutero sta nella diffidenza destata da lui nei riguardi dei santi e dell'intera vita contemplativa cristiana: soltanto da allora é divenuto di nuovo accessibile in Europa il cammino verso una vita contemplativa non cristiana, ed é stata posta una meta al disprezzo dell'attività mondana e dei laici. Lutero, che restava pur sempre il figlio gagliardo di un minatore, allorchè fu rinchiuso nel convento, e qui, in mancanza di altre profondità e "cavità", cominciò a salire dentro se stesso e a trivellare orribili e oscuri cunicoli, finì per notare che una santa vita contemplativa gli sarebbe stata impossibile e che la sua innata "attività" nell'anima e nella carne lo avrebbe trascinato alla perdizione. Troppo a lungo tentò di trovare, a furia di macerazioni, la via della santità, ma finalmente prese la sua decisione e disse: "Non esiste alcuna reale vita contemplativa! Ci siamo fatti abbindolare! I santi non hanno avuto più valore di noi tutti". Indubbiamente era questo un modo di aver ragione proprio da contadino,- ma per i Tedeschi di quel tempo era l'unico modo e quello giusto; li edificava assai leggere ora nel loro catechismo luterano: "Fuori dei 10 comandamenti non c'é opera alcuna che potrebbe piacere a Dio,- le magnificate opere religiose dei santi sono loro invenzioni". (Aurora, af.88)

RAFFAELLO

Pittura e onestà. Raffaello, a cui importava molto della Chiesa (finchè era solvibile), ma poco, come ai migliori del suo tempo, degli oggetti della fede ecclesiastica, non seguì neanche di un passo l'esigente ed estatica religiosità di parecchi dei suoi committenti: egli conservò la sua onestà, anche in quel quadro d'eccezione, che era in origine destinato a uno stendardo di processione, nella Madonna Sistina. Qui egli volle per una volta dipingere una visione: ma una visione quale possono avere e avranno anche dei nobili giovani senza "fede", la visione della futura sposa, di una donna intelligente, di animo nobile, silenziosa e molto bella, che porta in braccio il suo primogenito. Venerino pure qui i vecchi che sono avvezzi al pregare e all'adorare, come il venerabile vegliardo sulla sinistra, qualcosa di sovrumano: noi più giovani, così sembra gridarci Raffaello, vogliamo stare dalla parte della bella fanciulla sulla destra, che con il suo sguardo tentatore e tutt'altro che devoto dice a quelli che osservano il quadro: "Non é vero? Questa madre e il suo bambino- non é una vista piacevole e invitante?". Questo volto e questo sguardo riflettono un raggio di gioia sui volti di coloro che li guardano; l'artista che inventò tutto ciò gode in tal modo di se stesso e aggiunge la propria gioia alla gioia dei destinatari dell'arte. -

Riguardo all' espressione "redentrice" sul viso di un bambino, Raffaello, l'onesto, che non voleva dipingere uno stato d'animo alla cui esistenza non credesse, abbindolò i suoi spettatori credenti in una garbata maniera; dipinse quel gioco di natura che non di rado accade, l'occhio dell'uomo nella testa del bambino, e precisamente l'occhio dell'uomo prode e misericordioso che vede uno stato di miseria. Per quest'occhio ci vuole una barba; che questa manchi e che due età diverse parlino qui da uno stesso volto, é il piacevole paradosso che i credenti si sono spiegati nel senso della loro fede nel miracolo: come anche l'artista poteva aspettarsi dalla loro arte di interpretare e di interpolare.

CELLINI

Il genio della civiltà si comporta come si comportò Cellini allorquando lavorava alla fusione del suo Perseo: la massa fluida minacciava di non bastare, ma essa doveva bastare: così egli vi gettò dentro piatti e stoviglie e quant'altro gli venne sottomano. E così anche quel genio getta dentro errori, vizi, speranze, chimere e altre cose di metallo tanto nobile che vile, perchè la statua dell'umanità deve venir fuori ed essere finita; cosa importa che qua e là si sia impiegato materiale più scadente? (Umano, troppo umano; af. 258)

SHAKESPEARE

La cosa più bella che io sappia dire in lode all'uomo Shakespeare é questa: egli ha creduto in Bruto, e non un granello di diffidenza ha gettato su questo tipo di virtù! A lui ha consacrato la sua migliore tragedia- la si continua sempre ancor oggi a chiamare con un falso nome-, a lui e al più terribile compendio dell'alta morale. Indipendenza dell'anima!- di questo si tratta! Nessun sacrificio può essere in questo caso troppo grande: ad essa bisogna saper sacrificare anche l'amico più diletto, fosse anche per giunta l'uomo più splendido, il vanto del mondo, il genio senza eguali- quando si ama, cioè, la libertà, come la libertà di anime grandi, e attraverso l'amico un pericolo minaccia questa libertà- in questo modo deve aver sentito Shakespeare! L'altezza alla quale innalza Cesare é il più squisito onore che potesse rendere a Bruto: soltanto così conferisce immensità di proporzioni al problema interiore di questo come al pari della forza spirituale che fu capace di tagliare questo nodo!- E fu realmente la libertà politica a spingere questo poeta a simpatizzare con Bruto- a condividerne la colpevolezza? Oppure la libertà politica fu solo un simbolo per qualcosa d'inesprimibile? Ci troviamo forse di fronte a un qualche oscuro evento, rimasto sconosciuto, e ad un'avventura dell'anima stessa del poeta, di cui egli solo per segni poteva parlare? Che cosa é tutta la melanconia di Amleto di fronte alla melanconia di Bruto!- E forse Shakespeare conosceva anche questa, come quella, per esperienza! Forse anche lui come Bruto aveva le sue ore fosche e il suo angelo malvagio!-

Ma, comunque possano essersi configurate tali analogie e correlazioni segrete, Shakespeare si prosternò davanti all'intera figura e alla virtù di Bruto e si sentì indegno e lontano: nella tragedia ha inscritto la testimonianza di tutto questo. In essa per due volte ha introdotto un poeta e per due volte ha versato su di lui un tale impaziente ed estremo disprezzo che suona come un grido- come il grido di dispregio di se stesso. Bruto, Bruto stesso perde la pazienza quando appare il poeta, presuntuoso, patetico, importuno, come sono soliti esserlo i poeti, una persona che pare traboccare di possibilità di grandezza, anche di grandezza etica, e che tuttavia, nella filosofia dell'azione e della vita, raramente giunge sia pure alla comune onestà. 'Lui conoscerà i tempi, ma io conosco le sue fisime- via da me quel pagliaccio coi sonagli!' grida Bruto. Si riporti questo all'anima del poeta che lo scrisse. (La gaia scienza, af. 98)

Shakespeare come moralista. Shakespeare ha molto meditato sulle passioni e ha anche avuto, per il suo temperamento, assai facile accesso a molte di esse (i drammaturghi sono in genere uomini alquanto cattivi). Ma egli non sapeva, come Montaigne, parlare di esse, e pose invece le osservazioni sopra le passioni in bocca a personaggi appassionati: il che veramente é contro natura, ma rende i suoi drammi così densi di pensiero, da fare apparire vuoti tutti gli altri e da suscitare facilmente una generale avversione contro di loro. Le sentenze di Schiller (alla cui base stanno quasi sempre idee false o insignificanti) sono appunto sentenze da teatro e producono sempre come tali un effetto molto forte, mentre le sentenze di Shakespeare fanno onore al suo modello Montaigne e contengono in forma concisa pensieri serissimi, ma perciò troppo lontani e sottili agli occhi del pubblico dei teatri, cioè sono inefficaci. (Umano, troppo umano; af. 176)

CARTESIO

"Si pensa: di conseguenza c'é qualcosa che pensa": così conclude l'argomentazione di Cartesio. Ma questo é un porre la nostra credenza nel concetto di sostanza come 'vera a priori'. Dire che, se si pensa, deve esserci qualcosa 'che pensi' é semplicemente una formula della nostra abitudine grammaticale, che assegna a un'azione un autore. In breve, qui si enuncia già un postulato logico-metafisico- non si fa una semplice constatazione... Sulla via di Cartesio non si giunge a una certezza assoluta, ma solamente al fatto di una credenza molto forte. Se si riduce quella proposizione a quest'altra: "si pensa, di conseguenza ci sono pensieri", si ha una semplice tautologia che non tocca precisamente ciò che é in questione, cioè la 'realtà del pensiero'- ossia, in questa forma non si può rifiutare l' 'apparenza' del pensiero. Ma ciò che Cartesio voleva é questo: che il pensiero non abbia soltanto una realtà apparente, ma una realtà in sè. (La volontà di potenza, af. 484)

DON GIOVANNI

Una favola. Il don Giovanni della conoscenza: non é stato ancora scoperto da nessun filosofo e da nessun poeta. Gli manca l'amore per le cose che conosce, ma nella caccia e negli intrighi della conoscenza- su su fino alle stelle più alte e lontane della conoscenza- é ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finchè non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella conoscenza é assolutamente nocivo, come fa il bevitore, che finisce per darsi all'assenzio e all'acquavite. Così, alla fine, s'incapriccia dell'inferno- é l'ultima conoscenza, quella che lo seduce. Forse anch'essa lo delude, come ogni cosa quando é conosciuta! E allora dovrebbe starsene immobile per tutta l'eternità, inchiodato alla delusione, trasformato lui stesso nel convitato di pietra, con un desiderio di un'ultima cena della conoscenza che non gli toccherà mai più- poichè l'intero mondo delle cose non avrà più un boccone da offrire a questo affamato. (Aurora, af. 327)

HUME

Non abbiamo alcun 'senso della causa efficiens': qui ha ragione Hume, l'abitudine (ma non solo quella dell'individuo!) ci fa attendere che un certo accadimento, sovente osservato, segua a un altro, e basta! Ciò che ci dà una credenza nella causalità così straordinariamente stabile non é la grande consuetudine al succedersi degli eventi, ma la nostra incapacità di interpretare un evento vedendolo altrimenti che come prodotto da intenzioni. (La volontà di potenza, af. 550)

LESSING

Lessing ha una virtù schiettamente francese e come scrittore é stato in genere il più diligente nell'andare a scuola dai Francesi: sa bene ordinare ed esporre le sue cose in vetrina. Senza questa vera arte, i suoi pensieri, come pure i loro oggetti, sarebbero rimasti piuttosto in ombra, senza grave perdita per gli altri. Ma dalla sua arte hanno imparato molti (soprattutto le ultime generazioni di dotti tedeschi) e innumerevoli persone se ne sono allietate.- Certo quei discepoli non avrebbero avuto bisogno di imparare da lui, come così spesso é avvenuto, anche il suo tono e la sua maniera antipatica, in una mescolanza di litigiosità e probità.- Su Lessing lirico si é oggi unanimi: sul "drammaturgo" lo si sarà.

KANT

Kant, con la sua "ragione pratica", col suo fanatismo morale, é completamente XVIII secolo: é ancoRA completamente fuori dal movimento storico; non ha occhi per la realtà del suo tempo, ad esempio per la Rivoluzione francese; non toccato dalla filosofia greca; fantastico nel concetto del dovere; sensista, con una recondita inclinazione al traviamento dogmatico. (La volontà di potenza, af. 95)
Kant: uno psicologo e un conoscitore degli uomini assai scarso; si sbagliava di grosso circa i grandi valori storici (Rivoluzione francese); fanatico morale à la Rousseau, con un acuto cristianesimo dei valori; completamente dogmatico, ma con un greve disgusto per questa sua inclinazione, fino a desiderare di dominarla; ma anche dello scetticismo si stancò subito; non fu sfiorato dal gusto per il cosmopolitismo, nè da quello per la bellezza dell'antichità... Fu un temporeggiatore e un intermediario, non ebbe nulla di originale. (La volontà di Potenza, af. 101)
La macchia del criticismo kantiano é gradatamente diventata visibile anche agli occhi più grossolani: Kant non aveva più alcun diritto a distinguere 'fenomeno' e 'cosa in sè' - si era negato il diritto di continuare a distinguere secondo questa vecchia consuetudine, poichè rifiutava come illecito l'inferire dal fenomeno una causa del fenomeno- in conformità con la sua concezione della causalità e della validità puramente intrafenomenica di tale concetto: un modo di concepire che, d'altra parte, anticipa quella distinzione, come se la 'cosa in sè' fosse non solo inferita, ma data. (La volontà di potenza, af. 553)

E ora non parlarmi dell'imperativo categorico, amico mio! Questa parola mi fa il solletico all'orecchio e non posso fare a meno di ridere nonostante la tua presenza tanto seria: mi vien fatto di pensare al vecchio Kant che a titolo di punizione per essersi sgraffinato la 'cosa in sè' - ridicolissima cosa pure questa! - fu accalappiato dall'imperativo categorico, e con quello in cuore rifece il cammino all'indietro smarrendosi in 'Dio', 'anima', 'libertà', 'immortalità', come una volpe che, smarritasi, ritorna nella sua gabbia- ed era stata la sua forza e accortezza a forzare questa gabbia! (La gaia scienza, af. 335)

L'istinto erroneo in tutto e per tutto, la contronatura come istinto, la dècadence tedesca come filosofia- questo é Kant!- (L'Anticristo, af. 11)

ROUSSEAU

Ma Rousseau dove voleva lui in verità tornare? Rousseau, questo primo uomo moderno, idealista e canaille in una sola persona; che ebbe bisogno della dignità morale per sopportare il suo stesso aspetto; malato di una sfrenata vanità e di un illimitato disprezzo di sè. Anche questa creatura malriuscita, che ha preso posto sulla soglia della nuova età, voleva il ritorno alla natura: dove, chiediamo ancora una volta, voleva tornare Rousseau? Odio Rousseau anche nella Rivoluzione: essa é l'espressione nella storia universale di quella doppia natura d'idealista e di canaille. La farsa sanguinosa in cui questa rivoluzione si sviluppò, la sua 'immoralità', m'importa poco: quel che odio é la rousseauiana moralità- le cosiddette verità della rivoluzione con le quali essa continua sempre a esercitare i suoi effetti e a conciliarsi tutto ciò che é piatto e mediocre. La dottrina dell'uguaglianza! (Crepuscolo degli idoli, af. 48)

Il corruttore é Rousseau: toglie le catene alla donna, che da allora in poi viene rappresentata in modo sempre più interessante- come sofferente. (La volontà di potenza, af. 94)

Rousseau: la regola fondata sul sentimento, la natura come fonte della giustizia; l'uomo si perfeziona nella misura in cui si avvicina alla natura. [...] Ma Rousseau rimase plebeo, anche come homme de lettres, cosa inaudita: disprezzava spontaneamente tutto ciò che lui stesso non era. Ciò che vi é di morboso in Rousseau fu sommamente ammirato e imitato. [...] La difesa della provvidenza da parte di Rousseau: aveva bisogno di Dio per poter scagliare la propria maledizione sulla società e sulla civiltà; ogni cosa doveva essere buona in sè, poichè Dio l'ha creata: solo l'uomo ha corrotto l'uomo. (La volontà di potenza, af. 100)

Contro Rousseau. Se é vero che la nostra civiltà ha in sè qualcosa di miserando, avete la scelta di giungere, con Rousseau, all'ulteriore conclusione che "della nostra cattiva moralità ha colpa questa miserabile civiltà", oppure, contro Rousseau, ritornare alla conclusione che "della nostra miserabile civiltà ha colpa la nostra buona moralità". I nostri fiacchi, svirilizzati, sociali concetti di bene e male, e l'enorme strapotere di questi sull'anima e sul corpo hanno finito per infiacchire tutte le anime e i corpi e per infrangere gli uomini indipendenti, autonomi, spregiudicati, le colonne di una robusta civiltà: dove ancor oggi si incontra la cattiva moralità, si vedono le ultime rovine di queste colonne. "Così s'opponga paradosso a paradosso! Impossibile che la verità possa essere da tutte e due le parti; e in genere é da una di queste due parti? Lo si accerti". (Aurora, af.163)

VOLTAIRE

Basta leggere di tempo in tempo il Maometto di Voltaire per rappresentarsi con chiarezza alla mente che cosa una volta per tutte, con quella rottura della tradizione, sia andato perduto per la cultura europea. Voltaire fu l'ultimo dei grandi drammaturghi, l'ultimo che domasse con greca misura la sua anima molteplice, che era all'altezza anche delle più grandi tempeste tragiche; egli potè ciò che ancora nessun tedesco ha potuto, perchè la natura del francese é molto più affine a quella greca che non la natura del tedesco; come pure egli fu l'ultimo grande scrittore che, nella composizione del discorso in prosa, avesse orecchio greco, coscienziosità artistica greca e greca semplicità e grazia; anzi fu uno degli ultimi uomini che sapessero riunire in sè la più grande libertà di spirito e un modo di pensare assolutamente non rivoluzionario, senza essere incoerenti e pavidi. (Umano, troppo umano; af. 221)

NAPOLEONE

La Rivoluzione rese possibile Napoleone: così viene giustificata. Per un simile compenso si dovrebbe desiderare il crollo anarchico di tutta la nostra civiltà. Napoleone rese possibile il nazionalismo: questo é il suo limite. Il valore di un uomo (astraendo, come si deve, da moralità e immoralità: infatti, con questi concetti non si tocca ancora il valore di un uomo) non consiste nella sua utilità; perchè questo valore persisterebbe anche se non ci fosse nessuno a cui potesse tornare utile. E perchè precisamente l'uomo che sortì gli effetti più rovinosi non potrebbe essere il vertice dell'intero genere umano, così alto, così superiore che tutto rovina per invidia nei suoi confronti? (La volontà di potenza, af.877)

Si deve a Napoleone (e niente affatto alla Rivoluzione francese, che ha avuto di mira la 'fraternità' tra i popoli, nonchè universali, fioriti scambi di sentimenti) il fatto che ora possono succedersi un paio di secoli bellicosi di cui non esiste l'uguale nella storia, insomma il nostro avvenuto ingresso nell'età classica della guerra, della guerra dotta e al tempo stesso popolare nella più vasta scala (di mezzi, di attitudini, di disciplina), verso la quale tutti i secoli venturi, quasi fosse un frammento di perfezione- infatti il movimento nazionale da cui germoglia questa gloria guerriera é solo il contro-choc a Napoleone, e senza Napoleone non si sarebbe verificato. A costui dunque si potrà attribuire un giorno il fatto che in Europa l'uomo é divenuto ancora una volta signore del mercante filisteo; forse perfino della 'donna', che é stata blandita dal cristianesimo, dallo spirito stravagante del secolo XVIII e ancor più dalle 'idee moderne'. Napoleone, che vedeva nelle idee moderne e proprio nella civilizzazione qualcosa come un nemico personale, ha confermato, con questa sua ostilità, di essere uno dei più grandi prosecutori del Rinascimento: egli ha nuovamente portato in luce un intero frammento dell'antica sostanza, quello decisivo forse, il frammento di granito. E chissà che questo frammento dell'antica sostanza non ridiventi finalmente dominatore del movimento nazionale e non debba farsi l'erede e il prosecutore di Napoleone in senso affermativo: Napoleone, il quale voleva, come é noto, un'Europa unita, perchè fosse signora della terra. (La gaia scienza, af. 362)

FICHTE

La verità deve essere detta anche se il mondo dovesse andare in pezzi!"- così grida a piena voce il grande Fichte. Sì! Sì! Ma si dovrebbe anche possederla! Lui intende, però, che ognuno debba esprimere la propria opinione, anche se tutto dovesse essere messo sottosopra. Su questo si potrebbe ancora essere in disaccordo con lui. (Aurora, af. 353)

HEGEL

Il pensiero di Hegel non é molto lontano da quello di Goethe: si presti orecchio a ciò che Goethe dice di Spinoza. C'é una volontà di divinizzare il Tutto e la vita, per trovare quiete e felicità nella sua contemplazione e nella sua investigazione; Hegel vede la ragione dappertutto, davanti alla ragione é lecito sottomettersi e rassegnarsi.
Significato della filosofia tedesca (Hegel): escogitare un panteismo in cui il male, l'errore e la sofferenza non potessero venire avvertiti come argomenti contro la divinità. Di questa grandiosa iniziativa abusarono le potenze esistenti (Stato, ecc.), come se sancisse la razionalità del dominio di quelli che appunto dominavano.

GOETHE

In Goethe c'è una specie di fatalismo quasi gioioso e fiducioso, che non si rivolta, che non si stanca, che cerca di formare una totalità da se medesimo, persuaso che solo nella totalità tutto si redima e appaia buono e giustificato.

MILL

Contro John Stuart Mill. Io ho i orrore la sua volgarità, quella che dice: 'ciò che é giusto per l'uno, è conveniente per l'altro; non fare ad altri ciò che non vuoi, ecc.'; che vuole fondare tutti i rapporti umani sulla reciprocità della prestazione, così che ogni azione appare come una specie di pagamento per un servizio reso. Qui la premessa é ignobile, nel senso peggiore del termine: qui viene presupposta per me e per te l'equivalenza delle nostre azioni, é semplicemente annullato il valore più personale di un'azione (ossia ciò che non può venire compensato o ripagato da nulla). La 'reciprocità' é estremamente volgare: proprio il fatto che ciò che io compio non possa, nè di diritto nè di fatto, essere compiuto da un altro, il fatto che non ci possa essere alcuna compensazione (fuorchè nella elettissima sfera dei 'miei pari', inter pares); il fatto che, in un senso più profondo, non si restituisca mai, perchè si é unici e si compiono solo azioni uniche- in questo fatto, in questa convinzione fondamentale consiste il motivo dell'isolamento aristocratico della moltitudine, perchè la moltitudine crede all''uguaglianza' e quindi alla compensazione e alla 'reciprocità'. (La volontà di potenza, af. 926)
"Siamo indulgenti con i grandi uomini da un occhio solo!" ha detto Stuart Mill: come se fosse necessario sollecitare indulgenza, laddove si é abituati a tributare loro fede e quasi adorazione! Io dico: siamo indulgenti verso chi ha due occhi, grande o piccolo che sia, perchè più in alto dell'indulgenza, così come noi siamo, certo non arriveremo. (Aurora, af. 51)

SCHOPENHAUER

Schopenhauer come cadenza finale (stato enteriore alla rivoluzione): compassione, sensualità, arte, debolezza della volontà, cattolicesimo dei desideri spirituali- questo 'au fond' é buon secolo XVIII. L'equivoco fondamentale sulla volontà in Schopenhauer (come se le brame, l'istinto, l'impulso fossero l'essenziale nella volontà) é tipico: svalutazione della volontà, fino a misconoscerla. Così pure l'odio contro il volere: tentativo di ravvisare nel non voler più, nell' 'essere un soggetto senza scopo nè intenzione' ( nel 'soggetto puro, privo di volontà') qualcosa di superiore, anzi la cosa suprema, ciò che ha valore. Grande sintomo della stanchezza o della debolezza della volontà: perchè la volontà è precisamente ciò che tratta da padrona i desideri, prescrive loro il cammino e la misura... (La volontà di potenza, af. 84)
Schopenhauer appare come un tenace uomo morale che finisce per diventare un negatore del mondo al fine di mantenere la legittimità della sua valutazione morale. E da ultimo diventa 'mistico'. Io stesso ho tentato una giustificazione estetica: come é possibile la bruttezza del mondo? (La volontà di potenza, af. 416)

Anche nel nostro secolo la metafisica di Schopenhauer ha dimostrato che anche adesso lo spirito scientifico non é ancora abbastanza forte; così l'intera concezione del mondo e il sentimento dell'uomo medievali e cristiani poterono ancora celebrare nella dottrina di Schopenhauer, nonostante la distruzione già da gran tempo raggiunta di tutti i dogmi cristiani, una resurrezione. Molta scienza echeggia nella sua dottrina, ma non essa la domina, bensì il vecchio e ben noto 'bisogno metafisico'. Certo é uno dei massimi e affatto inestimabili vantaggi che traiamo da Schopenhauer il fatto che egli faccia temporaneamente indietreggiare il nostro sentimento verso antiche e possenti forme di contemplazione del mondo e degli uomini, a cui altrimenti nessun sentiero ci condurrebbe così facilmente. Il guadagno per la storia e per la giustizia é molto grande: io credo che oggi a nessuno potrebbe riuscire così facilmente, senza l'aiuto di v, di rendere giustizia al cristianesimo e ai suoi affini asiatici: cosa che é specialmente impossibile muovendo dal terreno del cristianesimo ancora esistente. (Umano, troppo umano; af. 25)

OFFENBACH

Musica francese con lo spirito di Voltaire, libero, petulante, con un piccolo ghigno sardonico, ma chiaro, ricco di spirito sino alla banalità (non si imbelletta) e senza la 'mignardise' di una sensualità morbosa o biondo-viennese. (La volontà di potenza, af. 833)

COMTE

La storia del metodo scientifico fu intesa da Auguste Comte quasi come se fosse la filosofia stessa. (La volontà di potenza, af. 467)

WAGNER

Richard Wagner, già per il suo valore per la Germania e la cultura tedesca, rimane un grande punto interrogativo, forse una sventura tedesca, in ogni caso un destino: ma che significa? Non é forse molto più che un semplice tedesco? Mi sembra persino che appartenga alla Germania meno che a ogni altro paese: qui nulla é pronto per lui, il suo tipo é completamente estraneo ai tedeschi, singolare, incompreso, incomprensibile. Ma ci si guarda bene dal confessarlo: si é troppo bonari, troppo quadrati, troppo tedeschi. 'Credo quia absurdum est': così vuole, così volle anche in questo caso lo spirito tedesco- e frattanto crede tutto ciò che Wagner volle fosse creduto di lui. In tutti i tempi lo spirito tedesco in psycologicis mancò di finezza e di capacità di divinazione. Oggi, stando sotto la pressione del patriottismo e dell'autoammirazione, ingrassa a vista d'occhio e diventa sempre più rozzo; come potrebbe essere all'altezza del problema Wagner? (La volontà di potenza, af. 107)

GRIGLIA CONCETTUALE

Breve introduzione

Per la sua opera di demolizione di convinzioni consolidate, N. si é imposto come uno dei "maestri del sospetto" nel pensiero del '900. Più propriamente egli si propone una trasmutazione di tutti i valori, non volendo restare nel nichilismo, che aveva implacabilmente smascherato, e tanto mano nella decadenza a cui oppone decisamente la sua potenza. Il suo compito costruttivo non é stato però eseguito oppure é stato male inteso: ha dovuto pertanto subire tutta una serie di interpretazioni che non gli hanno reso giustizia (specie da parte del Nazismo). Forse é più opportuno lasciare a N. la sua provocante e insoddisfatta inattualità. Il suo pensiero ha influenzato gli ambiti più disparati, dalla letteratura alla musica, dalla pittura e arte espressionistica alla riflessione sociologica fino alla utilizzazione politico-ideologica.

Significato generale: un irrazionalismo "ottimistico"

Per Nietzsche la filosofia non è questione teoretica (infatti non si dà verità da contemplare), ma è una scelta, assolutamente arbitraria (è una questione di naso, cioè di gusto, non di ragione: "rispetta il mio naso, come io rispetto il tuo").
Non si dimostra che la propria tesi è vera o che quella antagonista alla propria è falsa, ma si mostra come nasce la tesi opposta, e ciò facendo la si distrugge. È il cosiddetto metodo "genealogico", che dispensa da un serio esame delle tesi avversarie.
In altri termini l'origine soggettiva di qualcosa è la consistenza di questa cosa, la realtà non ha più una sua struttura intelligibile oggettiva (analogamente a Feuerbach e il Freud "filosofo") non importa sapere se qualcosa sia vero o no, ma solo quale motivo soggettivo spinga ad affermarlo come tale.

Alle origini della menzogna nel mondo classico

Nietzsche si interessò alla cultura classica, che affrontò in modo originale, come documenta la sua tesi sulla Nascita della tragedia (1872), con la celebre distinzione, divenuta poi largamente accettata, tra apollineo e dionisiaco.

Apollo:

dio luminoso, ben definito

forma, plasticità, arti figurative;

razionalità, controllo degli istinti, misura e equilibrio;

distacco (Apollo l'obliquo, che uccide con le frecce, distaccato dalla vittima)

Dioniso:

oscuro e irrazionale, indefinito/ambiguo

informità, musica e danza;

vitale, spontaneità, ebbrezza, orgiastico;

si unisce alle sue vittime. la vita è pervasa dal dolore e dall'assurdo: l'arte tende a trasfigurare tali aspetti sia nella commedia, sia nella tragedia

La tragedia greca univa questi due aspetti:quello apollineo, espresso dalle arti figurative con la loro scenicità definita, inalveamento delle domande esistenziali nel logos, e quello dionisiaco, espresso dalle musica con la sua incontenibilità in forme determinate, simbolo della vita spontanea.
Già Euripide tende a eliminare dalla tragedia l'elemento dionisiaco, col predominio del raziocinio; è Socrate comunque il principale responsabile dell'inaridimento della cultura occidentale: lui e Platone sono "gli strumenti della dissoluzione greca, gli pseudogreci, gli antigreci". Loro hanno usato di quella dialettica, che "può essere solo un'estrema risorsa nelle mani di chi non ha più armi [..] Quel che si lascia dimostrare ha poco valore." Socrate fu ostile alla vita, volendo dominare e soffocare l'istintività spontanea in nome della ragione. Fu malato.

La menzogna del sapere storico

Il tema è affrontato soprattutto in Sull'utilità e il danno della storia per la vita (seconda delle Considerazioni inattuali). Nietzsche sostiene che i fatti in sé sono stupidi: occorre l'interpretazione. Sono le teorie ad essere intelligenti.

Il senso della storia è spesso nemico della vita, in quanto ci rende schiavi del passato, passivi, costretti a "chinare la schiena e piegare il capo" dinanzi alla "potenza della storia", per l'"idolatria del fatto" che avviene laddove si verifica una "saturazione" di storia. Ne consegue una sfiducia nella propria capacità creativa, e il formarsi di una pura erudizione da enciclopedie ambulanti, che annulla la personalità: "nessuno osa più esporre sé stesso, ma ciascuno prende la maschera di uomo colto, di dotto, di poeta" Si diventa così "uomini che non vedono quello che anche un bambino vede".
l'uomo invidia l'animale, che subito dimentica [..] l'animale vive in modo non storico, poiché si risolve nel presente [..]
l'uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte.
Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma anche oscurità.

La serenità, la buona coscienza, la lieta azione la fiducia nel futuro dipendono [..] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto.

In particolare

la storia archeologica si ferma al mediocre, si attarda ad ammirare il passato, anche nei suoi aspetti mediocri e meschini, per giustificare la presente mediocrità;

la storia monumentale cerca nel passato esempi e modelli positivi, che mancano nel presente, onde poter guardare al futuro con sicurezza che ciò che è stato possibile in passato lo sarà ancora;

solo la storia critica è davvero positiva, in quanto non si limita ad favorire l'imitazione del passato, anche eroico, ma lo vuole superare: essa trascina il passato davanti al tribunale, lo giudica e lo condanna. [deve ancora venire il momento di pienezza dell'Umanità].

La menzogna della scienza

Pur non essendo del tutto negativa (come pensa N. soprattutto in Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza), in quanto libera dalla vecchia concezione del mondo, essa facilmente conduce all'adorazione della verità oggettiva, rende l'uomo schiavo dell'oggettività esterna, e contrapposta alla vita.

In realtà non ci sono dati, fatti oggettivi (antipositivisticamente), ma solo interpretazioni

"Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza "scevra di presupposti". La domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che "niente è più necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano". Questa incondizionata volontà di verità, che cos'è dunque? [...] Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se proprio questo diventa sempre plu incredibile, se niente più si rivela divino salvo I'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?" (La gaia scienza, 344)
Nietzsche, ancora, denuncia lo schematismo degli scientisti, che non si accorgono della polimorfia del reale, pretendendo di ricondurlo a pochi principi meccanici.

La menzogna morale
Nietzsche indica nel risentimento l'origine dei valori cristiani, morale dei deboli, dei malati, degli sconfitti, risentiti contro la vita. Il risentimento è un autoavvelenamento dell'animo che si produce in chi, debole e vile, non sa reagire adeguatamente, affidandosi alla sua vitalità spontanea e aggressiva, alle sfide del contesto. In tal modo alla lunga egli si convince che il suo comportamento, frutto in realtà di debolezza e viltà, è l'unico ad essere virtuoso: ed eleva così il valore del perdono e della remissività a valori supremi. Gettando disorientamento e confusione nella società tutta.

La menzogna religiosa e la morte di Dio

Nietzsche ha comunque una segreta, profonda nostalgia dell'Assoluto, come testimoniano questi versi:

All meine Tränenbäche laufen zu Dir den Lauf!

Und meine letzte Herzensflamme -

Dir glüht sie auf!

O, Komm zurück,

Mein unbekannter Gott!

Mein Schmerz! mein letztes Glück!,

(F. Nietzsche, Dionysos - Dithyramben)

Ciò non toglie che il suo sia il più radicale ateismo della storia della filosofia. Per lui infatti Dio in quanto tale si oppone all'uomo: deve morire, affinchè l'uomo viva.

"Egli è morto, noi lo abbiamo ucciso. Ma questo non affare di poco" (Also sprach Zaratustra).

Nietzsche d'altronde si schiera contro gli atei volgari(i ridanciani) che non si rendono conto della posta in gioco, e credono che sia facile "sbarazzarsi" di Dio. Mentre si tratta di un'opera titanica, da far tremare le vene ai polsi:

Come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare, bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare?

Con che acqua potremo lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande per noi la grandezza di questa azione? (La Gaia scienza, n.125)

Interpretazioni della morte di Dio:

Secondo alcuni, tra i quali Vattimo, si tratterebbe di una presa d'atto storica; secondo altri, tra i quali Abbagnano, si tratta invece di una tesi metafisica.

Interpretazioni del nichilismo

Alcuni pretendono che la negazione di un Assoluto non significhi negare ogni valore;
ma più avvedutamente altri interpreti ritengono che, al di là delle intenzioni, forse, di N,, negare i valori assoluti, propri del Cristianesimo e della religione, significa negare ogni valore. La tragica conclusione nella pazzia della parabola filosofica di N. è in tal senso significativa.

La volontà di potenza

Ogni azione di ogni uomo é dettata secondo Nietzsche da una volontà di potenza, un desiderio irresistibile di acquisire potere per dominare su tutti gli altri: "Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza ; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone. Il debole é indotto dalla sua volontà a servire il forte, volendo egli dominare su ciò che é ancora più debole: a questo piacere, però, non sa rinunciare. E come il piccolo si dà al grande, per avere diletto e potenza sull' ancora più piccolo: così anche ciò che é più grande dà se stesso e, per amore della potenza, mette a repentaglio la sua vita." ( Così parlò Zarathustra )

L'eterno ritorno

La concezione di una storia lineare è fallace poiché la storia è ciclica, esiste un eterno ritorno dell'uguale, una ciclicità dell'universo, un ritorno alla natura greca che si esprime nel ciclo cosmico dionisiaco, negando così la finitezza del tempo e lo scopo del divenire. L'attimo dunque nella concezione di Nietzsche possiede tutto intero il suo senso meritando di essere vissuto per se stesso come se fosse eterno.

Il superuomo

Ai valori tradizionali, propri di una "morale schiava" caratterizzata dalla debolezza dell'individuo e dal risentimento che nasconde l'interesse (esemplare la morale cristiana del sacrificio), N. oppone una "trasvalutazione" che darebbe vita alla figura dell'uomo disincantato e consapevole del nulla, eroicamente responsabile della propria finitezza, il superuomo (Übermensch) nato per andare "oltre" l'uomo del presente. Il superuomo afferma la vita accettandone la sofferenza, il dolore e le contraddizioni che l'accompagnano con gioioso (dionisiaco) amore per l'esistenza; è un creatore di valori ed è per questo privo di valori fissi e immutabili, al di là del bene e del male, artefice di una "morale autonoma". Laddove gli altri vedono cose ideali, lui vede cose umane, troppo umane. La "fedeltà alla terra" del superuomo è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi. Non più "tu devi", ma "io voglio".

Il superuomo è l'uomo totalmente indipendente dai valori tradizionali, l'uomo che si pone al di là del bene e del male: l'uomo superiore accetta con gioia la vita come è. In un mondo dominato dal caso e dall'irrazionalità, la sola necessità è quella della volontà che vuole riaffermare se stessa; il superuomo ha saputo identificare la propria volontà con quella del mondo, accettare la nonna terrestre che lo regge: egli è volontà di potenza incarnata. Contro la tradizione giudaico-cristiana che attribuisce al tempo una direzione lineare e una struttura articolata in passato, presente e futuro, N. nega l'esistenza di un fine del corso storico che trascenda i singoli momenti. Significati e direzioni sono solo prospettive interne al gioco di forze della volontà di potenza: ogni momento, e ciascuna esistenza in ogni attimo, ha tutto il suo senso in sé. Il superuomo, grazie all'amor fati, all'accettazione gioiosa della vita così come è - nel passato, nel presente e nell'eternità - deve costruire un'esistenza in cui ogni momento abbia tutto intero il suo senso: l'eterno presente della vita.

Al di là del bene e del male

La morte di Dio rappresenta la fine delle illusioni e delle menzogne della religione e all’accettazione dell’immanenza della vita. Da qui inizia una vera e propria trasmutazione dei valori che darà vita al superuomo (oltreuomo), che si pone al di là del bene e del male, non riconosce limiti e si eleva sopra il gregge degli uomini mediocri. Questo comporta anche una volontà di potenza, un nichilismo attivo ed una concezioni ciclica della storia.
la gaia scienza

La scienza moderna é soltanto la forma più recente e nobile dell'ideale ascetico, essa ha ancora fiducia nelle verità come valore in sè, superiore ad ogni altro e, quindi, non é in grado di contrastare questo ideale. E' tuttavia possibile quella che N. definisce gaia scienza, che si rivolge ai senzapatria, figli dell'avvenire e a disagio nel proprio tempo, amanti del pericolo e dell'avventura, avversi a ogni ideale, i quali non hanno intenzione di regredire ad alcun passato nè lavorare per il progresso, ossia per l'affermarsi dell'uguaglianza e della concordia tra gli uomini. Per raggiungere questo stato di gaiezza bisogna abbandonare la morale corrente, porsi liberi al di là del bene e del male e quindi staccarsi da parecchie cose, ma per far questo occorre acquisire una condizione di leggerezza: e N. paragona questo stato a quello della "danza".

Il risentimento

é lo stato d'animo dell'uomo che, impotente a creare nuovi valori e ad affermarsi sulle sofferenze della vita, dice "no" alla vita stessa asservendosi alla "morale degli schiavi", odiando ciò che non può essere o non può avere e limitandosi, utilitaristicamente, a difendere le qualità del "gregge"

Giudizio

La filosofia di Nietzsche rappresenta l'attacco più frontale e totale al Cristianesimo che la storia del pensiero conosca. Le tragedie del superomismo di estrema destra (il nazismo e il fascismo in particolare) hanno trovato in lui certamente una legittimazione teorica, e in molti casi uno stimolo propulsivo.
Non si può però negare a Nietzsche un atteggiamento sincero, e in qualche modo coerente fino all'estremo, tanto più notevole se lo paragoniamo a quello di un Comte o di altri filosofi, che, pur detestando la Verità, hanno finto di esserle devoti (come Hegel), o almeno indifferenti (come tanti altri).