L’Economia all’epoca di Marx
Il merito straordinario di Marx è di avere lucidamente colto e analizzato la tendenza intrinseca allo squilibrio del sistema capitalistico nel periodo in cui esso si avviava verso il trionfo e la mondializzazione alla luce di una teoria che assegnava ad esso una naturale tendenza all’equilibrio.
Prima di procedere la critica corrosiva di Marx all’economia politica, occorre, dunque, spendere qualche parola sullo stato dell'arte all'epoca in cui egli comincia ad interessarsi ad essa.
L’economia è una disciplina relativamente recente. Inaugurata da A. Smith, con La ricchezza delle nazioni (1776), che è il “manifesto” del liberismo, essa è stata portata avanti da un certo numero di autori (D. Ricardo, Th. Malthus, J.-B. Say, F. Bastiat, S. Sismondi, J. Stuart Mill, ecc.) che hanno notevolmente arricchito il pensiero di Smith, formulando non pochi dubbi sul suo sostanziale “ottimismo”.
Sulla carta, il modello smithiano ha un suo fascino. Esso implica, infatti, che in virtù della libertà individuale e della divisione del lavoro, che implica una serie indefinita di specializzazioni, si è creato un mercato governato da un tale numero di agenti economici (produttori) che nessuno è in grado di pervenire ad un controllo monopolistico su di esso, vale a dire di stabilire arbitrariamente i prezzi delle merci. Il liberismo, in breve, si incentra su di un regime di concorrenza tra i produttori, che comporta inesorabilmente la loro selezione: favorisce cioè la sopravvivenza sul mercato di coloro che sono in grado di offrire le merci al prezzo migliore e di ricavarne un profitto. E' in virtù della concorrenza che il sistema appare dotato di una notevole capacità di autoregolazione.
Ogni agente economico cerca sul mercato la soddisfazione del suo interesse egoistico: il produttore e il commerciante il massimo guadagno, l'acquirente il massimo risparmio o il migliore rapporto tra qualità e prezzo. La somma degli indefiniti interessi particolari, che possono ovviamente essere in conflitto tra loro, e di solito lo sono, tende, però, attraverso il gioco della domanda e dell'offerta, verso un punto di equilibrio, espresso dal prezzo delle merci.
Il libero mercato, dunque, pur non essendo controllato da alcuno, e anzi proprio in virtù di questo, realizza pertanto la composizione dei conflitti fondati sui diversi interessi particolari: in breve, il bene comune. Per ciò, Smith è indotto a parlare di una Mano Invisibile: metafora che, oggi, si potrebbe ricondurre alla teoria dei sistemi complessi secondo la quale il disordine che è tipico di essi in nome dell'enorme numero di variabili che li caratterizza tende a produrre un ordine.
L'attribuzione al mercato di una capacità di autoregolazione implica che esso va lasciato il più possibile libero di fare i suoi "giochi". All'epoca di Smith e Ricardo questo implicava il superamento di ogni protezionismo da parte dello Stato nazionale. Tale superamento pone le basi perché gli scambi economici si allarghino di continuo fino al livello mondiale, realizzando un vantaggio finale per i consumatori: l’equilibrio migliore, se non ottimale, tra domanda e offerta.
Affascinante sulla carta, il modello smithiano, pur avendo colto nella divisione del lavoro e nell’uso razionale delle risorse il carattere rivoluzionario del liberismo rispetto a tutti i modelli di sviluppo socio-economici precedenti, non ha mai avuto una corrispondenza reale.
Tra teoria e realtà economica si sono dati sempre alcuni aspetti discordanti.
Il primo è che il liberismo postula un regime di concorrenza perfetta, vale a dire la presenza sul mercato di un numero tale di agenti che nessuno di essi possa influenzare l'equilibrio dei prezzi. Tale regime non c'è mai stato (né presumibilmente, mai si darà). Per un verso, infatti, affidato a se stesso, il mercato fa affiorare tentazioni monopolistiche di ogni genere, il cui fine è di mantenere i prezzi dei beni al di sopra della soglia del costo di produzione, assicurando dunque un maggior profitto. Per un altro verso, la concorrenza perfetta richiederebbe il venire meno di ogni esigenza protezionistica da parte di un governo nazionale. Come dimostra la storia recente, invece, se determinati settori produttivi nel contesto di una nazione vanno incontro ad una crisi, la tendenza al protezionismo spunta immediatamente. E' spuntata, sotto forma di lapsus, per fare un esempio, anche dalla bocca di Obama quando egli ha richiamato i concittadini ad acquistare beni prodotti negli Stati Uniti.
Il secondo aspetto riguarda quelli che tradizionalmente si definiscono i fallimenti del mercato. La legge di mercato comporta che un determinato bene o servizio viene erogato dal privato se e solo se esso può trarne un profitto. Alcuni beni - come per esempio i farmaci per malattie rarissime - o servizi - come la scuola in un paesino di montagna, il trasporto ferroviario in zone in cui sono pochi abitanti ad averne bisogno, o la consegna della posta in un angolo sperduto del territorio - non solo non producono profitti, ma impongono perdite per chi li realizza. E' evidente che, in questi casi, solo lo Stato può intervenire per soddisfare i bisogni e i diritti dei cittadini.
Il terzo aspetto è legato a quelle che si chiamano le diseconomie esterne. Con questo termine si intendono i costi che l'attività economica privata fa gravare sulla popolazione, vale a dire sullo Stato. L'esempio ormai classico verte sull'inquinamento. Un'industria sostiene che non può ridurre l'inquinamento che produce se non al rischio di fallire. Per il bene dei suoi dipendenti, dunque, essa postula che i costi e di danni dell'inquinamento, che risultano nel suo bilancio positivo, vengano pagati dalla comunità.
Le diseconomie esterne violano il principio fondamentale del liberismo per cui il confine nell’esercizio della libertà dell’uno sta nel rispetto della libertà dell’altro.
Se teniamo conto che di recente, in conseguenza della globalizzazione, l’inquinamento, prodotto in gran parte dai Paesi industrializzati (dagli Stati Uniti e dalla Cina in particolare) sta producendo una rapida desertificazione di territori la cui popolazione vive di agricoltura, si va addirittura al di là della violazione della libertà altrui: si destinano milioni di abitanti del Pianeta allo sradicamento territoriale o alla morte per fame.
All’epoca di Marx, quest’ultimo aspetto, legato all’inquinamento, era di fatto secondario, anche se egli ha colto perfettamente il significato della nuvola di smog che intossicava Londra e le città inglesi industrializzate. In un certo qual senso, però, tutta l’analisi critica che Marx fa del capitalismo verte su di una diseconomia del tutto particolare: l’abbrutimento dell’uomo che produce ricchezza.
Dedicandosi all'economia, Marx mette a fuoco rapidamente questo dato. Il libero mercato, di fatto, ha impresso allo sviluppo economico una spinta verso la produzione della ricchezza, determinando un'estensione degli scambi commerciali a livello mondiale che non ha riscontro in alcuna epoca del passato. Egli vede, dunque, in esso la massima espressione della passione trasformativa umana, lo sprigionarsi di potenzialità che sono rimaste a lungo latenti e sembrano gravitare verso un totale controllo dell'uomo sulla natura e sulla capacità di utilizzarla per soddisfare i bisogni umani.
Al tempo stesso, Marx si rende conto che l'equilibrio di mercato si fonda su di uno squilibrio a monte tale per cui i lavoratori sono di fatto liberi solo di vendere sul mercato la loro forza-lavoro e di metterla a disposizione di coloro che possono pagarla e, disponendo di strumenti di produzione (le macchine), usarla per ricavarne il massimo profitto.
La ricchezza a valle della produzione capitalistica è pagata, dunque, a monte dalla costrizione per cui l'operaio, per sopravvivere, deve vendere la sua "vita" e accettare condizioni che, all'epoca, data l'inesistenza di qualunque protezione, lo fanno regredire verso una condizione infra-umana.
Non è superfluo, a questo punto, ricordare, come accennato nella prima lettura, che, vita natural durante, Marx non ha mai messo piede in una fabbrica. Quello che sa della condizione operaia lo ricava dall'amico Engels, la cui famiglia ha un'azienda tessile, e dai documenti stilati dagli Ispettori di fabbrica inglesi.
Questo basta, però, a promuovere un'indignazione "biblica" che governerà tutta la sua vita. Egli legge con attenzione le opere degli economisti "classici" e rileva che le loro teorie, per alcuni aspetti estremamente interessanti, soffrono però di un difetto comune: esse descrivono in astratto le leggi oggettive del sistema capitalistico, ponendo tra parentesi la sua genesi storica - riconducibile al fatto che masse ingenti di contadini sono stati sradicati dalla campagna ritrovandosi a disporre solo delle loro braccia per lavorare - e il suo concreto funzionamento, che implica lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Illuminare quella genesi storica e chiarire il reale funzionamento del sistema capitalistico diventa il fine ultimo del lavoro teorico-pratico di Marx.
Perciò egli avvia lo studio dell'economia nel 1843 e lo porta avanti fino alla fine della sua vita. Ancora negli ultimi anni egli raccoglie ed elabora dati sull'industria e sull'agricoltura, legge le opere più recenti che vengono pubblicate, torna spesso a consultare i classici, ecc. Da questa dedizione incessante, tale per cui all'epoca egli si può ritenere il maggior conoscitore di dottrine economiche che esista sulla faccia del pianeta, si sarebbe indotti a pensare ad un'autentica passione.
In realtà, nonostante l'impegno trentennale di Marx nella stesura di opere che, per criticare l'economia capitalistica, hanno di fatto un impianto tale per cui possono facilmente risultare aride alla lettura, egli non ha mai amato questa disciplina. Nelle lettere ad Engels non solo si dichiara annoiato da una disciplina che, dopo la sua fondazione non ha conosciuto più sviluppi rilevanti, tanto che definisce "merda" l'imponente materiale di studio che ha accumulato, ma afferma addirittura di non vedere l'ora di portare a termine il Capitale per dedicarsi ad argomenti più interessanti. Quest'ora però non verrà mai.
Viene allora da chiedersi il significato di una dedizione così radicale che se, come hanno sostenuto alcuni marxisti "dogmatici" in passato, ha trasformato un filosofo umanista in uno scienziato a tutto tondo (affermazione, come vedremo, infondata), di sicuro ha impedito a Marx di approfondire da par suo argomenti accennati nei Manoscritti e ne l'Ideologia tedesca che sarebbero potuti risultare indefinitamente più interessanti e accessibili.
La verità è che, se l'avvio degli studi di economia, corrisponde semplicemente al bisogno di chiarirsi le idee a riguardo, a partire dagli anni '50 in poi, essa diventa, più che un piacere, un dovere e un'ossessione. A Marx non basta essere riuscito a rivelare ciò che di fatto si nasconde sotto le levigate e razionali apparenze dell'economia borghese - lo sfruttamento dell'uomo -, obiettivo che si può ritenere ancora oggi - vedremo in che termini - pienamente valido. Egli finisce letteralmente preda dell'intento di dimostrare scientificamente che il sistema capitalistico è destinato inesorabilmente a declinare e ad essere sormontato sulla base delle sue irrimediabili contraddizioni.
Dato che Marx associa al superamento del capitalismo la liberazione dell'umanità da una secolare oppressione e l'avvio del regno della libertà e della felicità, riesce evidente perché egli non si è dato più tregua: quella dimostrazione, infatti, ha assunto il carattere di un dovere nei confronti dell'umanità sofferente, e ad essa Marx ha sacrificato, come scrive ad Engels, "la salute, la felicità e la famiglia".
Occorre dunque prendere atto che se a livello giovanile il bisogno di individuazione si afferma tumultuosamente, successivamente, in età matura, esso si intreccia con un bisogno di appartenenza alla specie umana, ad una specie che attende la verità per realizzare il "sogno" implicito in tutto il suo travaglio, che lo travalica e lo mortifica, com'è attestato dai ricorrenti disturbi psicosomatici di cui si è parlato.
Dopo aver coltivato il progetto di scrivere un'opera critica di Economia fin dalla metà degli anni '40, Marx si impegna a dare una forma compiuta alle sue idee nel 1857, allorché avverte nell'aria il sopravvenire di una crisi economica che avrebbe dovuto innescare una rivoluzione. Dal marzo al luglio egli compone, utilizzando un'indefinita mole di appunti, schede bibliografiche, riflessioni, i Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Grundrisse), che consta di due lunghi e densi capitoli - il primo sul denaro, il secondo sul capitale - nei quali l'analisi del capitalismo è già quasi completa.
La crisi prevista sopravviene, ma è un fuoco di paglia: lo sviluppo del sistema capitalistico è ormai inesorabilmente avviato. Nel gennaio del 1859, Marx pubblica il primo fascicolo della Critica dell'economia politica, che rielabora le tematiche dei Grundrisse. Pubblicato in una prima tiratura di mille copie, il libro cade nel silenzio. Ciò nondimeno, Marx lavora sul secondo fascicolo, che non vedrà mai la luce.
Nel 1860 progetta la stesura del Capitale in quattro volumi per dare alla sua teoria una "forma più popolare". Solo nel 1867 il primo libro vede la luce. Gli altri tre, ai quali pure Marx lavora fino alla fine, rimarranno allo stato di manoscritti. E' Engels, dopo la sua morte, a dedicarsi ad essi completamente riuscendo a dare ad essi una forma leggibile e a pubblicarli.
Anche il primo libro, però, va incontro a delle vicissitudini. Marx non ne è soddisfatto, torna di continuo su di esso, lo sottopone a revisioni, integrazioni, ecc.
Si possono facilmente attribuire queste vicissitudini al perfezionismo di Marx, alla complessità della materia (l'analisi di un sistema socio- economico esteso a livello mondiale e in fase di tumultuoso sviluppo), e all'obiettivo ultimo che egli si prefigge: smascherare la logica intrinseca del sistema capitalistico per dimostrare che essa comporta contraddizioni irrimediabili che lo destinano alla fine e al suo superamento a favore di un nuovo ordine economico, politico, sociale e culturale: il Comunismo.
Sarebbe ingenuo, però, non tenere conto che tanto travaglio non sarebbe comprensibile se non si ammettesse che Marx si è imbattuto in qualche problema di ardua soluzione sotto il profilo teorico che rendeva, ai suoi stessi occhi, quell'obiettivo auspicabile ma non necessariamente destinato a realizzarsi.
Mirando alla quadratura del cerchio, vale a dire alla scoperta che la storia umana implica un fine in rapporto al quale il capitalismo, che ne produce le premesse, rappresenta una fase transitoria, Marx avrebbe intuito dolorosamente che essa, almeno a livello teorico, non era possibile.
L'analisi di questo aspetto, già anticipato, è l'obiettivo di questa lettura. Essa postula naturalmente una conoscenza almeno elementare della teoria che prende forma nei Grundrisse e nel Capitale, sulla base dei presupposti di cui si è parlato in precedenza. Si tratta di una teoria critica minuziosa e implacabile, che, nonostante l'imponente articolazione argomentativa con cui è svolta, può essere ricondotta al principio di fondo per cui l’economia è l’espressione di come una società organizza i rapporti sociali tra gli esseri umani e alla scoperta che i rapporti sociali capitalistici sono in assoluto i più disumani e alienanti che si siano dati nella storia dell’umanità. E’ superfluo che aggiunga, però, che Marx non è un moralista: egli è del tutto consapevole del fatto che il Capitalismo è un passaggio necessario sulla via della scoperta al tempo stesso della ricchezza e della miseria umana, e che, a partire da questa scoperta, è possibile procedere verso un mondo di ricchezza materiale, sociale e antropologica..
L’analisi critica del Capitalismo
Nell’Introduzione a per la Critica dell’Economia Politica, Marx riconduce ogni sistema economico a quattro momenti - produzione, distribuzione, scambio e consumo:
“Nella produzione, i membri della società rendono propri (ricavano, formano) ai bisogni umani i prodotti naturali; la distribuzione determina la proporzione in cui il singolo può disporre di tali prodotti; lo scambio porta al singolo i particolari prodotti, in cui egli vuol convertire la quota, che gli è stata assegnata dalla distribuzione; nel consumo, infine, i prodotti divengono oggetto del godimento, dell’appropriazione individuale.
La produzione ricava gli oggetti corrispondenti ai bisogni; la distribuzione li suddivide secondo leggi sociali; lo scambio distribuisce il già distribuito ma, questa volta, secondo necessità individuali; infine, nel consumo il prodotto esce da questo movimento sociale, diviene direttamente oggetto della singola necessità e la soddisfa.”
E’ evidente che di questi momenti, la produzione e il consumo sono universali, mentre la distribuzione e lo scambio variano a seconda dell’organizzazione sociale. Dato che per consumare occorre prima produrre, non è sorprendente che Marx attribuisca alla produzione un significato preminente. Insistere su questo aspetto, peraltro, non è casuale. Il liberismo valorizza soprattutto il mercato, attribuendo ad esso la capacità di produrre i profitti. E’ proprio questo assunto che Marx confuta, riconducendo ai rapporti sociali di produzione la genesi dei profitti e analizzando quei rapporti come liberi solo sulla carta.
1) La produzione in generale
La necessità di produrre è dunque universale:
"Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; essi cominciarono a distinguersi dagli animali dal momento in cui iniziarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, uno sviluppo che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale." (Marx-Engels. L'ideologia tedesca)
"L'oggetto in questione è anzitutto la produzione materiale. Individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente il punto di avvio.” (GRD, p. 5)
Essa implica alcuni caratteri in comune tra tutti i sistemi economici:
"Tutte le epoche della produzione hanno taluni caratteri comuni, talune determinazioni comuni... Nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, anche se lo strumento fosse soltanto la mano. Nessuna è possibile senza lavoro passato, anche se tale lavoro fosse soltanto la destrezza che attraverso l'esercizio ripetuto si è accumulata e concentrata nella mano del selvaggio" (GRD, pp. 7-8).
Al di là dei caratteri comuni, si danno però anche rilevanti differenze legate al livello dello sviluppo sociale:
"Quando si parla di produzione si parla... sempre di produzione a un determinato livello dello sviluppo sociale - della produzione di individui sociali" (GRD, pp. 5-7).
Ad un basso livello di sviluppo sociale, quale è stato quello che ha preceduto il Capitalismo, il produttore è anche in qualche misura proprietario del prodotto:
"In origine proprietà... significa rapporto del soggetto che lavora (che produce o si riproduce) con le condizioni della sua produzione o riproduzione come condizioni sue. Questo comportamento dell'individuo come proprietario - non come risultato, ma come presupposto del lavoro, cioè della produzione - presuppone un'esistenza determinata dell'individuo in quanto membro di una tribù o di una comunità (della quale egli stesso è fino ad un certo punto proprietà)" (GRD, pp. 475-476).
Originariamente, dunque, l’individuo è proprietario degli strumenti di produzione all’interno di una comunità a cui appartiene. E’ la lenta dissoluzione di queste forme economiche comunitaristiche, il cui sviluppo è necessariamente limitato, a promuovere, sulla base degli scambi commerciali, una crescita della ricchezza, che è il presupposto della nascita del Capitalismo.
"La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Il commercio mondiale e il mercato mondiale aprono nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale..." (ICP, I, pag. 177)
2) Genesi del capitalismo
La genesi del Capitalismo è da ricondurre, per l’appunto, alla dissoluzione del rapporto del soggetto che lavora con le condizioni della sua produzione.
"Il rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora. Dunque innanzitutto: 1) dissoluzione del rapporto con la terra - col suolo - quale condizione naturale di produzione... 2) dissoluzione dei rapporti in cui egli figura come proprietario dello strumento... 4) dissoluzione... anche dei rapporti in cui i lavoratori stessi, le capacità lavorative viventi stesse rientrano ancora immediatamente tra le condizioni oggettive della produzione e come tali vengono appropriate - in cui sono schiavi o servi della gleba...
Ora questi sono da un lato presupposti storici necessari per trovare il lavoratore come lavoratore libero, come capacità lavorativa priva di oggetto, puramente soggettiva, che si trova di fronte alle condizioni oggettive della produzione come alla sua non proprietà, proprietà altrui, valore per se stante, capitale" (GRD, pp. 477-478).
Questo significa, né più né meno, che il capitale non crea esso le condizioni oggettive del lavoro, ma approfitta della dissoluzione del vecchio modo di produzione, sormontato dagli sviluppi delle forze produttive, per affermarsi:
"La formazione originaria del capitale non avviene nel senso che il capitale accumuli, come si pensa, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro e materie prime, in breve le condizioni oggettive di lavoro distaccate dal suolo e già combinate col lavoro umano. Non avviene nel senso che il capitale crea le condizioni oggettive del lavoro. La sua formazione originaria avviene invece semplicemente per il fatto che il valore esistente sotto forma di patrimonio monetario viene messo in condizione, attraverso il processo storico della dissoluzione del vecchio modo di produzione, da un lato di comprare le condizioni oggettive del lavoro, dall'altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai divenuti liberi. Tutti questi momenti sono presenti; la loro separazione stessa è un processo storico, un processo di dissoluzione, ed è questo processo che permette al denaro di trasformarsi in capitale" (GRD, pp. 488-489).
La formazione del capitale postula, dunque, l’incontro sul mercato dei proprietari di denaro e di mezzi di produzione e degli operai che possono vendere solo la loro forza-lavoro:
"Denaro e merce non sono capitale fin dal principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte i proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l'acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall'altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro…
Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro" (ICP, I, pp. 880-881).
Per avviare l’analisi del Capitalismo, Marx fa ricorso al metodo indiziario di cui già abbiamo parlato. Egli parte dal presupposto che “la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare.” (ICP, I, pp. 43)
Nella merce singola è dunque depositato il segreto della ricchezza capitalistica. Perciò, Il Capitale si avvia sulla base dell’analisi della merce e del suo misterioso valore, che sembra una qualità ad essa intrinseca.
3) Merce, valore, profitto, denaro
Per sciogliere il mistero, Marx muove dalla distinzione tra valore d’uso e valore di scambio:
“La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo...
L'utilità di una cosa ne fa un valore d'uso...
Il valore d'uso si realizza soltanto nell'uso, ossia nel consumo. I valori d'uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d'uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio.
Il valore di scambio si presenta... come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d'uso di un tipo sono scambiati con valori d'uso di altro tipo" (ICP, I, pp. 43-45).
E’ quando lo scambio prevale sul valore di uso che il prodotto del lavoro si trasforma in merce e acquista valore:
"Il prodotto del lavoro è oggetto d'uso in tutti gli stati della società, ma soltanto un'epoca storicamente definita, dello svolgimento della società, quella che rappresenta il lavoro speso nella produzione d'una cosa d'uso come qualità "oggettiva" di questa, cioè come valore di essa, è l'epoca che trasforma in merce il prodotto del lavoro" (ICP, I, pag. 75).
Qual è la genesi del valore? Marx riprende a riguardo la teoria del valore-lavoro già avanzata da Smith e da Ricardo secondo la quale “... un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato o materializzato, lavoro astrattamente umano. E come misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la quantità della “sostanza valorificante”, cioè del lavoro, in esso contenuta. La quantità del lavoro si misura con la sua durata temporale...
Quindi, è soltanto la quantità di lavoro socialmente necessario, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario per fornire un valore d’uso che determina la sua grandezza di valore” (ICP, I, pp.47-48).
Il valore di una merce, però, cambia nel corso del tempo. Occorre spiegare tale cambiamento:
"La grandezza di valore di una merce rimarrebbe... costante se il tempo richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell'operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione e da situazioni naturali...
La grandezza di valore di una merce varia dunque direttamente col variare della quantità e inversamente col variare della forza produttiva del lavoro in essa realizzantesi" (ICP, pp. 49-50).
Assunto un valore di scambio, le merci possono essere misurate tra loro:
"In quanto valori tutte le merci sono qualitativamente uguali e differiscono solo sul piano quantitativo, si misurano quindi tutte reciprocamente e si sostituiscono (si scambiano, sono convertibili l'una con l'altra) in determinate proporzioni quantitative. Il valore è il loro rapporto sociale, la loro qualità economica...
In quanto valore la merce è in pari tempo l'equivalente di tutte le altre merci in un determinato rapporto. In quanto valore la merce è equivalente, in quanto equivalente, tutte le sue qualità naturali sono in essa cancellate; essa non sta più in alcun particolare rapporto qualitativo con le altre merci; essa è invece sia la misura generale, sia il rappresentante generale, il mezzo di scambio generale di tutte le altre merci. In quanto valore essa è denaro" (GRD, I, pp. 68-69).
“Il prodotto diviene merce, ossia semplice momento dello scambio. La merce viene trasformata in valore di scambio. Per equipararla a se stessa in quanto valore di scambio, essa viene scambiata con un segno che la rappresenta come valore di scambio in quanto tale. In questa forma di valore di scambio simbolizzato essa può poi nuovamente venir scambiata in determinati rapporti con ogni altra merce." (GRD, pp. 73-74).
L’enigma del valore, peraltro, è per Marx solo apparente, in quanto esso può essere ricondotto al feticismo delle merci:
"Di dove sorge ... il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale dell'eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore di prodotti del lavoro, ed infine i rapporti tra produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.
L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l'immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori...
Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste tra gli uomini stessi...
Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci..." (ICP, I, pp. 87 -90).
Il feticismo delle merci sovrappone al rapporto sociale delle persone il rapporto tra cose che hanno un valore apparentemente intrinseco:
"Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è... che il rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in quanto un valore d'uso si riferisce all'altro quale valore di scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l'uno all'altro come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il valore di scambio è un rapporto tra persone, bisogna tuttavia aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose...
E' soltanto l'abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicché il rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco tra cose e tra cose e persone. Nella merce questa mistificazione è ancora molto semplice... Nei rapporti di produzione di più alto livello questa parvenza di semplicità si dilegua" (ICP, I, pag. 969-970).
Risolto l’arcano del valore, c’è un altro mistero che si presenta con il Capitalismo: l’origine del profitto. Marx la spiega in questi termini:
"Il processo di produzione capitalistico, preso nel suo complesso, è unità dei processi di produzione e di circolazione" (ICP, III, pag. 55)
"La forma immediata della circolazione delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione in merce di denaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive quest'ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione...
(...) il processo D-M-D non deve il suo contenuto a nessuna distinzione qualitativa dei suoi estremi, poiché essi sono entrambi denaro, ma lo deve solamente alla loro differenza quantitativa. In fin dei conti, vien sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato gettato al momento iniziale...
La forma completa di questo processo è quindi D-M-D', dove D' (...) è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento. Chiamo plusvalore (surplus value) questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario. Quindi nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma altera anche la propria grandezza di valore, mette su un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale" (ICP, I, pp. 177 -182).
Il plus-valore è l’aspetto fondamentale della produzione capitalistica. Si tratta di capirne l’origine:
"... il plusvalore non può sorgere dalla circolazione, e... quindi nella sua formazione non può non accadere alle spalle della circolazione qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa...
... il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata nel primo atto, D-M, ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce viene pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d'uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo d'una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe essere tanto fortunato da scoprire all'interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore; tale dunque che il consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, cioè la forza-lavoro" ( ICP, I, pp.199 -201).
E’ nell’uso della forza-lavoro come merce che si origina il plus-valore:
"... il processo lavorativo continua e dura oltre il punto nel quale sarebbe riprodotto e aggiunto all'oggetto del lavoro solo un puro e semplice equivalente del valore della forza-lavoro... dunque, con la messa in atto della forza-lavoro, non viene riprodotto solo il suo proprio valore, ma viene anche prodotto un valore eccedente. Questo plusvalore costituisce l'eccedenza del valore del prodotto sul valore dei fattori del prodotto consumati, cioè dei mezzi di produzione e della forza-lavoro" (ICP, I, pag. 252).
Il capitale compra dunque i mezzi di produzione e la forza-lavoro. Su questa base Marx opera una distinzione particolarmente importante:
"L'eccedenza del valore complessivo del prodotto sulla somma dei valori dei suoi elementi costitutivi è l'eccedenza del capitale valorizzato sul valore del capitale inizialmente anticipato. I mezzi di produzione da una parte, la forza-lavoro dall'altra, sono solo le differenti forme di esistenza assunte dal valore iniziale del capitale quando s'è svestito della sua forma di denaro e s'è trasformato nei fattori del processo lavorativo.
Dunque la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro, non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Quindi la chiamo parte costante del capitale, o, in breve, capitale costante.
Invece la parte del capitale convertita in forza-lavoro cambia il proprio valore nel processo di produzione. Riproduce il proprio equivalente e inoltre produce un'eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, può essere più grande o più piccolo. Questa parte del capitale si trasforma continuamente da grandezza costante in grandezza variabile. Quindi la chiamo parte variabile del capitale o, in breve: capitale variabile.
Le medesime parti costitutive del capitale che dal punto di vista del processo lavorativo si distinguono come fattori oggettivi e fattori soggettivi, mezzi di produzione e forza-lavoro, dal punto di vista del processo di valorizzazione si distinguono come capitale costante e capitale variabile" (ICP, I, pp. 252-253).
"Il capitale complessivo C si divide nel capitale costante c e nel capitale variabile v e produce un plusvalore pv. Il rapporto di questo plusvalore rispetto al capitale variabile anticipato, ossia pv/v, è da noi denominato saggio del plusvalore e indicato con pv'... Se tale plusvalore viene riferito, anzichè al capitale variabile, al capitale complessivo, esso assume la definizione di profitto (p) e il rapporto tra il plusvalore pv e il capitale complessivo C, ossia pv/C, si chiama saggio del profitto p'" (ICP, III, pp. 83-84)
E’ evidente, dunque, che per Marx profitto e plusvalore sono le due facce di una stessa medaglia:
"Una somma di valore è capitale in quanto viene anticipata per produrre un profitto...
Il profitto... è dunque la stessa cosa che il plusvalore, soltanto in una forma mistificata che peraltro sorge necessariamente nel modo capitalistico di produzione" (ICP, III, pp. 66-67).
Dato che il profitto è l’obiettivo del Capitale, non sorprende che esso miri costantemente ad aumentare la forza produttiva del lavoro in ogni modo:
"Il capitale non può fare a meno di metter sotto sopra le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso modo di produzione, per aumentare la forza produttiva del lavoro, per diminuire il valore della forza-lavoro mediante l'aumento della forza produttiva del lavoro, e per abbreviare così la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione di tale valore. Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall'accorciamento del tempo di lavoro necessario...
... il plusvalore relativo sta in rapporto diretto alla forza produttiva del lavoro... E’ quindi istinto immanente e tendenza costante del capitale aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre più a buon mercato la merce" (ICP, I, pag. 385-390).
Il processo di produzione capitalistico si può dunque sintetizzare nei seguenti termini:
"Il prodotto diventa merce; la merce diventa valore di scambio; il valore di scambio della merce è la sua qualità immanente di denaro; questa sua qualità di denaro si distacca da essa in quanto denaro, acquista un'esistenza sociale universale, separata da tutte le merci particolari e dal loro modo di esistenza naturale; il rapporto del prodotto con se stesso in quanto valore di scambio diventa il suo rapporto con un denaro che esiste accanto ad esso, o il rapporto di tutti i prodotti con il denaro esistente fuori da essi tutti" (GRD, I, pag. 76).
"La cristallizzazione "in forma di denaro" è un prodotto necessario del processo di scambio, nel quale prodotti di tipo differente vengono di fatto equiparati e quindi trasformati di fatto in merci. L'estensione e l'approfondimento storico dello scambio dispiega l'opposizione latente nella natura della merce tra valore d'uso e valore… Quindi, la trasformazione della merce in denaro si compie nella stessa misura della trasformazione dei prodotti del lavoro in merci" (ICP, pag. 106).
“...l’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio” (ICP, I, pag. 113).
"Il valore di scambio posto nella determinatezza del denaro è il prezzo. Nel prezzo il valore di scambio è espresso come una determinata quantità di denaro. Ma poiché il denaro ha un'esistenza autonoma al di fuori delle merci, il prezzo della merce appare come relazione esterna dei valori di scambio o merci con il denaro". (GRD, pp. 125-126)
4) La riproduzione capitalistica
Avviata la produzione capitalistica, il ciclo che dal denaro ricava il plus-valore deve riprodursi il più rapidamente possibile:
"Il capitalista, trasformando denaro in merci che servono per costituire il materiale di un nuovo prodotto, ossia servono come fattori del processo lavorativo, incorporando forza-lavoro vivente alla loro morta oggettività, trasforma valore, lavoro trapassato, oggettivato, morto, in capitale, in valore autorealizzantesi; mostro animato che comincia a "lavorare" come se avesse amore in corpo" (ICP, I, pag. 236).
"Adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale... lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un'impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne" (ICP, I, pp. 711 sgg.).
La spinta del capitale, che parte dall’industria, si estende inevitabilmente e necessariamente a tutte le forme di produzione:
"... le stesse circostanze che producono la condizione fondamentale della produzione capitalistica - l'esistenza di una classe di operai salariati - sollecitano il trapasso di tutta la produzione di merci in produzione capitalistica di merci. Nella misura in cui questa si sviluppa, essa opera disgregando e dissolvendo ogni altra più antica forma della produzione...
Della vendita del prodotto essa fa l'interesse principale, dapprima senza apparentemente attaccare il modo stesso della produzione...
Ma in un secondo tempo, là dove essa ha affondato le sue radici, distrugge tutte le forme di produzione di merci fondate o sul lavoro personale del produttore o soltanto sulla vendita del prodotto eccedente come merce. All'inizio essa generalizza la produzione di merci e poi trasforma gradualmente tutta la produzione di merci in produzione capitalistica" (ICP, II, pp.40-41).
E’ inevitabile che la sussunzione di ogni attività produttiva sotto il capitale dia luogo ad un sistema economico dotato di un tale impulso verso la crescita illimitata che diventa una macchina, all’interno della quale tutti gli esseri umani (capitalisti compresi) diventano ruote dell’ingranaggio:
“L’accumulazione o produzione su scala allargata, che appare come mezzo per una produzione sempre più estesa di plus-valore, cioè per l’arricchimento del capitalista come scopo personale di questo, ed è compresa nella tendenza generale della produzione capitalistica, diviene però in seguito mediante il suo sviluppo...una necessità per ogni capitalista individuale. Il costante ingrandimento del capitale diviene condizione per la conservazione del capitale stesso” (ICP, II, pag. 89).
"La grande industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può più attendere la domanda. La produzione precede il consumo, l'offerta fa violenza alla domanda. Nella società attuale, con l'industria basata sugli scambi individuali, l'anarchia della produzione, che è fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso" (MDF, pag. 35).
"...il capitale, in quanto rappresenta la forma universale della ricchezza - il denaro - è l'impulso illimitato e smisurato ad oltrepassare il suo limite. Ogni limite per esso è e deve essere un ostacolo. Altrimenti esso cesserebbe di essere capitale, ossia denaro che produce se stesso" (GRD, I, pag. 289).
6) La mondializzazione del mercato
L’impulso del capitale alla crescita illimitata comporta inesorabilmente l’estensione del modello capitalistico a tutto il mondo, con un effetto stregante:
“Abbiamo già dimostrato a proposito delle più semplici categorie del modo di produzione capitalistico, e anche della produzione mercantile, la merce e il denaro, il carattere mistificante che trasforma i rapporti sociali, ai quali gli elementi materiali della ricchezza servono da depositari nella produzione, in proprietà di queste cose stesse (merce) e ancora in modo più accentuato il rapporto di produzione stesso in una cosa (denaro). Questo travisamento è comune a tutte le forme di società, in quanto giungono alla produzione mercantile e alla circolazione monetaria. Ma nel modo di produzione capitalistico e nel caso del capitale, che è la sua categoria dominante, questo mondo stregato e capovolto si sviluppa ancora molto di più...
In capitale-profitto, o ancora meglio in capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, in questa trinità economica collegante le parti costitutive del valore e della ricchezza in generale con le sue fonti, la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico-sociale è completa: il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di monsieur le Capital e Madame la terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose.” (ICP, III, pp. 1111-1115)
La globalizzazione capitalistica, secondo Marx, comporta pericoli molteplici, il più rilevante dei quali è che la valorizzazione del denaro giunga al punto tale da diventare fine a se stessa, vale a dire da trasformarsi in pura speculazione finanziaria, in un gioco delle tre carte che estende a livello universale la pratica dell’usura:
“E’ nel capitale produttivo di interesse che il rapporto capitalistico perviene alla sua forma più esteriore e assume l’aspetto di un feticcio. Noi abbiamo qui D-D’, denaro che produce più denaro, valore che valorizza se stesso, senza il processo che serve da intermediario tra i due estremi... Nel capitale produttivo di interesse questo feticcio automatico, valore genera valore, denaro che produce denaro, senza che in questa forma sussista più nessuna traccia della sua origine, è quindi nettamente messo in rilievo... Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine. In D-D’ noi abbiamo la forma empirica del capitale, il rovesciamento e l’oggettivazione del rapporto di produzione alla più alta potenza: forma produttiva di interesse, la forma semplice del capitale in cui esso è presupposto al suo proprio processo di riproduzione; capacità del denaro, ossia della merce, di valorizzare il proprio valore indipendentemente dalla riproduzione, la mistificazione del capitale nella sua forma più stridente” (ICP, III, pp. 539-541).
“Il sistema creditizio che ha come centro le pretese banche nazionali e i potenti prestatori di denaro, e gli usurai che pullulano attorno ad essi, rappresenta un accentramento enorme e assicura a questa classe di parassiti una forza favolosa, tale non solo da decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche da intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva - e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa” (ICP, III, pag. 748).
“Lo sviluppo del sistema creditizio si compie come reazione contro l’usura. Ma ciò non deve essere frainteso... Significa né più né meno che la subordinazione del capitale produttivo di interesse alle condizioni e alle esigenze del modo di produzione capitalistico... Ciò che distingue il capitale produttivo d’interesse, in quanto elemento essenziale del modo di produzione capitalistico, dal capitale usuraio, non è affatto la natura o il carattere di questo capitale stesso. Sono soltanto le mutate condizioni nelle quali esso opera... Con il sistema bancario la ripartizione del capitale è sottratta alle mani dei privati e degli usurai, come un’attività particolare, come una funzione sociale. Ma la banca e il credito in pari tempo divengono così il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti, e uno dei veicoli più efficaci delle crisi e delle speculazioni” (ICP, III, pp. 819-828).
Nonostante questa durissima critica del sistema capitalistico e della sua tendenza alla degenerazione, Marx non ha mai celato la sua convinzione che tale sistema rappresenti una necessaria fase di transizione verso un mondo fatto a misura d’uomo, perché esso ne crea le premessa, anche senza riuscire ad utilizzarle:
"L'esplorazione della terra in tutte le direzioni per scoprire sia nuovi oggetti utili, sia nuove proprietà utili dei vecchi; come pure nuove proprietà che essi hanno come materie prime ecc.; lo sviluppo delle scienze naturali al suo punto più alto; come pure la scoperta, la creazione e il soddisfacimento di nuovi bisogni generati dalla società stessa; la formazione di tutte le qualità dell'uomo sociale e la produzione di esso come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni - la sua produzione come prodotto sociale possibilmente totale e universale (giacché per avere un'ampia gamma di godimenti dev'esserne capace, ossia colto in alto grado) - tutto ciò è condizione della produzione fondata sul capitale...
Se da un lato la produzione fondata sul capitale crea l'industria universale - ossia lavoro eccedente, lavoro che crea valore -, dall'altro crea un sistema di sfruttamento generale delle qualità naturali e umane, un sistema dell'utilità generale che appare portato dalla scienza stessa come da tutte le qualità fisiche e spirituali, mentre nulla di più elevato in sé, di giustificato per se stesso appare al di fuori di questo circolo della produzione e dello scambio sociali.N[Soltanto col capitale] la natura diviene puro oggetto per l'uomo, puro oggetto dell'utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un'astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo che come mezzo di produzione.
In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l'idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto questo esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l'espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito" (GRD, I, pp. 376-377).
"Il grande ruolo storico del capitale è di creare questo lavoro eccedente, che è lavoro superfluo dal punto di vista del puro e semplice valore d'uso, della pura e semplice sussistenza. E la sua funzione storica è compiuta non appena da un lato i bisogni sono sviluppati a tal punto che il lavoro eccedente, al di là del necessario, è divenuto esso stesso un bisogno universale, il frutto cioè dei bisogni individuali stessi, - dall'altro la laboriosità generale, mediante la rigida disciplina del capitale attraverso cui sono passate le successive generazioni, si è sviluppata fino a diventare un bene comune della nuova generazione.
Infine la sua funzione storica è compiuta quando lo sviluppo delle forze produttive del lavoro - che il capitale, nella sua illimitata brama di arricchimento e nelle condizioni in cui esso solo può realizzarlo - è giunto a un punto tale che da un lato il possesso e la conservazione della ricchezza generale richiedono un tempo di lavoro inferiore per l'intera società, e dall'altro la società lavoratrice assume un atteggiamento scientifico verso il processo della sua progressiva e sempre più ricca riproduzione; e quindi ha cessato di esistere il lavoro che l'uomo in essa svolge mentre può farlo svolgere dalle cose in vece sua...
In quanto aspirazione incessante alla forma generale della ricchezza, il capitale spinge però il lavoro oltre i limiti del suo bisogno naturale, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di un'individualità ricca che è universale nella produzione quanto lo è nel consumo, di un'individualità il cui lavoro perciò non si presenta nemmeno più come lavoro, ma come pieno dispiegarsi dell'attività stessa, di un'attività nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa: al bisogno naturale è infatti subentrato un bisogno generato storicamente" (GRD, I, pag. 278).
5) La teoria della crisi
Perché il capitalismo pone le premesse di un mondo fatto a misura d’uomo, ma non riesce a realizzarlo?
La risposta di Marx fa riferimento alle sue contraddizioni intrinseche, la prima delle quali è il freno che esso pone al lavoro e alla creazione di valore laddove essi non producono profitto:
"... il capitale costringe gli operai a spingersi oltre il lavoro necessario, li costringe al lavoro eccedente. Solo così esso si valorizza e crea valore eccedente. Ma d'altro canto esso pone il lavoro necessario solo nella misura in cui e in quanto è lavoro eccedente e questo è realizzabile come valore eccedente. Esso pone quindi il lavoro eccedente come condizione del lavoro necessario e il valore eccedente come limite del lavoro materializzato, del valore in generale. Appena non è in grado di porre quest'ultimo, esso non pone il primo...
Il capitale limita quindi... il lavoro e la creazione di valore, e lo fa per la medesima ragione per cui e in quanto esso crea lavoro eccedente e valore eccedente. Esso pone quindi, per sua natura, un limite al lavoro e alla creazione di valore, un limite che è in contraddizione con la sua tendenza a dilatarli all'infinito. E in quanto pone un suo specifico limite e in pari tempo tende a superare ogni limite, esso è la contraddizione vivente" (GRD, pag. 590).
La seconda contraddizione riguarda il fatto che lo sviluppo della tecnica, aumentando la produttività, riduce la quota del lavoro vivo, del capitale variabile, e, in conseguenza di questo, determina una riduzione del saggio del profitto:
"Dato che la massa di lavoro vivo impiegata diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati produttivamente) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore, dovrà essere costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto fra la massa costituisce però il saggio del profitto che dovrà per conseguenza diminuire costantemente" (ICP, III, pp. 301-302).
"La progressiva tendenza alla diminuzione generale del saggio generale del profitto è.. solo un'espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo della produttività sociale del lavoro. Ciò non vuol dire che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altre ragioni, ma significa che, in conseguenza della natura stessa della produzione capitalistica, e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in una diminuzione del saggio generale del profitto" (ICP, III, pag. 301).
La caduta del saggio del profitto legata alla produzione industriale accentua la tendenza del Capitale a valorizzarsi al di fuori della produzione, vale a dire sul terreno speculativo:
"Caduta del saggio del profitto ed acceleramento della accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva. L'accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su ampia scala e di conseguenza una composizione superiore del capitale. D'altro lato la diminuzione del saggio del profitto accelera, a sua volta, la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione...
D'altro lato in quanto il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, è lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne rappresenta l'unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente ad un eccesso di popolazione" (ICP, III, pp.339-340).
La conclusione di questa analisi è che il capitalismo, nonostante abbia sprigionato forze produttive in misura incommensurabile al passato, finirà con l’ostacolare l’uso della ricchezza a fini sociali, vale a dire a ripiegarsi in un vano tentativo di persistere indefinitamente:
"Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l'autovalorizzazione del valore-capitale... si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l'accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive del lavoro.
Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.
Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono" (ICP, III, pag. 352).
Le contraddizioni del capitalismo, del resto, sono attestate dalle crisi ricorrenti cui esso va incontro, che sono più frequenti che nel passato dell’umanità. Marx ha avanzato varie teorie sulla genesi di tali crisi, la più lucida delle quali verte sul paradosso della sovraproduzione, dello scarto, cioè, tra l’offerta e la domanda:
"I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create.
Nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi sono divenuti troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per contenere la ricchezza da essi prodotta.
Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse" (MPC, pp. 63-65).
Il nodo irrisolto: plusvalore, sfruttamento e alienazione
E' difficile non rimanere letteralmente esterrefatti dalla capacità che Marx dimostra di andare al di là delle apparenze della realtà storica a lui contemporanea e di coglierne le essenze, vale a dire le cause che la generano, le logiche che la sottendono, il suo significato epocale, i limiti e le contraddizioni che la caratterizzano.
Tanto più si rimane sorpresi se si tiene conto che il periodo in cui Marx progetta e realizza (in parte) la sua grandiosa opera economica, dal 1850 al 1880, coincide con una fase di sviluppo e di espansione del capitalismo che ha il carattere di uno straordinario boom, il quale trasforma gran parte dei paesi sviluppati in economie industriali e si protende - con l'invenzione di macchine sempre più efficienti, la creazione di una fittissima rete ferroviaria, la crescita dei trasporti navali, il telegrafo - verso la mondializzazione dei mercati.
Come si è detto, Marx ha un vivo interesse per la scienza e per la tecnica. Egli, che sogna un mondo nel quale l'uomo possa affrancarsi il più possibile dal lavoro, delegandolo alle macchine, è letteralmente entusiasta della capacità che l'umanità ha raggiunto, con un travaglio secolare, di sfruttare a pieno e razionalmente le risorse della natura. Alcuni critici recenti hanno imputato a Marx questa infatuazione per la tecnica come se egli abbia sposato acriticamente la causa dell'industrialismo, che sta portando il pianeta al collasso ambientale. Si tratta di critiche sostanzialmente sciocche.
Marx riteneva di sicuro necessario sfruttare le risorse ambientali, ma riteneva che esso dovesse essere funzionale a produrre un ambiente materialmente e culturalmente salubre per l'uomo. Egli tra l'altro, grazie alle notizie fornitegli da Engels, ha preso atto precocemente del terribile inquinamento delle città inglesi, che incombeva soprattutto sulla salute degli operai, già duramente provati dal lavoro in fabbrica.
Del resto, egli non ha mai fatto mistero della convinzione che il comunismo si potesse e si dovesse realizzare solo partendo da uno sviluppo di livello elevato delle forze produttive, e quindi sulla base della ricchezza prodotta dal capitalismo.
Per questo, egli è stato investito da critiche anche da parte di socialisti e di comunisti estremisti, che hanno contestato gli elogi rivolti al capitalismo. Tali critiche non tengono conto del fatto che, nello sviluppo delle forze produttive determinato dal Capitalismo, egli identificava una fase storica di passaggio necessaria verso il Comunismo, vale a dire verso l'assunzione del controllo da parte degli esseri umani sul loro destino.
La sbalorditiva analisi che Marx fa del sistema capitalistico ha indotto, negli sviluppi ulteriori del marxismo, come si è detto più volte, l'enfatizzazione del Marx maturo, "scientifico", rispetto a quello giovanile, filosofico e umanistico.
Ritengo che il passaggio dalla fase giovanile a quella matura sia un passaggio estremamente significativo nella misura in cui esso implica l'applicazione del metodo della demistificazione ad un intero sistema economico-sociale e alle coscienze di coloro che sono in essi coinvolti.
Il problema è che a Marx non basta demistificare, che, nel caso in questione, significa dimostrare che le leggi oggettive dell'economia a cui si riconduce il liberismo sono in realtà espressive di una determinata fase storica di organizzazione dei processi produttivi - impresa che si può ritenere, senz'altro, scientifica. Egli intende ricavare dall'analisi critica del capitalismo la prova certa e incontrovertibile, dunque scientifica secondo un’accezione ottocentesca della scienza, che esso è destinato inesorabilmente al declino e alla fine: mira, insomma, ad anticipare gli sviluppi della storia e a dimostrare che essi sono ricavabili da quella stessa analisi.
Il problema è che, con questo intento, finisce per incunearsi in un vicolo cieco.
E’ il presupposto stesso alla base della sua analisi a produrre questa conseguenza, vale a dire ad esporre il suo pensiero ad una critica di scarsa scientificità.
Marx, come si è detto, incentra l’analisi del Capitalismo su un concetto che egli mutua da Smith e da Ricardo, secondo il quale il valore delle merci si identifica con la quantità di lavoro vivo in esse incorporato attraverso l'ausilio delle macchine (che, essendo esse stesse prodotte, Marx definisce lavoro accumulato o morto). Dato che questo valore è superiore al denaro investito dal capitalista per acquistare i fattori di produzione (materie prime, macchine, forza-lavoro), si tratta di capire da dove derivi questa crescita. Sulla base della teoria del valore-lavoro, Marx non ha dubbi: deriva dal fatto che il lavoro è pagato meno di ciò che esso produce.
Il plusvalore, vale a dire il lavoro "rubato" dal capitalista all'operaio, si coagula nella merce, vale a dire in una "cosa" che sembra averlo per conto proprio. La circolazione delle merci, che vengono scambiate con il denaro, danno luogo al profitto, che alimenta la riproduzione del ciclo capitalistico e dà ad esso una dinamica protesa verso uno sviluppo indefinito della ricchezza.
Ora se il valore di scambio delle merci non fa altro che trasformare in un'astrazione - contrassegnata simbolicamente dal denaro - il tipo di rapporto sociale che consente al capitalista di sfruttare l'operaio, appropriandosi di una parte del suo tempo di lavoro, si dovrebbe dare la possibilità scientifica di trasformare il plusvalore in prezzi di mercato, vale a dire di spiegare questi sulla base del plusvalore.
Perché questo problema è importante? Perché sul mercato il valore di scambio appare solo sotto forma di prezzi, ovvero sotto forma di beni monetizzabili. Se il valore di scambio è espressivo del plus-valore, i prezzi devono potere essere ricavati da esso.
Questo problema della trasformazione ha ossessionato Marx fino alla fine dei suoi giorni. Convinto che se ne dovesse fornire una formalizzazione matematica, egli ha intrapreso addirittura negli ultimi anni di vita studi di algebra superiore.
Oggi sappiamo con certezza perché lo sforzo di Marx è risultato vano: ricavare dal plusvalore una teoria dei prezzi è impossibile. Lo ha dimostrato, senza possibilità di smentita, un economista italiano, P. Sraffa, che era tanto poco ostile al marxismo da avere intrattenuto una densa corrispondenza con Antonio Gramsci.
Non è il caso, ovviamente, di entrare nei dettagli tecnici, che sono estremamente complessi. Mi limito a dire che, volendo concedere a Marx l’onore delle armi, si può tutt’al più giungere a sostenere, come fanno oggi parecchi economisti, che la teoria del plusvalore ha un valore parziale.
La scoperta che le previsioni “scientifiche” di Marx sull’inesorabile declino del Capitalismo si fondano su di un presupposto errato ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai liberisti. Ma è stato ed è un sospiro frettoloso. Posto che la teoria di Marx non è “scientifica”, e quindi che le previsioni di una fine certa del capitalismo che da essa discendono non hanno un carattere deterministico, rimane vero che essa può essere agevolmente trasposta su di un piano antropologico e sociale.
Il fatto che il valore di una merce non sia riconducibile in toto al lavoro in essa coagulato e che i prezzi delle merci non possano essere ricavati dal plusvalore non significa, infatti, che non esiste lo sfruttamento lavorativo, bensì solo che la categoria dello sfruttamento ha una portata più ampia rispetto al plusvalore, e che il suo significato trascende l'ambito lavorativo.
In un certo senso, questo concetto è presente nel Marx dei Manoscritti, laddove egli rileva efficacemente che il lavoro non solo produce più di quanto viene pagato, ma che esso, con la sua organizzazione complessiva, degrada l'operaio fino a livelli infra-umani. Non è solo il tempo di lavoro in gioco, ma l'intera esistenza dell'essere umano, che si riduce al lavoro, al riposo strettamente necessario e alla procreazione.
Lo sfruttamento, insomma, implica anche il "furto" del tempo di lavoro, ma soprattutto la mortificazione di tutte le potenzialità umane programmate per l'autorealizzazione.
Nel capitolo del Capitale sulla giornata lavorativa, la disumanità dello sfruttamento capitalistico è denunciata con estremo vigore. Marx scrive:
“In primo luogo è evidente che l’operaio, durante tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro e perciò che tutto il suo tempo disponibile è, per natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene alla autovalorizzazione del capitale. Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari —: fronzoli puri e semplici!” (ICP, I)
Ancora oggi, dopo oltre un secolo e mezzo di sviluppo del Capitalismo, le prove dello sfruttamento economico sono molteplici. In periodi di espansione, la crescita dei salari è minima a fronte dei profitti; nei periodi di crisi, i salari vengono compressi e le ristrutturazioni obbligano i dipendenti ad aumentare la produttività nonostante il loro numero (per via dei licenziamenti) si contragga. Il dislocamento delle aziende nei paesi in cui la manodopera ha un prezzo inferiore a quella occidentale, significa né più né meno che colà essa può essere sfruttata meglio. Esempi di schiavizzazione lavorativa a carico soprattutto di donne e di bambini sono affiorate in questi anni con una cadenza tale da indurre alcuni movimenti umanitaristici a denunciare all'ONU la violazione dei diritti umani.
Dunque, lo sfruttamento del lavoro esprime una logica intrinseca al capitalismo.
Esso va riferito al fatto che il Capitale considera l'uomo non solo come una merce, che, una volta acquistata, può essere usata a piacimento (sia pure entro certi limiti compatibili con la sopravvivenza), bensì come una macchina che deve funzionare sempre al massimo delle sue possibilità. e le cui energie vitali devono esaurirsi nel lavoro. Lo sfruttamento lavorativo, insomma, è tout court la negazione della soggettività umana.
Sappiamo che, nei paesi emergenti, lo sfruttamento si realizza con modalità non molto o affatto diverse rispetto a ciò che è accaduto in Occidente all'epoca dell'avvio dell'industrializzazione. Altre modalità più vicine a noi sono però ancora più significative.
Prendiamo in considerazione non già l'operaio di una fabbrica, ma un impiegato dipendente da una società privata (con un contratto, sempre più raro, tra l'altro, a tempo indeterminato: un lavoratore garantito, insomma). All'insegna del mito della produttività, egli deve fornire un fatturato che ormai viene controllato direttamente sul suo computer. Il fatturato comporta un ritmo di lavoro continuo e sempre con lo stesso rendimento (come se non fosse noto che, dopo alcune ore, il rendimento inesorabilmente declina). Oltre alla pausa pranzo, che talvolta viene in parte utilizzata per rimediare a dei ritardi, egli non deve distrarsi, non deve parlare con i colleghi se non per motivi inerenti al lavoro, ha diritto ad uscire per alcuni minuti per un caffè, una sigaretta o per andare al bagno, ma i minuti sono contati e, in alcune aziende, anche per queste minuscole libertà occorre chiedere il permesso.
Ho fatto questo esempio perché esso permette di capire la logica totalizzante del capitalismo e la circostanza per cui oggi gli impiegati, che lavorano ormai quasi tutti con il computer, si trovano più o meno a sperimentare gli effetti della “catena di montaggio”, già a lungo vissuta dagli operai.
Paradossalmente, il discorso non cambia se ci si sposta dall'altra parte, dalla parte dei manager. Di sicuro essi godono di straordinari privilegi, che vengono però pagati al prezzo di una dedizione totale al lavoro, per cui essi non lavorano mai meno di dieci ore al giorno, e vivono sul filo di una perenne precarietà, perché il loro contratto implica che, se non riescono a raggiungere i risultati per cui sono stati assunti (aumento continuo della produttività), essi possono essere licenziati da un giorno all'altro.
Se questo non basta a far capire la logica del sistema, c'è un fenomeno sociologico che la comprova in maniera definitiva e per il quale non sembra improprio parlare di una nuova forma di schiavitù.
Tale fenomeno si realizza spesso, nella nostra società, a livello di liberi professionisti, che lavorano da dodici a quattordici ore la giorno (né più né meno come gli operai all'epoca di Marx!). Certo essi lavorano liberamente per guadagnare sempre di più, non per sopravvivere, e di fatto i loro guadagni sono spesso adeguati se non superiori al sacrificio che fanno. Nessuno insomma trae dal loro lavoro un plusvalore, pure sarebbe difficile non inserirli nella categoria degli sfruttati.
Lo sfruttamento, insomma, in un'ottica moderna, si realizza ovunque, costretto dalle circostanze o per motivazioni indotte e in gran parte inconsapevoli, un soggetto viene trattato o tratta se stesso alla stregua di una macchina da lavoro.
Oggi, però, dato che, al di là di condizioni oggettive che richiedono, da parte del lavoratore, la subordinazione al Capitale, la trasformazione dell'uomo in una macchina da lavoro o, come si è già accennato, in un automa che agisce unicamente sulla base del calcolo economico è finalizzata sostanzialmente al raggiungimento di un elevato potere di consumo, occorrerebbe far rientrare nella categoria dello sfruttamento anche il consumismo compulsivo, che produce consistenti profitti per il sistema, e che psico-sociologicamente rappresenta il tentativo di riempire con oggetti lo svuotamento esistenziale da esso prodotto.
La categoria dello sfruttamento, dunque, può essere estesa addirittura ai consumatori. I fenomeni di consumismo compulsivo sono fin troppo noti perché ci si soffermi su di essi. Nel nostro mondo un numero crescente di soggetti, fin dall'adolescenza, avvertono il bisogno incoercibile di cibo, alcol, fumo, droghe, ansiolitici, antidepressivi, antalgici, ecc. Tale bisogno si può definire alienato nella misura in cui esso identifica in oggetti esterni una potenzialità di soddisfazione che l'uomo di fatto può raggiungere solo attraverso l'esercizio attivo delle sue potenzialità.
In questa cornice discorsiva, una riflessione va dedicata ai bambini, che sono ormai, con gli adolescenti, un target privilegiato dell'industria. Essi vengono costantemente sollecitati a sviluppare falsi bisogni - riferiti al cibo, all'abbigliamento, ai giocattoli, ai videogiochi, ecc. essi sono, non meno degli adulti, sfruttati dal sistema.
Alla luce degli sviluppi del capitalismo, appare evidente che l'alienazione - intesa come perdita di consapevolezza dell'uomo sui suoi reali bisogni e sulle modalità attraverso le quali essi possono indurre una soddisfazione - è un fenomeno più rilevante del plusvalore. Essa, in tutti i suoi aspetti, implica l'assoggettamento dei bisogni umani - di socialità e di sviluppo individuale - ai bisogni del Capitale.
Se Marx fosse rimasto più fedele allo spirito antropologico dei suoi manoscritti giovanili, la sua analisi del Capitalismo sarebbe risultata più persuasiva, più densa e sicuramente meno passibile di interpretazioni meramente economicistiche. In quell’ottica, l'alienazione non avrebbe riguardato solo la separazione dell'uomo dal suo prodotto o dell'uomo dall'uomo, ma addirittura la separazione dell'uomo da se stesso, dalla sua esigenza di uno sviluppo multiforme, ricco e articolato, che non può certo realizzarsi attraverso una dedizione esclusiva al lavoro strumentale (sia esso finalizzato alla sopravvivenza o alla ricchezza, al prestigio, ecc.) o al consumismo compulsivo.
Il problema è che Marx, per un verso, ha inteso differenziare la sua teoria da quella socialista, che si incentrava su di un umanitarismo ai suoi occhi dolciastro ("Tutti gli uomini sono fratelli"), per un altro, come s’è detto più volte, ha preteso di dimostrare come un teorema la storicità e la transitorietà del sistema capitalistico, e quindi l'inesorabilità di un suo superamento.
A tale fine, egli ha dovuto spingere la sua analisi sino al punto di provare definitivamente che le cause destinate a promuoverne il superamento sono intrinseche al sistema capitalistico stesso. Nell'ottica di questo teorema, egli aggancia al pusvalore l'ipotesi della diminuzione costante del saggio del profitto. Se il profitto, che deriva dall'appropriazione del plusvalore, è l'unica motivazione che anima la produzione capitalistica, e se esso è destinato inesorabilmente a diminuire via via che il capitale costante - le macchine - cresce e quello variabile - il lavoro umano - diminuisce, ne segue che il capitalismo è destinato ad incepparsi o perché l'offerta supera la domanda (sovrapproduzione, vale a dire immissione sul mercato di beni che la popolazione non può acquistare) o perché esso, nella sua tensione univoca verso l'autovalorizzazione, deve imboccare altre vie, tra cui la speculazione.
L'ipotesi della diminuzione costante del saggio di profitto, come quella del plusvalore, è stata al centro di un dibattito vivacissimo tra gli economisti. Oggi tutti sono d'accordo con il fatto che essa sembra definire una componente intrinseca dello sviluppo capitalistico. Data l'invalidità del presupposto su cui essa si fonda, vale a dire la teoria del plusvalore, la diminuzione però è molto meno radicale di quanto pensava Marx, per cui la possibilità che il sistema giunga ad una crisi finale in conseguenza della diminuzione del saggio del profitto sembra piuttosto remota.
Marx stesso, del resto, ha previsto la possibilità che la diminuzione degli investimenti produttivi del capitale potesse essere compensata da una crescita esponenziale degli investimenti finanziari, vale a dire dalla speculazione che pretende di produrre denaro attraverso il denaro. Egli ha previsto anche che la speculazione, con il suo carico di corruzione, potesse determinare uno squilibrio grave del sistema.
Ciò che non poteva prevedere, e oggi si è realizzato, è che, nel momento in cui la bolla speculativa assume dimensioni tali che il suo scoppio rischia di fare affondare il sistema, lo Stato si trova costretto ad intervenire per salvare il salvabile, privatizzando i profitti e socializzando le perdite.
In conclusione, l'analisi di Marx fa del Capitalismo si può ritenere una delle più belle imprese del pensiero umano. Valida per molti aspetti, che meritano di essere approfonditi, essa, però, è inficiata da un finalismo deterministico nel quale Marx identifica il carattere scientifico della sua teoria rispetto al socialismo utopistico, che non sembra però applicabile alla storia, dato il numero indefinito di variabili che concorrono al suo sviluppo.
Ritenere il finalismo implicito nella teoria di Marx un tributo ingenuo al suo apprezzamento della scienza e al positivismo che, all'epoca, comincia a diffondersi, non significa però giungere a conclusioni premature riguardo al fatto che la civiltà capitalistica rappresenta lo stadio finale dello sviluppo storico.
Anni fa, un arrembante sociologo, Francis Fukuyama, ha scritto un libro che ha avuto un grande e immeritato successo il cui titolo era La fine della storia. Il contenuto del libro era che la caduta del muro di Berlino contrassegnava la vittoria definitiva del capitalismo; vittoria che, affrancandolo dalla necessità di difendersi dalla minaccia del comunismo, ne avrebbe assicurato uno sviluppo mondiale graduale, armonioso e incontrastato. Fukuyama riecheggiava la promessa dei teorici del capitalismo dell'epoca di un benessere universale e senza più crisi cicliche.
Anche senza dare credito alla teoria del plusvalore di Marx, che può essere sormontata in nome di una teoria dello sfruttamento, è fuor di dubbio che le sue previsioni sull'andamento ciclico del capitalismo, con fasi alterne di espansione e di recessione, si sono rivelate fondate. E' vero che egli riteneva che il sistema sarebbe andato inesorabilmente incontro ad una crisi finale che avrebbe aperto gli occhi dell'umanità sulle sue logiche, contrastanti con i bisogni sociali. Le crisi di fatto si sono succedute: quella del 1929 in particolare, che ha scosso profondamente tutti i paesi occidentali, senza investire il sistema sovietico, è sembrata veramente la crisi finale. Essa, invece, è stata superata. Presumibilmente, sarà superata anche la crisi attualmente in corso, la più grave dopo quella del 1929.
Sull'inesorabile succedersi delle crisi sistemiche, però, occorre fare alcune considerazioni.
Il problema delle crisi cicliche
Il problema delle crisi cicliche del capitalismo è stato sempre, fino a partire dal Manifesto del partito comunista, centrale nel pensiero di Marx, al punto che egli ne ha fornito, nel corso del tempo, diverse interpretazioni. Senza entrare in dettagli tecnici, basta dire che il fattore in comune a queste diverse interpretazioni è riconducibile al fatto che il capitale tende a valorizzare se stesso, e quindi non ha alcuna attenzione ai bisogni sociali. L'espressione estrema di questa tendenza, che, all'epoca di Marx, comincia appena a profilarsi, è il capitalismo finanziario, il cui fine - generare una maggiore quantità di denaro con il denaro stesso - implica l'abbandono del piano della produzione di beni a favore della speculazione.
Nel capitalismo finanziario Marx coglie "la mistificazione del capitale nella sua forma più stridente": quella per cui esso non ha più neppure bisogno di sfruttare il lavoro, poiché sfrutta direttamente le potenzialità che il sistema offre alla speculazione e, in un certo qual modo, restaura un regime di privilegio tale per cui un certo numero di privilegiati possono tornare a vivere di rendita.
Ora, il problema è che se lo sfruttamento lavorativo trova un limite nel fattore umano, quello speculativo non trova altro limite che nelle leggi del mercato la cui merce è il denaro. Queste leggi, però, sono così poco oggettive, che esse possono essere tranquillamente violate.
Analizziamo con attenzione ciò che è accaduto negli ultimi quindici anni. La globalizzazione ha coinvolto il mondo intero determinando, negli anni Novanta, una fase di espansione senza precedenti. Essa è avvenuta all'insegna del modello statunitense che, affrancato dal confronto con il regime comunista, è sembrato decollare lasciando dietro l'Europa, imbrigliata dal suo Stato assistenziale.
Il successo dell'America è stato tale che alcuni economisti, seri ma evidentemente ideologicamente abbagliati, sono giunti a sostenere che il modello americano aveva ormai risolto il problema delle crisi cicliche del capitalismo essendo riuscito a far convivere un basso tasso di interessi, un'inflazione al minimo e la piena occupazione. Questo significava, né più né meno, che il conflitto tra capitale e lavoro si era magicamente risolto, e non si sarebbe più riproposto.
Gli economisti in questione non solo non hanno tenuto conto che, negli Usa, in un periodo di crescita straordinaria, i profitti dei ricchi si sono centuplicati mentre i salari sono rimasti praticamente fermi, né del fatto che l'elevato tenore di vita americano si fondava praticamente sul debito pubblico e privato. Essi, soprattutto, non hanno tenuto conto che l'enorme liquidità prodotta dal basso interesse ha incrementato a dismisura la tendenza alla speculazione finanziaria, che ha prodotto prima la bolla speculativa dell'hi-tech nel 200, poi quella immobiliare nel 2007, che si è intrecciata con la messa sul mercato di una quantità indefinita di titoli-spazzatura fatti pagare come fossero sicuri, ad alto rendimento e a basso rischio.
Si sa come le cose sono andate a finire (anche se non si sa ancora come finiranno).
Non c'è stata mai una smentita più clamorosa del fatto che il sistema capitalistico non può affrancarsi dalle crisi cicliche. Se esso infatti viene regolato, il rischio è la stagnazione; se viene lasciato andare a briglie sciolte, procede sulla base di arraffare tutto e subito, senza alcuna attenzione alle conseguenze.
Nel caso della crisi che stiamo attraversando, i problemi sono ancora più ampi rispetto al passato. Nonostante la sua gravità, la crisi del 1929 ha scosso gli equilibri del mondo occidentale. Quella attuale ha scosso gli equilibri di tutto il mondo. Non solo: essa ha messo in crisi due principi elettivi del liberismo - la sua incompatibilità con il protezionismo e il ruolo marginale dello Stato nell'economia.
Il subentrare della crisi ha indotto quasi tutte le nazioni, sottobanco se non ufficialmente, ad adottare politiche protezionistiche di alcuni settori produttivi. Se, poi, la crisi non si è rivelata fatale per il sistema capitalistico, trascinando il mondo in una spirale vertiginosa di recessione, di stagflazione e di disperazione, ciò è da ricondursi all'intervento decisivo e sacrificale dello Stato, che ha salvato dal collasso il sistema bancario e assicurativo accollandosi, vale a dire accollando a tutti i cittadini, enormi perdite che risultano ora iscritte nel suo bilancio come debito pubblico.
Se c'era bisogno di una conferma che il libero marcato non solo non è capace di autoregolarsi, ma tende alla sregolatezza, a favorire i privilegi di pochi a danno dei più, tale conferma è inconfutabilmente arrivata. Se c'era bisogno di una conferma dell'analisi di Marx, secondo la quale la mondializzazione del mercato avrebbe acuito e non risolto il problema delle crisi cicliche, anch'essa è arrivata.
Dunque, nonostante la teoria del plusvalore va ritenuta non convalidabile in toto scientificamente, il carattere predatorio del capitalismo, la cui indifferenza nei confronti dei bisogni sociali, delle persone in carne ed ossa, è totale (almeno quando essi entrano in conflitto con la sua logica), è al di fuori di ogni dubbio.
Tale carattere è comprovato, come Marx ha intuito già nei Manoscritti del 1844, dal rapporto inverso tra la crescita della ricchezza e la miseria umana, reale e ancor più psicologica, che noi oggi, possiamo constatare con una evidenza maggiore rispetto all’Ottocento.
Il grande merito di Marx è di avere previsto questo secondo aspetto con una sorprendente chiarezza e di averlo interpretato in rapporto alla logica di un sistema che si è originato sulla base di una rivendicazione di indipendenza e di libertà dell’individuo dall’opprimente organizzazione sociale preesistente, ma è giunto poi a promuovere l’estraneazione degli esseri umani e la loro reciproca indifferenza.
Ciò detto, sembra importante sottolineare che il vicolo cieco teorico imboccato da Marx nel tentativo di dimostrare l'ineluttabile fine del Capitalismo non coincide affatto, come spesso si pensa, con una sorta di fanatismo politico.
Il realismo politico di Marx
Nonostante le rigidità ideologiche che gli sono state attribuite, delle quali l'unica vera è la incrollabile convinzione che il sistema capitalistico sia destinato ad essere sormontato, Marx ha manifestato nel corso della sua vita un notevole realismo politico. Fin dagli anni Quaranta, quando entra in rapporto con i giovani hegeliani, egli è francamente irritato dal loro radicalismo pseudo-rivoluzionario, vale a dire dalla loro pretesa di cambiare il mondo sulla base dei loro pensieri impregnati di ateismo e di "comunismo" (che essi, peraltro, di fatto non conoscono). Egli si rende conto della forte dipendenza degli esseri umani dalle condizioni oggettive di vita e pensa che il passaggio al comunismo non possa avvenire prima che lo sviluppo delle forze produttive sprigionate dal capitalismo sia giunto ad un elevato livello.
Ne L'ideologia tedesca del 1847 scrive: "Il capitalismo è una condizione preliminare assolutamente indispensabile, poiché, senza di esso, la penuria diverrebbe generale, e si ricadrebbe facilmente nell'antico pantano." Non solo: lo sviluppo delle forze produttive deve avvenire a livello mondiale perché quel passaggio si realizzi. La possibilità che la rivoluzione comunista si realizzi in un solo paese agli occhi di Marx è una sciocchezza, perché il comunismo non è un regime politico bensì un orizzonte che restituisce agli esseri umani la consapevolezza del loro legame sociale universale. Sullo stesso tema, Marx insiste in articolo dello stesso anno, sostenendo che se "il proletariato rovescia il dominio politico della borghesia, la sua vittoria sarà solo temporanea, solo un momento al servizio della rivoluzione borghese." Perché la vittoria si realizzi compiutamente, occorrerà attendere, lavorando e organizzandosi, fino a quando non saranno create "le condizioni materiali che rendono necessaria la soppressione del modo di produzione borghese e quindi anche il rovesciamento definitivo del dominio politico borghese."
La creazione di tali condizioni dipende, dunque, dal libero scambio e dall'universalizzazione dei mercati. Perciò, nel 1848, egli dichiara che, dato che solo lo sviluppo del capitalismo aprirà la via al comunismo "la miglior condizione per l'operaio è l'accrescimento del capitale.".
Il realismo politico di Marx è evidente anche nel 1848, quando un vento rivoluzionario percorre repentinamente l'Europa. Di fronte all'organizzazione di una Legione democratica di 15000 uomini che si mette in marcia verso la Germania al fine di abbattere il regime e di instaurare il socialismo, egli la definisce "una sciocchezza", il cui unico risultato, come di fatto avverrà, sarà quello di sacrificare inutilmente la vita di rivoluzionari autentici.
Sempre nel 1848 rientra in Germania per preparare le elezioni e, nonostante il radicalismo estremistico dei dirigenti della sinistra locale, si dichiara favorevole ad un'alleanza con la borghesia.
E' innegabile che un mutamento avviene sul finire del 1848, ma sull'onda del vergognoso tradimento della borghesia che si alle con le forze della reazione. Marx si convince che il proletariato dovrà farcela da solo ad avviare e a realizzare la rivoluzione. Ma questa convinzione rimane comunque agganciata al criterio per cui ciò potrà avvenire solo quando si daranno le condizioni oggettive adatte e quando la coscienza proletaria sarà sufficientemente matura per prendere in mano i destini del mondo.
Nel 49, nella previsione che la crisi economica in atto, possa innescare un'ulteriore rivolta, egli scrive: "Uno scoppio precoce della rivoluzione… sarebbe a mio parere una disgrazia, poiché, proprio ora che il commercio si trova in ascesa, le masse operaie in Francia, in Germania, ecc. sono rivoluzionarie probabilmente a parole."
Conscio della necessità di una lunga preparazione, conclusasi la rivoluzione del 48-49, Marx progetta la costituzione di una lega di partiti comunisti sparsi in tutto il mondo che operino alla luce del sole e si inseriscano nei giochi democratici, mirando a conseguire il potere della maggioranza.
Non si tratta di tatticismo, ma di convinzioni radicate se Marx torna su di esse nell'Indirizzo e nello Statuto dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (che diventerà poi la Prima internazionale). La presa di potere dei partiti comunisti è l'obiettivo politico di fondo. Esso richiede però la cooperazione tra i partiti stessi per promuovere l'alleanza degli operai sulla faccia del pianeta, la diffusione delle idee e lo sviluppo della coscienza di classe. Insomma,una rivoluzione a livello mondiale. Le modalità della presa di potere non possono essere univoche, perché dipendono dalle diverse situazioni nazionali. I partiti comunisti, comunque, devono dare prova di pragmatismo e non avventurarsi in inutili azioni clamorose.
In maniera assolutamente coerente con questo orientamento, Marx esulta allorché nel 1867 apprende che due deputati comunisti sono stati eletti al Reichstag sia pure nelle file di un partito riformista. L'emancipazione dei lavoratori può avvenire solo attraverso la lotta politica e la conquista della maggioranza parlamentare.
Questo è il motivo per cui Marx avversa radicalmente sia la furia iconoclasta di Bakunin, che mira alla distruzione dello Stato, sia gli orientamenti lassalliani, che preludono alla formazione della Socialdemocrazia, e ritengono che agli operai possa bastare l'emancipazione sociale.
L'entusiasmo di Marx per la Comune di Parigi è fuori di dubbio, ma si tratta di un'esperienza legittimata da libere elezioni, il cui tragico fallimento è dovuto al cinico patto stipulato tra il governo francese di difesa nazionale e la Prussia. E' vero che nell'opera dedicata a questa vicenda Marx illustra il modo in cui una rivoluzione proletaria, conquistato democraticamente il potere, deve trasformarlo in una "dittatura del proletariato" per mantenerlo. Non è superfluo ribadire che con il termine dittatura Marx fa riferimento ad un'istituzione attiva a Roma nel periodo della repubblica, che corrispondeva ad una delega transitoria del potere ai "dittatori" per scongiurare una situazione di estrema emergenza. L'emergenza che la Comune non ha saputo scongiurare è stata la drammatica e crudele repressione del potere borghese.
Tanto è vero questo che, nel luglio del 1870, concedendo un'intervista ad un giornalista statunitense, alla domanda sulle forme, democratiche o violente, attraverso cui i partiti comunisti intendono prendere il potere, Marx risponde che la rivoluzione è inutile in democrazia e specifica: "Un'insurrezione sarebbe folle dove con l'agitazione pacifica è possibile ottenere tutto in modo rapido e sicuro".
Nel settembre del 1871, infine, Marx convoca a Londra i membri dell'Internazionale per ribadire che i partiti comunisti devono uscire dalla clandestinità, accettare le regole parlamentari e rifiutare, in nome della democrazia, la rivoluzione violenta, laddove essa non si pone come assolutamente necessaria e sempre a condizione che siano maturate le condizioni oggettive per il suo successo: il pieno sviluppo delle forze produttive e una matura coscienza di classe dei lavoratori (operai e contadini).
Gli stessi concetti sono ribaditi nella Critica del programma di Gotha, che prelude alla costituzione del partito socialdemocratico tedesco. In essa, Marx conferma che, acquisita la maggioranza attraverso le elezioni, occorrerà ampliarla e mantenerla contro l'inevitabile reazione delle forze conservatrici. A tale fine, il partito comunista deve agire in maniera estremamente determinata, ma rispettando la libertà individuale, la libertà di stampa, la separazione dei poteri e la designazione dei dirigenti con libere elezioni.
Certo Marx è anche un passionale, incline alla violenza verbale soprattutto quando è preda dell'indignazione. Quando nel Capitale, analizza il pensiero di coloro che, di fronte alla prospettiva di una riduzione della giornata lavorativa, intendono dimostrare "scientificamente" che è proprio la decima ora da eliminare quella da cui i capitalisti traggono il loro margine di guadagno, per cui la sua abolizione di fatto non potrà che produrre l'inceppamento del sistema, la loro rovina e quella dei lavoratori, egli esploda nella minaccia per cui gli consiglia di ricordarsi di tanta protervia quando verrà la loro ultima ora.
Non c'è bisogno di ripeterlo: il realismo politico di Marx, l'accettazione della democrazia e del regime parlamentare non hanno nulla a che vedere con la Socialdemocrazia, perché l'ossessione di Marx è il superamento definitivo del sistema capitalistico e creare le condizioni economiche, sociali, politiche e giuridiche per cui esso non possa più tornare: in breve, mutuare da esso l'efficienza produttiva ma utilizzare la ricchezza che essa produce al fine di soddisfare i bisogni sociali, di promuovere lo sviluppo dell'uomo ricco, totale, universale di cui si è parlato.
Le due anime del marxismo
Il superamento del sistema capitalistico significa indubbiamente, per Marx, l'abolizione della proprietà privata. Con questo termine, però, Marx intende semplicemente l'impedimento opposto a qualunque essere umano di appropriarsi del lavoro e della vita di un altro uomo per sfruttarlo. Dato che lo sfruttamento si realizza in virtù del fatto che il capitalista acquista la forza-lavoro come merce solo perché dispone di mezzi di produzione che la richiedono, è la socializzazione dei mezzi di produzione, vale a dire la riappropriazione collettiva di essi a contrassegnare il passaggio al socialismo.
A riguardo, non sono insignificanti due notazioni.
La prima è che Marx ritiene che il comunismo, vale a dire il mondo della libertà nel quale l'uomo è il fine dell'uomo e la relazione sociale universale il suo massimo bisogno, non possa realizzarsi d'emblée. La socializzazione dei mezzi di produzione porta al socialismo, che è la premessa a partire dalla quale si può realizzare, con una maturazione crescente delle coscienze e con la produzione di individui universali, il vero comunismo.
La seconda notazione si riconduce al fatto che la proprietà privata, nella misura in cui ha prodotto l'individualismo egoistico e la sostituzione dello sviluppo dell'essere con la protesi alienante dell'avere, non ha degradato solo la classe operaia, bensì l'umanità tutta.
Queste notazioni sono importanti perché esse consentono di spiegare il definirsi, dopo Marx, di due correnti o "anime" del marxismo (nella misura in cui rappresentano diverse interpretazioni): quella che identifica nella presa del potere e nella statalizzazione dei mezzi di produzione la premessa indispensabile per procedere verso il mondo nuovo, e quella che, viceversa, ritiene che la conquista del potere non possa avvenire che in conseguenza di una disalienazione delle coscienze che porta la maggioranza della popolazione a condividere e a realizzare un mondo affrancato dall'oppressione.
Nella prima prospettiva, il capitalista o in senso lato il borghese è univocamente un nemico di classe contro cui lottare e da eliminare. Essa comporta di conseguenza, l'accentuazione del momento politico della rivoluzione.
Nella seconda prospettiva, il borghese è un essere umano alienato dal senso dell'avere che contagia, con l'apparente benessere dovuto al denaro, la stessa classe operaia, promuovendo il suo imborghesimento. In questa prospettiva, la lotta politica, pure indispensabile, è subordinata alla demistificazione delle coscienze dal "mondo stregato" creato dal capitalismo, vale a dire da una promessa di felicità che postula la mercificazione dei rapporti umani e, di conseguenza, lo sviluppo mutilato dell'individuo.
Nella storia del marxismo, queste due prospettive si sono realizzate rispettivamente con la Rivoluzione sovietica e, soprattutto, con l'avvio dello stalinismo, incentrato sulla convinzione, incompatibile con il pensiero di Marx, che il Comunismo si sarebbe potuto realizzare anche in un solo paese, e con una serie di pensatori marxisti critici o avversi nei confronti dell'ortodossia stalinista che, sia pure da punti di vista diversi, hanno cercato di opporre ad esso un'interpretazione del pensiero di Marx che ne valorizza l'umanesimo e insiste sulla disalienazione delle coscienze come premessa indispensabile per l'avvio di un lento e graduale processo di fuoriuscita dal sistema capitalistico e dalla preistoria umana.
Questa seconda corrente viene spesso ricondotta al cosiddetto marxismo occidentale, in quanto in gran parte i suoi rappresentanti sono vissuti e hanno operato fuori dell'Unione Sovietica.
La triste, ma per fortuna non drammatica, fine del cosiddetto "socialismo reale" ha indotto i liberisti a fare di tutt'erba un fascio: a considerare cioè il comunismo sovietico come l'autentica espressione della teoria di Marx, e il marxismo occidentale come un'utopia intellettuale vuota di significato. In realtà, proprio quella fine ha posto in luce la fondatezza delle critiche rivolte allo stalinismo in un'ottica marxista.
Anche se l'attuale rivalutazione di Marx sembra riguardare essenzialmente l'economista critico, capace di prevedere con largo anticipo il fenomeno della globalizzazione, degli squilibri sociali da essa indotti e degli eccessi del capitalismo finanziario, si può pensare che essa quasi inevitabilmente sia destinata a recuperare l'enorme patrimonio del marxismo occidentale e a trasformarlo in un progetto culturale e politico orientato anzitutto a promuovere la demistificazione delle coscienze dalle gabbie ideologiche che concorrono a mantenere la separazione dell'uomo dalla sua natura e dall'altro uomo.
Tale progetto, che per alcuni aspetti coincide con una disciplina di cui ho parlato più volte - la panantropologia, che, senza configurarsi come marxista non potrà prescindere dal pensiero di Marx, ha un precedente famoso nella scuola di Francoforte, vale a dire con l'Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, fondato nel 1931, nel quale confluirono filosofi (M. Horkheimer, Th. W. Adorno, H. Marcuse), economisti (H. Grossmann, F. Pollock), politologi (F. Neumann, O. Kirkheimer), psicologi (B. Bettelheim, E. Fromm) e intorno al quale gravitarono intellettuali di spicco, anche non marxisti, come W. Benjamin, R. Aron, O. Fenichel, B. Groethuysen, A. Koiré, M. Mead, ecc.
Il nodo centrale affrontato dagli autori che fanno capo alla Scuola di Francoforte riguarda il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura politica, giuridica, filosofica, artistica, ecc. Essi ritengono tutti che tale rapporto non sia lineare, ma interattivo e reciproco. Utilizzando ampiamente strumenti forniti dalla sociologia critica e dalla psicoanalisi, essi puntano l'attenzione soprattutto sui modi in cui la sovrastruttura influenza la psicologia individuale e collettiva attraverso la mediazione degli apparati o delle agenzie ideologiche (scuola, famiglia, mass-media, ecc.), determinando l'alienazione delle coscienze nell'assoluta (o quasi) inconsapevolezza degli agenti sociali.
Approfondendo questa tematica dell'alienazione, alcuni rappresentanti della Scuola di Francoforte sono giunti ad una sorta di pessimismo radicale sulla possibilità di un'emancipazione umana, identificando nella razionalità, nella scienza e nella tecnica forme insuperabili di dominio dell'uomo sull'uomo.
Ne L'uomo a una dimensione (1964), Marcuse fornisce una descrizione lucida e disincantata della soggettività contemporanea, giunta ad un livello di alienazione, di individualismo mutilato e di ossessiva ricerca di piacere attraverso le "cose" che non ha confronto con il passato.
Anche E. Fromm, che non si è mai dichiarato marxista, pur essendo uno studioso profondo di Marx, in Avere o essere (1976), riprende e svolge, sia pure in un'ottica spiritualista, l'opposizione tra una forma di esistenza che cerca vanamente la pienezza attraverso l'avidità di denaro e di beni, la cui conseguenza è il rattrappimento dell'essere umano, e una forma di esistenza che, coltivando l'individualità e la socialità, giunge alla condizione dell'uomo ricco e totale preconizzata da Marx.
Oggi, il discorso su Marx va ripreso a partire dalla sua concezione dell'uomo e dal farsi e disfarsi dello stesso attraverso la storia.