Ernst CassirerStoria della filosofia modernaNewton Compton. Roma 1978Vol. 6. Pgg. 288-303 |
Burckhardt e Nietzsche5 STORIOGRAFIA POLITICA E STORIA DELLA CIVILTÀ. JACOB BURCKHARDTA considerare l'accanita, lunga e complessa polemica che scoppiò negli ultimi decenni del secolo scorso fra i sostenitori della storiografia politica e i propugnatori di una universale "storia della civiltà", essa non può non apparire, a prima vista, come un curioso anacronismo. Infatti, si combatte ad ogni piè sospinto per questioni che sarebbe stato lecito presumere decise già da lungo tempo. Il tanto vilipeso Settecento, un secolo a cui spesso si era negato in blocco il "senso della storia", aveva avuto già per tali questioni una considerazione assai più aperta e ne aveva promosso essenzialmente la soluzione dal punto di vista metodologico. È uno degli incontestabili meriti di Voltaire aver riconosciuto l'unilateralità della storiografia puramente politica e averne infranto l'incantesimo. Ed egli non s'impantanò in una posizione puramente negativa e polemica, ma enunciò un nuovo ideale positivo, cercando di realizzarlo nelle due precipue sue opere di carattere storico. La storia non doveva essere più una mera descrizione di battaglie e campagne militari o d'intrighi diplomatici e politici. Doveva rappresentare la vita spirituale nel suo complesso; oltre agli eventi politici, doveva descrivere lo sviluppo delle tendenze filosofiche, letterarie e artistiche di ogni epoca; e infine doveva dispiegarsi in una visione panoramica della vita morale di un'epoca. La realizzazione di questi due obiettivi Voltaire aveva intrapreso ne Le siècle de Louis XIV [Il secolo di Luigi XIV] e, su base ancora più ampia, nell'Essai sur les moeurs [Saggio sui costumi]. È pure vero che l'attuazione restò per molti versi incompleta e unilaterale; ma il tema era posto in tutta chiarezza e con tutta decisione. Il passo che si era compiuto non ammetteva retrocessione di sorta. Ed anche la forma, che Voltaire aveva creato per l'assolvimento di questo nuovo compito, restò a lungo esemplare. A ragione si è fatto notare che perfino la Storia di Roma del Mommsen è in generale esemplata ancora sullo schema creato da Voltaire in Le siècle de Louis XIV. Di fronte a tutto questo riesce alquanto strano che, ancora alla fine del secolo XIX, la storiografia "delle civiltà" debba continuare a battersi per il suo "posto al sole" e si esiga che essa dimostri il suo diritto all'esistenza nei confronti della storia politica. Una dimostrazione del genere doveva essere da tempo considerata come compiuta dai fatti, se si pensa che intorno a quell'epoca si erano avuti in Francia opere come quelle del Sainte-Beuve o del Taine, in Germania lavori come quelli di Jacob Burckhardt. Eppure alcuni autorevoli storici politici cercarono di contestare che qui si trattasse di qualcosa che potesse servire da modello metodologico e avere rilevanza ai fini degli obiettivi scientifici della storia. La descrizione del divenire della civiltà, essi argomentavano, può, sì, accompagnare quella degli avvenimenti politici e incorniciarla a mo' di viticci ornamentali; ma qualora questi viticci si facessero troppo folti, sarebbe necessario potarli con un deciso colpo di cesoie. Questo punto di vista viene sostenuto con particolare quanto drastica unilateralità da Dietrich Schäfer nel saggio Das eigentliche Arbeitsgebiet der Geschichte [Il campo d'attività peculiare della storia]. A suo parere è indubitabile che la storiografia ha sempre attinto la sua forza vitale dal contatto con la politica e che non la si potrà mai allontanare senza pregiudizio da questo che è il suo vero e proprio centro. «Chi voglia intendere lo sviluppo d'uno Stato», afferma lo Schäfer, «deve indagare la nascita, la crescita e il mantenersi del suo potere. Ma gli strumenti di potere dello Stato sono soprattutto di natura politica e militare; di qui il prevalere di tali questioni nel lavoro storico». Questo, però, significava, in fondo, riportare indietro tale lavoro di un secolo e mezzo; esso veniva a trovarsi, o cercava di riportarsi, là dove l'aveva trovato Voltaire. È ovvio, però, che questo regresso era solo apparente, giacché nessuno storico "politico", per radicale che fosse, poteva obliterare quel grandioso ampliamento di "prospettiva" che nel frattempo si era avuto grazie al Ranke, a Wilhelm von Humboldt, a Schleiermacher e Boeckh. Se si voleva continuare a trattare la storia come mera storia politica, si era costretti a dare arbitrariamente al concetto di Stato un senso del tutto diverso da quello che emerge dallo sviluppo della sua potenza esteriore, dalle sue lotte politiche e militari. Nemmeno Dietrich Schäfer potè sottrarsi a quest'esigenza, e in fondo, riconoscendola, attenuò notevolmente la polemica di principio. «Se il pensiero filosofico assegna al lavoro storico il campo delle libere azioni umane», egli afferma, «il progresso in queste azioni si potrà ricercare unicamente nella loro crescente eticità. Sono le forze etiche a dominare nella storia. È quindi nel progresso delle concezioni etiche che risiede il fulcro del progresso storico in generale». Nemmeno Voltaire avrebbe avuto nulla da obiettare a queste asserzioni, che si sarebbero potute senz'altro adoperare come frase d'angolo per il suo Essai sur les moeurs: l'unica differenza sta nel fatto che egli avrebbe sottolineato più nettamente che senza il progresso intellettuale non è possibile neppure un durevole progresso morale, senza l'illuminazione dell'intelletto non è possibile neppure l'incremento delle forze morali. Alla concezione sostenuta da Dietrich Schäfer si contrappose con il suo scritto Die Aufgaben der Kulturgeschichte [I compiti della storia della civiltà'] Eberhard Gothein. Questi proveniva dalla storia dell'economia, da cui aveva preso le mosse nel suo primo lavoro anche lo Schäfer, e da tale punto di vista fu in grado di ricordare a chiunque che non si sarebbero potuti comprendere appieno nemmeno l'essenza e il divenire della realtà statale considerandoli esclusivamente sotto l'aspetto di un'attività singola. Ci si precluse la reale penetrazione di quell'essenza, si mutila e deforma quella realtà, se non le si vede in costante rapporto con altri fattori, in particolare col diritto e l'economia. Ma lo stesso vale per la religione, la scienza, l'arte, la letteratura. D'altro canto, però, tutte le scienze che trattano questi problemi presuppongono una superiore unità in cui esse si ricompongano. Sono le membra di un organismo che possiede una realtà concreta e viene denominato "storia della civiltà". «L'originarsi di questa storia della civiltà, nell'importanza che le si riconosce oggi, è una conseguenza inevitabile dello sviluppo complessivo dello spirito moderno». In questa gara contraddittoria di concezioni, per un certo aspetto la storia della civiltà venne a trovarsi indubbiamente fin dall'inizio in evidente posizione di svantaggio rispetto alla storia politica. Quest'ultima poteva rimandare a una tradizione lunga e sicura, che sul piano metodologico le aveva conferito un carattere stabile e ben determinato. Nemmeno in essa mancavano, certo, tensioni e aspri contrasti interni, ma circa il compito in se stesso e il modo d'espletarlo scientificamente si era raggiunta a poco a poco un'intesa. Si poteva far riferimento, in particolare, alla monumentale opera del Ranke, che restava dominante e orientativa anche là dove, nella cerchia degli storiografi politici, si cercava d'andar oltre il Ranke e di sostenere ideali diversi dai suoi. Ad un simile stabile punto di riferimento, a una opera classica universalmente accettata come quella, la storiografia della civiltà non riuscì a giungere nell'Ottocento. Nel suo ambito, infatti, si presenta ancora spesso un quadro quant'altro mai variegato. Nello scritto citato ben a ragione il Gothein lamenta che lo Schäfer aveva sfruttato questo stato di cose per attaccare la storia della civiltà in blocco. Egli rileva che la si dovrebbe considerare nelle sue realizzazioni migliori e più rilevanti, senza tener conto di tutto il ciarpame che così spesso cerca d'intrufolarsi sotto la mentita etichetta di "storia della civiltà". Eppure, anche allorché ci si attiene a questa norma, nemmeno dalle opere più eminenti prodotte in questo campo si ricava un'impressione unitaria di ciò a cui si mira. Basta volgere lo sguardo da una nazione all'altra perché risultino differenze di portata essenziale nel modo di concepire la storia della civiltà. La concezione, che del senso e del valore di quest'ultima ebbe Voltaire, influì, nel corso dell'Ottocento, soprattutto in Inghilterra. La History of Civilization del Buckle e la History of the Rise and Influence of the Spirit of Rationalism in Europe [Storia dell'origine e dell'influsso esercitato dallo spirito del razionalismo in Europa] (1865) del Lecky danno ragione a Voltaire nel ritenere che il progresso dell'illuminismo e della cultura intellettuale in genere costituisce, in fondo, l'autentico, anzi il solo barometro dello sviluppo della civiltà. Accanto ad esso, secondo il Buckle, v'è anche e in particolare il progresso tecnico e materiale, che risulta, quale semplice conseguenza dall'accumularsi delle cognizioni teoriche circa la natura. In Francia, sotto l'influsso del Sainte-Beuve e del Taine, il fulcro viene ricercato, in misura sempre crescente, altrove. Nella grande opera del Sainte-Beuve su Port Royal per la prima volta sono applicati tutti i metodi dell'analisi psicologica, per renderci col loro ausilio vivamente comprensibile un grande movimento religioso, cioè l'originarsi e il diffondersi del giansenismo, e per consentirci di penetrarne i motivi spirituali più riposti. Del pari, nella Philosophie de l'art e nella Histoire de la littérature anglaise il Taine si studia di fare lo stesso per quanto attiene alle grandi epoche dell'arte e della letteratura. Tentativi del genere, in Germania, sulle prime furono compiuti poco o punto. In personalità di studiosi quali Wilhelm Heinrich Riehl o Gustav Freytag la storia della civiltà si muove su altri binari. Essa rinuncia alle grandi sintesi per immergersi, invece, con tanto maggior gusto, nella colorita e minuziosa descrizione dei particolari. Si era soliti ammettere che il mondo della storia era stato "ceduto" agli storici politici; ma ci si rifugiava, per così dire, in una sfera che da quelli non fosse ancora occupata né rivendicata. Alla descrizione dei grandi eventi della storia universale si contrappose il "culto delle cose modeste", al dramma l'idillio. Un capitolo dei Kulturstudien aus drei Jahrhunderten [Studi su tre secoli di civiltà] (1859) del Riehl reca il titolo di "Historisches Stilleben" [Nature morte storiche]. L'intento dichiarato del Riehl era di dipingere anzitutto tei quadretti di genere, dal cui complesso, però, risultasse un grande affresco panoramico della storia. Anche i Bilder aus der eutschen Vergangenheit [Bozzetti del passato tedesco] del Freytag sono pervasi dalla stessa concezione e dallo stesso atteggiamento interiore: come dice il Freytag medesimo nelle sue Erinnerungen [Ricordi], vi si cerca di dipingere la vita del popolo, che scorre in un oscuro fiume accanto ai grandi eventi politici. Fin dall'inizio, dunque, la storia della civiltà non avanzò nessun'altra pretesa che quella di essere un'opera semplicemente accessoria e di cornice: qualcosa che poteva esser tenuto in dispregio da chi era inteso a seguire il corso degli avvenimenti in grande e a coglierne le vere forze propulsive. Una storiografia come quella del Riehl o del Freytag aveva quindi un bel gloriarsi del suo essere "vicina alla vita": a suo dispetto veniva messa in un canto da coloro che dichiaravano guerra alla storia in nome della vita. «Si ebbero dei veri e propri ingegni descrittivi», scrive Nietzsche nella prima delle Considerazioni inattuali, «che ritrassero con fini pennellate la felicità, la solinga quiete, la quotidianità, l'agreste salubrità e tutti i diletti che colmano le stanze di bambini, dotti e villici... Furono proprio i comodoni... che, per garantirsi la quiete, s'impadronirono della storia e si studiarono di tramutare in discipline storiche tutte quelle scienze da cui c'era ancora da attendersi un qualche turbamento della vita comoda ... Grazie alla coscienza storica costoro si salvarono dall'entusiasmo, giacché non doveva esser più questo a generare la storia, come poteva ancora opinare Goethe, ma ora è proprio l'intorpidimento, la meta di codesti non filosofici ammiratori del nil admirari, allorché essi cercano di comprender tutto storicamente». Quando scriveva queste righe, Nietzsche era già soggetto al fascino d'un pensatore, che gli aveva insegnato una concezione nuova e più profonda della storia. Nella seconda parte delle Considerazioni inattuali, cioè nello scritto intitolato Vom Nutzen und Nachteil der Historie fùr das Leben [Dell'utilità e degli svantaggi della storia per la vita], egli sembra apparire come avversario della storia. Ma quello che egli combatte, non era la storia in se medesima, giacché per lui questa era e restava sempre una fonte genuina e durevole dell'entusiasmo, in particolare di quell'entusiasmo che egli nutriva per la grecità e la civiltà greca. Ma ora Nietzsche vede la grecità stessa in una nuova luce. Alla concezione classico-umanistica che si aveva dei Greci, egli contrappone la sua, tragica, quale viene tratteggiata in Die Geburt der Tragödie [La nascita della tragedia] (1872), e in Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen [La filosofia nell'epoca tragica dei Greci] (1873). Per lui, quindi, era condannato da sempre quell'idillio della storia, che aveva inteso abbozzare la prima storiografia tedesca della civiltà. A quest'ultima egli rimproverava di non saper servire alla vita, e anzi d'indebolirne le forze migliori. In nessuna fase della sua evoluzione il filologo Nietzsche ripudiò, né l'avrebbe potuto, la storia. Quella contro cui si scagliava, era non già la storia in se stessa, bensì l'immagine deformata che di essa aveva tratteggiato lo "storicismo" moderno. «Nel far storiografia e nel valutar la medesima», egli afferma, «si è giunti a un tal grado in cui la vita intristisce e degenera: un fenomeno questo, di cui oggi prender coscienza come d'uno dei sintomi notevoli della nostra epoca, è tanto necessario quanto più ancor doloroso». Al mero storicismo, che si compiace del passato in quanto passato, Nietzsche contrappone il "no dell'uomo sovraistorico", alla storia antiquariale una concezione autentica, monumentale, della storia. «Se il senso della [loro] dottrina sia la felicità o la rassegnazione, la virtù o la penitenza, gli uomini sovraistorici non si sono mai accordati fra di loro in proposito; ma, contro ogni tipo di considerazione storica propria del passato, sono pienamente unanimi nel-l'asserire che il passato e il presente sono un'unica cosa, cioè tipicamente identici ad onta della loro varietà, e, quale onnipresenza di tipi imperituri, un'immota creazione di valore invariato e di significato eternamente eguale a se stesso». Questo genere di ottica storiografica, Nietzsche lo trovò incarnato in Jacob Burckhardt e in lui lo vide applicato a tutte le grandi epoche dell'esistenza storica, alla grecità, agli esordi del cristianesimo, al Rinascimento italiano. È strano che solo per il fatto d'aver rivolto il suo interesse alla "storia della civiltà" il Burckhardt sia stato messo a fianco di Wilhelm Heinrich Riehl o di Gustav Freytag. In realtà ciò che lo unisce a questi due non è assai più della denominazione che essi danno al proprio indirizzo di ricerca. Di fatto questa denominazione significa due visioni e tendenze di fondo oltremodo disparate. Nel suo scritto programmatico sui compiti della storia della civiltà lo stesso Gothein aveva sfumato questa differenza, piuttosto che metterla in netto risalto. Egli accusa Dietrich Schäfer d'esser caduto, nella sua polemica con la storia della civiltà, nel grave errore tattico di cercare il nemico dove esso non era. Invece di pasticciarsi un fantoccio quale avversario simulato, egli avrebbe, dovuto saggiare la forza dei suoi argomenti sulle opere di Jacob Burckhardt e di Gustav Freytag.Senonché questo "e" è di valore alquanto problematico, giacché l'indirizzo d'indagine seguito dal Burckhardt ha un'impronta così peculiare e personale da render quasi impossibile l'attribuirlo a una determinata scuola di cui egli rappresenti gli ideali. La via percorsa dal Burckhartdt si distingue da quella della maggior parte degli studiosi di storia ottocenteschi già per il fatto che le simpatie personali e intellettuali di lui hanno sede diversa da coloro. Egli non può chiamarsi seguace né di Hegel né di Ranke, giacché vede con altri occhi il potere statale e il potere in genere. Per Hegel lo Stato era divenuto la vera e propria dimostrazione della sua tesi fondamentale, quella secondo cui ogni reale è razionale ed ogni razionale è reale. Per lui esso significa non la conciliazione, bensì l'identità fra ideale e reale. «Lo Stato è lo spirito che sta nel mondo e si realizza nel medesimo con la coscienza. È il cammino di Dio nel mondo, lo Stato; il suo fondamento è la potestà della ragione, che si realizza come volontà». In una formula di siffatta semplicità l'essenza dello Stato non è sintetizzabile per il Ranke, giacché per questi lo Stato è bensì "idea", ma di fronte ad essa sono altre idee egualmente legittime ed egualmente originarie, altre potenze e forze fondamentali della vita spirituale, delle quali lo Stato non può prendere il posto e che non può semplicemente subordinare a se stesso. Secondo il Ranke lo Stato deve proteggere e incrementare la civiltà con il diritto e l'amministrazione, ma non può crearla autonomamente; la produzione dei beni culturali va lasciata ad altre forze. Cionondimeno, per quanto egli non intenda affatto spiegare il singolo evento in base a finalità divine immediate, anche la visione che ha della storia il Ranke poggia sull'idea d'una "guida divina" di tutto l'accadere, e in forza di essa perviene anche lui a una sorta di teodicea del potere. Che nel potere in sé e per sé appaia un "essere spirituale", non va soggetto nemmeno per il Ranke a dubbio alcuno. D'allora in poi intere generazioni di storici hanno ripetuto sempre di nuovo che lo Stato è, in misura suprema, un potere etico, che è la ragione etica d'ogni singola nazione. E proprio per tale motivo si sono rifiutati di porre la storia della civiltà accanto a quella politica come qualcosa di peculiare. A tutto questo nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen (Considerazioni sulla storia universale] il Burckhardt oppone il suo deciso "no". Egli è troppo pessimista per credere in una simile conciliazione fra "ragione" e "realtà", e al suo realismo dell'apoteosi del potere appare come nulla di più d'un belletto intellettuale. Questa tintura, il Burckhardt la trovò data a piene mani anche nelle idilliache trattazioni della storiografia tedesca della civiltà fino allora pubblicate. Che rispetto alle rozze epoche del passato fossero andati crescendo il "senso del dovere e l'onestà" o "i valori sostanziali, l'abilità e l'onestà", come nei Bilder aus der deutschen Vergangenheit aveva affermato Gustav Freytag, egli afferma essere vana illusione. La nostra presunzione di vivere nell'era del progresso etico, gli appare quant'altro mai ridicola. «Si giudica proprio tutto secondo quel grado di sicurezza esteriore di vita, senza del quale noi non potremmo più esistere, e si condanna il passato per il fatto che in esso non si aveva questo ossigeno vitale, e ciò quando anche oggi, non appena la sicurtà viene sospesa, come capita ad esempio in stato di guerra, è dato asssistere ad orrori d'ogni sorta». Quando il Burckhardt scriveva queste righe, nel 1868, in tempi di "sicurtà" finalmente conquistata, certo nessuno poteva presagire quanto in esse lo storico si sarebbe rivelato profeta. Secondo lui il potere in quanto tale non è suscettibile d'una evoluzione che conduca verso una meta morale. Resterà sempre quello che è, cioè "malvagio in se stesso". «Esso è non già una persistenza, sibbene una brama ed eo ipso inattuabile, onde è infelice in se stesso e necessariamente apportatore d'infelicità. Si cade perciò inevitabilmente nelle mani sia di ambiziose e necessariamente avide dinastie, sia di singoli "grandi uomini" ecc., cioè di forze cui sta tutt'altro che a cuore il prosperare della civiltà». Ma l'originalità di questo modo di concepire la storia emerge appieno solo qualora si tengano presenti i motivi che indussero il Burckhardt a riprovare in questi termini il potere e a confermarlo sempre di più in questo rifiuto. Che egli non giudichi da moralista e non tema la vista del male, è d'evidenza assoluta. Sembra, anzi, che proprio tale vista lo affascini in modo particolare, talché, sia pure pienamente a torto, lo si potrebbe bollare come un propugnatore dell' "immoralismo". Là dove ritenne di dover riconoscere nella storia delle stature personali veramente grandi, le riconobbe anche riprovandone mete e fini. «Il prepoter dei forti, e ben potete addarvene/ non è a sbandir dal mondo;/ piacemi conversare,/ con dritti, con tirani»; queste parole di Goethe, le si potrebbe porre come motto d'apertura al libro di Burckhardt sulla civiltà del Rinascimento. Egli assolve il cieco istinto di potenza quando lo riscontra nella figura di grandi personalità. Nessuno ha descritto in modo più icastico del Burckhardt lo «scatenato egoismo nei suoi tratti più spaventosi», la «smisurata foia di strage» e la «folle malvagità», la «tremenda e sinistra scelleratezza» che caratterizza l'esistenza dei tiranni rinascimentali, dei Visconti, o d'un Ezzelino da Romano o d'un Cesare Borgia; e i tratti di queste immagini si sono impresse indelebilmente in ciascuno di noi. Di fronte a tutto questo egli non rinuncia affatto al giudizio morale; ma quest'ultimo non costituiva per lui l'essenziale. In tutte quelle figure, infatti, egli vedeva la mera incarnazione di potenze naturali, che vanno individuate e avvertite per quello che sono, prima di chiedersi quale sia il loro valore o disvalore. «Qui si tratta», ebbe egli a dichiarare una volta, «non di lodare o biasimare, bensì di conoscere lo spirito di un'epoca nella peculiarità delle sue energie». Il Burckhardt non solo fa valere tutto questo, ma vi si dedica altresì con una passione innegabile, giacché nel quadro che egli intese abbozzare del Rinascimento trovano posto insieme luci e ombre. Al di sopra di tutte la più profonda abiezione egli vide estollersi «la nobilissima armonia dell'elemento personale e un'arte gloriosa». È proprio nelle sue profonde contraddizioni, nei suoi inconciliabili contrasti che il Rinascimento gli appare come la vera immagine dell'umanità. Egli lo esalta per avere scoperto e recato in luce per la prima volta appieno tutti i valori dell'uomo, d'aver posseduto non solo il concetto, ma la realtà stessa dell'umanità; per questo, a suo parere, al rinascimento spetta la nostra gratitudine imperitura. Sennonché ciò che il Burckhardt perdona agli individui, non perdona ai poteri collettivi. A questo proposito egli giudica in modo diametralmente opposto a quello seguito dagli altri storici. L'abuso del potere gli appare come il più pericoloso e minaccioso, quando si tratta d'un abuso non individuale ma organizzato. L'organizzazione, infatti, fa scomparire quell'elemento che, solo, potrebbe riconciliarci con quel "malvagio in sé" che è insito nel potere. La tirannide dei singoli può essere tremenda nei suo effetti, ma non è necessariamente dissennata, e quindi nemmeno immorale sotto ogni aspetto. Solo quando si affacciano sulla scena grandi poteri collettivi e per loro mezzo si giunge a una concentrazione organizzata di dispostismo, minaccia di sparire ogni ultimo rifugio di spiritualità e moralità. Nasce allora quella caricatura che è lo Stato oppressivo, accompagnato dalla «totale abdicazione dell'individuo». Il Burckhardt non potè trovarsi d'accordo nemmeno con il progetto di Stato delineato da Platone; dichiarò che esso contraddice alla natura dell'uomo, e ancora di più a quella dell'uomo greco, giacché opprime tutto quello che poggia sullo sviluppo individuale. Ciò che lo affascinava più d'ogni altra cosa era la libera multiformità, l'enorme ricchezza creativa, la suprema svariatezza della civiltà greca, dell'arte e della religione greche; lo attraeva non quella "semplicità" che vi aveva trovato il Winckelmann, bensì la varietà multicolore che egli vi riscontrava. Nella religione e nello Stato il Burckhardt vedeva dei poteri sostanzialmente stabili; e a suo parere essi possono e devono adoperarsi a mantenere se medesimi con la forza. Secondo lui la civiltà non solo non coincide con tali poteri, ma è loro contrapposta per sua propria natura. Ecco come egli definisce la civiltà: «Chiamiamo "civiltà" l'intero complesso di quegli sviluppi di spirito, che avvengono spontaneamente e che non pretendono a una validità universale o imposta con la forza. Essa agisce costantemente su quelle due stabili istituzioni modificandole e dissolvendole, tranne che esse l'abbiano completamente asservita e ridotta a servire i loro fini. È comunque essa la critica di entrambe, l'orologio che indica l'ora in cui non coincidono più la loro forma e la loro sostanza». A questo dramma della civiltà, che proprio nelle epoche feconde si trasforma continuamente in tragedia, volge la sua attenzione lo storico della civiltà, ed è esso che è in grado di farlo svolgere dinanzi agli occhi della nostra mente. A questo proposito il Burckhardt non crede alla possibilità d'una soluzione pacifica, non tragica. Infatti, laddove Hegel o Ranke scorgevano un'armonia profondamente nascosta, un' armonie aphanès nel senso eracliteo, egli vede solo un conflitto continuamente rinnovantesi; un conflitto che sembra placarsi solo in pochi momenti felici, ma che minaccia di riesplodere da un momento all'altro, giacché non sono mai armonizzabili fra di loro le tre "frontiere" della storia universale. Appellandosi al suo "sacrosanto diritto", lo Stato tenterà sempre di nuovo di ridurre in un sistema il sapere e l'arte, che esso stesso autorizza. «Che cosa può mai aver fatto lo Stato, anche presso gli Assiri, i Babilonesi, i Persi ecc. per impedire lo sboccio dell'individuale, che anche allora sarà stato considerato come equivalente al male? Con la massima probabilità l'individuale volle farsi strada in ogni dove, ora qui ora là, e soccombette dinanzi alle barriere civili e religiose, le istituzioni castali, senza poter lasciare una sola traccia».18 Hegel vede la civiltà come ì' "automovimento dell'idea", che obbedisce a una determinata legge dialettica. I singoli momenti si urgono a vicenda, da prima sembrano contrapporsi antiteticamente e ostilmente, ma nel grado supremo sono superate ed eliminate tutte queste antitesi; l'idea, in quanto idea assoluta, ha assorbito e riconciliato in sé ogni contrasto. Anche il Ranke, che pure rifiuta una costruzione storico-filosofica di tal genere, sostiene una dottrina, certo non metafisica, ma religiosa dell'unità. «Il nucleo ideale della storia del genere umano», egli afferma in un passo della sua Weltgeschichte [Storia universale] in cui si accinge a descrivere l'incontro fra romanità e germanesimo, «si potrebbe scorgere senz'altro nel fatto che nelle lotte verificantisi fra gli opposti interessi degli Stati e dei popoli si fanno pur sempre strada potenze superiori, che in quanto tali trasformano l'universalità e le conferiscono un carattere nuovo». È indubbio che il Ranke rifiuta il "progresso" inteso nel senso d'una volontà-guida universale che muova l'evoluzione del genere umano da uno stadio all'altro, ovvero nel senso che nell'umanità sia insito, per così dire, un tratto proprio della natura spirituale, che sospinga necessariamente la realtà verso una meta ben determinata: entrambe queste vedute, infatti, egli le dichiara filosoficamente insostenibili e storicamente indimostrabili. Ma restano tuttavia inconcusse per lui la fede nell'«ininterrotto continuarsi del progresso dello spirito universale» e la convinzione che nel corso dei secoli il genere umano abbia acquisito quel che potremmo dire un patrimonio consistente nel progresso materiale e in quello sociale, di cui esso gode, ma soprattutto nella sua evoluzione religiosa; per lui il valore etico e spirituale della storia del mondo risiede nella capacità che quest'ultima possiede di rafforzare sempre di più in noi questa fede. A questo punto appare chiaramente la radicale rottura che il Burckhardt compie nei confronti della concezione tradizionale della storia. Tutta la storiografia precedente, per diverse che siano state le vie battute all'uopo, è rimasta, consapevolmente o inconsapevolmente, improntata dall'interrogativo che fu posto come cruciale dalla prima e vera e propria grande opera di "filosofia della storia". È, la storia un caos di avvenimenti causali, o vi si possono scoprire un senso e un disegno? Il De civitate dei [La città di Dio] di Agostino intese svelare questo disegno nascosto come il piano salvifico divino, ed essa ha trovato sempre nuovi seguaci e imitatori. Anche quando, dai primi secoli del Rinascimento in poi, fu tolto nerbo a questa storiografia teologica, ha continuato a sopravviverne, in forma "secolarizzata", l'idea di fondo. Fra il Discours sur l'histoire universelle [Discorso sulla storia universale] del Bossuet e l'Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain [Abbozzo d'un quadro storico dei progressi dello spirito umano] del Condorcet, la distanza è assai minore di quanto possa sembrare a prima vista. Voltaire continuava ad ammirare l'opera del Bossuet, pur rimproverandole di montare ad ogni pie sospinto pietre false in oro. Ma ben oltre, a questo riguardo, va il Burckhardt. Il confronto che si trae dall'idea d'un "superiore disegno universale" gli pare ad ogni caso una magra consolazione, che non può compensare nessun male morale reale né sanare o giustificare nessun atto di violenza. «Ogni atto di violenza coronato da successo», egli afferma, «è per lo meno uno scandalo, vale a dire un cattivo esempio; l'unica lezione che si tragga dal successo d'una mala azione del più forte sta nel non stimare la vita terrena nemmeno un'oncia di più di quanto essa meriti.» Che a parlare qui sia Schopenhauer, non è misconoscibile. Ma come la filosofia di Schopenhauer ha potuto concorrere alla formazione d'un grande storico, e alla produzione d'una gemma della letteratura storiografica, quale La civiltà del Rinascimento in Italia è anche a giudizio di quegli studiosi che sono i più lontani dalla concezione di fondo che la sottende? In verità qui ci troviamo di fronte a un fenomeno singolare e ad un'anomalia storico-culturale, che ha bisogno di esplicazione, Schopenhauer procede in modo affatto coerente allorché, in base alle sue premesse metafisiche, contesta la possibilità non solo d'una filosofia della storia, ma addirittura d'una scienza storica. Per lui una filosofia della storia è una contradictio in adiecto, poiché la filosofia consiste nello scandagliare l'essenza delle cose, e quest'essenza non ha storia: essa non si lascia catturare nelle forme dello spazio e del tempo, che appartengono esclusivamente al nostro modo di rappresentazione soggettiva. E non è nemmeno suscettibile d'un'"interpretazione" quanto al "senso", poiché ogni presunta interpretazione del genere diviene in questo caso un misconoscimento e un travisamento ottimistici. Quel che sotto forma di divenire ci appare come "storia", è, nel suo nocciolo essenziale, un'unica cosa: una cieca volontà che non sa quel che vuole. Volervi trovare un ordine, un cosmo, un'intrinseca coesione dotata di senso, equivale allo sforzo di decifrare nelle forme delle nubi gruppi di uomini o d'animali. «Quel che la storia narra, di fatto non è che il lungo, greve e confuso sogno dell'umanità». Come non lo può la metafisica, nemmeno la scienza può sperare di trovare in questo sogno qualcosa su cui basarsi e da cui poter sviluppare una qualche, sia pur solo empirica, "verità". Anche il sapere, infatti, verte non sul singolo, bensì sull'universale, non sul perituro bensì sul durevole e sul permanente. «Considerata da tale punto di vista, la storia è menzognera non solo nella sua esplicazione concreta, ma già nella sua essenza, poiché parlando di meri avvenimenti e di singoli individui, dà a intendere ogni volta qualcosa di diverso; mentre, dall'inizio alla fine, di fatto non ripete mai altro che la stessa cosa, sotto nomi diversi e con diversa veste».
Per quanto anche la molteplicità e il divenire siano suscettibili d'una forma determinata, per quanto anche in essi sia riconoscibile qualcosa d'immutabile, di tipico, cogliere questo qualcosa è affare non della storia bensì dell'arte. L'arte, infatti, secondo Schopenhauer, e non la scienza, è la vera "contemplazione delle idee". È in essa che all'uomo riesce ciò che apparentemente è impossibile: strapparsi dai ceppi della volontà e porsi al di fuori della ruota del tempo. Egli diventa allora un soggetto puro, avolitivo, atemporale, del conoscere. In luogo del mondo fenomenico, quale catena ininterrotta di "cause" ed "effetti", di "mezzi" e "fini", ora lo avvolge una realtà esistente a sé e in sé; ma questa esistenza appartiene non più alla realtà effettiva, bensì alla mera immagine. L'immagine propria dell'arte è il primo grado in cui l'uomo si libera dalla realtà, dallo strapotere della volontà. La storia va dietro al filo degli avvenimenti; la scienza segue la corrente incessante e instabile delle cause e degli effetti, per cui ad ogni meta raggiunta viene di nuovo trascinata oltre; solo l'arte ripete le idee eterne colte per via di pura contemplazione, ripete l'essenziale e il permanente di tutti i fenomeni dell'universo. La sua unica scaturigine è la conoscenza delle idee; la sua unica meta è la comunicazione di tale conoscenza. Non v'è il minimo dubbio che questa concezione di fondo è affine per molti aspetti a quella del Burckhard e che deve aver destato in lui echi molteplici e sonori. Nemmeno il Burckhardt si rivolse al passato per amor del passato, e nemmeno lui s'accontentò d'immergersi nella corrente del divenire. Quel che l'attraeva, non era lo "srotolarsi degli avvenimenti"; egli voleva conoscere solo ciò che è ripetitivo, costante, tipico. E nemmeno lui riconobbe l'obiettivo finale della storiografia nella raccolta e nella disamina del materiale documentario. «I fatti generali», egli dichiara nella Griechische Kulturgeschichte [Storia della civiltà grec'], «potrebbero ben essere in generale più importanti di quelli specifici, così come quanto si ripete è più importante di ciò che si verifica una sola volta». Il greco perenne, considerato come forma, gli apparve come il nocciolo della grecità, come qualcosa che è più significativo di qualsiasi altro fattore singolo. Pertanto egli restò sempre convinto che, per l'acquisizione di siffatti prototipi della storia, non fosse sufficiente lo strumento della scienza puramente empirica, che l'astrazione scientifica dovesse finir coll'essere superata dalla "contemplazione" e dalla "intuizione". Il detto del Mommsen, quello secondo cui lo storico ha forse più dell'artista che del dotto, e che pertanto non ci si forma, ma si nasce storici, e che questi non vengono educati, bensì educano, non calza forse a nessuno storico dell'Ottocento più che al Burckhardt. Egli si educò instancabilmente all'intuizione del mondo storico; e il vero e grande strumento di educazione furono per lui fin dall'inizio le arti figurative. Né dalla storia della sua formazione culturale né dalla sua opera complessiva ci è possibile escludere in alcun modo II Cicerone, un'opera che costituisce un elemento integrante dell'una e dell'altra. Anche per il Burckhardt il supremo valore dell'arte, come di tutte le libere attività dello spirito in generale, consiste nella capacità d'affrancarsi dalla durissima servitù del volere, dall'irretimento nel mondo dei fini particolari e delle "intenzioni" individuali. Solo in questa capacità egli trova un "universale", che è al di sopra dell'esistenza politica e che in questa forma può essere incarnato solo da individui geniali, «Grande è la diversità di quell'universale che culmina nei grandi individui o da essi viene trasformato. Prima di tutto bisogna considerare separatamente i ricercatori, gli scopritori, gli artisti, i poeti, insomma i rappresentanti dello spirito ... Artisti, poeti e filosofi, ricercatori e scopritori non entrano cioè in collisione con le "intenzioni", da cui i molti traggono la loro concezione del mondo; la loro opera non agisce sulla "vita", vale a dire sull'utile e sul danno dei molti; ... artisti, poeti e filosofi hanno una duplice funzione: quella di portare idealmente il contenuto intimo dell'epoca e del mondo all'intuizione e di tramandarlo ai posteri come notizia imperitura». «Insoddisfatto della conoscenza pura, che è opera delle scienze particolari, e anche della conoscenza che è propria della filosofia, consapevole della sua essenza multiforme ed enigmatica, lo spirito intuisce che esistono altre potenze corrispondenti alle sue oscure energie. Allora risulta che grandi mondi lo circondano, i quali parlano soltanto per immagini a ciò che in lui è plastico: le arti... Le arti sono un saper fare, una potenza e una creazione ... Portare all'esterno ciò che è interno, saperlo rappresentare, sicché, in quanto interiorità rappresenta, agisca come una rivelazione, è una qualità rara. Dare soltanto ciò che è esterno in modo, ancora una volta, esterno, è possibile a molti: ma soltanto la prima cosa risveglia, nel contemplatore, nell'ascoltatore, la convinzione che l'ha saputa fare soltanto colui che l'ha creata, e che quindi egli è stato insostituibile». Questo individualismo estetico del Burckhardt corrisponde ancora perfettamente alla concezione di fondo di Schopenhauer. Per questi la genialità non è nient'altro che la più perfetta oggettività, cioè l'indirizzo oggettivo dello spirito, contrapposto a quello soggettivo, cioè a quello che è volto alla propria persona, vale a dire alla volontà. Ne consegue che la genialità è la capacità di comportarsi in modo puramente contemplativo, di perdersi nella contemplazione e di sottrarre la conoscenza allo stato ancillare in cui si trova originariamente, cioè a quello di serva della volontà, vale a dire perdere di vista completamente il proprio interesse, il proprio volere, le proprie finalità ... e non restare altro che un soggetto puramente cosciente, un lucido occhio del mondo. « Quando non c'è un'immagine che dal mio interno debba esser recata sulla carta, quando non posso muovere dalla contemplazione, non produco nulla», afferma ancora il Burckhardt. «Quel che io costruisco storicamente, è risultato non della critica né della speculazione, bensì della fantasia, che vuole riempire le lacune della contemplazione». Sennonché ora si verifica una grande svolta. Quella di Schopenhauer è la "contemplazione" del metafisico, e questa lo spinge a trascendere il tempo, giacché il tempo è la mera forma del fenomeno, e finché non ce ne liberiamo, ci resta preclusa l'essenza delle cose. Quella del Burkhardt, invece, è la contemplazione storica. I puri "universi d'immagini", nei quali egli s'immerge, gli stanno davanti in piena, plastica, evidenza, in presenza immediata, diremmo quasi atemporale; ma anche in essi ora egli avverte un intimo movimento, una metamorfosi. Cogliere e seguire questo "divenire nell'essere", questo mutare di forme nell'universo delle immagini costituito dall'arte, dalla poesia, dal linguaggio, dalla mitologia, dalla religione, appare al Burckhardt come il compito supremo della storia della civiltà. Nulla del genere può essere realizzato dalla filosofia, «poiché la storia, cioè il coordinare, è non-filosofia, e la filosofia, cioè il subordinare, è non-storia». La "contemplazione", certo è ciò che contraddistingue anche lo storico; ne è non solo diritto e dovere, ma al tempo stesso anche bisogno estremo; «essa è la nostra libertà nella coscienza dell'enorme vincolatezza universale e del fiume delle necessità». Ma lo storico non può né vuole elevarsi d'un colpo, così come il metafisico, nel mondo delle "forme pure". Per lui la forma ha il suo essere autentico e il suo autentico senso solo nel dispiegarsi dinanzi allo sguardo interiore di lui. Di fronte al grande spettacolo di questo dispiegamento finiscono con lo scomparire non solo i nostri bisogni individuali, ma anche i nostri individuali desideri; noi aspiriamo a un punto stabile, al di là di ogni "desiderabilità" e al di là di ciò che si è soliti chiamare "felicità" o "infelicità". «Lo Spirito deve trasformare in suo possesso il ricordo di ciò che ha vissuto nelle diverse epoche della terra. Ciò che un tempo fu gioia e disperazione ora deve diventare conoscenza, proprio come nella vita dell'individuo. Così anche la proposizione historia vitae magistra acquista un significato superiore e insieme più modesto. Mediante l'esperienza noi vogliamo diventare non tanto sagaci (per la prossima volta), quanto saggi (per sempre)». In tal modo quella sapienza estetica, che egli deve alla storia, finisce col precisarsi, per il Burckhardt, come una superiore saggezza di vita morale. Laddove la storia universale sia intesa in senso giusto, laddove venga prospettata non come una mera somma di eventi esteriori, bensì come storia delle forme di vita, la storia universale concede all'uomo pensante un'apertura di spirito per ogni cosa grande, e ciò rappresenta una delle poche condizioni sicure della più alta felicità spirituale. Questa personalissima disposizione di spirito pervade tutte le opere del Burckhardt. Essa ha ben poco a che fare con gli ideali tradizionali della "storiografia politica". Ma, se dal punto di vista di quest'ultima, si è spesso potuto tacciare di "scarso senso pratico" il Burckhardt, quella medesima storiografia, a commisurarla sulle norme ideali stabilite e osservate dal Burckhardt, si dovrà designare non meno spesso come dotata di "scarso senso artistico". In nessun caso sarà lecito ritenere che il contrasto qui rilevato si possa liquidare scorgendo nel Burckhartd qualcuno che non è un "vero" storico, e che debba essere piuttosto definito un "antiquario". Un antiquario non avrebbe mai potuto dare a Nietzsche quel che gli ha dato Burckhardt, non avrebbe mai potuto destare in lui la convinzione «che in ogni tempo la conoscenza del passato è bramata solo perché sia a servizio del futuro e del presente, e non per estenuare il presente, per sradicare il futuro vitale». |