Remo Bodei

Destini personali

Feltrinelli, Milano 2009, pp. 83-116
4. Il baricentro di Nietzsche
Un gregge e un pastore

Malgrado l'evidente sproporzione tra la relativa semplicità teorica delle posizioni di Ribot e la raffinata elaborazione concettuale di quelle di Nietzsche, anche nel filosofo tedesco la problematica della pluralità dell'io si trova esplicitamente o sotterraneamente connessa a ricerche di fisiologia e di psicopatologia.1 E sebbene il "passo di colomba" con cui incedono i suoi pensieri non si adatti pienamente al procedere effettivo del sapere medico (così come il suo sentirsi "una nuance" renda impossibile ogni operazione riduzionistica), il sorgere della sua concezione del soggetto e il primato attribuito alla "grande ragione" del corpo - al "saggio ignoto" che abita in noi - sarebbero impensabili senza tali premesse. L'intarsio di citazioni in questo capitolo serve non solo a valorizzarne l'importanza nel complesso sviluppo dell'indagine, ma anche a mostrarne l'intrinseca funzione nell'economia dell'intera opera.

La presenza di temi tratti dalla fisiologia è nota da tempo, per, quanto in genere si limiti a sottolineare un solo aspetto, quello della corporeità, proiettando, per giunta, un cono d'ombra sull'attenzione che Nietzsche dedica all'antica e veneranda ipotesi" dell'anima.2 L'insistenza sulla dimensione del corpo è, peraltro, pienamente legittima. Solo a partire dalla sua prospettiva si possono, infatti, riscoprire le inesplorate potenzialità dell'anima. A patto, però, di sottrarre alla "piccola ragione" di cui essa è veicolo il valore che, sin dai tempi di Socrate, le era stato attribuito: di arma di difesa nei confronti di un'angoscia senza nome derivante da un frainteso e temuto rapporto con gli istinti e l'inconscio, opache energie del corpo.3 Occorre quindi cancellare l'originaria tesi platonica, ripresa dal cristianesimo, per cui il corpo è prigione dell'anima e capovolgerla, dichiarando - con le parole di Foucault, eco di quelle di Nietzsche - che "l'anima è prigione del corpo" (SP, 33). Ora che si è scoperto che "tutto ciò che è semplice è meramente immaginario, che non è 'vero'" e che "ciò che invece è reale, che è vero, non è né uno né riducibile all'uno" (NF, 8, 15 [118]), ora che il corpo, grazie alla sua complessità, sta all'anima come "l'algebra alla tavola pitagorica" (NF, 7, 37 [4]), è virtualmente finita l'epoca del suo svilimento, il lungo periodo in cui esso era considerato il semplice involucro, il bozzolo caduco da cui si sarebbe innalzata l'eterna farfalla dell'anima: "In passato l'anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: - essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma quest'anima era anch'essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di quest'anima!" (Z, 9 = 6-7). Con le parole di Horkheimer e Adorno, si può dire che Nietzsche ha individuato in tal modo una "storia sotterranea" del corpo che scorre sotto la storia nota dell'Europa: "Essa consiste nella sorte degli istinti e delle passioni umane represse e sfigurate dalla civiltà [...]. Colpito dalla mutilazione è soprattutto il rapporto col corpo [...]. Il corpo umano, come ciò che è inferiore e asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come ciò che è vietato, reificato, estraniato" (DA, 249-251).

Noi non abbiamo semplicemente un corpo: siamo anche un corpo, formato - quasi leibnizianamente - di un'enorme quantità di monadi dotate di un qualche grado di psichismo: "Ci sono [...] nell'uomo tante 'coscienze' quanti sono gli esseri - in ogni istante della sua esistenza - che costituiscono il suo corpo". Ciò che chiamiamo "coscienza" (ossia l'intelletto in quanto presunta coscienza unica) può mantenere la sua monolitica facciata perché "rimane protetta e staccata dall'infinita varietà delle vicende di queste molte coscienze e, come coscienza di rango superiore, come pluralità e aristocrazia dominante, ha a che fare solo con una scelta di esperienze, per di più solo esperienze semplificate, rese perspicue e intellegibili e dunque falsate - perché l'intelletto continui da parte sua in questo semplificare e rendere perspicuo, e dunque falsare, preparando ciò che si chiama comunemente 'una volontà'" (NF, 7, 37 [4]). In altri termini, l'intelletto semplifica perché soltanto così è possibile evitare la paralisi della volontà. Se non si prendessero decisioni, se non si compissero continui 'colpi di stato della volontà', se non vi fosse una coscienza superiorem non recognoscens, se ogni atto di volontà non presupponesse "la nomina di un dittatore", la specie umana si estinguerebbe. Per funzionare, l'intelletto è obbligato a cancellare i rumori di fondo, escludere dal suo campo percettivo il sordo lavorio dei subordinati: "In ogni essere umano complesso deve esistere una massa ai coscienze e di volontà, tuttavia la nostra coscienza suprema tiene solitamente chiuse le altre" (NF, 7, 25 [40]).

L'impianto del ragionamento - ma non il suo sofisticato intreccio tematico - è molto tainiano. Per spianare la strada alla volontà, la coscienza (che deve imparare la "modestia", perché tutto quanto attiene a essa "è solo secondo in ordine d'importanza": NF, 1, 7 [126]) ha il compito di semplificare e chiarificare il lavoro complesso e oscuro dell'innumerevole colonia di cellule individuali. L'"aristocrazia" delle cellule non va tuttavia confusa con il "dittatore", con il momento decisionale in cui il delegato temporaneo di questa élite passa all'azione. A partire dalla fisiologia e dall'immagine di un organismo composto da cellule-individui che si uniscono conflittualmente in colonie sempre più vaste e complesse, Nietzsche (lettore di Taine, Espinas e Ribot) trae conclusioni di più ampia portata rispetto alle sue fonti. Afferma così che l'io è "una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l'una ora l'altra vengono alla ribalta, come ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi e di determinazioni. Il soggetto è ora in un punto ora nell'altro".4 Formulando la stessa idea in altri modi, egli sostiene che la coscienza è formata da "molteplicità di coscienze" (NF, 7, 37 [4]), così come il corpo, a sua volta, da "una pluralità con un senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore".5 O, ancora, che l'io è "una costruzione societaria di molte anime" (JGB, 27 = 24: Gesellschaftsbau vieler Seelen), un'unità e una pluralità, che si esaltano nell'interazione: "Io comprendo solo un essere che sia al tempo stesso uno e plurimo, che si trasformi e permanga, che conosca, senta, voglia - questo essere è il mio fatto originario" (NF, 7', 5 [243]).

La tesi della pluralità degli io svolge un ruolo decisivo nella critica al modello cartesiano dell'ego sostanziale, al quale Nietzsche contrappone l'attività anonima del cogitare. È il corpo che produce l'io: "'Io' dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere - il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice 'io', ma fa 'io'" (Z, 36 = 34). In tale atto di "fare 'io'" il pensiero è causa, non effetto dell'io: "Da Cartesio in poi [...] da parte di tutti i filosofi, sotto l'apparenza di una critica al concetto di soggetto e di predicato, si perpetra un attentato contro l'antico concetto di anima - vale a dire: un attentato al presupposto fondamentale della dottrina cristiana [...]. Una volta, infatti, si credeva all"anima' come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva 'io' è condizione, 'penso' è predicato e condizionato - il pensare è un'attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un'ostinazione e un'astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: 'penso' condizione, 'io' condizionato; 'io' dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal soggetto stesso".6 Se la "fede nell'io sta e cade con la fede nella logica" (NF, 8, 7 [55]), ciò significa che poggia sul bisogno dell'intelletto di ancorarsi alla logica statica dell'essere. Dato che l'ego è soltanto un'ipostasi, il cogito risulta privo d'interna evidenza: la certezza immediata non esiste, se non altro perché l'io penso "presuppone il confronto del mio stato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che cosa esso sia: a causa di questo rinvio a un diverso 'sapere' esso non ha per me, in nessun caso, un'immediata certezza".7 Soltanto Kant ha confusamente intuito l'inconsistenza del soggetto: "Kant voleva dimostrare, in fondo, che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato - e neppure l'oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una esistenza apparente del soggetto, quindi dell’anima', quel pensiero, cioè, che come la filosofia del Vedanta già una volta e con immenso potere è esistito sulla terra".8

Il pensiero è autonomo rispetto all'io e non dipende dalla nostra volontà: "Un pensiero viene quando è 'lui' a volerlo, e non quando 'io' lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto 'io' è la condizione del predicato 'penso'. Esso [Es] pensa: ma che questo 'esso' sia proprio quel famoso vecchio 'io' è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un'affermazione, soprattutto non è affatto una 'certezza immediata'. E infine, già con questo 'esso pensa' si è fatto anche troppo; già questo 'esso' contiene un'interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso" (JGB, 25 = 21). Un Es anonimo, frutto di un nostro atto ermeneutico, risultato imprevedibile degli equilibri mobili delle cellule-individuo e delle semplificazioni costanti dell'intelletto, produce e orienta l'apparenza di individualità.

Dopo Schopenhauer, anche Nietzsche prende atto del fallimento di qualsiasi strategia - fondativa o relazionale - del problema dell'identità, rinuncia alla sovranità dell'io e riconosce alla persona il suo carattere etimologico di maschera, di voce che risuona attraverso questo camuffamento del viso. La cultura moderna ha, del resto, ampiamente diffuso tali concezioni, contrapponendo l'Ich (l'io, pronome della prima persona singolare sinonimo di soggetto, anima, consapevolezza e individualità) all’Es (pronome neutro della terza persona singolare, che si riferisce a un qualcosa di non identificabile che pensa in noi e per noi). Già Lichtenberg aveva affermato, contro Cartesio, che non si dovrebbe dire Ich denke, "io penso", bensì "Es denkt", "esso pensa", così come si dice "Es blitzt, "lampeggia" (un'affermazione che sarà poi ripetuta, modulandola diversamente, oltre che da Kant, forse come cripto-citazione, anche da Mach, da Lacan e, ovviamente, da Freud).9

Coltivare i pensieri

Se la permanenza dell'io risulta dalla continuità delle funzioni dell'Es, compito del filosofo è allora quello di coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano in lui spontaneamente dal grembo di quel "saggio ignoto" che è il corpo, senza però limitarsi ad accoglierle in maniera passiva: "Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, le conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivate un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante".10

Il corpo è più intimo a me di quanto io lo sia a me stesso, mentre la coscienza è soltanto "una superficie" (eine Oberfläche) 11 di un io "diventato favola, finzione, gioco di parole" (GD, 85 = 87), "un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito" (M, 111 = 91-92). Essa rappresenta solo il terminale di un lungo processo, una parvenza di io e di unità: "Tutto ciò che entra nella coscienza costituisce l'ultimo anello di una catena, una chiusura. Che un pensiero sia immediatamente causa di un altro pensiero, è cosa solo apparente. I veri avvenimenti concatenati si svolgono al di sotto della nostra coscienza: le serie e successioni di sentimenti, pensieri, eccetera, che si producono, sono solo sintomi del vero accadere" (NE, 8, 1 [61]). Più in dettaglio, Nietzsche precisa: "La coscienza è l'ultimo e più tardo sviluppo dell'organico e di conseguenza anche il più incompiuto e depotenziato [...]. Si pensa che qui sia il nocciolo dell'essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano il suo sviluppo, le sue intermittenze! La si intende come 'unità dell'organismo'! Questa ridicola sopravvalutazione, questo travisamento della coscienza hanno come corollario un grande vantaggio, consistente nel fatto che con ciò è stato impedito un troppo celere perfezionarsi della medesima. Perché gli uomini ritenevano di possedere già la coscienza, si sono dati scarsa premura per acquistarla, e anche oggi le cose non stanno diversamente!" (FW, 56-57 = 44-45). Il ruolo della coscienza è secondario ed essa è "forse destinata a scomparire e a far posto a un completo automatismo" (NF, 8 14 [144]).

Sopravvalutando la coscienza, il cristianesimo ci ha attribuito un'anima, abituandoci a considerarla "come qualcosa di indistruttibile, di eterno, d'indivisibile, come una monade, come un atomon; questa credenza deve essere estirpata dalla scienza!" (JGB, 21 = 18). Nietzsche, che ha orrore della "spregevole e meschina assurdità di una sopravvivenza personale dell'individuo" (NF, 8, 11 [255]), che si è dichiarato lieto di "albergare in sé non 'un'anima immortale', bensì molte anime mortali" (MA, 22 = 17), non si lamenta, come Faust, di avere due anime che si lacerano in petto, perché ha dentro di sé una folla, una repubblica di persone in continua contrapposizione.12 Convinto che l'esistenza terrena sia l'unica a nostra disposizione, che questa vita sia la vita eterna (Dies Lehen, das ewige Leben!),13 aderisce pienamente al dogma fisiologico della pluralità degli organismi in lotta che formano la grande ragione del corpo: "E anche quei piccolissimi esseri viventi che costituiscono il nostro corpo (o meglio: del cui cooperare ciò che chiamiamo corpo è la migliore immagine) non sono per noi atomi spirituali, ma qualcosa che cresce, lotta, si accresce e a sua volta muore: sicché il loro numero muta in modo variabile, e la nostra vita è, come qualunque vita, in pari tempo, un continuo morire". In questo senso il corpo è concepito quale una "enorme unione di esseri viventi, ciascuno dipendente e sottomesso, e, tuttavia, in certo senso a sua volta imperante e agente con volontà propria" (NF, 7, 37 [4]). Ogni cellula ha dunque una propria volontà e l'insieme innumerevole delle cellule che formano il corpo comanda ed è comandata, sebbene normalmente deleghi il governo dell'intero corpo all'"aristocrazia di cellule". È questa nobiltà ereditaria che prepara il terreno alla finzione dell'unità, creatura del nostro intelletto, il quale tende a fissare tutto, immobilizzando artificialmente il divenire. Si tratta di una finzione, perché il concetto di "unità" serve solo per contare: abbiamo preso a prestito tale concetto dal "nostro più antico articolo di fede", l'io come modello di unità, in contrapposizione al molteplice. Una volta consapevoli di tale pregiudizio, potremmo - al limite - anche continuare a pensare all'io come unità, con la rettifica mentale di considerare tale unità come punto di convergenza, mobile e provvisorio, di una pluralità, in quanto l'io rappresenta "qualcosa che diviene [etwas Werdende]”, qualcosa in continuo mutamento e non qualcosa che è.14

Come capita in tutti gli organismi superiori, la complessità dell'io è anche un fattore di debolezza: espone l'uomo, il più incompiuto di tutti gli esseri, alla malattia mentale e alla dissoluzione della personalità. Nello stesso tempo, tale complessità costituisce anche un vantaggio decisivo, poiché l'uomo è "una pluralità di 'volontà di potenza': ciascuna con 'una pluralità di mezzi di espressione e di forme'".15 Sono gli uomini migliori, quelli più dotati di sovrabbondanza di forza vitale, a essere particolarmente capaci di accettare gioiosamente il conflitto, a desiderare "la lotta per la lotta" (NF, 7, 26 [276]), a non sottomettere a una unità rigida e mortificante la pluralità di volontà di potenza e di io che è in loro: la considerano non solo un sintomo di décadence, ma anche una matrice di possibili, un fertile terreno per i filosofi-giardinieri.

Al pari di Roux - che esordisce citando Empedocle,16 autore caro a Nietzsche grazie all'omonima tragedia di Hölderlin, conosciuta sin dagli anni di Schulpforta -, è attraverso il conflitto e la discordia (neîkos) che si instaurano le forme più alte di libertà e di armonia. Anche in Roux, come in Taine, alla base di ogni fenomeno psichico sta, del resto, un conflitto tra organi corporei e meccanismi antagonistici, che solo attraverso un reciproco contenimento, un pattugliamento armato dei propri confini, riescono a salvaguardare la loro relativa indipendenza e a rintuzzare la reciproca volontà di assimilazione e sopraffazione. La normalità dell'organismo e la pace dell'"anima" sono il risultato di una pressione e di una tensione permanente, che danno luogo alla gerarchia delle funzioni e a forme d'obbedienza che non si riducono mai a completa passività.17 Non appena una cellula o un organo s'indeboliscono, gli altri ne approfittano. Analogamente, quando l'io egemone (in termini nietzscheani quello che si trova in un dato momento alla "ribalta" della coscienza) abbassa la guardia, subito rispuntano le personalità emarginate.

Il richiamo a Empedocle implica in Nietzsche il volersi mettere alle spalle di Socrate per andare avanti, il reculer pour mieux sauter. Con la sua morale e la sua dialettica (che invita i deboli non a obbedire al più forte, ma a discutere), l'Ateniese ha contribuito a far "venire a galla la plebe", insegnandole la strada del risentimento e della vendetta immaginaria. Ha creato così una coalizione dietro la quale si nascondono "1) l'istinto del gregge contro i forti e gli indipendenti; 2) l'istinto dei sofferenti e dei mal riusciti contro i felici; 3) l'istinto dei mediocri contro gli uomini d'eccezione".18

Dallo specchio al baricentro

Laddove esiste sovrabbondanza di energia, la lotta si riproduce a tutti i livelli, anche nell'interior domus dell'animo, in quella dimora dove "cessano tutti i gradini" verso il basso. Ma al vertice, a controllare questo conflitto, non vi è un io quale "monarca assoluto", bensì una struttura impersonale e polimorfa di molte anime, una "rappresentanza", "il baricentro [...] qualcosa di mutevole".19 La pluralità degli io, nella sua forma ottimale produce infatti un loro "spostamento coerente" secondo un modello dinamico rappresentato dal variare del centro di gravità in funzione del quale si dislocano incessantemente gli io di volta in volta in primo piano, ma non in nostro possesso. Essi costituiscono il baricentro della mutevole distribuzione dei pesi psichici, i terminali degli equilibri complessivi del corpo, gli indicatori dei variabili rapporti di forza risultanti dal conflitto tra gli organi e tra le cellule. Più che di coalizioni relativamente stabili, secondo il modello 'parlamentare' di Ribot, la personalità egemone è qui il risultato del continuo formarsi in modo agonistico del "soggetto come pluralità" e dell'apparire "di forze di tipo personale".20 La meta di Nietzsche è quella di mantenere, alla maniera di Spinoza, il conatus, la vis existendi, la potenza di esistere degli individui, al livello più alto, o di cercare, almeno, di non diminuirla.21 Si direbbe che lo scindersi della coscienza o il prevalere delle malattie nel corpo corrisponda, più che a uno stato di anarchia, a uno slittare troppo frequente e brusco del baricentro, causato da una perdita di "saggezza" del corpo, a una caduta di potenziale psichico. Da questo punto di vista. Nietzsche non è mai venuto meno al suo ideale giovanile di ascesa: "Stanotte ho sognato che mi facevo rilegare tutto nuovo e bello il Gradus ad Pamassum; questo simbolo del farsi rilegare lo capisco bene, anche se è banale. Ma è una verità! Ogni tanto bisogna in certo modo farsi rilegare, stando insieme a uomini più forti, altrimenti si perdono singole pagine, e disanimati ci si sfascia sempre di più. E che la nostra vita debba essere un Gradus ad Pamassum, è anche una verità che ci si deve ripetere sempre più spesso".22

Nell'elaborare il modello del baricentro degli io Nietzsche non solo scardina indirettamente tutte le precedenti teorie filosofiche sulla coscienza e la soggettività, ma mette anche anticipatamente in crisi alcune concezioni elaborate dopo di lui. Senza tematizzare esplicitamente questa svolta, abbandona, infatti, la tradizionale metafora ottica della riflessione, mostrando in modo indiretto l'impraticabilità del percorso intrapreso dal primo Fichte per venire a capo del problema della costituzione e della continuità dell'io. Lo sdoppiamento del soggetto in un io che osserva e in uno che è osservato, che si sarebbero poi dovuti ricongiungere circolarmente tra loro,23 comporta infatti un'insanabile iterazione all'infinito (nel senso che l'io che pensa può essere, a sua volta, ricorsivamente trasformato in oggetto di pensiero).24

Il vantaggio del paradigma nietzscheano consiste nel fatto che aggira questo circolo vizioso, senza cadere nella fissità naturalistica del "cogito pre-riflessivo" (cfr., più avanti, pp. 282-285). Questa soluzione - compatibile nei risultati con quella di Montaigne, in quanto salvaguarda l'incessante variabilità dell'io - permette di considerare l'identità in termini dinamici, come interazione sempre provvista espressa da un punto di gravità, con il conseguente rifiuto dei modelli statici e dissipativi.

Il delfino e la tigre

Al pari del corpo, anche il soggetto muta continuamente l'intensità della sua potenza di esistere (che cresce o diminuisce), pur restando sempre al centro di un orizzonte che non cessa di spostarsi. Poiché il "soggetto è ora in un punto ora in un altro" {NF, 5, 6 [70]), nel teatro della coscienza si assiste a un avvicendamento degli io, così che ciascuno di quelli che sta sul proscenio rappresenta, di volta in volta, anche gli altri che restano dietro le quinte. L'io è "una pluralità dietro la quale non è necessario porre un'unità: basta concepirla come una reggenza" o pensarlo come una molteplicità di spiriti in lotta - simili in questo agli animali marini, ai delfini dei miti - per trasportare l'io sul loro dorso (cfr. NF, 7, 40 [38]). Anche la coscienza, dunque, al pari del corpo, è opaca a se stessa, perché sorretta nel suo movimento da quel "delfino" che è il corpo.

È quindi estremamente difficile obbedire al precetto delfico di conoscere se stessi. Si giunge, al massimo, al "presentimento" di essere trascinati da forze selvagge: "Che cosa l'uomo sa propriamente di se stesso? Pure se sistemato in una vetrina illuminata, sarebbe egli in grado di percepirsi almeno una volta? La natura non gli tiene forse nascosta la maggior parte delle cose, perfino del suo corpo, per avvolgerlo e rinchiuderlo in una coscienza altezzosamente buffonesca, lontano dai contorcimenti delle viscere, dal rapido flusso della circolazione del sangue, dalle ingarbugliate vibrazioni di fibre! Essa ha gettato via la chiave: e guai alla fatale curiosità, che fosse in grado di guardare, attraverso una fessura, da fuori e da sotto, nella stanza della coscienza avendo in quel momento il presentimento che l'uomo poggia su ciò che è spietato, avido, insaziabile, micidiale, nell'indifferenza del suo non sapere, quasi fosse un sogno, aggrappato sul dorso di una tigre" (WL, 371 = 357 [29-31]).

La coscienza, generalmente ritenuta il luogo di massima condensazione dell'individualità, il suo sancta sanctorum, è in realtà anonima e gregaria, nasce per l'esigenza di comunicare tra quegli animali, gli uomini, che sono più esposti al pericolo: "Il mio pensiero è che la coscienza non appartenga propriamente all'esistenza individuale dell'uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria [...] e che di conseguenza ognuno di noi, con la migliore volontà di comprendere se stesso nel modo più individuale possibile, di 'conoscere se stesso', pur-tuttavia renderà sempre oggetto di coscienza il non individuale, quel che in se stesso è esattamente la 'sua misura media'; che il nostro stesso pensiero viene continuamente, per così dire, adeguato alla maggioranza e ritradotto nella prospettiva del gregge a opera del carattere della coscienza, del 'genio della specie' in essa imperante. Tutte quante le nostre azioni sono in fondo incomparabilmente personali, uniche, sconfinatamente individuali, non v'è dubbio; ma appena le traduciamo nella coscienza, non sembra che lo siano più..." (FW, 274-275 = 222-223).

Coloro che sono soltanto gregge e non - insieme e in armonica dissonanza - gregge e pastore di se stessi, appartengono alla massa, che, nelle moderne democrazie, forma un gregge senza pastore, dominato dal miraggio regressivo dell'eguaglianza. La propensione che gli uomini provano per il gregge è più antica - e quindi più potente - di quella che avvertono per l'io. L'io degli individui immersi nella massa vive unicamente in relazione a un "non-io", a una negazione della loro volontà di dire sì alla vita, alla quale volontà, dapprima, si piegano, per poterla poi eventualmente negare e sentirsi così esistere in modo reattivo, non autonomo, in funzione cioè di quello a cui si oppongono. La dialettica, in quanto negazione della negazione, è quindi, per Nietzsche, segno di risentimento, di servile desiderio di riscatto da uno stato di debolezza e di minorità intimamente accettato.

L'ego è perciò raro a trovarsi.25 Non tutti ne sono provvisti: "Alcuni uomini sono anche più persone", mentre "i più non sono nessuna persona [...] l'esser persona sarebbe uno spreco, un lusso" (NF, 8, 10 [59]). Come dirà Adorno - rielaborando questa teoria nietzscheana - "in molti individui appare già una sfrontatezza che abbiano il coraggio di pronunciare la parola 'io'" (MM, 55 = 48). Secondo Nietzsche, per giunta, avere un io è pericoloso: chiunque lo possegga, rifiutando di adeguarsi al 'cosi fan tutti', è guardato con sospetto, mandato al "manicomio" e isolato e sospinto verso il nichilismo. Eppure l'io si può conquistare: "Domina il pregiudizio che si conosca l'EGO, che esse non manchi di farsi sentire continuamente; ma a ciò non si applica né il lavoro né l'intelligenza, - come se, per l'autoconoscenza, un'intuizione fosse sufficiente" (NF, 5, 11 [226]). Pochi, inoltre, sono in grado di trovare se stessi sfuggendo al conformismo dell'educazione ricevuta: "Dato il modo in cui oggi veniamo educati, noi riceviamo in primo luogo una seconda natura: e quando il mondo ci dice maturi, maggiori d'età, utilizzabili, noi la possediamo. Pochi sono abbastanza serpenti da staccarsi un bel giorno questa pelle di dosso, allorquando, sotto il suo guscio, è maturata la lor prima natura. Nei più, avvizzisce il seme di essa" (M, 279 = 223).

Dalla 'pericolosa' idea darwiniana di selezione naturale, per cui la materia vivente si organizza in maniera spontanea, senza una mente esterna che la progetti, Nietzsche estrae la convinzione che essa conduca all'affermazione dei mediocri, mentre l'uomo superiore" rappresenta, al contrario, colui che è in grado di autoselezionarsi, di procedere, con i rischi del funambolo, su quella corda stretta che porterà all''Übermensch, senza che vi sia - peraltro - bisogno di distruggere i "piccoli uomini". Nietzsche non pone l'accento sulle teorie dello sviluppo naturale dell'uomo verso altre versioni di se stesso, quali erano state immaginate da Diderot, Lessing o Herder già nella seconda metà del Settecento, che ponevano l'accento sul sorgere di nuovi sensi o sul fatto che l'uomo attuale è l'anello di una catena che non vede dove pendano gli anelli successivi. Egli è interessato, piuttosto, a un nuovo genere di selezione artificiale, quella che l'uomo superiore compie, appunto, su di sé, crescendo verticalmente su se stesso e diventando pastore del gregge dei propri io.

Il passaggio dall'io che si mimetizzava nell'"orda primitiva", teorizzata da Darwin, all'io dei contemporanei segna solo un'interiorizzazione dello spirito del gregge: "Un tempo l’io si era nascosto nel gregge: e ora nell'io si nasconde ancora il gregge" (NF, 7, 51 [273]). Anche se per Nietzsche, come per la maggior parte dei suoi contemporanei, le scoperte di Darwin accorciano la distanza tra uomo e animale e provocano una svalutazione della coscienza umana, l'ego non si riduce alla semplice unificazione fisiologica che ne è alla base26: implica un processo e un percorso personali e storici nello stesso tempo. La conquista di un Sé relativamente stabile è, infatti, il risultato di uno sforzo lungo, doloroso e ininterrotto, tanto nella storia dell'umanità, quante in quella di ciascun uomo. Da tale conflitto scaturisce il terrore della dissoluzione dell'io e della ricaduta nell'amorfo. Occuparsi di se stessi, sfidando le accuse di egoismo, è perciò un bene, in quanto "ciò di cui l'umanità soffre è la mancanza di egoismo'' (NF, 5, 2 [15]). Questo non significa, tuttavia, chiudersi in se stessi: "Perché avere sempre soltanto l'egoismo del predone e del ladro? Perché non quello del giardiniere? Gioia di coltivare gli altri come un giardino” (NF, 5, 11 [2]).

È proprio la paura di ricadere nell'indifferenziato a rafforzare reattivamente l'idea e l'esigenza di un io monolitico e sostanziale, che di fronte al rischio del mutamento continuo, in cui l'assolutamente eterogeneo "scorrerebbe come la pioggia sulla pietra", cerca di ancorarsi all'assolutamente identico o, a un più alto livello di volontà di potenza, come è il caso degli asceti, all'assolutamente scisso, giacché l'homo religiosus (anello di congiunzione tra l'uomo del gregge e l'uomo superiore) si scompone in "più persone", così che la religione diventa "un caso di 'altération de la personnalité" (NF, 8, 14 [124]).

L'individuo fugace

L'individualismo (richiesta liberale di autonomia) e il socialismo (rivendicazione anti-individualistica di eguaglianza), tradizioni politiche che nascono in diretta opposizione,27 sono, per Nietzsche, segretamente alleate: "L’individualismo è una forma modesta e ancora inconsapevole della 'volontà di potenza'; qui all'individuo sembra già sufficiente lo sbarazzarsi di un prepotere della società (sia dello Stato, sia della Chiesa). L'individuo le si oppone non come persona, ma soltanto come singolo [in quanto numero]: rappresenta tutti i singoli contro la collettività [...]. Il socialismo è semplicemente un mezzo d'agitazione dell'individuo: questi comprende che, per conquistare qualcosa, deve organizzarsi per un'azione collettiva in 'potenza'" (FVP, n. 784, pp. 421-422 = NF, 8, 10 [82]). Rifiutando la trascendenza, l'andare al di là alla ricerca dell'eterno (anche in senso laico), la cultura moderna della secolarizzazione produce, con il socialismo, individui evanescenti: "La follia politica, della quale io sorrido come i contemporanei sorridono della follia religiosa dei tempi andati, è innanzitutto la secolarizzazione, fede nel mondo ed esclusione dalla mente dei concetti di 'aldilà' e di 'mondo retrostante'. Il suo fine è il benessere dell'individuo FUGACE: per questo il suo frutto è il socialismo, cioè i fugaci INDIVIDUI vogliono conquistarsi la felicità con la socializzazione e non hanno motivo di attendere, come attendono gli uomini con anima eterna in eterno divenire, che si propongono di diventare migliori" (NF, 5, 11 [268]).28

Essere, insieme, gregge e pastore: è questo il difficile compito degli "uomini superiori", degli "spiriti liberi" o esprits forts, antesignani di quell'Übermensch (superuomo o oltreuomo, individuo in grado di andare al di là dell'"umano, troppo umano") il cui avvento è bloccato dal prevalere della negazione della vita, tipica dei mediocri.29 Questi uomini liberi non vogliono essere solo gregari (incapaci di governare la molteplicità degli io) o solo pastori (autocrati solitari). La pluralità dell'io produce in loro un concerto ("Seguendo il 'filo conduttore del corpo' apprendiamo che la nostra vita è possibile grazie al concerto di molte intelligenze di valore assai diseguale"),30 con successivi direttori d'orchestra che, coordinando l'insieme degli strumenti, aggiungono qualcosa alla loro somma. Essi soltanto sono in grado d abbandonare la mandria, la "colonia", di sottrarsi al richiami gregario della specie e, soprattutto, di far fronte al disorienta mento che ne deriva. Sanno anzi rinunciare a se stessi, propri' perché hanno superato la nichilistica paura di perdersi,31 la quale colpisce invece gli individui che entrano nella massa, che si rifugiano nel gregge, perché hanno paura dell'individuazione, avvertita "come qualcosa di penoso" (NF, 5 6 [138]).

Accettando il caso, l'"innocenza del divenire", gli uomini superiori giungono a desiderare il proprio dolore per autosuperarsi: "Stimo la potenza di una volontà da quanta resistenza, sofferenza, tortura tale volontà sopporta e sa trasformare a proprio vantaggio".32 Intendono essere messi alla prova per temprarsi: "le stesse ragioni che producono il rimpicciolimento degli uomini meschini sospingono i più forti e rari fino alla grandezza" (NF, 7, 34 [223]).33 Sin da La nascita della tragedia, la perdita del principium individuationis non rappresenta soltanto un'esperienza orrorosa, ma - per chi è capace di sopportarla - anche un rapimento estatico, un esaltante senso di liberazione, che scaturisce dal non essere più costretti a chiudersi nella prigione-rifugio di un io murato in se stesso per timore di dissolversi. In termini spinoziani, l'individuo sperimenta l'accrescimento della propria potenza di esistere (vis existendi) innalzando la libertà del volere alla "passione della superiorità rispetto a chi deve obbedire. 'Io' sono libero; 'egli' deve obbedire - la coscienza di ciò è il volere stesso".34

Gli uomini superiori sono quindi ugualmente capaci di comandare e obbedire a se stessi, fino al punto di trasformarsi in campi di battaglia, di accogliere in sé "più persone" senza esserne distrutti. Nello stesso tempo sentono l'ego non come un "monarca assoluto", ma come un mobile baricentro, perché non sottomettono la pluralità di io che vive in loro a un'unità fittizia, rigida e mortificante, in cui riconoscono il marchio d'infamia della debolezza o della rinuncia all'espansione della forza vitale. Non rinunciano a se stessi e sono fedeli sino in fondo alla propria storia e alle proprie decisioni: padroni di sé proprio perché non aspirano all'unità di un pastore senza gregge e assolutamente personali perché non hanno bisogno di usare la prima persona singolare del pronome per un solo io. Perdere se stessi significa, per loro, guadagnare tanti altri io, moltiplicare le proprie forze, non dividerle, tendere all'autosuperamento e non alla mera autoconservazione.

Giusta è quella volontà di potenza che accumula energia, senza dissiparla, che si difende dal più forte e si avventa gioiosamente sul più debole. La sovrabbondanza di forza vitale, di "salute", di volontà di transustanziare i conflitti in forza, fa persino nascere il piacere dell'insicurezza, dell'audacia, del viaggio di scoperta, poiché la felicità è legata al superamento delle resistenze e degli ostacoli e al suo spontaneo collimare con l'istinto.35 È la stessa felicità che, ai gradi più alti, si sperimenta nella ricerca e nell'imposizione del vero, in quanto il suo criterio è l'aumento della sensazione di potenza, sebbene la verità in se stessa non sia potenza. Al contrario di quel che pensa "il galante illuminista", a essa occorre, tuttavia, la potenza, proprio perché non è qualcosa da scoprire, ma da creare e da far durare.

Staccarsi dalla rigidità del principio di individuazione non vuol dire annullarsi, ma dire di sì alla vita, negando la schopenhaueriana "volontà" divisa,36 considerando persino il martirio come "un sacrificio offerto alla nostra avidità di potenza" (FW, 59 = 47). Significa congiungere il principio apollineo d'individuazione alla forza dissolutrice e rinnovatrice del principio dionisiaco d'indistinzione, mantenere l'ancoraggio dei fenomeni all'eternità del divenire e rifiutare la "fugacità" dell'individuo. Dopo la morte di Dio (che comporta anche la morte dell'anima e di tutto ciò che è immutabile) anche Nietzsche cerca surrogati di eternità, modi di elaborare e interpretare se stessi, così da raggiungere un'autonomia che eviti all'uomo superiore, quello che meglio degli altri sa lavorare se stesso, di diventare - secondo l'immagine di Locke - simile a una pietra tombale da cui il tempo ha cancellato la scritta.

Perdere l'unico se stesso significa guadagnare tanti altri se stessi, salendo lungo una scala di più intensa coordinazione reciproca tra i vari possibili io, in una progressione verso gradi di maggiore individuazione che sfidano l'aritmetica: "Il due nasce dall'uno e l'uno dal due: questo si vede con i propri occhi nella generazione e nell'accrescimento degli organismi più bassi; la matematica viene costantemente contraddetta, controvissuta, se è lecito dir così, dall'esperienza reale" (NF, 7, 40 [8]). Per questo va respinto il concetto di individuo, in quanto entità indivisibile, che piace al pensiero naturalistico (quello che "si sente soprattutto a suo agio con la tavola pitagorica").

Non è del resto sufficiente, come nella tradizione ascetica o nel pensiero dialettico, apprendere la disciplina voluntatis (FW, 271 = 218-219), scindersi in due io in lotta, inventarsi un nemico interiore, sdoppiarsi per poi riconquistare l'unità. L'asceta consegue un più alto livello di volontà di potenza rispetto all'uomo del gregge, perché fa leva sul desiderio di soggiogare impulsi e tendenze per diventare padrone di sé, anche al prezzo di negare la vita. Non si può, tuttavia, conseguire la perfezione grazie a un mero sforzo di volontà, dato che la volontà non può volere contro se stessa. La volontà di potenza è "semplicemente un altro modo di dire la vita", che è, dunque, nell'essere vivente, soprattutto volontà di superamento di se stessi, un mettersi a repentaglio "per amore di potenza".37 L'autosuperamento (Selbstüberwindung) e il disciplinamento (Züchtung) non implicano la negazione della volontà, ma, al contrario, il potenziamento di ogni singolo atto di volontà.

Parlare di "volontà" è, peraltro, improprio. In Nietzsche, come in Spinoza e in Ribot (cfr. MDV, 2), essa è soltanto una costruzione astratta: non esiste una volontà in senso ontologico, esistono solo singoli atti di volizione (cfr. FVP, n. 692 = NF, 8, 14 [121]). Le idee di volontà e di libertà non hanno origine nella teoria, ma nel bisogno di controllo sociale, nel rendere gli uomini individualmente imputabili delle loro azioni: "Tutta la antica psicologia, la psicologia del volere, ha i suoi presupposti nel fatto che i suoi autori, i sacerdoti posti al vertice delle antiche comunità, vollero creare a se stessi il diritto a irrogare delle pene - oppure vollero creare a Dio il diritto di irrogarle... Gli uomini vennero ritenuti 'liberi' per poter essere giudicati e puniti - per poter essere colpevoli: si dovette perciò pensare ogni azione come voluta, e l'origine di ogni azione come situata nella coscienza (- con la qual cosa la più sistematica coniazione di monete false in psychologicis fu eretta a principio della psicologia stessa)". Ancora oggi - aggiunge Nietzsche - i teologi "continuano ad appestare l'innocenza del divenire per mezzo della 'pena' e della 'colpa'. Il cristianesimo è la metafisica del boia..." (GD, 89-90 = 92).

Se si danno unicamente singoli atti di volizione, non esiste, a rigore, neppure una volontà debole o forte. Vi sono soltanto baricentri di volizioni più o meno coerentemente integrate: "Debolezza della volontà: questa è una similitudine che può indurre in errore. Perché non esiste una volontà e quindi né una volontà forte né una volontà debole. La molteplicità e il disgregamento degli impulsi motori, la mancanza di sistema tra loro dà per risultato la 'volontà debole'; il loro coordinamento sotto la signoria dà per risultato la 'volontà forte'; nel primo caso si tratta dell'oscillazione e della mancanza di centro di gravità, nel secondo della precisione e chiarezza della direzione" (FVP, n. 46 = NF, 8, 4 [219]). A ogni momento l'ego - ossia la paradossale coordinazione antagonistica degli "io" - si sposta con minori sbandamenti verso un centro di gravità capace di raccogliere in sé, in maniera più stabile, un maggior numero di forze. L'uomo superiore è colui che sa concentrare e coordinare ogni sua energia nell'io che in quel momento rappresenta il baricentro e sa successivamente spostarsi, con la condiscendenza del suo corpo, verso altri io che apportino un ulteriore incremento di potenza.38 Il "peso più grande" (cfr. più avanti, pp. 108-109) può essere sostenuto da chi sa sopportarlo ridistribuendolo su una pluralità di io che si alternano, senza perdere il filo del loro successivo apparire sulla scena. Egli trova il baricentro sempre in sé, mentre il gregge lo ha sempre altrove, nella voce anonima della massa o nel pastore da cui si lascia guidare.

L'uomo, si sa, è "un cavo teso tra la bestia e il superuomo, -un cavo al di sopra dell'abisso" (Z, 35 = 34). Eppure, proprio perché dominano i mediocri, sempre indaffarati ad abbassare ciò che è alto, a demonizzare con ogni mezzo i forti e i felici, l’Übermensch potrebbe non vedere (a lungo o mai?) la luce. È deprimente constatare come i valori ostili alla vita prevalgano sempre: "Come fu propriamente possibile? Domanda: perché la vita, la perfezione fisiologica soggiacquero dappertutto? Perché non ci fu una filosofia del sì, una religione del sì?". Risposta: "Gli istinti discendenti hanno preso il sopravvento sugli istinti ascendenti... La volontà del nulla ha preso il sopravvento sulla volontà di vita" (NF, 8, 14 [137]; 8, 14 [140]). L'ombra di una sconfitta sembra proiettarsi più fitta sulla volontà di vivere, perché pare quasi impossibile arginare la marea dei mediocri, che non devono, comunque, essere sterminati, perché costituiscono la base su cui innalzare la piramide degli individui superiori. La tendenza ostile alla vita, il sentirsi "sprecati" come umanità, e non soltanto come individui, fa apparire ai loro occhi quelli che impongono nuovi valori semplici "punti interrogativi". Il desiderio del niente è attualmente più impellente di prima, perché "si trova diffidenza a vedere un 'senso' nel male e nella sua stessa esistenza" (NF, 8, 5 [71]). Tale percezione acuisce ulteriormente l'inimicizia verso la vita, diffondendo un atteggiamento che tende ad affermarsi all'interno delle società europee in quanto rappresenta la tendenza "numericamente la più forte" nel gregge (NF, 8, 14 [140]). È questa la radice del nichilismo, per quanto il sentimento del nulla costituisca la logica e non la causa della decadenza.

In polemica con Darwin e i darwiniani, la selezione naturale non opera per Nietzsche "a fin di bene", né fa vincere i fittest. Favorisce, anzi, i mediocri. I migliori, invece, plasmano se stessi, lamarckianamente, dall'interno, limitandosi a sfruttare le circostanze esterne (che il darwinismo sopravvaluta), senza seguire i canoni di felicità individuale e di "lotta per la vita" che affascinano Darwin, perché gli derivano da un modello nascosto: dalla feroce competizione e dalla miseria dell'Inghilterra sovrappopolata.39 Essi gli fanno anche credere che la natura sia dominata dalla scarsità, che viva risparmiando (minimo sumptu, secondo l'espressione di Newton), mentre, al contrario, essa è per Nietzsche prodiga, dissipativa e non bada a spese.

Seguendo gli insegnamenti di Tucidide sulla "ragione nella realtà" piuttosto che quelli ascetici di Platone sulla ragione che esiste solo all'interno della ragione, si riesce a trasformare la passività in attività e a inserirsi nei campi di forza del mondo, contrastando, con generoso dispendio di forze, la deriva dell'attuale età di décadence, nella quale gli uomini disimparano ad agire, limitandosi a reagire o attraverso il ressentiment o attraverso il "fatalismo russo", il lasciarsi andare alla spossatezza e alla morte (cfr. EH, 270-271 = 279-281 e NF, 8, 10 [18]). Nell'età dell'"uomo multiplo", espressione del caos più interessante che sia mai esistito, anche i migliori - come Flaubert - soffrono di spossatezza della volontà, di "volontà di letargo". Pongono "il désir [...] al posto della volontà" (NF, 7, 25 [182]), preferendo l'oscillazione e la mancanza di centro di gravità alla scelta dirimente e attiva. La reattività, il sentimento del gregge, deve dominare solo all'interno del gregge: i capi, i Fuhrer der Herde, i soli capaci di agire liberamente, quali "animali da preda", non sono tenuti ad adeguarsi alle valutazioni e ai punti di vista dei mediocri.40 Nel prefigurare il futuro rapporto con questi ultimi, si alternano in Nietzsche due prospettive: nei frammenti del 1883, il superuomo, se mai verrà, non opprimerà i mediocri; coabiterà, anzi, con l'"uomo più spregevole", guardando a esso con lo stesso distacco degli "dèi di Epicuro": in seguito, si affaccia però anche l'idea di una razza dominatrice, composta da numerosi padroni, che formeranno una specie di casta superiore indiana, in grado di restaurare il ruolo dell'homo hierarchicus in contrapposizione all'homo aequalis della democrazia. L'uomo, comunque, non si avvicina più a Dio, come nella metafisica greca, attraverso la vita contemplativa, l'autosufficienza del pensiero: supera se stesso, si oltrepassa, mediante l'accettazione attiva del divenire, l'azione che non si pente di se stessa.

La selezione degli uomini

In una fase in cui la soggettività rischia di disperdersi in tanti io che si ignorano a vicenda, la maggior parte degli uomini sente di essere semplicemente ospite della vita, di non saperle dire di sì. La dottrina dell'eterno ritorno di tutte le cose è anche la soluzione al problema di trovare un soggetto che sia una "repubblica", rifiutando tanto la "monarchia" di un io, quanto la democrazia egualitaria di molteplici io con lo stesso basso livello di vis existendi.

Pur essendo la "più scientifica", in quanto poggia sulle più recenti conquiste del pensiero contemporaneo, l'idea dell'eterno ritorno è, per certi aspetti, la meno dimostrabile, perché riguarda un valore da istituire mediante una decisione suprema. Eppure, anche se si trattasse del semplice pensiero di una possibilità o se, addirittura, questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, una volta che avesse impresso sulla vita l'immagine dell'eternità, esso sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzioni o le azioni di ciascuno: "Se assimili il pensiero dei pensieri, ti trasformerai. Se per ogni tua azione ti domandi: 'È ciò che io voglio fare infinite volte?' - questa domanda è il più grave fardello" (NF, 5, 11 [226]). Dopo essere stato accolto dalla "plebaglia", questo pensiero guadagnerebbe "a sé per ultimi gli uomini supremi", producendo nel tempo effetti sconvolgenti,41 analoghi a quelli scaturiti dalla fede cristiana nell'inferno e nel paradiso. Volere l'eterno ritorno significa, infatti, determinare il corso della propria vita, così come accade nel cristianesimo, dove la prospettiva della dannazione o della salvezza eterne orientano ancora i comportamenti effettivi in questo mondo. La differenza tra la fede cristiana nell'aldilà e la decisione anticristiana di sopportare lo spostamento del centro di gravità dal paradiso o dall'inferno all'eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzione che quest'ultimo sviluppa maggiormente la vita (anche se, per certi aspetti, rappresenta una condanna), mentre il cristianesimo la deprime. Esso rinvia, infatti al miraggio di un aldilà che porta alla rassegnazione e alla repressione degli istinti e delle aspirazioni rivolte a questo monde (atteggiamento riscontrato anche nell'imperatore stoico Marce Aurelio, che credeva di conquistarsi la serenità dell'animo disprezzando gli impulsi, i desideri del corpo e i lussi e gli onori della sua condizione). In quanto esseri viventi, corpi che si corrompono, animali che nascono e muoiono, agli uomini non spetta certo l'eternità in senso cristiano. Il pensiero dell'eterne ritorno permette tuttavia ad alcuni di loro di riconquistare l'eternità nel senso dei classici, in quanto "vita" e "pienezza di vita", che prescinde dalla durata nel tempo ed è, anzi, sperimentabile nell'attimo in cui si rivela la compiutezza del mondo, "nell’ora del perfetto meriggio" in cui si cade nel "pozzo dell'eternità", nel tempo del rischiaramento, quando "il sole della conoscenza" è allo zenit, quando ciascuno è chiamato a decidere una volta per sempre.42

Se l'aspirazione più alta degli spiriti liberi è quella di sopportare l'eternità dei propri atti e dei propri pensieri, il credere all'eterno ritorno ripropone il dilemma che, da Agostino in poi, ha tormentato il cristianesimo: se Dio ha deciso tutto ab esterno, dove sta il mio libero arbitrio? Nella versione di Nietzsche: se voglio che tutto ritorni così come è stato, in cosa consiste la mia libertà? La risposta è che la libertà non è tanto rassegnata coscienza a posteriori della necessità, quanto amor fati, volontà di necessità, potenza che piega il divenire all'essere. Anche se l'attimo non è la chiave esclusiva per capire quello che Heidegger definisce T'unico pensiero" di Nietzsche, ossia la volontà di potenza unita all'eterno ritorno (N, 396), in esso sembra conciliarsi la contraddizione tra schema cosmologico - che esige l'eterno ritorno di ciò che è già accaduto (così che "tutto quanto 'era' diventa di nuovo un 'è'" e "il passato morde la coda al futuro": NF, 7, 4 [85]) - e schema morale (che richiede invece la volontà come forza creativa del nuovo). Il dilemma tra eternità del mondo e libertà comincia a risolversi se si abbandona l'immagine del tempo come di una retta sulla quale scorre un punto indivisibile e senza spessore, il presente, che separa in modo irreversibile il passato, che si lascia alle spalle, dal futuro che rode, avanzando, il tempo che resta. È proprio l'irreversibilità del tempo lineare a impedire alla volontà di volere "a ritroso", provocando il risentimento che nasce dall'immodificabilità del "così fu". Se invece, nell'eterno ritorno, concepiamo l'attimo come punto di raccordo del circolo di passato e futuro,43 "il futuro non è senza influenza sul passato, lo determina nella stessa misura in cui ne è determinato". L'attimo "non è più semplicemente un punto sulla linea che dal passato conduce al futuro, il quale acquisti la sua fisionomia solo in rapporto agli altri punti e che di per sé non abbia consistenza; esso porta invece con sé tutto il futuro e quindi anche tutto il passato, è in una sorta di rapporto immediato con la totalità del tempo, cioè con quello che Nietzsche intende per eternità".44 In questo modo passato e futuro, necessità e scelta acquistano senso solo a partire dall'attimo della decisione di dire sì alla vita, punto di svolta di ogni inizio. Nel tentativo di frenare la disgregazione della personalità, della cultura e dell'esperienza è come se si volesse incatenare al soggetto tutto quanto è stato (das Gewesene), per costringerlo all'ordine della ripetizione, a una paradossale identità plurima che perpetuamente muta in sintonia con una volontà di mantenere insieme, di "rilegare" le pagine delle proprie varianti in un ininterrotto Gradus ad Parnassum. Allora, le potenze della scissione non potranno prevalere, perché quella che, in maniera impropria, sa potrebbe continuare a definire l'identità personale riproduce ciclicamente se stessa, in quanto volontà di vita.

Anche in questo caso, le vere rivoluzioni si svolgono in silenzio. Gli eventi più grandi "non sono le nostre ore più fragorose, bensì quelle senza voce", che introducono "nuovi valori" attorno ai quali ruota poi impercettibilmente il mondo (Z, 165 = 160). Per questo, insegnando a vivere in maniera da desiderare (e non da sopportare) di vivere sempre di nuovo, si favorisce il mutamento più inavvertito e radicale insieme: si orienta verso l'alto la volontà di potenza di ciascuno, il suo spinoziano conatus, impedendone il crollo, la degradazione o le eccessive oscillazioni: "Non ci sono soggetti atomo. La sfera di un soggetto cresce o diminuisce costantemente; il centro del sistema si sposta continuamente; se il sistema non riesce a organizzare la massa che ha assimilato, si scinde" (NF, 8, 9 [98]). Non sarà facile seguire il precetto di desiderare di vivere sempre di nuovo: si resterà a lungo barcollanti e disorientati, a causa della perdita di quel baricentro al quale il cristianesimo ci aveva, da millenni, abituato: "Se si trasferisce il centro di gravità della vita non nella vita, ma nell’ 'al di là' - nel nulla - si è tolto il centro di gravità alla vita in generale" (AC, 215 = 220). Occorre, dunque, acquistare un nuovo baricentro, elegantemente variabile come quello delle marionette di Kleist,45 ma, a differenza di queste, scelto secondo il criterio dell'ego fatum. Nell'eterno ritorno l'uomo superiore (e, in prospettiva, Übermensch) prende possesso del divenire ed esercita la sua volontà di potenza, proiettandola simultaneamente in avanti e all'indietro, nel futuro e nel passato: suonando da virtuoso sulla tastiera dei propri io, afferma il "così volli che fosse". È, infatti, capace di modificare "a ritroso' la percezione della storia e di far sgusciare dai suoi nascondigli e anfratti i "mille segreti" ancora nascosti. Nella formazione della sua paradossale identità personale una e multipla, è capace di sostituire il lockiano filo orizzontale della memoria e dell'attesa con il circolo dell'eterno ritorno decretato dalla volontà. Respinge così ogni teleologismo e provvidenzialismo cristiano e, guardando alle eterne metamorfosi del mondo, impone il suo ordine: sic volo, sic iubeo! In ciò consiste la volontà di potenza: nella capacità del vero filosofo e, in prospettiva, dell'Übermensch (inteso come un individuo ben riuscito e non come "eroe" alla Carlyle, cfr. EH, 298 = 309) di legiferare nel vuoto provocato dalla décadence, che scaturisce dal crollo della fede nella Provvidenza e in un mondo che abbia senso. Nel torcere la parabola negativa del declino nella forma positiva del circolo, l'eterno ritorno, il "pensiero dei pensieri", mostra tanto la sua natura di "contropensiero", di antidoto al nichilismo,46 che è anche accettazione del niente, quanto di volontà di donazione di senso al non-senso. La dottrina dell'eterno ritorno funge da "martello in pugno all'uomo più potente" (NF, 7, 27 [80]), capace di scegliere e, nello stesso tempo, di accettare che tutto necessariamente sia come è. Nel suo atteggiamento non vi è contraddizione, in quanto l'affermazione, il dire sì alla vita, include, in maniera dionisiaca, anche l'approvazione del negativo (l'eternità del divenire con il suo non riscattato dolore). Con questo martello il filosofo risveglia dal blocco di marmo l'immagine del superuomo che vi dorme, tempra la coscienza e trasforma il cuore "in bronzo". Con questa volontà di autocreazione si inaugura, nella cultura occidentale, il progetto - per tanti versi infausto - di produzione dell'"uomo nuovo".

Diversamente da quella cristiana, la dottrina dell'eterno ritorno di Nietzsche non contempla alcun inferno: chi non ci crede non è sottoposto a minacce o ricatti: viene semplicemente abbandonato a una "vita fugace" e - in tal senso - all'estinzione (NF, 5, 11 [350]). Il pensiero dell'eterno ritorno serve ad accentuare quelle distanze gerarchiche che i gregari (tra loro indifferenti) vorrebbero cancellare: "Che cosa fu calunniato? Ciò che separava gli uomini superiori da quelli inferiori, gli istinti che creavano abissi" (FVP, 32 = NF, 8, 6 [25]). Esso è "il grande pensiero disciplinante [der große züchtende Gedanke]", che separa le razze capaci di sopportarlo, destinate al dominio, da quelle incapaci, votate alla condanna.47 In molti paesi queste ultime sono attualmente costituite dagli appartenenti al "gregge democratico", da quanti - rosi e autointossicati dal risentimento - risultano incapaci di rischiare il conflitto aperto per potenziare se stessi, da quanti si propongono quindi, seppur inconsapevolmente, il compito di infiacchire le proprie e altrui energie: "Indebolimento dei desideri, dei sentimenti di piacere e di dispiacere, della volontà di potenza, di fierezza, di possesso e di accrescimento del possesso; l'indebolimento come umiltà; l'indebolimento come fede; l'indebolimento come avversione e vergogna di ogni cosa naturale, come negazione della vita, come malattia e debolezza iniziale” (NF, 8 14 [65]). L'atteggiamento positivo di chi, guardando il mondo dall'alto di una società divisa in caste, lo trova "perfetto" e vuole che resti sempre così (AC, 241 = 243) risalta ancora di più splendido su questo sfondo scuro.

Poiché il rovesciamento di tutti i valori non è compiuto, si -.iene necessariamente a creare una sorta d'interregno. La dottrina dell'eterno ritorno cerca di colmarlo attraverso il gesto spinoziano della grande rinuncia, tipico, secondo Goethe, dell’Übermensch (cfr. DW, 29, 9-10 = II, 883-884): quello di rinunciare alle piccole cose per volerne una sola, l'eternità. In Nietzsche questa meta è garantita dalla rinuncia al risentimento che nasce dal pensiero lancinante dell'irriscattabilità del passato: "Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni 'così fu' in un 'così volli che fosse' - solo questo può essere per me redenzione [...]. 'Così fu' - così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria. Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. La volontà non riesce a volere a ritroso; non potere infrangere il tempo e la voracità del tempo, - questa è per la volontà la sua mestizia più solitaria [...]. Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; 'ciò che fu' si chiama il macigno che la volontà non sa smuovere. E così fa rotolare sassi piena di malumore e di rovello, e si vendica contro tutto quanto non prova il suo stesso rovello e malumore".48

L'idea dell'eterno ritorno è anche un farmaco sia contro l'impossibilità di redimere religiosamente in un'altra vita i dolori e i rimpianti dell'esistenza terrena, sia contro la malinconia e la meditatio mortis della tradizione filosofica. È un'accettazione del principio spinoziano: philosophia non mortis, sed vitae meditatio est, una redenzione dell'inreparabile tempus, che ne espunge la terribilità: "Ogni 'così fu' è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin quando la volontà che crea non dica anche 'ma io così voglio, così vorrò'" (Z, 177 = 172). Qualora si riuscisse a trasformare compiutamente il "così fu" in "così volli che fosse", il mondo riceverebbe un nuovo ordine, indispensabile da quando la "morte di Dio" ha seppellito le vecchie, rigide forme di donazione di senso alla realtà, lasciando però un vuoto, che gli uomini - orfani di una fede che riempiva la loro esistenza -non sono ancora in grado di colmare. Per questo l'idea dell'eterno ritorno ci aiuta a sopportare l'assenza di Dio senza cadere nel nichilismo reattivo, nell'autofagia della vita. Innalza "muri di protezione contro la morte di Dio", tanto più indispensabili in quanto il suo assassinio è stato perpetrato, ma quest'azione risulta troppo grande per "l'uomo folle" che l'ha compiuta.49 Il grido "Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso" non è un grido di giubilo: scarica sugli uomini la tremenda responsabilità di dare senso a un mondo privo di stabili punti di riferimento. Anche per questo l'eterno ritorno concede, a chi è capace di sopportarne il peso, una grazia, un dono di valore più alto di quello che meritano i propri atti, un di più rispetto al perdono cristiano. Scambia, infatti, il bene con il male senza chiedere in compensi la remissione dei debiti propri e altrui, come invece prevede il rapporto di reciprocità tra creditori e debitori stabilito dal Padre nostro.50 L'eterno ritorno è anche l'antidoto alla morte di Dio.

Da filologo, Nietzsche non ignora certo che l'eterno ritorno, in senso letterale, è una teoria ben nota ai pitagorici e, soprattutto, agli stoici, una tesi che nella Città di Dio (XII, 14) Agostino discute, tentando di confutarla. Dalle sue letture si evince, poi, che conosce le opere di Vogt, di Nägeli e di Blanqui, in cui il tema è affrontato a diversi livelli.51 Per lui, tuttavia, eterno ritorno significa caducità trasfigurata e resa eterna, volontà di potenza apparentemente proiettata all'indietro, ma in realtà legata al momento della decisione. Cristallizzare il mutamento, "imprimere al divenire il carattere dell'essere - è questa la suprema volontà di potenza" (FVP, n. 617 = NF, 8, 7 [54]), il farmaco per combattere il nichilismo e sopportare virilmente il dolore: "Io apprezzo l'uomo a seconda della quantità di potenza e di pienezza della sua volontà, non secondo la debolezza o l'estinzione di questa volontà; io considero una filosofia che insegna a negare la volontà come una dottrina che la svilisce e la calunnia. [...] Io non rinfaccio all'esistenza il suo essere cattiva e dolorosa, ma spero anzi che un giorno diventi più cattiva e più dolorosa di quanto sia mai stata finora...".52

L'eterno ritorno è un contributo a portare a compimento e a superare la dissoluzione dell'attuale civiltà immersa nella décadence. È un modo per far dimenticare a ciascuno il proprio "fantastico ego" e per far sprigionare dall'individualità chiusa in se stessa potenziali effetti liberatori, additandole la figura dell'"uomo superiore" che, attraverso le asprezze dell'esistenza, si eleva a un'altezza tale da esser più facilmente raggiunto dal "fulmine" dell'Übermensch (cfr. Z, 355 = 350). È come se Nietzsche volesse sottomettere l'identità plurima, in incessante mutamento, alla perpetua ripetizione dei valori affermativi della vita, così da sottrarla alla banalizzazione introdotta dalla civiltà di massa, all'accettazione della fugacità dell'individuo, al risentimento e all'"avversione della volontà contro il tempo e il suo 'così fu'". Legando il singolo all'“aurea catena” di questo circolo, si segue il precetto di Pindaro, tanto apprezzato da Nietzsche, del "diventa quel che sei!".

Tagliando, con un atto d'imperio, il nodo gordiano della regressione all'infinito, l'eterno ritorno porta a compimento per mezzo della volontà il progetto incompiuto (e fallito) di Fichte di congiungere l'autocoscienza con se stessa, sottraendo, nello stesso tempo, l'individuo alla schopenhaueriana volontà anonima e alla negazione della vita. Nietzsche non pretende però - come accade nella dialettica hegeliana - di sopprimere l'alienazione53 e di giungere alla conoscenza di sé, ma soltanto di negare il dover-essere, ripudiando la cattiva infinitità del desiderio: "'Volere' qualcosa, 'aspirare' a qualcosa, avere in vista un 'fine', un 'desiderio' - tutto ciò io non lo conosco per esperienza diretta. Anche in questo momento guardo al mio futuro - un vasto futuro! - come a un mare liscio: nessun desiderio lo increspa. Non voglio in alcun modo che qualcosa sia diverso da com'è; io stesso non voglio diventare diverso...".54

Anche per diventare quel che si è, senza malinconici rimpianti e snervanti attese, occorre disciplina, attitudine a un'egemonia degli io ben diversa da quella basata sulle "coalizioni" teorizzate da Ribot. La maggiore libertà dell'io di volta in volta "pastore e gregge" dipende, infatti, non da un più ampio consenso delle parti, ma da una più dura e cruda gerarchizzazione iniziale delle istanze psichiche. Questa culmina nell'accoglimento del vincolo dell'eterno ritorno, della clausola che impone al soggetto di "danzare in ceppi", seguendo l'abituale prassi del ballerino, che ottiene una più elevata libertà espressiva e una maggiore scioltezza di movimenti sottoponendosi all'obbligo della continua e faticosa ripetizione di monotoni esercizi. La disciplina dell'eterno ritorno obbliga il pensiero a ruotare incessantemente attorno all'asse del divenire, unica realtà, per quanto spesso impercettibile a occhio nudo: "Se la tua vista fosse più acuta, vedresti tutto in movimento: come la carta che brucia si curva, così tutto di continuo perisce e intanto si curva" (NF, 5, 15 [48]).

L'eterno ritorno non è solo la ripetizione dell'identico, ma anche (e soprattutto) la selezione e l'elezione di coloro che sanno restare fedeli al "sentimento supremo" di desiderare di rivivere le proprie decisioni (cfr. NF, 5, 11 [268]). È il riaffiorare costante di un presente sempre diverso per contenuti, il percorrere come una freccia, lungo la linea retta dell'irreversibilità e della mortalità, il circolo formalmente sempre uguale dei giorni e degli anni. Poiché l'"identità personale" si riproduce ciclicamente all'interno di una molteplicità voluta (e non soltanto subita), le potenze della scissione pura vengono sconfitte, omeopaticamente, con le loro stesse armi e non possono più prevalere. Gli io che, di volta in volta, vengono "alla ribalta", sottoposti alla "danza in ceppi" dell'eterno ritorno, ottengono un incremento di potenza grazie, appunto, a questa artificiale spontaneità.

Mentre l'idea di irreversibilità del tempo espressa dai risentiti trasforma la memoria e la storia in un percorso luttuoso, in una vera e propria via crucis, quella dell'eterno ritorno esalta Li ruolo della volontà nel capovolgere la clessidra del tempo, sostituendo il volere - quale cemento temporale della personalità - al filo d'Arianna della memoria. Si tratta di una concezione opposta a quella di Droysen, Ranke o Dilthey, che inflazionano l'io nel fargli rivivere per procura - grazie alla fruizione di opere letterarie - altre vite immaginarie, utilizzando la storia quale succedaneo di una tradizione spezzata. Lo storicismo tedesco dell'Ottocento manifesta il suo lato di morbosa impotenza, poiché, da una parte, non è in grado di creare nuovi valori, dall'altra, non crede più intimamente a quelli vecchi. Soffre, secondo le indirette critiche di Nietzsche, di un'elefantiasi del senso storico, che lo porta ad assumere un atteggiamento reverenziale nei confronti del passato, veicolo di passività e d'inazione (ciò dimostra come i dotti tedeschi non discendano da "una casta dominante", capace di distruggere per creare).

In realtà, la posizione di Dilthey (formulata però dopo il 1883) è più complessa e plausibile. L'io di ciascun individuo - irripetibile punto di annodamento di forze reali - si potenzia e acquista concretezza grazie al suo inserimento nella storia, oggettivazione del pensiero e dell'attività umana di tutte le generazioni trascorse.55 In maniera simile all'operazione dello scrivere, in cui la spiritualità dell'uomo si estrinseca e si materializza, anche le res gestae si consegnano al mondo, passano dalla soggettività all'oggettività. Analogamente alla lettura, poi, l'interpretazione o decifrazione dei documenti storici riporta di nuovo, con movimento inverso, la ricchezza del mondo all'interno della soggettività, fluidificando quanto si era reificato e trasformando le res gestae in comprensione o in historia rerum gestarum. Grazie alla ricostruzione di specifiche memorie, lo storicismo di Dilthey unisce, mantenendoli in tensione, il "mistero della persona" - il fondo potenzialmente inesauribile di ogni io (F, 321) - e il deposito di senso, ugualmente inesauribile, del mondo storico.

A partire dal libro Sull'utilità e il danno della storia per la vita sino al secondo saggio della Genealogia della morale, in Nietzsche è l'oblio, più che la memoria, a risultare indispensabile all'azione. Il chiudere "ogni tanto le porte e le finestre della coscienza" crea il clima entro il quale può irrompere il nuovo. L'incapacità di dimenticare (e non quel che sarà la freudiana rimozione) è, invece, tipica del risentito, che non riesce a trasformare in attività la sua reattività, le tracce che gli eventi lasciano in lui. A differenza dell'uomo nobile, la cui reazione è istantanea e senza memoria, egli "sa bene cosa sia il tacere, il non obliare, l'aspettare, il momentaneo farsi piccini, farsi umili".56

Affezionandosi al pensiero dell'eterno ritorno cessano i risentimenti e i rimpianti. Non ci si strugge più nel desiderio di vivere altre vite parallele, terrene o ultraterrene, diverse dalla nostra attuale. Vogliamo solo non alia sed haec vita sempiterna! (NF, 5, 30 [9]). Il tempo instaurato da questo pensiero salva e redime ogni attimo rendendolo significativo, dice di sì all'esistenza di ogni essere, introduce automatismi analoghi a quelli che, nel tardo Nietzsche, regolano l'acquisizione delle virtù macchinali dell'abitudine, quelle, appunto, che rendono in prospettiva inutile la coscienza e facilitano l'incuria sui.51

Il ragno e il chiaro di luna

L'eterno ritorno non va inteso nel senso del nano, dello "spirito di gravità" raffigurato nel capitolo La visione e l'enigma dello Zarathustra, il quale prende "alla leggera" il "peso più grande" dell'eterno ritorno, riportandolo a una affermazione fattuale di presunto valore scientifico. L'eterno ritorno è legato alla volontà umana, che - per amore della vita - vuole che si ripetano anche gli eventi dolorosi e sgradevoli.58 Esso non costituisce un obbligo o una necessità, ma la risposta a una ipotetica sfida, nel senso del paragrafo 341 della seconda edizione della Gaia scienza, intitolato Das größte Schwergewicht, da tradursi (o, meglio, da pensarsi) più che con II peso più grande con il baricentro più grande, ossia capace di ridistribuire un carico massimo sul punto in cui, tecnicamente, passa la retta d'azione del peso complessivo.

L'inizio dell'aforisma è, significativamente, al condizionale, "E se un demone [...]". Se un demone mi proponesse di rivivere la mia vita infinite volte, con gli stessi dolori e piaceri e persino con "questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi"; se "l'eterna clessidra dell'esistenza" venisse "capovolta sempre di nuovo - e tu con essa, granello della polvere", malediresti questo demone, digrignando i denti oppure sperimenteresti "l'attimo immenso" in cui accetteresti la sua offerta? Qualora tale pensiero acquistasse potere su di te, ti trasformerebbe rispetto a quel che sei e forse ti stritolerebbe. Infatti, "la domanda per qualsiasi cosa 'Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?' graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! [würde ab das größte Schwergewicht in deinem Handeln liegen!, da intendere nel senso che opererebbe sul tuo agire come centro di gravità di tutte le tue forze, determinandone fatalmente l'orientamento]. Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun'altra cosa che questa eterna sanzione, questo suggello!" (FW, 249-250 = 201-202).

L'esperienza dell'eterno ritorno conserva in Nietzsche il sapore di un ricordo, di un déjà vu e di una sospensione del tempo. "'E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? - e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno?' [...] E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all'indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all'insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: -tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, - tacita sul tetto piatto, come su roba altrui [...]."59

Non si è obbligati a prendere su di sé questo carico (che implica anche l'idea ripugnante dell'eterno ritorno del "piccolo uomo", meschino e reattivo). Chi ha la forza di reggerlo dice, tuttavia, sì alla vita coltivando il pensiero della sua eternità, del suo sottrarsi così a ogni malinconia a causa di quanto inevitabilmente muore ed è sottoposto alla caducità. Egli non vuole una vita migliore, ma identica. Ha vinto quell'acuto sentimento della morte che ha caratterizzato la prima età moderna e che trova la sua espressione figurativamente più pregnante nel quadro di Holbein Gli ambasciatori, dove fra i ritratti di giovani belli, ricchi e potenti si nasconde - raffigurato con la tecnica dell'anamorfosi e quindi quasi invisibile - un teschio o nel dipinto di Poussin Les bergers d'Arcadie dove i pastori scoprono nell'idillio bucolico, nel tipo di vita considerata più serena, la presenza della morte.

Coloro che soffrono della "malattia storica" adorano invece il passato, perché non sono in grado di dire sì alla vita, di creare nuovi valori. L'abnorme importanza attribuita al senso storico li induce ad assumere un atteggiamento ossequiente e reattivo nei confronti degli eventi. Non si rendono conto che l’Übermensch, il cui avvento è legato alla volontà e non a fiacchi desideri, non è soltanto una meta, ma qualcosa che sempre ritorna: Non solo l'uomo, anche il superuomo ritorna eternamente!" (NF, 8, 27 [23]).

Nell'istituire il mito dell'eterno ritorno, che rende paradossalmente possibile sia l'avvento del nuovo,60 sia la liberazione -mediante il "così volli che fosse" - dai vincoli del passato che ancora trattengono l'uomo attuale (cane invecchiato alla catena),61 Nietzsche sa anche che pochissimi riescono a sopportare questo grande spostamento di baricentro. La maggior parte degli individui sente con malcelata gioia il passaggio del tempo distruttore, gode della caducità di tutte le cose e non sopporta la spontaneità costruita, l'anarchia organizzata di chi sperimenta e vuole dispiegare nella ruota del tempo tutti i suoi molteplici ego. E mentre l'uomo del risentimento non solo secerne involontariamente la décadence, ma la desidera come punizione destinata a colpire tutti, dato che egli ne è la prima vittima, lo "spirito libero" vuole invece inasprirla: "Nessuno ha la libertà di essere gambero. Non giova a nulla: si deve andare avanti, voglio dire un passo dopo l'altro più oltre nella décadence (questa è la mia definizione del moderno 'progresso') [...]. Si può e si deve intralciare questo sviluppo e, intralciandolo, arginare, concentrare, rendere più veemente e improvvisa la degenerazione stessa: di più non si può".62 Nietzsche è certo "attratto dalla fosforescenza che la decadenza emana; sa però che si tratta di una luce che assorbe, ma è insufficiente a illuminare. È figlio della decadenza, eppure lotta e protesta contro di essa".63 Diversamente dal duca Jean des Esseintes, il protagonista del romanzo-emblema della cultura del decadentismo, À rebours di J.-F. Huysmans,54 non vuole procedere sempre "a ritroso", come i gamberi, verso la degenerazione, ma neppure trionfalmente in avanti, come prescrive l'ideologia positivistica del progresso. Vuole ritorcere la décadence su se stessa, assumerla fino alle estreme conseguenze, curvare la parabola del declino sino a trasformarla, appunto, nel cerchio, scelto e costruito, dell'eterno ritorno.

Rifiuta di sprofondare nella décadence e di tenere a distanza la società di massa alla maniera di Huysmans o di Wilde, che la esorcizzano attraverso l'esaltazione dello snobismo o l'ostentato sottrarsi ai gusti e alla sensibilità dei contemporanei. Non intende, infatti, presentarsi come l'ultimo raffinato esteta di una società in procinto di essere travolta dai grands Barbares blancs.65 Non porta il lutto per l'irreversibilità del passato, né mostra nostalgia per le epoche di tramonto delle civiltà. In ciò si situa agli antipodi di Des Esseintes, spregiatore dei classici come Virgilio e Cicerone, lettore dei poeti latini minori della tarda antichità, organizzatore di un banchetto funebre che celebra l'inizio della sua impotenza sessuale (con piatti e cibi rigorosamente neri). Pur detestando la natura gregaria delle masse, Nietzsche spera che le nuove generazioni possano aprire la strada all'Übermensch, mentre Des Esseintes non vede sbocco positivo alla décadence e odia indiscriminatamente "con tutte le sue forze le nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri che hanno bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urtano senza domandarvi scusa sui marciapiedi, che vi gettano tra le gambe, senza il minimo cenno di scusa o di saluto, le ruote di una carrozzina da bambini" (AR, 55).

Nietzsche è ugualmente lontano dai modelli di uno scrittore che a lui si ispirerà, del D'Annunzio del Trionfo della morte, il cui protagonista, Giorgio Aurispa - malgrado i conati di riscatto, cfr. più avanti, pp. 338, 367 - non è capace di conseguire la volontà di potenza e di autocontrollo della quale va in cerca per uscire dalle incertezze e inadeguatezze della sua esistenza. Avverte, infatti, "una forza estranea" che si impadronisce di lui, togliendogli ogni capacità di autocontrollo: "Io sfuggo a me stesso. Il senso che ho del mio essere è simile a quello che può avere un uomo il quale, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di continuo mancargli l'appoggio". Secondo schemi ispirati alla psicologia di Ribot, il protagonista del romanzo dannunziano viene descritto come un uomo attraversato "da un mero flusso di sensazioni, di emozioni, di idee" che ruotano attorno a precari centri di attrazione, a "un'associazione provvisoria di fenomeni" e che abbozzano un essere evanescente colpito da una "malattia della volontà", dalla "paralisia psichica".66

Carbone e diamante

In Nietzsche, al contrario, la volontà di potenza e l'eterno ritorno sono propriamente degli antidoti contro le ribotiane "malattie della volontà" e contro la décadence, intesa come disgregazione e perdita d'unità, nel senso di Bourget.67 Quando la pluralità degli io sfocia nella dissipazione psichica, alimentando passioni di debolezza travestite da ideali di eguaglianza (ira impotente, invidia, risentimento), bisogna salvare l'umanità dalla degradazione causata dal livellamento: "Mi trovo costretto a ristabilire la gerarchia nell'epoca del suffrage universel, cioè nell'epoca in cui ciascuno ha diritto di erigersi a giudice di tutto e di tutti" (FVP, n. 854 = NF, 7, 26 [9]). La gerarchia, l'altezza, il Gradus ad Pamassum, servono a evitare che la vita venga svilita e umiliata, impedendole di "edificare se stessa in alto con pilastri e gradini", mentre "verso vaste lontananze essa vuole mirare e ancora al di là verso bellezze beate, -per questo essa ha bisogno di altezza! E poiché ha bisogno di altezza, ha bisogno anche dei gradini e della contraddizione tra i gradini e coloro che salgono! Salire vuole la vita, e salendo superare se stessa" (Z, 126 = 121). Sia i predicatori cristiani dell'eguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio (che maneggiano incautamente questa idea-"dina-mite"), sia gli apostoli socialisti della giustizia sociale (le "tarantole"), non fanno che diffondere ideali intrisi nel veleno del ressentiment. Al pari di altri suoi contemporanei - come Taine, Renan o Sorel -, anche Nietzsche ha orrore della stagnazione sociale, della mediocrità, dell'appiattimento, dell'egualitarismo.

La doppia equazione, da un lato, tra dislivelli energetici e vita e, dall'altro, tra livellamento energetico e morte (che deriva da interpolazioni della seconda legge della termodinamica), viene applicata da Sorel al mondo sociale in base a un'accattivante analogia. Senza dislivelli tra le masse d'acqua - nell'idraulica - o senza una differenza di calore e di potenziale - nella termodinamica e nell'elettricità - non vi sarebbe, infatti, alcun movimento, alcuna erogazione di energia: i liquidi nei vasi comunicanti, i fiumi, i fluidi elettrici ristagnerebbero inerti. Similmente, qualora prevalessero i fautori di un perpetuo armistizio nella lotta di classe, lo stesso accadrebbe alle collettività umane, destinate a impaludarsi e a estinguersi (cfr., più avanti, pp. 213 sgg.). Secondo uno stato d'animo dominante tra le élite, ben riassunto dalle parole di Renan, i segni della futura decadenza ci sono già: "Il nostro secolo non va né verso il bene, né verso il male; va verso il mediocre".68 Le società contemporanee, in particolare quelle più sviluppate, tendono al livellamento a causa dell'attenuarsi delle benefiche diseguaglianze tra gli uomini.

Nietzsche pone un problema serio, quello del rimpicciolimento degli uomini, enunciato nello Zarathustra (cfr. Z, 205-206 = 203-204). Ha scoperto e denunciato le tecniche di disciplinamento e di allevamento cui l'umanità è stata sottoposta nell'arco dei millenni dalla religione e dalla politica, con la conseguente riduzione dell'individuo a membro di un gregge o di una mandria. Si chiede così se è possibile favorire l'uscita del singolo da questa deprimente promiscuità per produrre esemplari di uomini potenziati mediante una selezione artificiale autoprovocata dal pensiero dirimente dell'eterno ritorno. Pur rifiutando il valore scientifico del secondo principio della termodinamica (perché, se fosse vero, lo stato di omeostasi avrebbe dovuto verificarsi nel corso del tempo infinito già passato), egli accetta implicitamente le conseguenze ipotetiche della sua applicazione alla società e si sforza di risalire la china della degradazione dell'energia (quella umana, per lui).

Opponendosi ai fiacchi predicatori di eguaglianza e di compassione per i deboli, afferma che la mediocrità si combatte avanzando controcorrente, aumentando artificialmente la distanza tra la nuova aristocrazia degli uomini superiori e le masse, creando, appunto, differenze di potenziale, ossia - in termini politici - gerarchie. All'allungamento della scala gerarchica si potrà, per altro, giungere anche in maniera controintuitiva, ad esempio attraverso l'ulteriore diffusione della democrazia tra il gregge umano, tale da portare a un accresciuto e radicato disgusto per lo spreco delle capacità e delle energie individuali.69 La strada meno lunga e più sicura consiste, tuttavia, nel mantenimento, in tutta la sua asprezza, della moderna schiavitù del lavoro salariato. Sono, pertanto, da condannare quanti divulgano tra la classe operaia il segreto dello sfruttamento, che non caratterizza le società corrotte o ingiuste, ma l'essenza stessa della vita, che è "appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie [...] perché vita è precisamente volontà di potenza" e, a sua volta, la volontà di potenza è "volontà di vita".70 I socialisti, che hanno osato rompere questa congiura del silenzio, seminano infelicità tra quanti pretendono di difendere: "Disgraziati seduttori, che hanno distrutto con il frutto dell'albero della conoscenza lo stato di innocenza dello schiavo!" (GS, 259-260 = 224). Loro è la responsabilità di aver reso invidiosi gli operai, di averli sottratti al torpore di un lavoro che non richiede oggi alcuna riflessione: "Chi odio io maggiormente tra la plebaglia di oggi? La plebaglia socialista, gli apostoli dei Cianciala, i quali sovvertono lentamente l'istinto, il piacere, quel senso, nel lavoratore, di modesto appagamento del suo piccolo essere - i quali lo rendono invidioso, gli insegnano la vendetta..." (AC, 242 = 251). Se vogliono davvero conservare una certa capacità di appagamento, i lavoratori devono quindi, da un lato, rinunciare al miraggio dell'eguaglianza - giacché "la capacità di gioire si atrofizza a causa della volontà di essere uguali" (NF, 5, 1 [16] e cfr. 5, 3 [144]) -, dall'altro, non imitare i "borghesi", mostrandosi superiori a loro per la mancanza di bisogni.

La democrazia parlamentare, il socialismo e - nei suoi effetti di più lunga durata - il cristianesimo sono i principali responsabili della decadenza attuale. Attraverso le parole d'ordine "eguaglianza", "fraternità", "giustizia" o "amore per il prossimo" hanno espunto dalla società e dalle coscienze il senso della positività dei conflitti e dell'espansione delle forze vitali, riconducendo gli uomini al livello dell'orda animale, della massa indifferenziata e preparando l'avvento dei moderni "barbari", che "si mostreranno e si consolideranno solo dopo immense crisi socialiste" (NF, 8, 11 [31]). Cercando di inoculare nella coscienza dei fortunati il disagio e la vergogna per la miseria altrui, istituzionalizzando la mediocrità, i socialisti disperdono il lievito dello sviluppo, ritorcono contro se stessa l'inibita volontà di potenza degli individui. Tra cristianesimo e socialismo esiste, del resto, una profonda affinità, in quanto la rivoluzione socialista non è che una variante secolarizzata del Giudizio universale, la cui attesa addolcisce il rancore dei malriusciti con la promessa di una futura vendetta nei confronti dei ben riusciti.71 Risvegliare il desiderio di eguaglianza senza poterlo soddisfare (giacché, malgrado la proclamazione dell'eguaglianza formale dei diritti e delle pari opportunità, le diseguaglianze continuano inesorabilmente a perpetuarsi)72 significa acuire ancora di più l'invidia dei deboli.

Già Aristotele aveva segnalato, nella Retorica, il rapporto tra invidia ed eguaglianza, sostenendo che s'invidiano solo quelli che si ritengono eguali.73 Era stato però Tocqueville a mostrare – con La démocratie en Amérique - come, in maniera apparentemente paradossale, l'invidia si rafforzi in funzione del diffondersi dell'eguaglianza. Quando sono macroscopiche, le differenze sociali vengono, infatti, avvertite poco; quando invece si assottigliano, ognuno comincia a chiedersi per quale ingiusto privilegio gli altri, che in linea di principio dovrebbero essere uguali a lui, siano poi, in realtà, più potenti, ricchi, sani o fortunati. Il problema delle società egualitarie diventa allora, in prospettiva, quello di gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le loro promesse non possono essere esaudite, che le aspettative dei cittadini vengono quasi sempre sistematicamente deluse. In linea di principio, le democrazie sono certamente "aperte" alla realizzazione dei desideri individuali, ma, di fatto, non appaiono in grado di soddisfare la maggior parte dei loro cittadini: "Davanti all'ambizione degli uomini sembra aprirsi un campo immenso e facile, ed essi immaginano volentieri di essere chiamati a grandi destini. Ma è una concezione fallace, che l'esperienza corregge ogni giorno: questa stessa eguaglianza, che consente a ogni cittadino di concepire grandi speranze, rende tutti i cittadini individualmente deboli. Permette ai desideri di espandersi, ma al contempo limita da ogni parte le loro forze".74 Per quanto Nietzsche citi Tocqueville solo due volte (e con ammirazione), l'idea che le masse democratiche siano dominate dall'invidia e dal desiderio di livellamento delle differenze sociali gli è già in parte nota attraverso i classici greci ed è tornata alla sua attenzione grazie alle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e, soprattutto, al libro di Raoul Frary, Manuel du Démagogue, che si trova in traduzione tedesca nella sua biblioteca.75 Frary, dopo aver trattato delle passioni atte a essere manipolate dai demagoghi, tra cui la speranza, mostra come l'invidia abbia cessato al suo tempo di essere "bassa e strisciante", per diventare ardita e ostentata: "Essa non mormora più, declama [...]. Non è più una Furia con una capigliatura di vipere: è Nemesi, la dea della vendetta, la sorella maggiore della Giustizia".76 Il ressentiment (misto di desiderio di vendetta e di consapevole impotenza, di amara volontà di negazione della vita e di autoavvelenamento degli animi, fattore di stravolgimento dei valori e di permanente distorsione del giudizio morale) è per Nietzsche destinato a crescere,77 poiché le differenze sociali appaiono un'offesa cui non si riesce a porre rimedio. Esso è una forma debole di volontà di potenza, un conatus a bassa tensione, che schiaccia le energie dell'individuo, ingorgandole e lasciando loro come unica valvola di sfogo le allucinazioni di un'immaginaria vendetta.

Non tollerando ciò che si eleva al di sopra della mediocrità, la coscienza gregaria considera l'“essere zero” del singolo una virtù. L'eguaglianza, che presuppone il confronto sospettoso di tutti con tutti, conduce perciò a negare l'esistenza di qualsiasi superiorità gerarchica fra gli individui e ad abbassare i forti e i migliori allo stesso livello dei meschini e degli invidiosi, i quali considerano tutti gli uomini sostanzialmente uguali, senza pensare che - se la loro materia è la stessa - la loro consistenza è invece profondamente diversa: '"Perché sei così duro!, disse una volta il carbone al diamante; non siamo forse parenti stretti?'" (Z, 264 = 261).

L'aspirazione all'eguaglianza esprime il desiderio di avere sotto di sé degli inferiori, così da esercitare nei loro confronti una gretta volontà di potenza. Se però - in seguito al consolidarsi delle ideologie democratiche e socialiste - non esistono ceti talmente bassi da essere disposti a un'obbedienza servile, allora si denigra chi sta in alto, indebolendo ogni auctoritas, intesa quale riconoscimento spontaneo della superiorità 'verticale' di chi detiene il potere. Dove prevalgono l'invidia e il legame 'orizzontale' dell'eguaglianza (l'eguaglianza dei diseguali), chi sta 'in alto' non è considerato né migliore degli altri, né maggiormente legittimato a comandare. Le cariche elettive, essendo revocabili, dipendono dalla volontà sovrana, 'orizzontale', di chi lo ha provvisoriamente innalzato ai vertici.78 Questo livellamento deprime qualsiasi energia tesa allo sviluppo e favorisce il logoramento e la morte della civiltà. Maurras riassumerà, più tardi, in tre dilemmi un credo politico che estremizza posizioni che Nietzsche avrebbe potuto condividere: L'inégalité ou la décadence! L'inégalité ou l'anarchie! L'inégalité ou la mort! 79 Diventano così fattori di ristagno quei valori politici e morali di libertà ed eguaglianza che avevano rappresentato per Condorcet e per il pensiero rivoluzionario forze propulsive di crescita, manifestazioni visibili del venir meno dei pesi intollerabili che comprimevano la molla-uomo, impedendogli di espandersi e di accelerare il corso degli eventi.80 La democrazia finisce così per apparire solo come regno della mediocrità, regime in cui uomini resi egualmente insignificanti, "zeri sommati", lavorano per procurarsi volgari soddisfazioni, tentando inutilmente di vincere l'amaro disagio che deriva dal basso regime della loro volontà di potenza, incapace di salire i gradini di una vita più alta.

A raggiera

A partire dall'idea, condivisa dalla cultura del tempo, che tutto cominci da un primigenio conflitto di forze selvagge, dal caos o dalla mancanza di senso, la filosofia di Nietzsche racchiude in nuce molti dei problemi che nei decenni successivi verranno dibattuti a livello filosofico, letterario e politico.

Note

1 Nietzsche afferma di essersi dedicato, dopo il suo periodo di filologo a Basilea (dove, per inciso, era collega del paleontologo neolamarckiano L. Rütimer), a studi di "fisiologia, medicina e scienze naturali", cfr. EH, 323 = 334. Una grande importanza per la definizione della sua filosofia ha avuto un allievo di Virchow e di Haeckel, Wilhelm Roux, con il suo libro Der Kampf der Theìle im Organismus. Ein Beitrag zur Vervollständigung der mechanischen Zwecksmässigkeitslehre, uscito a Lipsia nel febbraio del 1881 (su cui si veda S.J. Gould, Ontogeny and Philogeny, Cambridge, Mass. 1977, pp. 194-202). La presenza di Roux è già riscontrabile a partire dai frammenti della primavera-autunno del 1881 (cfr. W Müller-Lauter, Der Organismus als innere Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, in "Nietzsche Studien", vii [1978], pp. 189-223). Si veda, ad esempio, questa annotazione della primavera-autunno del 1883: "Oggi si è riscoperta ovunque la lotta, e si parla di lotta delle cellule, dei tessuti, degli organi, degli organismi" {NF, 5, 11 [128]). Sul tema cfr. anche D. Henke, Nietzsches Darwinismuskritik aus der Sicht gegenwürtiger Evolutionsforschung, in "Nietzsche Studien", xin (1984), p. 199; più in generale cfr., sempre di W. Müller-Lauter, Nietzsche. Seine Philosophie der Gegensätze und die Gegensätze seiner Philosophie, Berlin-New York 1971. In questa prospettiva, previo rifiuto di qualsiasi forma di finalità nella natura, lo sviluppo degli organismi è visto come risultato di una lotta per l'assimilazione e la sopraffazione (così come accade per tutto ciò che è "buono" e "durevole"), come una "sovracompensazione rispetto al consumo". Mediante tale conflitto, la disomogeneità delle cellule e degli organi consegue infine nell'organismo sano un proprio equilibrio autoregolantesi, che non deve però mai irrigidirsi, pena la degradazione e la morte del corpo. Le cellule e gli organi diventano, infatti, in rapporto al tutto, "semplici funzionari, che non hanno più alcun interesse per se stessi, ma si dedicano completamente al servizio, senza di esso non sanno più vivere e dopo il pensionamento si atrofizzano, come accade frequentemente ai vecchi funzionari" (cfr. \V. Roux, Der Kampfder Theile im Organismus. Ein Beitrag zur Vervollständigung der mechanischen Zweckmässigkeitslehre, cit, pp. 64, 224-225). Tra le letture nietzscheane di questo periodo vi sono J.R. Meyer, Die organische Bewegung in ihrem Zusammenhang mit dem Stoffwechsel, del 1845, e M. Forster, Lehrbuch der Physiologie, del 1881. Su Nietzsche, la biologia e la medicina, anche in rapporto a_ concetto di salute, cfr. É. Blondel, Nietzsche, le corps et la culture, Paris 1986: Thomas A. Long, Nietzsche's Philosophy of Medicine, in "Nietzsche Studien", xrx (1990), pp. 112-128; A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito Aspetti del dibattito sull'individualità nell'Ottocento tedesco, cit. e G. Moore Nietzsche, Biology and Metaphor, Cambridge 2002.

2 Cfr. JGB, 63 = 53: "L'anima umana e i suoi confini, l'estensione in generale fino a oggi raggiunta dalle umane intime esperienze, le altitudini, le profondità e le distanze di queste esperienze, l'intera storia, sinora vissuta, dell'anima e le sue non ancora fino in fondo esaurite possibilità: tutto ciò è la predestinata zona di caccia per uno psicologo nato e un amico della 'caccia grossa'". E si veda C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell'anima in Nietzsche. Napoli 1997, pp. XXII-XXIII: "La ripresa dell'ipotesi dell'anima deve, per Nietzsche, rappresentare un vero rovesciamento del platonismo, che non può consistere in una mera inversione di valori, ma, al contrario, nel mostrare qual è il dispositivo all'opera tale da produrre l'inversione dell'esperienza, il passaggio dal visibile all'invisibile, dall'intreccio inestricabile della vita e della morte al registro dell'immortalità. E quindi il rovesciamento del platonismo non si risolve ir. un'apologia del corpo, rispetto al quale l'anima non sarebbe altro che una zavorra metafisica di cui bisognerebbe al più presto liberarsi; rovesciare il platonismo significa, al contrario, riannodare l'anima al corpo, far vedere, con e contro Platone, che, se al fondo dell'anima c'è il corpo, al fondo di quest'ultimo si trova ancora il corpo". Sul peso che ha avuto la nietzscheana rivalutazione del corpo nella filosofia del Novecento, in particolare nella cultura francese contemporanea, cfr. J.-L. Nancy, Corpus, Paris 1992; trad. it. Corpus, Napoli 1995 e S. Berni Per una filosofia del corpo. Heidegger e Foucault interpreti di Nietzsche, Siena 2000, in particolare pp. 37 sgg.

3 Cfr. GD, 66 = 67: "Se si sente la necessità di fare della ragione un tiranno, come fece Socrate, non deve essere piccolo il pericolo che qualche altra cosa si metta a tiranneggiare. A quel tempo si indovinò nella razionalità la salvatrice; né Socrate, né i suoi 'malati' erano liberi di essere razionali - era de rigueur, era il loro rimedio ultimo. Il fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità tradisce una condizione penosa; si era in pericolo, non c'era scelta: o andare in rovina o... essere assurdamente razionali [...]. Si deve essere saggi, perspicui chiari a ogni costo; ogni cedimento agli istinti, all'inconscio, porta a fondo...".

4 NF, 5, 6 [70]. Sulla conoscenza che Nietzsche aveva del libro di Espinas Des sociétés animales, presente in traduzione tedesca nella sua biblioteca, cfr. già Ch. Andler, Nietzsche, sa vie sa pensée, Paris 1958, voi. n, p. 535. Sulla recezione di Taine da parte di Nietzsche, cfr. G. Campioni, Nietzsche, Taine und die décadence, in AA. W, Nietzsche. Cent ans de reception française, Paris 1999, pp 31-45. Su Nietzsche lettore di Ribot, in particolare di Les maladies de la volonté le cui argomentazioni vengono talvolta riprodotte quasi alla lettera (ad esempi: sull'annientamento della volontà nei mistici o nel buddhismo), cfr. H.E. Lampi Flaire du livre. Friedrich Nietzsche und Théodule Ribot, in "Nietzsche Studien”, XVIII (1989), pp. 573-586 (che contiene, alle pp. 578-579, anche un prospetto della presenza di autori, francesi o no, di opere di fisiologia e psicopatologia); Id., Flaire du livre, Zurich 1988, in particolare pp. 42-44 (alcune parti di questo libro sono apparse nell'articolo prima citato). Si veda anche il recente libro di I. Haaz, Les conceptions du corps chez Ribot et Nietzsche, Paris 2002. La lettura delle opere di Ribot da parte di Nietzsche era già stata notata, di passaggio, da Ch. Andler, Nietzsche, sa vie sa pensée, cit., vol. II, pp. 533-534. Sul mutamento continuo a cui la pluralità è sottoposta, cfr. NF, 1, 34 [123]. Il ruolo degli autori francesi nella filosofia di Nietzsche, già sottolineato da Mazzino Montinari, è stato ulteriormente approfondito da Giuliano Campioni, che nel suo ultimo volume riporta in appendice l'elenco di tutti i libri francesi presenti nella biblioteca del filosofo, cfr. Nietzsche, Descartes et l'esprit français, in G. Campioni, Lectures françaises de Nietzsche, Paris 2001.

5 Cfr. Z, 35 = 34: "eine Vielheit mit einem Sinne, ein Krieg und ein Frieden, eine Heerde und ein Hirt". In generale, l'uomo "è una pluralità di forze ordinata secondo gerarchia" (NF, 7, 34 [123]). Sulla struttura del Sé nel giovane Nietzsche, cfr. O.J. Most, Das Selbst des Menschen in der Sicht des jungen Nietzsche, in "Philosophisches Jahrbuch", lxxiii (1965/1966), pp. 105-136.

6 JGB, 71 = 60 e cfr. JGB, 23-24 = 20: "Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione 'io penso', ho come una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile - come per esempio che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un'attività e l'effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un 'io', infine, che sia già assodato che cos'è caratterizzabile in termini di pensiero - che io sappia che cos'è 'pensare'". Ciò che posso dedurre dal cogito non è l'ego. Posso solo affermare: cogito ergo cogitationes sunt. Per inciso, al pari di molti altri interpreti, anche Nietzsche confonde il cogitare con il "pensare" mentre - come risulta chiaro dalla seconda delle Meditazioni di Cartesio - non si tratta di puro pensiero, perché colui che cogita "è una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole e che non vuole, che immagina anche, e che sente" (M, 28 = 675). Sul senso del cogitare come co-agitare, si veda già Agostino, Conf., X, 11, 18. Sull'anima come sostanza, cfr. R. Descartes, Réponse aux troisièmes objections, in AT, IX, 136 = 779-780. Ma cfr. A. Kemmerling, Ideen des Ichs. Studien zu Descartes' Philosophie, Frankfurt a. M. 1996 e K.S. Ong-Van-Kung, Descartes a-t-il identifié le sujet et la substance à l'ego?, in AA. W., Descartes et la question du sujet, a cura di K.S. Ong-Van-Kung, Paris 1999, pp. 133-165.

7 JGB, 24 = 21. Su Nietzsche critico di Cartesio si è giustamente osservato: "L'astratta indubitabilità di me, che assorbe la stessa forza del dubbio iperbolico che la vorrebbe mettere in questione, e la trasforma nella propria arma invincibile, si circonda di difese apparenti, trincerandosi in un'immediatezza che non ha luogo, se non nel vuoto di un'esperienza puramente verbale [...] nessuno è mai se stesso come presenza a sé. Piuttosto ciascuno è sempre in cammino verso se stesso [...]. L'io di ciascuno - doverosamente minuscolo, a questo punto - è così sempre in transito verso un sé che non è mai, anziché costituire un punto di certezza assoluta" (M. Ruggenini, La fede nell'io e la fede nella logica. La questione onto-logico-grammaticale dell'io nel pensiero di Nietzsche, in AA. W., Il destino dell'io, a cura di G. Severino, Genova 1994, p. 114). Sulle implicazioni "grammaticali" del dire io, cfr. E. Holenstein, Menschliches Selbstverständnis. Ichbewußt-sein. Intersubjektive Verantwortung. Interculturelle Verständigung, Frankfurt a.M. 1985, pp. 59-76.

8 JGB, 71 =60. Nell'"appercezione" kantiana (coscienza di sé, distinta dalla "percezione" in quanto rappresentazione cosciente) si spezza l'equazione cartesiana: fio penso" non coincide più con l'"io sono" e neppure conduce a esso. È, appunto, una "x" vuota di contenuto (un "io, egli, o esso [Es] (la cosa) che pensa", cfr. KdrV, A 346 = B 404). Sull'"io penso" come ciò che "deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni" cfr. K. Cramer, Uber Kants Satz: Ich denke, muß alle meine Vorstellungen begleiten können, in Theorie der Subjektivität, a cura di K. Cramer, H.F. Fulda, R.-P. Hortstmann e U. Pothast, Frankfurt a. M. 1986, pp. 167-202. Secondo J. Rogozinski, Der Aufruf des Fremden. Kant und die Frage nach dem Subjekt, in Die Frage nach dem Subjekt, a cura di M. Frank, G. Raulet e W. van Reijen, Frankfurt a. M. 1988, p. 203, ciò che manca a Cartesio è l'idea kantiana di "personalità" come coscienza dell'identità in tempi diversi. Considerare l'io come sostanza è un paralogismo, il primo esaminato da Kant: "Anima immortale, soggetto assoluto, identità della persona - tutte espressioni senza senso. Del 'soggetto' non rimane niente, se non, nel migliore dei casi, il suo significato logico o grammaticale. Ma della categoria ontologica di soggetto non è più possibile alcun uso critico o regolativo".

9 Cfr. G.Ch. Lichtenberg, Aphorismen, a cura di A. Leitzmann, Berlin 1908, vol. V, p. 128. Per Mach cfr. supra, p. 255. Per Lacan, cfr. supra, pp. 256, 282. Analogie su questi pensieri che vengono da sé, senza essere chiamati, si possono riscontrare in Dostoevskij, cfr. S. Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello, cit., p. 228.

10 M, 250 = 203-204. In maniera analoga, si potrebbe dire che le opere di Tai-ne, Espinas o Ribot hanno rappresentato per Nietzsche il suolo dal quale, come "giardiniere" ha fatto crescere le sue piante. Per altre immagini della figura del "giardiniere", come colui che si prende cura di qualcuno o di qualcosa, cfr. F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell'Altro in Nietzsche, Bari 2000.

11 Cfr. EH, 292 = 302. Sulla funzione dell'inconscio e degli strati profondi della coscienza, cfr. C.R. Weismuller, Das Unbewußte und die Krankheit. Eine kritische kommentierte Darstellung der "Philosopie des Unbewußten " Eduard von Hartmanns in Hinblick auf den Krankheitsbegriff, Essen 1985; F. Gerratana, Der Wahn jenseits des Menschen. Zur frühen E. von Hartmann-Rezeption Nietzsches (1869-1874), in "Nietzsche Studien", xvii (1988), pp. 391-433 e L. Cormann, Nietzsche psychologue des profondeurs, Paris 1982; M. Haar, La critique nietzschéenne de la subjectivité, in Genèse de la conscience moderne, a cura di R. Ellrodt, Paris 1983, pp. 334-360; M. Gauchet, L'inconscient cérébral, cit., pp. 112-130. Pur non apprezzandone la personalità morale, di Eduard von Hartmann Nietzsche valuta positivamente la Filosofia dell'inconscio. Scrive, infatti, a Rohde l'11 novembre 1869: "Lo leggo molto, perché sa bene tante cose ed è capace di intonarsi a dovere all'antichissimo canto delle Nome sulla maledizione dell'esistenza" (KWB, II/1, 73 = 71).

12 Sulle implicazioni psicologiche del tema della pluralità delle "anime" in Nietzsche, cfr. H.M. Zöllner, Die Aspektvielfalt der seelischen Welt. Nietzsches Bedeutung für die Psychologie, Zurich 1972.

13 NF, 5, 11 [183]. La numerazione dell'edizione tedesca non corrisponde a quella italiana.

14 Cfr. J. Paumen, Trois rédemptions du moi. Pascal, Nietzsche, Proust, Bruxelles 1997, p. 111. Per valutare il pathos che il corpo suscita nella riflessione di Nietzsche, si veda NF, 7, 37[4]: “Non si finisce mai di ammirare, considerando come il corpo umano sia divenuto possibile; come una tale enorme unione di esseri viventi, ciascun dipendente e sottomesso, e tuttavia in certo senso a sua volta imperante e agente con volontà propria, possa vivere, crescere e sussistere per qualche tempo come un tutto; e ciò avviene chiaramente non grazie alla coscienza!".

15 NF, 8, 1 [58]: eine Vielheit von "Willen zur Macht" jeder mit einer Vielheit von Ausdrucksmitteln und Formen. Non esiste dunque la volontà di potenza: esistono tante volontà di potenza. Cfr. anche F. Moiso, La volontà di potenza di Friedrich Nietzsche. Una riconsiderazione, in "aut-aut", n. 253 (1993), pp. 119-136.

16 Cfr. W. Roux, Der Kampf der Theile im Organismus. Ein Beitrag zur Vervolständigung der mechanischen Zweckmässigkeitslehre, cit., p. 1.

17 Cfr. NF, 7, 34 [123]: "L'uomo è una pluralità di forze che sono ordinate secondo una gerarchia, sicché ci sono elementi che comandano; ma anche chi comanda deve fornire a coloro che obbediscono tutto ciò che serve alla loro conservazione, ed è pertanto egli stesso condizionato dalla loro esistenza. Tutti questi esseri viventi devono essere di specie affine, altrimenti non potrebbero in tal modo servirsi e obbedirsi a vicenda; coloro che servono devono, in un certo senso, essere anche coloro che obbediscono, e in casi più sottili i diversi ruoli si scambiano provvisoriamente tra loro e colui che di solito comanda deve talvolta ubbidire. Il concetto 'individuum’ è falso. Questi esseri non vivono affatto isolatamente [...]".

18 NF, 8, 9 [159] e cfr. NF, 8, 2 [104]: nel mondo greco aristocratico "si comandava e basta". E cfr. anche PHG, 37 sgg. = 41 sgg.; GD, 63-64 = 64-66 (sulla "malvagità da rachitico" di Socrate e sulla dialettica come una forma di "vendetta"). Si veda, inoltre, FV, 259-260 = 224. Per alcuni di questi passi, cfr. A. Masso-Io, La storia della filosofia e il suo significato, in La storia della filosofia come problema, Firenze 1967, pp. 41 sgg. Il risentimento contiene anche il desiderio represso di essere riconosciuti dall'altro e, quindi, la confessione della propria inferiorità. In questo senso il risentimento è l'emozione provata da chi, volendo imitare un modello, non riesce a raggiungere la meta alla quale anche l'altro aspira, quella "risacca del desiderio" - come la chiama René Girard -, del "ritorno cioè su noi stessi del nostro desiderio di essere secondo l'altro" (S. Tomelleri, Introduzione a R. Girard, Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo, Milano 1999 [raccolta di tre saggi: Pour un nouveau procès de l'étranger, Système du delire (Paris 1976) e Eating Disorders and Mimetic Desire, © R. Girard 1996], p. 16). Pur riconoscendo che Nietzsche ha avuto "il merito di staccare il desiderio da qualunque oggetto", Girard gli rimprovera di averlo considerato al di fuori del quadro mimetico, del suo essere sempre desiderio di un desiderio altrui: "Dì fronte al risentimento, Nietzsche pone un desiderio originale e spontaneo, un desiderio causa sui che lui chiama 'volontà di potenza'. Ma se il desiderio non ha alcun oggetto che gli sia proprio, su che cosa potrà mai esercitarsi la volontà di potenza? A meno di non ridursi a degli esercizi di sollevamento di pesi mistico, si eserciterà necessariamente su oggetti valorizzati dal desiderio altrui" (R. Girard, Pour un nouveau procès de l'étranger, cit.; trad. it. L'anticonformista, in Id., Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo, cit., pp. 97-98). Dato che il desiderio mimetico è insito nel rapporto originario di ogni uomo con l'altro, anche il risentimento - sostiene Girard contro Nietzsche - non è prerogativa dei deboli e degli schiavi.

19 NF. 7. 34 11231: "das centrale Schwereewicht. […] etwas Wandelhares" e cfr. W. Müller-Lauter, Der Organismus als innerer Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, cit., p. 217.

20 Aggiunge Nietzsche che si tratta, certo, di "una aristocrazia di pares che sono abituati a governare tra loro e sanno comandare" (NF, 7, 40 [42]) e che nor. sono necessariamente sottoposti a un monarca assoluto, all'unità monolitica del soggetto.

21 Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano 20006, pp. 315 sgg.

22 Lettera a M. von Meysenbug, 5 <6> aprile 1873, in KWB, II/3, 143 = II, 446.

23 Cfr. J.G. Fichte, Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehrt [1797], in GA, Sezione I, vol. IV, pp. 275 sgg., su cui cfr. D. Henrich, Fichtes ursprüngliche Einsicht, Frankfurt a.M. 1967, pp. 14 sgg. (il quale però sostiene che "tutta la coscienza è determinata dalla coscienza immediata del nostro Sé") e A. Ferrarin, Autocoscienza, riferimento all'io e conoscenza di sé. Introduzione a un dibattito contemporaneo, in "Teoria", XII (1992), pp. 111-152.

24 Che l'uomo pensasse anche senza sapere di saperlo, che vi fosse - per usare un'espressione di Merleau-Ponty - un cogito tacite era un tema già trattato da Platone (Theaet., 165 b; 197 b-198 d) e da Plotino (cfr. Enn., IV, 3, 30: "Una cosa è pensare, un'altra percepire il proprio pensiero. Noi pensiamo sempre, ma nor. percepiamo sempre il nostro pensiero"). Lo stesso Plotino è stato il primo a riconoscere nella nóesis noéseos, nel "pensiero del pensiero" del Dio di Aristotele una duplicazione all'infinito, cfr. Enn., n, 9, 1. Già Goethe, del resto, si vantava di non aver mai considerato il pensiero oggetto del suo pensiero (cfr. G. Simmel KuG, 23). Nella Wissenschaftslehre nova methodo (del 1798, un anno dopo il Versuch einer Darstellung der Wissenschaftslehre) Fichte, riaffermando che l'autocoscienza si coglie come un'attività e non come un dato inerte, nega che nel suo sistema si produca un'iterazione all'infinito o che, comunque, essa abbia un qualche rilievo, dato che l'unità di soggetto e oggetto nella coscienza ha luogo grazie all'intuizione intellettuale di un io che agisce in se stesso.

25 Cfr. NF, 5, 11 [185] [non corrisponde alla numerazione dell'edizione italiana]: "L'egoismo è tardo e pur sempre qualcosa di molto raro: i sentimenti del gregge sono più forti ed antichi!". In contrasto con l'atteggiamento mimetico dei molti, Oscar Wilde aveva colto, alla sua maniera, il bisogno di un io da affermare attraverso tutti i suoi mutamenti: "Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi - ecco la ragione d'essere di ognuno di noi. Gli uomini oggi hanno paura di se stessi. Hanno dimenticato i doveri più sacri; quelli che si hanno verso di sé [...]. Ma anche il più coraggioso di noi ha paura di se stesso. Le automutilazioni del selvaggio si ritrovano tragicamente nell'autorepressione che martirizza la nostra vita. Siamo puniti per quel che rifiutiamo a noi stessi. Ogni impulso che tentiamo di soffocare, germoglia nella mente, e ci intossica" (O. Wilde, The Picture of Dorian Gray [1891], in Works, z cura di R. Ross, London-Paris 1908, vol. XIV; trad. it. Ti ritratto di Dorian Gray Milano 1989, pp. 52, 53).

26 Cfr. NF, 8, 1 [72]: "Il fatto che il gatto uomo cada sempre sulle sue quattro zampe, volevo dire sulla sua unica zampa 'io', è solo un sintomo della sua 'unità o piuttosto 'unificazione', fisiologica; non un motivo per credere a una 'animi unitaria'". Sulla radicale svolta imposta da Darwin al pensiero umano con la teoria della selezione naturale rispetto a quanti (Locke e Hume compresi) non riuscivano a concepire il mondo senza una mente che lo avesse progettato e creato, cfr. D.C. Dennett, Darwin's Dangerous Idea. Evolution and the Meaning of Life, cit., pp. 31-40.

27 Per la storia di questo concetto, cfr. S. Lukes, Individualism, Oxford 1971; R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, cit.; L. Bayerl, Individualität und Individuation im deutschen Idealismus, Essen 1988; A. Laurent, Histoire de l'individualisme, Paris 1993; trad. it. Storia dell'individualismo, Bologna 1994; E. Pulcini, L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita dei legami sociali, Torino 2001. Lukes, in particolare, mostra come il termine "individualismo" compaia, verso la fine degli anni venti dell'Ottocento, contemporaneamente in De Maistre e in Saint-Simon per definire, rispettivamente, la chiusura egoistica dell'uomo in se stesso e l'opposto speculare del "socialismo". In origine, dunque, esso designa tutto ciò che nega il socialismo e la solidarietà tra gli uomini. Ma è con Tocqueville che questo vocabolo ottiene la sua piena legittimazione, nel secondo volume di La démocratie en Amérique (1840), in cui si registra la seguente definizione: "Termine recente, originato da un'idea nuova. I nostri padri non conoscevano che T'egoismo'". A differenza di quest'ultimo, "antico quanto il mondo", l'individualismo è "un sentimento ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo cittadino ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi creato una piccola società per conto proprio, abbandona volentieri la grande società a se stessa" (A. de Tocqueville, DA, II, 569).

28 Sebbene spesso gli operai vengano considerati i barbari moderni, essi non sembrano a Nietzsche in grado di assumere quelle caratteristiche che li porteranno a costituire una futura aristocrazia. Non sono, infatti, abbastanza barbari, come lo è sempre ogni casta aristocratica, che, ai suoi inizi, si avventa sui più deboli per asservirli, cfr. W. Müller-Lauter, La volontà de puissance comme organisation, mise en forme, machinalisation, in Id., Nietzsche. Physiologie de la Volonté de puissance, Paris 1998, pp. 172-173. Sulla "crudeltà", rappresentata dal "barbaro", cfr. F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell'Altro in Nietzsche, cit. In base a una personale lettura delle discussioni contemporanee sull'atavismo, la crudeltà si conserva negli individui come un elemento arcaico: "Gli uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà precedenti: la giogaia dell'umanità mostra qui per la prima volta apertamente le formazioni più profonde, che rimangono di solito celate. Sono uomini arretrati il cui cervello, per tutti i possibili casi nel decorso del processo ereditario, non ha continuato a svilupparsi così delicatamente e molteplicemente. Essi ci mostrano ciò che eravamo tutti, e ci fanno spaventare; ma essi stessi sono così poco responsabili, quanto un pezzo di granito lo è per il fatto di essere granito. Nel nostro cervello devono trovarsi anche solchi e piegature che corrispondono a quel modo di sentire, così come si dice che nella forma di alcuni organi umani si trovino ricordi del nostro stato di pesci. Ma questi solchi e piegature non sono più il letto in cui scorre attualmente il fiume del nostro sentimento" (MA, I, 64 = 52).

29 "Come si spiega che proprio la volontà di potenza soccomba di fronte agli istinti gregari?" (M. Ferraris, Storia della volontà di potenza, Postfazione a F. Nietzsche, FVP, 582).

30 NF, 7, 37 [4]. Sul "filo conduttore del corpo" cfr., in generale, H. Schipper-ges, Am Leitfaden des Leibes. Zur Anthropologie und Therapeutik Friedrich Nietzsches, Stuttgart 1975 e P. Wotling, Nietzsche et leproblème de la civilisation, Paris 1995, pp. 83.108.

31 Cfr. NF, 5, 11 [21] (con numerazione 11 [39] nell'edizione italiana): "Trasformare il sentimento dell'io! Indebolire l'inclinazione personale!". Sull'Übermensch si vedano, da ultimo, G.K. Lehmann, Der Übermensch. Friedrich Nietzsche und das Scheitem der Utopie, Berlin 1993 e A. Pieper, "Ein Seil geknüpft zwischen Tier und Übermensch". Philosophische Erläuterungen zu Nietzsches erstem "Zarathustra", Stuttgart 1990; G. Visser, Nietzsches Übermensch. Die Notwendigkeit einer Neubesinnung auf die Frage nach dem Menschen, in "Nietzsche Studien", xxviii (1999), pp. 100-124. Il termine Übermensch non è spiegato da Nietzsche perché esisteva già nella tradizione. Compare infatti in Germania sin dal 1664 con Heinrich Müller e si ritrova poi in Herder, Jean Paul e Goethe, cfr. W. Kaufmann, Nietzsche Philosopher, Psychologist, Antichrist, New York 1968, p. 307.

32 NF, 8, 10 [118]: "und sich zum Vortheil umzuwandeln weiß".

33 Da qui, malgrado il fatto che la potenza (Macht) non sia violenza (Gewalt), il trasformarsi talvolta di Nietzsche in un "Attila metafisico" (questa definizione di Nietzsche è stata data nel 1927 da Leon Daudet, cfr. G. Campioni, Nietzsche, Descartes e lo spirito francese, in AA. W., La trama del testo. Su alcune letture di Nietzsche, a cura di M.C. Fornari, Lecce 2000, p. 4 [il testo, lievemente rielaborato, si trova anche in edizione francese: Nietzsche, Descartes et l'esprit francais, in G. Campioni, Lectures francaises de Nietzsche, cit., pp. 9-50]). E questo a causa della sua esaltazione della guerra e della propensione a sacrificare "molti uomini", dato che le sofferenze dei mediocri non si sommano, dando zero come loro risultato (cfr. H. Mann, The Living Thought of Nietzsche [New York-Toronto 1939; ed. ted. Nietzsches unsterbliche Gedanken, Berlin 1992]; trad. it. Nietzsche, Milano 1993, pp. 45-48). Jean Améry, che aveva conosciuto ad Auschwitz cosa fosse la crudeltà, definisce Nietzsche "l'uomo che sognava una sintesi del bruto con il superuomo". E aggiunge, in Intellettuale ad Auschwitz. "Gli devono rispondere coloro che sono stati testimoni dell'unione del bruto con il subumano; essi erano presenti nel ruolo di vittime quando una certa umanità celebrava gioiosamente la festa della crudeltà, come Nietzsche stesso la definì" (citato in J. Glover, Humanity, © Jonathan Glover 1999; trad. it. Humanity, Milano 2002, p. 62).

34 JGB, 26 = 23. Cfr. JGB, 26-27 = 23: "Noi siamo allo stesso tempo chi comanda e chi obbedisce".

35 NF, 8, 11 [414], Sulle metafore nautiche riferite al rischio e all'imbarcarsi in Nietzsche e in generale, cfr. H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt a.M. 1979; trad. it. Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell'esistenza, Bologna 1985, pp. 42 sgg. (e l'introduzione al volume di R. Bodei, Distanza di sicurezza, pp. 17 sgg.).

36 A tal proposito meritano di essere riportate alcune acute osservazioni di Simmel: "Ma tra Schopenhauer e Nietzsche c'è Darwin. Mentre Schopenhauer si arresta alla negazione del fine ultimo e perciò solo la negazione della volontà di vita in genere può rimanere come conseguenza pratica, Nietzsche rintraccia nel fatto dell'evoluzione del genere umano le possibilità di un fine, che permette che la vita si affermi di nuovo". In Schopenhauer "l'assenza di ogni pensiero dell'evoluzione confina il mondo e l'umanità in una desolata e perenne uniformità", per questo egli "conosce solo un singolo, assoluto valore: non vivere, così Nietzsche parimenti ne conosce soltanto uno: vivere" (SN, 20, 24, 197). Sul senso che la filosofia di Schopenhauer assume per Nietzsche, si veda, da ultimo, Ch. Janaway, Self and World in Schopenhauer's Philosophy, cit., pp. 317 sgg.

37 M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, a cura e con una nota di G. Campioni, Milano 1999, p. 134 e cfr. M, 322-323 = 259.

38 Solo in questa prospettiva Heidegger ha ragione nell'affermare che per Nietzsche "la volontà non è altro che volontà di potenza, e la potenza non è altro che l'essenza della volontà. La volontà di potenza è allora volontà di volontà, cioè è volere se stesso" (N, 49). Sulla volontà di potenza si veda supra, pp. 95 sgg.

39 Cfr. F. Nietzsche, NF, 8, 7 [25]: "Darwin sopravvaluta fino all'inverosimile l'influsso delle 'circostanze esterne'; l'essenziale del processo vitale è proprio l'enorme potere creatore di forme dall'interno che usa, sfrutta le 'circostanze esterne'". In natura, infatti, "non è l'estrema angustia a dominare, ma la sovrabbondanza, la prodigalità spinta fino all'assurdo". La "lotta per la vita" è solo un'accezione", che si verifica là dove la "volontà della vita" deve affermarsi in circostanze più difficili (H. Althaus, Nietzsche. Eine burgerliche Tragödie, Munchen 1985; trad. it. Nietzsche. Una tragedia borghese, Roma-Bari 1994, p. 395). Nietzsche, osserva ancora Althaus, "era straordinariamente sensibile alla teoria dell'ereditarietà, per via delle sue origini e della sua situazione personale. Essa poteva contribuire a chiarire la storia della sua vita e delle sue sofferenze fisiche. Così, egli non poteva aver dubbi circa il carattere ereditario dei suoi mal di testa, dato che suo padre era morto, a quel che si diceva, per una malattia cerebrale. La teoria darwiniana dell'ereditarietà offriva nuove idee, allora assai di moda, come dimostra proprio la 'scuola del naturalismo'. Ciò che Nietzsche, risoluto antinaturalista, sfrutta della teoria darwiniana della selezione per il suo Zarathustra era perfettamente all'altezza dei tempi ed era legittimato, dal punto di vista darwiniano, dall'idea dell"allevamento selettivo', nel senso di una accentuata selezione. Se con i 'naturalisti', con Ibsen, Zola, Strindberg, egli condivide l'idea del matrimonio borghese come fenomeno di decadenza, come istituzione che aliena l'uomo dà sé, non ne vede però colpito il matrimonio in sé, purché, invece di propagare l'uomo orizzontalmente, lo propaghi verso l'alto, in una specie più elevata" (ivi, p. 458). Per l'interpretazione nietzscheana di Darwin, cfr. C. Dong-Ho, Nietzsches Auseinandersetzung mit dem darwinistischen Evolutionismus in seinen Bemühen um die Gewinnung eines neuen Menschenbildes (Inaugural-Dissertation), Freiburg i.B. 1980 e, più in generale, A. Kelly, The Descent of Darwin. The Popularization of Darwinism in Germany, 1860-1914, Chapel Hill 1981 e P. Bowler, The Eclipse of Darwinism. Anti-Darwinian Evolution Theories in the Decades around 1900, Baltimore and London 1985; B. Stiegler, Nietzsche lettore di Darwin, in AA. W., La trama del testo. Su alcune letture di Nietzsche, cit., pp. 283-328.

40 Cfr. NF, 7, 7 [21]. A chi vorrebbe "il livellamento dell'umanità, grandi formicai", Nietzsche contrappone, nella primavera-estate del 1883, un suo progetto: "Il mio movimento è, al contrario, l'inasprimento di ogni contraddizione e scissione, l'eliminazione dell'uguaglianza, la creazione di superpotenti. Quel movimento genera l'ultimo uomo. Il mio superuomo. Il fine NON è assolutamente quello di concepire i secondi [i superuomini] come i signori dei primi [gli uomini, gli appartenenti ai formicai]: le due specie devono sussistere l'una accanto all'altra - il più possibile separate; l'una, come gli dèi di Epicuro, non curandosi dell'altra" (e cfr. P. Wotling, Nietzsche et le problème de la civilisation, cit., pp. 342-344). Nietzsche è ovviamente contrario sia al principio cristiano che tutti gli uomini sono "uguali davanti a Dio", sia alle sue successive riformulazioni dell'eguaglianza in chiave politica. Perché qualcosa abbia valore occorre un gradino inferiore su cui possa elevarsi. Contro ogni retorica egualitaria si deve sempre distinguere la qualità degli uomini: "Che l'anima di ogni povero diavolo, di ogni piccolo straccione e mentecatto debba avere lo stesso valore metafisico di quella di Michelangelo e Beethoven, questo è il punto di separazione delle concezioni generali del mondo" (ivi, p. 216). Quale differenza con le posizioni di Hegel, che - pur esaltando l'opera degli individui che hanno impresso il loro sigillo sulla storia del mondo - non manca di aggiungere che "la religiosità, la moralità di un ristretto tipo di vita - quella di un pastore, di un contadino -, nella sua concentrata interiorità, nel suo restringersi a pochi e affatto semplici rapporti di vita, ha un valore infinito, lo stesso valore di quello proprio della religiosità e moralità di un'esperienza evoluta, di un'esistenza ricca di relazioni e d'azioni (PhdWG, I, 88 = I, 102)!

41 Cfr. NF, 7, 16 [63]: "Il pensiero più grande produce il suo effetto nel mode più lento e tardivo! Il suo effetto più immediato è un surrogato della fede nell'immortalità: aumenta la buona volontà di vivere? Forse quel pensiero non è vero: - che altri lottino con esso". E cfr. NF, 5,11 [268]: "La mia teoria dice: vivere in modo tale che tu debba desiderare di rivivere, questo è il compito - e in ogni caso rivivrai!". Già Jaspers aveva attirato l'attenzione sulla funzione di selettore del pensiero dell'eterno ritorno: Nietzsche "ritiene che, sotto il peso del pensiero dell'eterno ritorno, si attui una separazione: coloro che non lo sopportano periranno, mentre coloro che davanti a esso pervengono al loro incondizionato sì alla vita saranno costretti a elevarsi" (K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Denkens [Berlin 1935], Berlin-New York 1974; trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Milano 1996, p. 327). Sul ruolo della volontà, cfr. anche G. Abel, Nietzsche. Die Dynamik des Willem zur Mach: und die ewige Wiederkehr, Berlin-New York 1984. All'eterno ritorno aveva accennato - tra i tanti autori - anche G. Le Bon in L'homme et les sociétés, Paris 1881 (cfr. Ch. Andler, Nietzsche, sa vie sa pensée, cit., vol. II, pp. 421 sgg. e W.D. Williams, Nietzsche and the French, Oxford 1952, pp. 109 sgg.; non esistono prove, tuttavia, che Nietzsche avesse effettivamente letto questo libro di Le Bon). Mazzino Montinari ha giustamente osservato che "non si può affermare con sicurezza che Nietzsche 'credesse' nell'eterno ritorno delle stesse cose. Nei manoscritti la certezza si alterna al dubbio; nello Zarathustra la teoria viene, più che dimostrata, enunciata in forma di simboli" (M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, cit., p. 122). Per Montinari i concetti di eterno ritorno o di volontà di potenza sono "idee-limite", che non bisogna sistematizzare a ogni costo, altrimenti si finisce per non capire più nulla. Occorre, anche nel senso di Heidegger, tener conto del fatto che "l'eterno ritorno dell'eguale rimane bensì per Zarathustra una visione, ma enigmatica. Essa non si lascia dimostrare né confutare su basi logiche o empiriche. Questo vale fondamentalmente per ogni pensiero essenziale di ogni pensatore: visione, ma anche enigma: degno d'interrogazione [fragwürdig; alla lettera: problematico]" (M. Heidegger, Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in VA, 78 e cfr. S. Giametta, Nietzsche, il poeta, il filosofo, il moralista. Saggio su "Così parlò Zarathustra", Milano 1991, pp. 90-95). Certo, come è stato messo in rilievo da diversi studiosi, Nietzsche ritiene - attraverso le letture di Vogt, di Nageli e, più tardi, di Blanqui - che "il mondo delle forze" non subisce diminuzione, che non sta mai in equilibrio, per cui tutto è eterno e le stesse combinazioni si sono ripetute innumerevoli volte. In ogni caso, vale la pena ricordare le avvertenze che Nietzsche elenca per l'interpretazione di questo concetto, in particolare la seguente: "Guardiamoci dal pensare come divenuta la legge di questo circolo, secondo la falsa analogia dei movimenti circolari dentro l'anello. Non vi è stato prima un caos e poi, gradualmente, un movimento più armonico e infine uno stabilmente circolare di tutte le forze: piuttosto tutto è eterno, indivenuto: se vi fosse stato un caos delle forze, sarebbe stato eterno anche il caos e sarebbe tornato in ciascun anello. Il corso circolare non è nulla di divenuto, esso è la legge originaria, allo stesso modo che la quantità di energia è la legge originaria, senza eccezione e prevaricazione" (NF, 5, 11 [258]) [la numerazione italiana del frammento non corrisponde a quella tedesca]). E cfr. NF, 8, 14 [188]: "Il mondo sussiste, esso non è niente che divenga, niente che perisca. O piuttosto: diviene, perisce, ma non ha mai cessato di divenire e non ha mai cessato di perire - si conserva nelle due cose... Vive di se stesso, si nutre dei suoi escrementi". Tra le fonti di Nietzsche da non trascurare è lo Schopenhauer del § 54 del Mondo come volontà e rappresentazione, laddove il tempo viene paragonato a una ruota che gira, in cui la metà discendente rappresenta il passato, quella ascendente il futuro, mentre il punto di tangenza con il terreno è il presente indivisibile, che non è trascinato dalla rotazione.

42 Cfr. K. Schlechta, Nietzsches großer Mittag, Frankfurt a. M. 1954; trad. it. Nietzsche e il grande meriggio, Napoli 1981.

43 Cfr. Z, 196 = 192: "Guarda, continuai, quest'attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un'eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse aver percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere già essere accadute? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenute? Dunque - anche se stesso?". In particolare, per gli aspetti cosmologici dell'idea di eterno ritorno, si veda P. D'Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell'eterno ritorno in Nietzsche, Genova 1995, pp. 27-175. Come ha notato Graziano Biondi, la funzione dell'attimo nella struttura complessiva del capitolo La visione e l'enigma è subordinata alla vittoria sulla repulsione per il serpente e alla riaffermazione del valore della vita, pur con tutto il suo carico di sofferenza. Il morso della serpe e il successivo sorriso del pastore "esprime, in forma drammatica, la prova iniziatica della morte, costituita dall'incontro con la serpe, senza la quale non può esservi la rinascita. Il pastore sputa infatti la testa del serpente, perché il serpente non significa l'eterno ritorno, ma il veleno della morte. Rifiutando la morte, il pastore può rinascere e tornare ad amare la vita: impara a gustare le cose a partire dall'esperienza di un disgusto completo" (G. Biondi, L'enigma della serpe secondo Nietzsche, Roma 2001, p. 183). Sull'eterno ritorno come volontà di potenza proiettata apparentemente in avanti, ma in realtà rivolta all'indietro, dato il carattere circolare del movimento del divenire, la cui natura Nietzsche cerca di preservare attraverso questa vertiginosa idea, cfr. E. Severino, L'anello del ritorno, Milano 1999.

44 G. Vattimo, Nichilismo e problema della temporalità, in Id., Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Milano 2000, p. 40. Questa soluzione, che considera l'attimo come ciò che dirime, piuttosto che ciò che unifica, le tre dimensioni del tempo (passato, presente e futuro), mi sembra preferibile a quella, pur estremamente acuta, di Deleuze, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Paris 1962; trad. it. Nietzsche e la filosofia, Milano 1992, pp. 76-77: "L'attimo non potrebbe mai passare se non fosse nel contempo passato e presente, presente e futuro. Se il presente non contemplasse di per sé un passare ma avesse bisogno di un nuo vo presente per diventare passato, mai potrebbe il passato costituirsi nel tempo, né il presente potrebbe passare. Non ha perciò senso parlare di attesa: affinché l'attimo passi (a vantaggio di altri attimi) è necessario che esso contempli al proprio interno il presente, il passato e il futuro, ossia che il presente coesista con se stesso in quanto passato e in quanto futuro. Il rapporto sintetico che l'attimo ha con se stesso in quanto presente, passato e futuro fonda il rapporto con altri attimi. L'eterno ritorno è così la risposta al problema del passare; esso non va perciò interpretato come ritorno di qualcosa, di uno o di un medesimo". Tale interpretazione verrà in seguito ulteriormente elaborata dallo stesso Deleuze (e da Foucault) in Differenza e ripetizione: "Concepire l'eterno ritorno come pensiero selettivo, e la ripetizione dell'eterno ritorno come l'essere selettivo, costituisce la prova più alta. Bisogna vivere e concepire il tempo fuori dai suoi cardini, il tempo in linea retta che elimina spietatamente coloro che vi si imbarcano, che non ripetono se non una volta per tutte [...]. Non soltanto l'eterno ritorno non fa tutto tornare, ma fa perire coloro che non sopportano la prova [...]. L'eterno ritorno è l'identità interna al mondo, il Caosmo [...]. Come credere che [Nietzsche] cadesse nell'idea insulsa e falsa di un'opposizione tra un tempo circolare e un tempo lineare, un tempo antico e uno moderno?" (G. Deleuze, Différence et répétition, Paris 1968; trad. it. Differenza e ripetizione, Bologna 1971, pp. 473-474). Così Foucault ritraduce efficacemente il pensiero di Deleuze: "Il tempo è ciò che si ripete; e il presente - trafitto da questa freccia dell'avvenire che lo porta deportandolo di continuo da parte a parte - non cessa di ritornare. Ma di ritornare come singolare differenza; ciò che non torna è l'analogo, il simile, l'identico. La differenza torna; e l'essere che si dice nello stesso modo della differenza, non è il flusso universale del Divenire, non è neppure il ciclo ben centrato dell'Identico; l'essere è il ritorno sciolto dalla curva del cerchio; è il Rivenire [...]. Nella sua frattura, nella ripetizione, il presente è un lancio di dadi" (M. Foucault, Theatrum philosophicum, Introduzione a G. Deleuze, Différence et répétition, cit., p. xxn). Per alcuni aspetti della lettura deleuziana di Nietzsche, cfr. J. Winfree, The Repetition of Eternal Return, or the Disastrous Step, in "Pli: The Warwick Journal of Philosophy", XI (2000), pp. 12-31.

45 Da notare che il ritrovamento spontaneo del "centro di gravità" è ciò che caratterizza per Kleist il movimento elegante e inconscio (non "turbato dalla coscienza" e governabile a partire da questo stesso centro) delle marionette che danzano rispetto alla goffaggine degli atteggiamenti umani (cfr. H. von Kleist, Über das Marionettentheater, in Sämtliche Werke und Briefe, Munchen 1974, vol. v, pp. 71-78). Kant non avrebbe certo condiviso una simile prospettiva, dato che la libertà dell'individuo nel mondo è garantita solo se l'uomo non è una "marionetta, un automa di Vaucanson, fabbricato e caricato dal maestro supremo di tutte le arti" (KpV, 265 = 123). Da un'altra angolazione, il rapporto tra Nietzsche e Kleist è stato colto da G. Pasqualotto, Saggi su Nietzsche, Milano 1988, pp. 101-113, secondo il quale i movimenti della marionetta - che, danzando, sfiorano appena il terreno invece di posarvisi - non hanno niente di affettato. Si ha, infatti, affettazione solo quando l'anima (vis motrix) si trova "in qualche altro punto che nel centro di gravità del movimento". In questo senso la linea tracciata dallo spostarsi del centro di gravità è der Weg der Seele des Tänzers, "il cammino dell'anima del danzatore". Si veda anche R. Troncon, Studi di antropologia filosofica, Milano 1991, pp. 35-71.

46 Cfr. M. Heidegger, N, 361. E cfr. N, 371: "Il pensare il pensiero come superamento del nichilismo. Ciò significa: il trasporsi nella necessità della situazione che emerge con il nichilismo; questa costringe a una meditazione su ciò che è dato in dote e a una decisione su ciò che è dato come compito. La situazione di necessità stessa altro non è che ciò che il trasporsi nell'attimo apre [...]. L'eterno ritorno dell'uguale è pensato soltanto se è pensato nichilisticamente e secondo l'attimo".

47 Cfr. NF, 7, 26 [376]. Non si tratta dunque, in questo caso, di una selezione di tipo biologico, come spesso si è inteso.

48 Z, 175-176 = 170-171. Maurizio Ferraris ha colto un punto significativo: "Volontà di potenza come capacità affermativa, come trasvalutazione delle angustie e del risentimento che affliggono il volere (la volontà di potenza avvilita e negata) dell'ultimo uomo". Ne segue, in linea con l'interpretazione di Deleuze, che "si apre la via a una seconda dimensione dell'eterno ritorno: non ogni cosa ritorna, non ogni risentimento e debolezza, ma solo ciò che è dotato di una potenza affermativa, e che merita di ripetersi" (M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Milano 1989, p. 53).

49 Cfr. Ch. Turcke, Der folle Mensch. Nietzsche und der Wahnsinn der Ver-nunft, Frankfurt a. M. 1989, pp. 142, 144. Da notare che Nietzsche considera il cristianesimo, con tutto il suo carico di risentimento, opera non di Gesù, ma di san Paolo e delle prime comunità cristiane (cfr. AC, 207-208, 210 = 203-204, 209-210). Gesù, dostoevskijanamente, è un "idiota", incapace di concepire la vendetta contro i suoi persecutori, sensibile - come Buddha - ai mali del mondo, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., p. 173 e G. Strumiello, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Bari 2001, pp. 203-205. Anche l'esclamazione del pazzo ("Dio è morto!") non va intesa come un grido di giubilo, ma di preoccupazione: saranno gli uomini "rimpiccioliti" all'altezza del compito che li attende?

50 Cfr. NF, 4, 44 [4]: "Posto che qualcuno abbia avuto a soffrire per una maligna lettera anonima: la cura abituale è quella di liberarsi della propria sofferenza arrecando dolore a qualcun altro. Noi dobbiamo smettere questa sciocca specie di antichissima omeopatia: è chiaro che, nel caso supposto, se uno scrive subito una lettera anonima, con la quale procura un beneficio o una gentilezza a un altro, potrà guarire della sua sofferenza".

51 Per i pitagorici, cfr., ad esempio, Porphyr., Vita Pythagorae, 19 (D.-K., 14, 8a). Per gli stoici, cfr., ad esempio, Nemesius, in Stoicorum Veterum Fragmenta, a cura di J.V. Arnim, voi. n, Leipzig 1903, fr. 625: "Socrate e Platone e ogni individuo vivranno ancora, con gli stessi amici e concittadini. Ripercorreranno le stesse esperienze e svolgeranno le stesse attività. Ogni città, ogni villaggio e campo ritornerà com'era. E questa restaurazione dell'universo non avrà luogo una sola volta, ma sempre di nuovo, per tutta l'eternità, senza fine". Per Agostino, cfr. De civ. Dei, xii, 14 sgg. A questa dottrina Nietzsche aveva fatto riferimento nella Seconda inattuale, accennando al fatto che Cesare sarebbe stato ucciso infinite volte e che Colombo avrebbe scoperto l'America sempre di nuovo (cfr. NNG, 257 = 276). Sui contemporanei di Nietzsche (Vogt, Nägeli, Lange, Du Bois-Reymond, Dühring, Balfour Stewart), cfr. P. D'Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell'eterno ritorno in Nietzsche, cit. Su tempo ed eterno ritorno in Nietzsche, cfr. K. Lowith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Stuttgart 1956, trad. it. Nietzsche e l'eterno ritorno, Roma-Bari 1982; J. Granier, Le problème de la vérité dans la philosophie de Nietzsche, Paris 1966, pp. 557-602; J. Stammbaugh, Untersuchungen zum Problem der Zeit bei Nietzsche, Den Haag 1959; M.C. Sterling, Recent Discussions of Eternal Recurrence. Some Crirtical Comments, in "Nietzsche Studien", vi (1977), pp. 261-291; J.O. Most, Zeitliches und Ewiges in der Philosophie Nietzsches und Schopenhauers, Frankfurt a. M. 1977; L.J. Hatab, Nietzsche and the Eternai Recurrence: The Redemption of Time and Becoming, Washington D.C. 1978; M. Djuric, Die antiken Quellen der Wiederkunftlehre, in "Nietzsche Studien", vni (1979), pp. 1-16; AA. W, Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzscheana del tempo, Napoli 1980; M. Ferraris, Ontologia, in AA. W.j Nietzsche. Etica, Politica, Filologia, Musica, Teoria dell'interpretazione, Ontologia, Roma-Bari 1999, pp. 262-275; K. Galimberti, Nietzsche. Una guida, Milano 2000, pp. 114-131.

52 FVP, n. 381 = NF, 8, 9 [22] e cfr. FVP, n. 54, = NF, 8, 15 [13]: "Io insegno a dir di no a tutto ciò che indebolisce - che esaurisce. Io insegno a dir di sì a tutto ciò che rafforza, che accumula energia, che giustifica il sentimento della forza". È evidente la sottintesa polemica contro Schopenhauer e la sua negazione della volontà.

53 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., pp. 38-40.

54 EH, 295 = 306: "La mia formula per la grandezza dell'uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l'eternità. Non sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario - tutto l'idealismo è una continua menzogna di fronte al necessario - ma amarlo...". E l'amore è, appunto, mantenimento gioioso dei contrasti: "Che altro è l'amore se non comprendere e gioire che un altro viva, agisca e senta in maniera diversa e opposta alla nostra? Per poter superare i contrasti con la gioia, l'amore non li deve sopprimere né negare. Persino l'amore di sé contiene la non mescolabile dualità (o pluralità) in una stessa persona" (MA, II, 44 = 33).

55 Si veda, ad esempio, A, 236: "Dalla partizione degli alberi in un parco, dall'ordine delle case in una strada, dallo strumento del lavoratore manuale fino alla sentenza in tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto". Per il ruolo dell'individualità in Dilthey, si veda M.A. Pranteda, Individualità e autobiografia in Dilthey, Milano 1991.

56 GM, 238. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., pp. 143-144: "L'uomo del risentimento è un cane, che reagisce soltanto alle tracce (segugio), per cui lo stimolo si confonde localmente con la traccia ed egli non può più agire la propria reazione". Il risentito non dimentica niente, il suo ricordo è infetto, è "una piaga in suppurazione" e per lui "la memoria delle tracce è in sé e per sé fonte di odio". Egli è dotato di una grande memoria, incapace di quel sovrano oblio offerto dalla starke Gesundheit, dalla robusta salute degli uomini superiori, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., pp. 130-131 e C. Crawford, Nietzsches Mnemotechnics, the Theory of Ressentiment, and Freud's Topography of the Psychical Apparatus, in "Nietzsche Studien", XIV (1985), pp. 281-297. Sul rapporto di Freud e Nietzsche, cfr. P.-L. Assoun, Freud et Nietzsche, Paris 1980; A. Venturelli, Nietzsche in Berggasse 19 e altri studi nietzscheani, Urbino 1983; R. Lehrer, Nietzsches Presence in Freud's Life and Thought, Albany 1995; R. Gassner, Nietzsche und Freud, Berlin-New York 1997. Sulla reattività dei deboli e dei ribelli per debolezza, come gli anarchici, in rapporto alla mancanza di risentimento dei forti, cfr. J. Starobinski, Action et Réaction. Vie et adventures d'un couple, cit., pp. 273-278. Sulla funzione della memoria e dell'oblio in Nietzsche, cfr. H. Thüring, Geschichte des Gedächtnisses. F. Nietzsche und das 19. Jahrhundert, München2001.

57 Cfr. W. Muller-Lauter, La volonté de puissance comme organisation, mise en forme, machinalisation, cit., pp. 177-179.

58 Un accenno in questa direzione si trova in C. Gentili, Nietzsche, Bologna 2001, pp. 303-308. L'eterno ritorno non può essere ridotto né alla "forma universale di una legge scientifica" (per cui, secondo le parole del nano, "ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo"), né "al grande anno delle religioni pre-elleniche", all'eterno ciclo della vegetazione, come vogliono gli animali di Zarathustra, l'aquila e il serpente. È la volontà di chi sa reggere questo peso a fondare l'eterno ritorno nella consapevolezza che "il disgusto per l'uomo" è superato nell'accettazione che fa Zarathustra del ritorno anche del "piccolo uomo". Ciò toglie all'Übermensch lo "spirito di vendetta" che altrimenti lo avrebbe schiacciato. Tale interpretazione va integrata con le osservazioni di G. Biondi, per cui il serpente che soffoca il pastore è il simbolo della metamorfosi, della prova che si deve affrontare per vincere il disgusto della vita. Esso così "non significa solo la comunicazione della dottrina dell'eterno ritorno, ma indica un'iniziazione alla conoscenza della vita [...]. Il serpente rappresenta la morte, poiché il suo veleno uccide, ma anche la vita, poiché il suo contatto è fecondo. Unitariamente, indica il ciclo di nascita e di morte, il cammino che sorge dalla terra e vi ritorna, per poi sorgere di nuovo" (G. Biondi, L'enigma della serpe secondo Nietzsche, cit., pp. 31,43).

59 Z, 196-197 = 192-193. In proposito, Jaspers osserva che è "irrilevante sapere se Nietzsche, nei suoi stati d'animo non comuni, avesse già provato ciò che è noto con il nome di déjà vu: vivere il presente come se tutto fosse stato già vissuto in modo perfettamente uguale fin nei più piccoli particolari" (K. Jaspers, Nietzsche. Einfuhrung in das Verstàndnis seiner Philosophie, cit., p. 323). Eppure queste forme di anomalìa del tempo sono importanti per comprendere Nietzsche e la cultura del suo tempo, cfr. NF, 5 11 [260]: "C'è una parte della notte di cui io dico 'ora il tempo è cessato!'. Dopo tutte le veglie notturne, soprattutto dopo viaggi, camminate di notte, si prova uno strano sentimento riguardo a questo lasso di tempo: è sempre stato troppo breve o troppo lungo, il nostro senso del tempo avverte un'anomalia. Può darsi che anche nella veglia noi si debba espiare il fatto che di solito trascorriamo quel tempo nel caos temporale del sogno! Basta!, dall'una alle tre non abbiamo più orologio nel cervello. Mi sembra che proprio questo fosse espresso dagli antichi con intempesta nocte è έ άωρονκτί (Eschilo): 'In quel punto della notte dove non esiste il tempo'" (cfr. anche NF, 8, 4 [5] e, per il commento, C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell'anima in Nietzsche, cit., pp. 103-107). Sul sentimento del déjà vu nella cultura dell'Ottocento e del primo Novecento, cfr. R. Bodei, Walter Benjamin: modernità, accelerazione del tempo e "déjà vu", in "Studi Germanici", nuova serie, XXIX [1991, ma stampato 1995], pp. 157-172. Il cane e il serpente sono animali degli Inferi, "vita vinta" (Z, 164). L'ululato del cane rinvia al vento e "indica l'ora in cui la vita è alla fine" e la luna, che compare sempre assieme al cane, rinvia ai morti e agli spettri del passato. Il ragno, poi, rimanda nello Zarathustra alla "visione del viandante di fronte alla ragnatela della sua vita violata dalla sofferenza, di fronte allo specchio della propria riflessione finita nella rete di pensieri atroci e funerei, fra l'abbaiare di un cane spaventato e una luna gelida e spettrale [...]. Con la tela tessuta dal ragno sembra chiudersi il sepolcro; con la visione del ragno, intento alla tessitura, sembra di sprofondare in un sogno, in cui tutto diventa apparenza e il ricordo della propria esistenza dipinge una spettrale vacuità" (cfr. G. Biondi, L'enigma della serpe secondo Nietzsche, cit., pp. 82, 95, 98, 101).

60 Cfr. G. Vattimo, Nietzsche et la philosophie comme exercice ontologique, in AA. W., Nietzsche, Actes du Colloque de Royeaumont [luglio 1964], Paris 1967, p. 215: "Ciò che si tratta di fondare e di garantire, per Nietzsche, è la possibilità dell'istituzione di nuovi valori, cioè la possibilità della novità e del divenire autentico della storia".

61 Per sopportare la conoscenza delle cose occorre, infatti "un temperamento buono, anima salda, mite e in fondo allegra, uno stato d'animo che non ha bisogno di stare in guardia contro perfidie ed esplosioni improvvise, e che nelle sue manifestazioni non abbia in sé nulla del tono ringhioso e dell'accanimento: le note fastidiose caratteristiche dei cani e degli uomini invecchiati che sono rimasti a lungo legati a una catena" (MA, I, 51 = 42).

62 GD, 138 = 143. Cfr. S. Barbera-G. Campioni, Il genio tiranno. Ragione e dominio nell'ideologia dell'Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, cit., p. 21 e, soprattutto, A. Horn, Nietzsches Begriff der décadence. Kritik und Analyse der Moderne, Frankfurt a.M.-Berlin-Bern-Bruxelles-New York 2000.

63 E Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari 1997, p. 42.

64 Su Huysmans, cfr. B. Croce, Varietà di storia letteraria e civile, serie 2 a, Bari 1949; H.J. Greif, Huysmans' "À rebours" und die Dekadenz, Bonn 1971; F. Zayed, Huysmans. Peintre de son epoque, Paris 1983. Cfr. più avanti, pp. 363-364.

65 Secondo l'immagine diffusa da Verlaine nei versi della poesia Langueur (apparsa originariamente su "Le Chat Noir" del 26 maggio 1883, poi raccolta in Jadìs et naguère): Je suis l'Empire à la fin de la décadence / Qui regard passer les grands Barbares blancs, / En composant des acrostiches indolents / D'un style d'or où la langueur du soleil danse.

66 G. D'Annunzio, II trionfo della morte, in Prose di romanzi, vol.I, Milano 1940, pp. 671, 733, 814, 960 e Id., Delta mia legislatura, in "Il Giorno", 29 marzo 1900 [poi in G D'Annunzio, Pagine disperse, a cura di A. Castelli, Roma 1913, p. 595]. Cfr. G. Tosi, Il personaggio di Giorgio Aurispa nei suoi rapporti con la cultura francese, in AA. W., Trionfo della morte, Atti del III Convegno Internazionale di studi dannunziani, Pescara 1983, pp. 96-113 e G. Baldi, L'inetto e il superuomo. D'Annunzio tra "decadenza" e vita ascendente, Torino 1996, pp. 66-67. La lotta di Aurispa si rivela infine perdente: "Qual è la causa della mia impotenza? Io ho una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e armonioso. E ogni giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi sfugge da varchi invisibili e innumerabili" (G. D'Annunzio, Il trionfo della morte, cit., p. 734). Alla fine, egli tenta anche la strada dionisiaca del superuomo (nella versione che D'Annunzio ne offre). Cerca così di seguire il modello dell'"Ellèno antico", che non aspirava ad altro "se non ad espandere la sua esuberanza e ad esercitare con efficacia il suo nativo istinto di dominazione". Infatti, "il sentimento religioso della gioia di vivere [...] la venerazione e l'entusiasmo per tutte le energie fecondanti, generative e distruttive; l'affermazione violenta e tenace dell'istinto agonistico, dell'istinto di lotta, di predominio, di sovranità, di potenza egemonica, non erano questi i cardini incrollabili su cui si reggeva l'antico mondo ellenico nel suo periodo ascensionale?". Il superuomo moderno, predicato dallo Zarathustra di Nietzsche, è così "il dominatore forte e tirannico", "franco dal giogo d'ogni falsa moralità, sicuro nel sentimento della sua potenza, [...] determinato ad elevarsi sopra il Bene e il Male per pura energia del volere, capace pur di costringere la vita a mantenergli le sue promesse [...]" (ivi, pp. 950, 954).

67 Com'è ormai ampiamente noto, per la formulazione dell'idea di décadence è stata determinante in Nietzsche l'opera di P. Bourget. Cfr., ad esempio, Essais de psychologie contemporaine, cit., pp. 24-25: "par le mot décadence, on désigne volontiers l'état d'une société qui produit un trop grand nombre d'individus impropres aux travaux de la vie commune. Une société doit être assimilée à un organisme. Comme un organisme, en effet, ELLE SE RÉSOUT EN UNE FÉDÉRATION D'ORGANISMES MOINDRES, QUI SE RÉSOUVENT EUX-MÈMES EN UNE FEDERATION CELLULAIRE. L'individu est la cellule sociale. Pour que l'organisme total fonctionne avec energie, il est nécessaire que les organismes composants fonctionnent avec energie, mais avec une energie subordonnée. Si l'energie des cellules devient indépendante, les organismes qui composent l'organisme total cessent pareillement de subordonner leur energie totale, et l'anarchie qui s'établit constitue la décadence de l'ensemble". Sulla presenza di Bourget in Nietzsche, cfr. H. Platz, Nietzsche und Bourget, in "Neuphilologische Monatsschrift", VIII (1937), pp. 177-186. Sulla psicologia della decadenza, ancora interessante W. Wiegand, Zur Psychologie der Décadence, München 1893. Su Nietzsche e la cultura francese, cfr. W.D. Williams, Nietzsche and the French, cit., e, più scolastico, B. Bludau, Frankreich im Werke Nietzsches. Geschichte und Kritik der Einflufithese, Bonn 1979. Sulla recezione francese di Nietzsche cfr. J. Le Rider, Nietzsche en France. De la fin du XIX siecle au temps présent, Paris 1999.

68 E. Renan, La poesie de l'exposition, in OEuvres complètes, 10 voll., a cura di H. Psichari, Paris 1947-1961, vol. II, p. 251.

69 II fatto che il modello d'individuo sia aperto al cambiamento o che la volontà di potenza implichi la sua liberazione e il parallelo avvento dell'oltreuomo di massa" non dimostra né la propensione di Nietzsche verso la democrazia, né la compatibilità del suo pensiero con questo regime (come invece sostengono, rispettivamente, A.D. Schrift, Nietzsche for Democracy, in "Nietzsche Studien", XXIX [2000], pp. 220-233 e G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, cit., pp. 350 sgg.; Id., La saggezza del superuomo, in Dialogo con Nietzsche, cit., p. 192). La questione, del resto, non si pone per Nietzsche in termini strettamente politici. A più riprese, egli si è, infatti, dichiarato apolitico e ha considerato le più significative epoche della cultura come periodi di decadenza politica (cfr. GD, 101 = 102). Sulle idee che Nietzsche ha della democrazia, si veda, comunque, U. Marti, Der große Pöbel- und Sklavenaufstand. Nietzsches Auseinandersetzung mit Revolution und Demokratie, Stuttgart-Weimar 1993.

70 JGB, 217-218 = 177-178 e cfr. GM, 229-230 = 276: "Ogni accadimento del mondo organico è un sormontare, un signoreggiare e [...] a sua volta ogni sormontare e signoreggiare è un reinterpretare, un riassettare, in cui necessariamente il 'senso' e lo 'scopo' esistiti fino a quel momento devono offuscarsi o del tutto estinguersi [...]. Ma tutti gli scopi, tutte le utilità, sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente e gli ha impresso, sulla base del proprio arbitrio, il senso di una funzione [...]". Nietzsche elabora la concezione della volontà di potenza e di autosuperamento anche per contrastare l'idea di "adattamento" diffusa nelle scienze biologiche: "Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone [...]. E la vita mi ha confidato questo segreto: 'Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa" (Z, 144 = 139).

71 Cfr. E. Nolte, Nietzsche und der Nietzscheanismus, Frankfurt a. M.-Berlin 1990, p. 165.

72 Nel gregge l'invidia sembra ereditaria: "Presunzione intristita, invidia rattenuta, forse la presunzione e l'invidia dei vostri padri: da voi erompe come fiamma e demenza della vendetta. Ciò che il padre ha taciuto, prende la parola nel figlio; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del padre" (Z, 125 = 120).

73 Cfr. Arist., Rhet., II, 9, 1387 sgg. La tradizione filosofica ha dedicato poca attenzione - prima di Nietzsche - alla problematica dell'invidia e del risentimento e, soprattutto, alla loro funzione sociale. Da vedere, comunque, fra le poche eccezioni E Bacon, On Envy, in The Essays of Counsels, Civil and Mordi, a cura di S.H. Reynolds, Oxford 1890, pp. 56 sgg. e A. Schopenhauer, P, n, §§ 114 e 242 e, in particolare, § 242, p. 491 = 1158: "L'invidia è appunto l'anima dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie".

74 DA, il, 629. Si veda anche supra, p. 259.

75 Cfr. R. Frary, Handbuch des Demagogen. Aus dem Franzosischen übersetzt von B. Ossmann, Hannover 1884. Una scelta di passi del Manuel du Démagogue è stata pubblicata con il titolo Du bon usage de la mauvaise foi, Paris 1981. Recentemente sono state indicate come fonti di Nietzsche per la teoria dell'invidia e del risentimento nella Genealogia della morale la lettura delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij in traduzione francese e il libro di Eugen Dühring, Der Werth des Lebens, Breslau 1865, cfr. A. Orsucci, Genealogia della morale. Introduzione alla lettura, Roma 2001, pp. 58-65.

76 R. Frary, Du bon usage de la mauvaise foi, cit, pp. 153-154. Sull'invidia, cfr. ivi, pp. 143-154.

77 I problemi relativi all'invidia e al risentimento nei cristiani, democratici, socialisti o rivoluzionari attendono di essere studiati a fondo in Tocqueville, Nietzsche e Scheler. Qualche cenno, a proposito di Nietzsche e di M. Scheler, si può trovare in R. Wiehl, Ressentiment und Reflexion, in "Nietzsche Studien", n (1973), pp. 61-90, e, in relazione al saggio di Scheler, Das Ressentiment im Auf-bau der Moralen, in A. Pupi, L'uomo risentito secondo l'analisi di Max Scheler, in "Rivista di filosofia neoscolastica", lxiii (1971), pp. 575-604. Secondo Nietzsche, in una civiltà antagonistica come quella greca, l'invidia non è percepita come una macchia morale, bensì quale prodotto di una divinità benefica (I1W, 281 = 249). Solo nel desiderio di abbassare gli uomini al livello dei mediocri sorge la gioia per i mali altrui (cfr. MA, II, 198-199 = 152).

78 II carattere revocabile dell'autorità rischia di indebolirne la natura e il prestigio. Talvolta - come aveva osservato Max Weber - chi sta in alto viene mantenuto in questa posizione a patto di essere disprezzato e umiliato: "Ancora fino a quindici anni fa, se si domandava agli operai americani perché si facessero governare da uomini politici che dichiaravano di disprezzare, si otteneva questa risposta: 'Preferiamo avere per funzionari persone sulle quali sputiamo, piuttosto che, come da voi, una casta di funzionari che ci sputa addosso'" (M. Weber, PB, in PB/WB,94).

79 Ch. Maurras, Enquéte sur la monarchie, Paris 1925, p. 79.

80 Cfr. R. Bodei, La storia congetturale. Ipotesi di Condorcet su passato e futuro, in "Mélanges de l'École Francaise de Rome (Italie et Mediterranée)", t. CVIII (1996), n. 2, pp. 457-468.

81 Tale prospettiva implica, per inciso, l'abbandono dell'ideale di un comune progresso di masse ed élite che era alla base sia del Più antico programma di sistema dell'idealismo tedesco (il cui autore è Hegel o Hölderlin), sia del frammento giovanile hegeliano La contraddizione sempre crescente... (su cui cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, cit., pp. 4-58).