Letture marxiane

Lettura 1

Tornare a Marx?

Introduzione
Tornare a Marx?
Darwin e Marx
Dalla biologia allo zoon politicon
Il problema della natura umana
Pensare la storia

Introduzione

Dedicare a Marx un numero ridotto di conferenze con la pretesa di riuscire a illuminare i nodi essenziali di un pensiero complesso è un'impresa quasi disperata, tanto più se la lettura prescinde da un approccio espositivo convenzionale (per il quale rimando alla sintesi tratta da Il mondo stregato e a quelle ricavate da alcuni manuali di filosofia, pubblicati tra i materiali bibliografici) e intende porsi come una rivisitazione alla luce degli sviluppi delle scienze umane e sociali più recenti (evoluzionismo, genetica, neurobiologia, psicoanalisi, "nuova storia", teorie filosofiche della giustizia, politologia, economia, ecc.).

L'angolatura della rivisitazione non corrisponde solo al modo in cui ho letto e ho studiato Marx da oltre quaranta anni, ma ad un dato di fatto a mio avviso inoppugnabile. Noto soprattutto come economista critico del Capitalismo e fautore del Comunismo, in realtà Marx è il precursore di una sapere integrato sull’uomo che cerca di rispondere alle domande che l’umanità si pone da sempre (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo) utilizzando in gran parte dati forniti dal pensiero scientifico, in un’ottica dunque naturalistica.

Egli, infatti, muove dal presupposto per cui l’uomo è un essere naturale, prodotto dall’evoluzione, un animale, dunque, sociale, dotato di caratteristiche particolari, tra cui la più rilevante è la “passione” trasformativa (creativa) dell’ambiente al fine di soddisfare i suoi singolari bisogni che sono adattivi (sopravvivenza) e iperadattivi (benessere materiale e “spirituale”).

Su questa base, egli costruisce un'interpretazione totale della storia umana intesa ad illuminarne il significato (il "sogno", sotteso alle sue indefinite vicissitudini, di un mondo fatto a misura d’uomo, nel quale cioè l’uomo sia un fine e non un mezzo) e lo scopo verso cui essa tende (la realizzazione del sogno stesso).

Oltre che della sua genialità, Marx può avvalersi di ben pochi dati forniti dalle scienze. L’economia è ferma al pensiero di Smith, il suo fondatore, corroborato da D. Ricardo. L’evoluzionismo è appena comparso, ed egli ne coglie immediatamente il significato straordinario. La genetica, la neurobiologia, la psicologia, la psicoanalisi, la sociologia non sono, invece, ancora nate. La storia è ferma alla ricostruzione dei fatti politici e militari.

Oggi disponiamo, in tutti questi ambiti, di dati incompleti ma indefinitamente più ricchi di quelli di cui disponeva Marx. E’ giusto, dunque, rivisitare e valutare il suo pensiero alla luce di essi.

Un approccio del genere non è del tutto nuovo.

Nelle letture darwiniane ho accennato al fatto che Marx stesso ha assunto l'evoluzionismo darwiniano come cornice naturalistica della sua teoria. Nella Dialettica della natura, Engels ha approfondito, con non pochi eccessi, tale tematica. K. Kautsky ha tentato addirittura di ricondurre il pensiero di Marx alle leggi dell’evoluzione sociale, equiparate a quelle dell’evoluzione naturale.

Con l’avvento del riduzionismo genetico, si è prodotta una sorta di antitesi tra il determinismo biologico e quello ambientale sostenuto dal marxismo. La teoria degli equilibri punteggiati ha, però, riproposto con Gould una versione “dialettica” della storia della vita che ha molte affinità con il pensiero di Marx.

Il tentativo di integrare marxismo e psicoanalisi è avvenuto precocemente, con W. Reich, che ha identificato nel Super-io repressivo la funzione psichica in virtù della quale la società, attraverso la mediazione della famiglia, condiziona la psicologia individuale. Un’ulteriore tentativo di integrazione tra psicoanalisi e marxismo si è realizzato con la Scuola di Francoforte, soprattutto per merito di E. Fromm (Marx e Freud) e di H. Marcuse (Eros e Civiltà). Fromm ha approfondito i nessi tra alienazione economica e alienazione psicologica. Marcuse ha tentato di dare al sogno di felicità intrinseco all’utopia marxista un impianto pulsionale.

Il rapporto tra marxismo e psicologia è stato caratterizzato da fasi alterne di contrapposizione e di integrazione. I contributi della scuola di psicologia sovietica, e soprattutto il pensiero di Vigotsky, sono ritenuti ancora oggi fondamentali nella cornice del cognitivismo. In Occidente, H. Wallon ha elaborato un modello di psicologia evolutiva dialettico, che valorizza al massimo grado l’interazione tra fattori biologici e fattori sociali.

La "nuova storia" - espressione con cui si designa una scuola di storici francesi che hanno rifiutato la narrazione tradizionale, incentrata sulle vicende politiche, sui Capi e sulle Guerre, per dedicarsi alla ricostruzione di come gli uomini del passato - le masse, quindi - vivevano, pensavano, sentivano, ecc. - non ha mai misconosciuto il suo debito nei confronti di Marx, anche se essa ha rivendicato la propria autonomia, incentrandola soprattutto sulla valutazione del peso storico dei fattori mentali collettivi, ritenuti non meno importanti di quelli economici. Non è per caso, però, che alcuni dei suoi rappresentanti più famosi (come G. Duby, P. Vilar, ecc.) si sono dichiarati apertamente marxisti.

Solo la neurobiologia, in quanto disciplina troppo recente, non si è confrontata sinora con il pensiero di Marx. Gli autori più noti (J. Le Doux, A. Damasio) sono dichiaratamente laici e materialisti, ma la loro elaborazione del cervello umano non trascende i limiti dell'adattamentismo darwiniano. Le ricerche neurobiologiche sull'empatia e sul senso della giustizia, nonché la scoperta dei neuroni specchio, sembrano, però, contestare i presupposti antropologici del liberalesimo, e implicitamente rivalutare alcune intuizioni di Marx.

La rivisitazione che propongo si può ritenere nuova perché essa si interroga sulla possibilità di rileggere il pensiero di Marx alla luce di tutte queste discipline .

Che cosa giustifica questa "sfida", peraltro rispettosissima, al di là del fatto che noi disponiamo di un patrimonio di sapere sull'uomo e su fatti umani ben maggiore rispetto a Marx, anche se disperso nella nicchia di discipline altamente specialistiche?

La risposta si delineerà nel corso del tragitto, ma occorre accennare preliminarmente ad un problema, alquanto misterioso, che solitamente viene trascurato, mentre esso è di fondamentale importanza per illuminare la drammaticità intrinseca alla vicenda umana e intellettuale di Marx, che viene mortificata quando il suo pensiero viene esposto pedissequamente.

Come noto, nel 1848 Marx pubblica il Manifesto del Partito comunista, che, per quanto rappresenti lo "schizzo" storico più straordinario di tutti i tempi, è stato scritto in una settimana e consta di poche decine di pagine. In esso sono delineate, con una chiarezza quasi sconvolgente, tutte le linee di fondo della sua analisi critica del Capitalismo, compresa la previsione di un inesorabile declino e dell'avvento del Comunismo.

Si tratta di una sintesi dell’opera che Marx ha già nella mente, il Capitale, e pensa di poter portare a termine nel giro di poco tempo. In una lettera ad Engels (2 aprile 1851), egli riferisce che l’opera è vicina alla conclusione.

Il dato misterioso è che, quando egli muore, trent'anni dopo, è ancora ben lontano dall'averla portata a termine.

Dei sei libri programmati nel 1857 (1. Capitale, 2. Rendita fondiaria, 3. Lavoro salariato, 4. Stato, 5. Mercato internazionale, 6. Mercato mondiale), di fatto, egli ha pubblicato solo il primo nel 1867. Un secondo e un terzo libro sono stati elaborati ed editati da Engels dopo la sua morte, sulla base di appunti che egli ha dovuto integrare (ancora non si sa bene quanto) per renderli leggibili.

Lo stesso primo libro del Capitale è stato più volte revisionato da Marx nelle successive edizioni, come se egli non ne fosse per nulla soddisfatto. Stando a quanto affiora dal lavoro degli esperti che si affannano, tra difficoltà di ogni genere, per portare a termine la pubblicazione delle opere complete di Marx e di Engels (la cosiddetta MEGA2), esso, di fatto, per usare una efficace metafora di Roberto Fineschi (Un nuovo Marx, Carocci, Roma 2008), è un "torso" appena sbozzato.

Il carattere incompiuto dell’opera marxiana è ancora più sorprendente se si tiene conto che Marx, genio versatile quanti altri mai, non ha mai amato l’economia. Nelle lettere ad Engels egli ne sottolinea più volte il carattere ideologico più che scientifico e afferma di non vedere l’ora di finire Il Capitale per dedicarsi ad altre scienze.

Per spiegare questo “mistero” sono state avanzate varie interpretazioni, la più corrente delle quali fa riferimento al fatto che il progetto trascendeva le forze di un solo individuo, per quanto geniale potesse essere. Tale interpretazione implica, indipendentemente dalle buone intenzioni di chi la propone (da ultimo lo stesso Fineschi), una sorta di megalomania intellettuale.

Più vicina alla verità, forse, è quella che verte sulla metodologia di Marx.

Come vedremo quando affronteremo il problema della sua personalità, Marx è un perfezionista al massimo grado, che si impone, nonostante una natura libertaria, ritmi di lavoro frenetici e disordinati (scrivendo anche per tre-quattro notti di fila) interrotti periodicamente da imponenti disturbi psicosomatici. Al di là del perfezionismo, però, è del tutto evidente che la sua incessante ricerca, portata avanti per quasi trent'anni, non è giunta in porto perché si è imbattuta in qualche difficoltà insolubile.

A posteriori tale difficoltà risulta chiara. A partire dal 1850, Marx si è proposto e imposto di dimostrare "scientificamente" (vale a dire sulla base di argomentazioni inoppugnabili che consentono di operare una previsione certa) che il capitalismo è votato alla fine in conseguenza delle sue contraddizioni intrinseche. Egli ha perseguito ossessivamente questo obiettivo per tutta la vita senza raggiungerlo. L'incompiutezza del Capitale è in gran parte la conseguenza di questa ossessione, la cui realizzazione avrebbe comportato la possibilità di assegnare allo sviluppo storico un fine predeterminato e “fatale”: l’avvento del Comunismo, vale a dire, nell’ottica di Marx, del regno della libertà e della giustizia.

L’impegno ossessivo di Marx nella compilazione del Capitale consente d’embleé di identificare in lui un Profeta, che anticipa la sorte del sistema capitalistico, e un Diagnosta, che ne analizza con grande lucidità la logica ad esso intrinseca e le conseguenze positive e negative che essa produce.

A posteriori la passionalità del Profeta, che proietta nella storia il suo desiderio di una cambiamento rivoluzionario, è del tutto evidente e postula di essere interpretata storicamente e psicoanaliticamente. Mettendo tra parentesi questo aspetto, che si può ritenere paradossalmente ideologico, la grandezza del Diagnosta risulta addirittura sconcertante.

Si può affermare ormai senza remore che non è scritto da nessuna parte che il Capitalismo debba finire (anche se è augurabile che finisca): al limite, esso potrebbe trascinare il mondo intero nella sua catastrofe.

E' invece del tutto vero che il Capitalismo, non solo sotto il profilo economico, ma soprattutto sociologico, psicologico e culturale, è scarsamente compatibile con le radicali esigenze di uguaglianza, dignità, giustizia, libertà e felicità che, oggi, vanno assunte come intrinseche alla natura umana. Non è un caso che la sua promessa di un benessere illimitato per tutti, ripetuta infinite volte dai neoliberisti dopo la morte del Comunismo sovietico, è venuta ad urtare, mettendo tra parentesi la crisi economica in corso, contro un dato inoppugnabile: laddove il Capitalismo si è affermato, nei paesi industrializzati, e laddove si afferma, nei paesi in via di sviluppo, la sua indubbia efficienza economica, espressa dalla curva crescente del PIL, è pagata al prezzo di una decrescita direttamente proporzionale proporzionale dell'Indice di salute sociale (compresa quella mentale).

In concreto, negli ultimi venti anni il PIL mondiale si è raddoppiato e l'Indice di salute mentale si è dimezzato.

Se dunque non è possibile dimostrare scientificamente che il Capitalismo è destinato inesorabilmente a finire, e che la storia, come Marx ha cercato di dimostrare, ha uno scopo che gli esseri umani, raggiunta la consapevolezza sulla loro condizione, riusciranno a realizzare, è comprovato che, finché durerà, il sistema capitalistico imporrà un prezzo da pagare all'umanità in termini di indigenza reale, assoluta o relativa, per una quota rilevante della popolazione mondiale, e di miseria psicologica per gli altri.

Il paradosso per cui via via che l'uomo realizza la sua creatività nel trasformare il mondo per adattarlo ai suoi bisogni, producendo beni materiali e intellettuali di ogni genere, e scoprendo dunque la ricchezza indefinita di quelli, egli progressivamente si “rattrappisce” e si disumanizza, è il nodo fondamentale del pensiero marxiano.

Marx ha il merito di averlo colto precocemente, ma, all'epoca, non ha gli strumenti adeguati per approfondirlo a tutto campo, e, di conseguenza, si limita ad analizzarne l'espressione più evidente: quella per cui il lavoratore produce ricchezza e, al tempo stesso, vive in uno stato di miseria e di degradazione morale e culturale.

Oggi sembra non solo possibile, ma necessario allargare il discorso e portarlo a compimento, analizzando i fenomeni di alienazione nelle loro molteplici manifestazioni e cercando di capire in quale misura essi possano essere ricondotti al Capitalismo e in quale misura facciano capo a "debolezze" intrinseche all'apparato mentale umano, che il capitalismo casomai, consapevolmente o inconsapevolmente, utilizza.

In questa ottica, è opportuno far presente immediatamente quello che, a posteriori, si può ritenere il vero limite del pensiero di Marx. Egli ha una concezione sostanzialmente ingenua della mente umana.

In quanto Grande Demistificatore, Marx sa che la coscienza, proprio in quanto "prodotto sociale", e quindi influenzata dall'organizzazione sociale, dalle tradizioni culturali, dal senso comune e dalle visioni del mondo che ogni società costruisce per mascherare le sue contraddizioni, può cadere facilmente nella trappola della mistificazione. Egli sa di conseguenza che ciò che una società e gli individui che la compongano pensano di se stessi e della realtà di cui sono partecipi può essere null'altro che un'astrazione, che ha scarsa rispondenza con ciò che essi sono e con come di fatto vivono, sentono e agiscono.

Ciò nondimeno, Marx è convinto che laddove le contraddizioni reali sono a tal punto clamorose da risultare incontenibili nella gabbia del sistema sociale esistente e delle ideologie che esso produce, si creano i presupposti per un cambiamento radicale, per un salto di qualità rivoluzionario che porta gli esseri umani - e soprattutto ovviamente gli oppressi - a prendere atto di esse e a risolverle praticamente.

A posteriori, risulta del tutto evidente che se le contraddizioni del sistema capitalistico poste in luce da Marx sono del tutto reali, la tendenza delle coscienze a subirle e a "rimuoverle" non lo è di meno.

Negli ultimi anni della sua vita, di fronte ad indizi che attestano l'avvio del processo di imborghesimento della classe operaia, Marx prende atto, come vedremo, del fatto che la riforma delle coscienze è un presupposto essenziale per avviare una rivoluzione che proceda verso un mondo fatto a misura d'uomo. Su come tale riforma possa realizzarsi, però, egli non ha molto da dire.

Al limite segnalato, occorre aggiungerne un altro. In nome di una precoce consapevolezza di essere un genio, Marx ha una fiducia illimitata nella sua intelligenza.

Oggi sappiamo che la genialità non pone un essere umano al riparo dalla complessità dell'apparato mentale, laddove possono agire motivazioni inconsce poco o punto controllabili. Vedremo che motivazioni di questo genere permettono di comprendere molteplici aspetti del dramma umano e intellettuale di Marx.

L'inconscio di Marx è un problema che sinora è stato preso in considerazione solo dai suoi critici per attribuirgli una mostruosa diabolicità, un'ambizione smisurata o un'invidia nevrotica nei confronti dei ricchi. Tenere conto di esso, in realtà, consente di capire l'ossessione di Marx di dimostrare scientificamente ciò che nel suo intimo, e per amore dell'uomo, egli desiderava si realizzasse: un "sogno" che nulla vieta di continuare a coltivare, ma accettando l'indeterminismo della storia e lo statuto incline alla mistificazione della coscienza umana.

Prima di inoltrarsi nell'impervio tragitto, occorre affrontare però un problema preliminare: ha senso oggi interessarsi ad un pensatore che il duro verdetto della storia ha confinato nel girone infernale dei Cattivi Maestri?

Tornare a Marx?

L'interrogativo è il titolo dell’Introduzione de Il mondo stregato, l’antologia commentata del pensiero marxiano, che ho scritto nel 1995 (reperibile nella sua stesura originaria su Nilalienum).

All'epoca, porselo sembrava del tutto anacronistico. Il cosiddetto socialismo reale (che presumibilmente avrebbe fatto inorridire Marx, spirito quant'altri mai libertario) si era dissolto come neve al sole, il neoliberismo celebrava il suo trionfo in virtù di un ciclo espansivo di straordinaria intensità, ponendosi come modello unico di sviluppo socio-economico a livello mondiale, e la sinistra europea, in evidente affanno, poneva addirittura in discussione il modello socialdemocratico e il Welfare State.

Già nel 1994, però, in un saggio di ardua lettura (Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano), Jacques Derrida, un filosofo francese di grande fama, che non era mai stato marxista, dopo aver ripreso in esame i libri di Marx (i Grundrisse in particolare), giungeva a questa sorprendente conclusione:

"Sarà sempre un errore non leggere e rileggere e discutere Marx... Sarà sempre un errore, un venir meno alla responsabilità teorica, filosofica, politica. Da quando la macchina per far dogmi e gli apparecchi ideologici "marxisti" (Stato, partito, cellule, sindacati e altri luoghi di produzione dottrinale) sono in via di estinzione, non abbiamo più scuse, più alibi, per distoglierci da questa responsabilità. Non ci sarà altrimenti avvenire. Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx. Senza la memoria e l'eredità di Marx."

La voce vibrante di Derrida si confondeva con quella di pochi intellettuali (come Noam Chomsky, Immanuel Wallerstein, Etienne Balibar, Erik J. Hobsbawm, ecc.) rimasti fedeli al marxismo, tutti accomunati dall'aver coltivato per l'appunto la memoria e l'eredità di Marx, vale a dire il suo metodo e il suo spirito critico, piuttosto che la "dottrina".

La distinzione tra questi due aspetti è riconducibile al contrasto, che ha segnato la storia del marxismo a partire dalla Rivoluzione d'Ottobre, tra comunismo sovietico, sostanzialmente economicistico, e marxismo occidentale, sostanzialmente umanistico (eccezion fatta per Althusser). La fine dell'esperienza sovietica è suonata come una campana a morte per la teoria economica di Marx (esitata peraltro in un Capitalismo di Stato che lo avrebbe inorridito), e ha prodotto il rilancio di quello che è già stato definito il turbo-capitalismo.

Verso la fine degli anni Novanta, tutti i fautori del neoliberismo prevedevano una crescita illimitata della ricchezza mondiale e uno sviluppo affrancato dal problema delle crisi cicliche, per cui alle fasi di espansione seguono quelle di depressione, che ne ha caratterizzato la storia e che Marx ha analizzato per primo sin dal 1857.

In un'imponente e pretenziosa Storia dell'economia mondiale in dodici volumi (Il Sole 24 ore, Milano 2009), nella quale Marx non viene neppure citato, l'undicesimo volume, pubblicato nel 2000, si conclude con due articoli che sono un peana per il modello americano che avrebbe dimostrato la possibilità di uno sviluppo economico elevato con un tasso minimo di interesse, una bassa inflazione e la piena occupazione, che i critici del sistema capitalistico, residui marxisti o influenzati dal marxismo, hanno sempre ritenuto impossibile.

Le cose sono andate poi come tutti sanno. La crisi economica recessiva, avviatasi nel 2007, ma preceduta dal collasso delle Borse nel 2001, si è configurata come la più grave dopo quella del 1929, ha portato il sistema sull'orlo del collasso ed è stata rimediata da un intervento massiccio dello Stato che ha scaricato sulle spalle dei cittadini i debiti contratti da Banche, Agenzie assicurative, ecc.

La gravità della crisi, che era del tutto prevedibile al punto che, come testimoniano gli articoli di economia su Nilalienum, l'ho prevista anch'io, che non sono un economista di professione, ha risvegliato da parte degli studiosi un interesse per Marx, che, in realtà, aveva preso già corpo in precedenza. Se ne trova un accenno già nella biografia di Francis Wheen (Marx, Mondadori, Milano 2000), pubblicata in lingua originale nel 1999:

"Il primo segnale di questa strana rivalutazione comparve nell'ottobre 1997, quando un numero speciale del «New Yorker» proclamò Karl Marx «il prossimo grande pensatore», un uomo che aveva molto da insegnarci in fatto di corruzione politica, tendenze monopolistiche, alienazione, disuguaglianze e mercati globali. «Più tempo passo a Wall Street e più penso che Marx aveva ragione» afferma sulla rivista il facoltoso titolare di una banca d'affari. «Sono assolutamente convinto che l'impostazione di Marx sia il miglior angolo visuale da cui osservare il capitalismo.» Da quel momento, economisti e giornalisti di destra si sono accodati nel rendergli omaggi analoghi. Lasciamo perdere tutte quelle sciocchezze sul comunismo, dicono, resta il fatto che Marx era veramente un «grande studioso del capitalismo»." (p. 7)

Di fatto, articoli attestanti che Marx aveva visto giusto nell'analisi del sistema capitalistico, pur avendo proposto soluzioni inadeguate, sono comparsi con una singolare progressione da allora su giornali anglosassoni non sospetti di simpatie marxiste: il New York Times, l'Economist e addirittura il Wall Street!

Nel 2006, Jacques Attali, intellettuale di sinistra, Primo Presidente della Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo, ha pubblicato una bella biografia (Karl Marx, Fazi, Roma) nella quale scrive:

"Malgrado tutto, la teoria di Marx riacquista interamente il suo significato nel quadro della globalizzazione di oggi, che lui aveva previsto. Assistiamo all'esplosione del capitalismo, al rovesciamento delle società tradizionali, alla crescita dell'individualismo, alla pauperizzazione assoluta di un terzo del mondo, alla concentrazione del capitale, alla decolonizzazione, alla mercificazione, allo sviluppo della precarietà, al feticismo delle merci, alla creazione di ricchezza da parte della sola industria, alla proliferazione dell'industria finanziaria, che punta a premunirsi contro i rischi della precarietà. Tutto questo, Marx l'aveva previsto." (p.

Di recente, infine, addirittura un vescovo tedesco, singolarmente omonimo (Reinhard Marx) ha pubblicato un libro (Il capitale. Una critica cristiana alle ragioni di mercato, Rizzoli, Milano 2009) nel quale si chiede: "Il sogno del benessere per tutti in un ordine retto dall'economia di mercato è tramontato definitivamente? E' giunta l'ora di chiedere scusa a Karl Marx?" Gli interrogativi sono retorici: secondo il vescovo Marx aveva perfettamente ragione nell'analisi delle disfunzioni del sistema capitalistico, la cui soluzione, però, andrebbe identificata nella dottrina sociale della Chiesa cattolica (e perché non in quella dell'Islam che, definendo la distribuzione della ricchezza come un obbligo, è di fatto socialista?).

Segno dei tempi, su La Repubblica delle donne dell'11 luglio 2009 è stato pubblicato un elzeviro di Francis Wheen titolato "E' arrivato il momento di rivalutare Marx" nel quale si legge:

"Non tutto quello che ha detto è giusto. La caduta della borghesia e il trionfo del proletariato non si sono mai avverati, eppure Marx fu il primo a intuire che il capitalismo è una forza di distruzione creativa, capace di infliggere i colpi più letali con le sue stesse armi. Inoltre, la sua frase "tutto ciò che è solido svanisce nell'aria" sembra riassumere efficacemente i titoli dei giornali dello scorso anno. Marx comprese che il capitalismo - a quell'epoca solo agli albori - dipendeva dall'alternarsi di periodi di "boom and bust", crescita e rallentamento così come la vita degli umani dipende da inspirazione ed espirazione. E così come ogni guerra porta già con sé i semi del conflitto successivo, ogni crisi rende inevitabile quella seguente. "E così percorriamo il cerchio", scrisse Marx. "Compiendo ogni volta lo stesso ciclo di errori". Nei Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo sovietico, i sibillini ammonimenti di Marx sono stati forse stravolti, ma non a lungo... Nella vita di tutti i giorni anche coloro che traggono maggiori vantaggi dall'instabilità economica hanno iniziato a metterne in dubbio la sostenibilità. «Il sistema capitalistico non mostra in sé alcuna propensione all'equilibrio», afferma lo speculatore George Soros, miliardario. «Chi possiede del capitale cerca di trarne il maggior profitto possibile, e in assenza di regolamentazioni continuerebbe ad accumularne sino a compromettere l'equilibro del sistema. L'analisi fatta da Marx ed Engels è dunque molto accurata».

I dati peraltro che attestano le disfunzioni del sistema capitalistico, e sembrano confermare inequivocabilmente l'asserzione di Marx secondo la quale "il Capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia", sono poco o punto confutabili. La crescita della ricchezza prodotta dalla globalizzazione tende alla concentrazione dei capitali. Il 50% di essa è posseduta dal due per cento dell'umanità e il 40% si concentra nei paesi sviluppati. Un miliardo di persone vivono oggi in estrema povertà, potendo contare su di un reddito di un dollaro al giorno; due miliardi e mezzo sono al di sotto di due dollari al giorno. Il divario tra il Nord e il Sud del mondo, insomma, cresce di continuo.

Anche all'interno dei paesi sviluppati, gli squilibri sociali sono aumentati. I ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri, e la stessa classe media è entrata in sofferenza. Il dato più clamoroso a riguardo concerne gli Stati Uniti, laddove la classe dei manager è giunta a guadagnare cinquecento volte il salario di un operaio contro le venticinque volte di trent'anni fa.

La concentrazione dei capitali riguarda le stesse aziende private: le grandi imprese, le cosiddette "multinazionali", assorbono o inducono al fallimento quelle medie e piccole. Potendo muoversi a livello mondiale, esse possono disinteressarsi del radicamento locale dei lavoratori. Esse si trasferiscono dove la manodopera costa meno, provocando una crescita della disoccupazione laddove i diritti dei lavoratori sono più garantiti.

Last but not least, negli anni Novanta i capitali sono progressivamente defluiti dalla produzione convogliandosi verso la speculazione globale e la "truffa", con l'effetto di dare luogo ad una bolla, riconducibile ad una montagna incalcolabile di titoli-spazzatura, il cui scoppio ha portato il sistema al punto del collasso. C'è stato qualcosa di forse inconsapevolmente diabolico in questa impresa che ha messo gli Stati di fronte all'alternativa di rispettare le regole del mercato, destinando al fallimento intere nazioni, o di intervenire con soldi pubblici per salvare il salvabile. La scelta era obbligata, ma, in conseguenza di essa, i profitti sono stati privatizzati e le perdite socializzate. le colpe degli speculatori, in breve, li hanno pagati i cittadini e continueranno a pagarli gli Stati, i cui debiti pubblici hanno raggiunto dimensioni preoccupanti.

Alla luce di questi fenomeni, tutti ampiamente previsti da Marx un secolo e mezzo fa, non c'è da sorprendersi che la sua analisi economica del Capitalismo sia stato rivalutata, tanto più se si tiene conto che gli economisti liberisti contemporanei non sono riusciti a prevedere la crisi che avevano sotto gli occhi.

Rispetto ad appena venti anni fa, insomma, il ritorno a Marx non sembra più un nostalgico anacronismo. Il problema, però, ora come sempre, è quello che ho illustrato nell'Introduzione de Il mondo stregato nei seguenti termini:

A quale Marx tornare? L'opera marxiana è una nebulosa nella quale filosofia, storia, economia, politica, sociologia e psicologia s’intrecciano indissolubilmente. Essa, dunque, si offre a letture molteplici, nessuna delle quali può pretendere d’essere esauriente. Più di ogni altro autore nel campo della filosofia e delle scienze umane, per l'impegno di ricerca profuso su di un fronte troppo ampio, Marx rischia di essere frainteso ed equivocato. Una lettura diretta dei testi - posto che si abbia la pazienza necessaria per dedicarvisi - può facilmente indurre a privilegiare l'impianto logico che Marx ha voluto dare al suo sistema, per elevarlo al rango di modello scientifico - compresa la definizione di “leggi” economiche, e le previsioni deterministiche che ne discendono -, anziché le intuizioni "visionarie" che lo sottendono. In nome della necessità di una filosofia mirante ad incidere praticamente sullo stato di cose esistente, Marx ha assoggettato la sua genialità, esuberante e di conseguenza dispersiva, ad una disciplina rigorosa, rinunciando progressivamente alla suggestione delle intuizioni - ciascuna delle quali avrebbe potuto dar luogo ad uno sviluppo autonomo - e impegnandosi sempre di più su di un terreno - quello della critica economica - estraneo ai suoi interessi originari.

Accusato di economicismo, Marx non ha mai amato l'economia come scienza: l'ha sempre e solo affrontata sub specie storica (e filosofica...), individuando in essa il nodo gordiano da sciogliere - teoricamente e praticamente - per finalizzare lo sviluppo delle forze produttive alla realizzazione di un mondo di individui liberi dal bisogno, consapevoli della loro radicale socialità e, al tempo stesso, impegnati a sviluppare al massimo grado le proprie potenzialità individuali."

Il revival di Marx, di fatto, è avvenuto sulla base della sua straordinaria analisi della globalizzazione del capitalismo e sulla sua capacità di prevedere centocinquant'anni prima in termini precisi la crisi che gli economisti contemporanei non sono riuscita a prevedere.

Marx, però, non è un economista in senso proprio, bensì il critico di un sistema che, con le sue straordinarie capacità di sprigionare le capacità produttive umane, pone le premesse per uno sviluppo integrale dell'individuo sociale - vale a dire per un'autorealizzazione che consenta ad ogni soggetto di esprimere al massimo grado le sue potenzialità individuali riconoscendone la matrice sociale (per cui il suo sviluppo è debitore di tutto ciò che gli uomini hanno fatto prima di lui) e il valore sociale (per cui la ricchezza del suo essere è un valore aggiunto per il mondo) - ma non può portarle a compimento perché il suo interesse è la valorizzazione del Capitale, non dell'uomo.

In altri termini, Marx è un panantropologo impegnato nella ricerca di una verità definitiva sulla specie umana, sulla sua travagliata storia e sugli sviluppi futuri. L'obiettivo che egli si propone, peraltro, non è meramente teorico, ma pratico: promuovere, attraverso una presa di coscienza maggioritaria e l'azione collettiva ad essa conseguente, la fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria, contrassegnata dall'oppressione dell'uomo sull'uomo.

Che un individuo, per quanto geniale, possa concepire un obiettivo del genere, sembra l'indizio di una inquietante megalomania. Più autori hanno rilevato il profetismo e il messianismo di Marx, riconducendolo all'influenza della tradizione ebraica fortemente rappresentata nel suo genetliaco. In effetti, l'investitura del proletariato da parte di Marx della funzione di portare l'umanità fuori della sua preistoria, è agevolmente riconducibile ad una versione moderna del motto evangelico per cui gli ultimi saranno i primi. Nonostante il suo radicale ateismo, e un'educazione familiare laica, in Marx il tema del riscatto dei miseri, dei giusti e degli oppressi, che caratterizza il profetismo biblico, è inconfutabilmente presente. Si potrebbe addirittura riconoscere simbolicamente nel ruolo che egli si assume quello di un Mosè moderno che libera gli schiavi e li guida verso la Terra promessa.

Come Mosé, Marx rivela agli uomini la verità sulla loro condizione. Egli peraltro ritiene che la matrice del cambiamento rivoluzionario della realtà sociale, che deve sopravvenire, non sia il pensiero ma il movimento reale della storia, posto che si riesca a leggere il travaglio che essa implica. Il suo ruolo, dunque, è quello del maieuta, e la verità che egli rivela abbrevierà i dolori del parto solo se essa verrà collettivamente partecipata e agita.

E' assumendo questo ruolo che egli si imbatte nel problema della coscienza ideologica, vale a dire di uno stato per cui l'umanità ha sotto gli occhi la verità - l'oppressione dell'uomo sull'uomo, che, peraltro, definisce l'alienazione dell'oppressore (che si separa ed estranea l'altro uomo, trattandolo come una merce) e dell'oppresso (che viene deprivato dalla ricchezza che produce e della sua stessa potenziale ricchezza umana) - ma non la vede, e alberga nel suo intimo un sogno - quello del regno della libertà e della giustizia - che non riesce a realizzare.

E' la cattura che le apparenze storiche esercitano sulle coscienze, impedendo ad esse di affrancarsi dall'alienazione religiosa, politica, economica, culturale, e mantenendole sul registro della mistificazione, la grande scoperta di Marx. Nella misura in cui egli riconduce tale cattura alle ideologie prodotte dalle classi dominanti per mantenere il loro potere e indurne l'accettazione come se esso coincidesse con il bene comune, non nutre dubbi riguardo al fatto che, via via che gli esseri umani, e soprattutto gli oppressi, prenderanno coscienza della loro reale condizione - che implica l'oppressione dell'uomo sull'uomo e non un'oscura fatalità -, essi si metteranno in movimento per cambiarla radicalmente. Ritiene addirittura che questa previsione sia "scientifica".

Nell'ambito del marxismo, c'è stato sempre un dibattito (a momenti anche aspro) sull'importanza del Marx giovanile, filosofo, antropologo e storico, e sul Marx maturo, economista scientifico.

Alla luce degli sviluppi storici, sembra di poter affermare che mentre il Marx "scientifico" può essere apprezzato come un formidabile "diagnosta" dei mali del sistema capitalistico, per i quali occorreranno rimedi diversi da quelli che egli ha preconizzato perché la nostra società non è più quella dell'Ottocento, il Marx filosofo e antropologo, che sostanzialmente contesta il modello antropologico borghese, incentrato sull'attribuzione alla natura umana di un orientamento egoistico, per cui la socialità è una dimensione sostanzialmente utilitaristica, torna prepotentemente alla ribalta perché le sue intuizioni sembrano confermate da numerose discipline (evoluzionismo, neurobiologia, psicoanalisi, ecc.) che convergono verso un modello che impone di attribuire alla natura umana un corredo ricco sia di un bisogno di appartenenza sociale che di un bisogno di individuazione.

L'unica disciplina esistente all'epoca è l'evoluzionismo allo stato nascente con cui Marx si è confrontato. Qualcosa a riguardo è stato già detto. Il discorso va approfondito perché esso dà la misura dello spirito critico di Marx.

Darwin e Marx

Le letture darwiniane si sono avviate rilevando la strana circostanza per cui Darwin e Marx, impegnati rispettivamente nella ricerca l'uno delle leggi dell'evoluzione naturale, l'altro delle leggi dell'evoluzione della storia, sono vissuti a pochi chilometri l'uno dall'altro, senza conoscersi. Ho accennato anche al fatto che, sollecitato da Engels a leggere L'origine delle specie, Marx ne ha colto pienamente il significato scientificamente rivoluzionario, scrivendo, subito dopo averlo letto: "ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere." (lettera a Engels del 19 dicembre 1860)

Appena un mese dopo, egli lo segnala a Lassalle esplicitando il suo giudizio: "Nonostante tutti i difetti, qui non solo si da per la prima volta il colpo mortale alla "teleologia" nelle scienze naturali, ma se ne spiega il senso razionale in senso empirico." (lettera a Lassalle del 16 gennaio 1861)

Continua a consultare l'opera di Darwin, tant'è che, l'anno dopo, ne fornisce una sottile analisi ideologica:

"Mi diverto con Darwin, al quale ho dato di nuovo un'occhiata, quando dice di applicare la "teoria di Malthus" alle piante e agli animali, come se il succo del signor Malthus non consistesse proprio nel fatto che essa non viene applicata alle piante e agli animali, ma invece - con geometrica precisione - soltanto agli uomini, in contrasto con le piante e gli animali. E' notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l'apertura di nuovi mercati, "le invenzioni" e la malthusiana "lotta per l'esistenza". E' il bellum omnium contra omnes di Hobbes, e fa ricordare Hegel nella Fenomenologia, dove raffigura la società borghese quale "regno animale ideale", mentre in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese …” (lettera a Engels del 18 giugno)

Pur cogliendo l’ideologia che sottende L’origine delle specie (e che sappiamo riconducibile all’ossessione gradualista dell’autore), Marx riesce a tenere ferma la distinzione tra Darwin uomo del suo tempo e Darwin scienziato, e mantiene nei confronti di quest’ultimo un’ammirazione costante.

Fanno fede a riguardo due circostanze di rilievo.

Il 16 giugno 1873 Marx invia a Darwin la seconda edizione del libro primo del Capitale con una dedica “da parte di un suo sincero ammiratore”. Il volume si trova ancora oggi nella libreria di Darwin presso la Down House trasformata in Museo. Esso risulta intonso tranne che per alcune decine di pagine. Ciò nondimeno Darwin scrisse a Marx che avrebbe voluto essere "più degno di ricevere una tale opera, comprendendo meglio una materia tanto profonda e importante qual è l'economia politica", ma che non vi erano dubbi che i loro rispettivi sforzi verso "l'allargamento del sapere" avrebbero, "nel lungo periodo, (...) aumentato la felicità del genere umano".

Tenendo conto del liberalesimo (sia pure progressista) di Darwin non ci si sarebbe potuto aspettare nulla di diverso.

L’ipotesi più volte avanzata che Marx si sia rivolto successivamente a Darwin per chiedere l’autorizzazione a dedicargli il secondo libro de Il Capitale, ottenendo un cortese rifiuto, sembra destituita di ogni fondamento.

La seconda circostanza è l'attenzione che sia Marx sia Engels mantengono nei confronti della teoria darwiniana e dei suoi sviluppi attestata dalle numerose citazioni che risultano nelle loro opere maggiori. Tale attenzione li pone in grado non solo di contestare alcune disinvolte interpretazioni del darwinismo fornite da autori socialisti che, "invece di analizzare […] lo struggle for life come esso si presenta in diverse determinate forme sociali", cioè storicamente, riconducono "ogni lotta concreta nella frase struggle for life" (lettera di Marx a Kugelmann del 27 giugno 1870), ma addirittura i primi tentativi di applicare alla società la teoria darwiniana, destinati ad esitare nel darwinismo sociale.

Dopo avere letto l'ampia prefazione della curatrice alla prima versione francese de L'origine delle specie, in una lettera del 15 febbraio 1869 alla figlia Laura e al genero Paul Lafargue, Marx scrive:

"Darwin fu portato a scoprire la lotta per l'esistenza come legge predominante della vita animale e vegetale, proprio dalla lotta per l'esistenza nella società inglese, dalla guerra di tutti contro tutti, bellum omnium contra omnes. Il darwinismo [sociale] invece considera questo fatto come un motivo decisivo per la società umana a non emanciparsi mai dalla sua natura animale."

Perfettamente consapevole dell'infuenza che Malthus e la società concorrenziale inglese hanno esercitato su Darwin, Marx sa che questi si è astenuto saggiamente dal tirare conclusioni sociali dalle proprie tesi scientifiche.

L'interesse costante che Marx manifesta per Darwin non è sorprendente.

In quanto materialista inteso a ricostruire la storia della specie umana sul pianeta nella sua totalità, egli si è sempre interessato degli sviluppi della scienza, dalla geologia alla chimica, alla fisica e alla biologia. I suoi taccuini - gran parte dei quali ancora inediti - sono fittissimi di appunti sulla scienza e dimostrano la sua capacità culturalmente onnivora. Egli è addirittura giunto, in età matura, a studiare approfonditamente la matematica superiore, la nascente antropologia, ecc.

Marx, dunque, coglie immediatamente il denominatore comune tra evoluzione naturale ed evoluzione storica: la prima seleziona gli organi biologici più adatti a consentire la sopravvivenza e la riproduzione della vita; la seconda gli organi culturali (gli strumenti e le tecniche) in virtù dei quali gli uomini si pongono in condizione di sfruttare a loro vantaggio le risorse ambientali.

Addirittura nel Capitale Marx, che definisce come una "grande opera che ha fatto epoca", insiste sull'analogia tra tecnologia naturale, prodotta dalla selezione darwiniana, e tecnologia "artificiale", prodotta dall'uomo consapevolmente e selezionata sulla base della sua capacità di soddisfare i bisogni umani:

"Una storia critica della tecnologia dimostrerebbe, in genere, quanto piccola sia la parte d'un singolo individuo in un'invenzione qualsiasi del secolo XVIII. Finora tale opera non esiste. Il Darwin ha diretto l'interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioè sulla formazione degli organi vegetali e animali come strumenti di produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita uguale attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell'uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale particolare?» (Il Capitale, libro I)

La prima frase della citazione merita un'attenzione particolare. Essa va intesa nel senso che, fino al XVIII secolo, vale a dire fino all'avvento dello sviluppo scientifico, la produzione degli strumenti e delle tecniche che hanno accresciuto la capacità tecnologica della specie umana di incidere sulla natura è stata un'impresa collettiva. Non sappiamo chi ha inventato l'agricoltura, l'addomesticamento degli animali, la ruota, l'aratro, ecc. E' questa impresa collettiva, peraltro, che ha posto le fondamenta per lo sviluppo della scienza, che consente invece di identificare storicamente i tecnologi, coloro che scoprono i modi di utilizzare produttivamente le conoscenze scientifiche (per esempio la macchina a vapore).

Questo rilievo non è insignificante. La teoria darwiniana originaria riconosce l'individuo come motore dell'evoluzione. Marx invece ritiene che l'evoluzione storica sia dovuta all'impegno collettivo. Non sottolinea peraltro questa differenza.

C'è altro nella teoria di Darwin che non soddisfa del tutto lo spirito critico di Marx. I difetti cui egli fa cenno nella lettera a Lassalle non si riducono allo stile "grossolanamente all'inglese" o all'ideologia liberista implicita nel darwinismo.

Marx ha una visione dinamica dell'evoluzione storica in conseguenza della quale gli riesce difficile accettare quanto c'è di statico nell'estremo gradualismo darwiniano. Egli intuisce, prodigiosamente, che le lacune della paleontologia, attestando la carenza di prove a favore degli anelli intermedi ipotizzati da Darwin, incombono come un macigno sulla validità scientifica della sua teoria. Intuisce anche che il ruolo assegnato da Darwin all'ambiente è troppo passivo, e che questo aspetto può facilmente comportare l'applicazione agli esseri umani di un determinismo biologico.

Per ciò, avendo letto il libro (Origine et transformations de l'homme et des autres étres, Parigi 1865) di un autore francese - P. Tremaux - lo segnala ad Engels, in una lettera del 7 agosto del 1866, come "un'opera importantissima" la quale "nonostante tutti i difetti di cui mi accorgo, costituisce un notevolissimo progresso su Darwin."

Il progresso consiste nel fatto che Tremaux assegna una grande importanza, ai fini dell'evoluzione, alle condizioni ambientali, geografiche. Su questa base, egli ritiene di poter risolvere i problemi lasciati in sospeso da Darwin, soprattutto per quanto riguarda le lacune paleontologiche. Le forme di trapasso, gli anelli intermedi, infatti, in rapporto alle condizioni ambientali, o evolvono in una nuova specie o si estinguono rapidamente.

L'entusiasmo di Marx per le ipotesi di Tremaux è dovuta essenzialmente all'implicazione per cui "il progresso che per Darwin è puramente casuale, qui [è] necessario sulla base dei periodi di sviluppo del corpo terrestre."

Letto il libro, il 2 ottobre 1866, Engels lo stronca letteralmente affermando che in esso non vi è nulla di nuovo e che l'autore non solo non si intende di geologia, ma fa spesso affermazioni francamente ridicole.

Il 3 ottobre, a stretto giro di posta, Marx ribatte che queste carenze non sono di per sé determinanti: anche i «fantasiosi naturalisti tedeschi» dell'epoca romantica, che avevano sostenuto ipotesi in qualche modo evoluzionistiche, erano stati attaccati a suo tempo dall'illustre geologo e naturalista Cuvier con analoghi argomenti; eppure, nonostante la loro incapacità di dimostrazione, avevano sostanzialmente ragione. Marx quindi ribadisce l'importanza — se non più di certi particolari — dell'«idea fondamentale» di Trémaux sull'influenza dell'ambiente geografico (pur aggiungendo che questi dimentica di considerare l'influenza delle «modificazioni storiche» della superficie terrestre ad opera dell'uomo). E quell'idea fondamentale avrebbe bisogno solo di un'adeguata esposizione.

Il contrasto, uno dei pochi intervenuti nel corso di un lungo sodalizio intellettuale, si risolve con l'ammissione da parte di Engels della sostenibilità dell'ipotesi di un'influenza geologica sull'evoluzione animale, che però va spiegata e dimostrata: cosa che Darwin stesso non è riuscito a fare, pur essendosi posto il problema.

Perché questa circostanza, che può apparire semplicemente, erudita, invece è importante?

Nella quarta lettura darwiniana ho fatto presente che la teoria dell'evoluzionismo, che mantiene un'elevata credibilità scientifica, va comunque integrata con la teoria degli equilibri punteggiati secondo la quale le specie animali, quando sono perfettamente adattate al loro ambiente, tendono a conservare le loro caratteristiche per lunghi periodi (anche per milioni di anni). Al mutare delle condizioni ambientali (per eventi climatici, geologici o astronomici), soprattutto se la popolazione non è molto numerosa e rimane confinata in un habitat ristretto, si possono avere cambiamenti morfologici notevoli, che avvengono nell'arco di pochi millenni.

In questa ottica il gradualismo di Darwin, che comporta la produzione continua di varietà per effetto degli incroci riproduttivi e delle mutazioni, rimane valido, ma sembra giustificare piuttosto la stabilità delle specie che non la nascita di nuove specie. Questa andrebbe ricondotta, se non in toto in misura rilevante, a "catastrofi" ambientali il cui effetto è massimizzato dal fatto che piccole popolazioni rimangono isolate in una nicchia ambientale anomala, ai margini dell'areale di distribuzione delle specie madri. La deriva genetica comporta, infatti, la possibilità che le mutazioni vantaggiose sotto il profilo adattivo, giungono ad essere selezionate e a diffondersi.

Come si è visto, la nascita dell'homo sapiens, con le sue particolari caratteristiche, oggi è concepibile solo in questi termini. Dunque Marx facendo propria l'idea fondamentale di Tremaux dell'influenza ambientale sull'evoluzione animale, ha visto nel giusto. Ciò non è accaduto per caso. Al di là della genialità di Marx, c'è da considerare la sua difficoltà di concepire la storia naturale come un processo governato solo dal gradualismo, quindi da un principio del tutto diverso rispetto a quello che governa la storia umana, che comporta essa stessa lunghe fasi di ristagno ma anche la possibilità di "catastrofi" (rivoluzioni) che danno luogo alla nascita di un nuovo ordine economico, politico, sociale e culturale.

Anche se egli è consapevole che la storia umana riconosce l'intervento volontario dell'uomo, che a livello naturale non si dà, egli coglie nel gradualismo darwiniano una lacuna da colmare. Lo farà, un secolo e mezzo dopo, S. J. Gould, che per ciò è stato accusato di essere un marxista. Il termine "rivoluzione" agli orecchi di una classe - quella borghese - che pure è nata da una grandiosa rivoluzione suona sempre come sinistro.

In occasione dell’orazione funebre per l’amico, il 17 marzo 1883, Friedrich Engels non esita ad affermare: "così come Darwin ha scoperto la legge della sviluppo della natura organica, così Marx ha scoperto la legge della sviluppo della storia umana.”

Il paragone è suggestivo, ma impreciso. Darwin di fatto ha scoperto nella selezione naturale il meccanismo casuale che spiega l’evoluzione delle forme viventi. Anche se oggi sappiamo che tale meccanismo da solo non è in grado di spiegare tale evoluzione, la scoperta rimane integra nel suo valore, tanto più che gli sviluppi più recenti del pensiero evoluzionistico, come abbiamo visto, hanno accentuato al massimo grado la casualità, la contingenza e l'imprevedibilità della comparsa della specie umana, e tendono ormai a sottolinearne la complessità contraddittoria.

Marx, viceversa, ha cercato la legge dello sviluppo storico, ma l’ha identificata infine in un conflitto tra interessi particolari e interessi generali (vale a dire tra egoismo individuale e di classe e bene comune) "destinato" ad evolvere nella direzione di un mondo affrancato dall’oppressione, dallo sfruttamento e dalla miseria, e, infine, pacificato e umanizzato.

Anche se, come accennato, non si dà alcuna prova che Marx ritenesse questa evoluzione "fatale", è fuori di dubbio che il finalismo implicito nella sua teoria è l’opposto del casualismo darwiniano.

Vedremo ulteriormente se e come eventualmente questa opposizione possa essere sormontata. Occorre riconoscere, però, che la convinzione assoluta secondo la quale la storia non può non avere un fine (lieto, peraltro - il mondo della libertà e della felicità - per quanto inesorabilmente pagato con lacrime e sangue) rappresenta, nel pensiero di Marx, un presupposto ideologico omologabile al gradualismo darwiniano, per quanto di segno opposto.

Come accennato, l’intento di queste letture è, paradossalmente, di criticare questo presupposto storicistico, che Marx riconduce all’inesorabile evoluzione dei conflitti di classe, e di riformularlo in termini antropologici, vale a dire come "utopia" iscritta nella natura umana che nulla autorizza a pensare si debba realizzare necessariamente, ma nulla ad escludere che possa realizzarsi.

Dalla biologia allo zoon politicon

Dopo Darwin, con Marx ci spostiamo dalla storia delle forme viventi a quella della specie la cui sopravvivenza postula la trasformazione dell'ambiente: dalla biologia alla cultura, dunque, materiale e "spirituale". Il salto apparentemente è brusco, ma meno di quanto possa apparire d'acchito.

In quanto essere naturale, la specie umana prosegue la storia della vita, ma con modalità particolari.

Una necessità intrinseca ad ogni organismo biologico è di mantenere una relazione di scambio con l'ambiente al fine di provvedere ai suoi bisogni energetici e di eliminare i rifiuti dei processi metabolici. Le risorse di cui un organismo biologico ha bisogno per conservare il suo complesso equilibrio strutturale e funzionale sono esterne ad esso.

La legge della dipendenza e dello scambio con l’ambiente esterno vale ovviamente anche per l'uomo dal momento in cui esso compare. Egli ha bisogno di ossigeno, di acqua, di cibo, di riparo, ecc.. La sua condizione neotenica comporta, però, come si è accennato, una sprovvedutezza istintiva e una condizione carenziale tali che i suoi bisogni sono più complessi e ardui da realizzare rispetto agli altri animali.

La sprovvedutezza istintiva, per esempio, è resa evidente dal venire meno della capacità che gli animali hanno di distinguere cibi commestibili da non commestibili. Certo, l’uomo è dotato di un'emozione – il disgusto – che, in una certa misura lo salvaguarda dall'ingerire qualunque sostanza gli capiti sotto mano. Il disgusto, però, non lo aiuta a distinguere i cibi tossici da quelli non tossici. Egli deve classificare ex-novo (o quasi) l'universo ambientale in termini alimentari.

La condizione carenziale è dovuta alla perdita dei peli e degli strumenti di difesa-offesa di cui dispongono gli altri animali: gli artigli, le zanne, la cute spessa e coriacea. In conseguenza di questo, l’uomo è esposto alle escursioni termiche e ai predatori. Deve, dunque, sopperire alle carenze naturali rifugiandosi nelle caverne, utilizzando le pelli degli animali, imbracciando bastoni, pietre, ecc.

Egli è immerso, insomma, nell'ambiente naturale, che contiene le risorse di cui ha bisogno, ma deve utilizzarle in una maniera particolare, vale a dire adattarle ai suoi singolari bisogni. In breve, deve trasformare la natura attraverso il lavoro.

A tale fine, egli può avvalersi dell'intelligenza. Se prescindiamo, però, dal mito di Robinson Crusoe, capiamo immediatamente che l'uso dell'intelligenza ai fini della sopravvivenza richiede una condizione preliminare: l'appartenenza ad un gruppo e la cooperazione sociale. La socialità cooperativa e il lavoro orientato a provvedere alla soddisfazione dei bisogni umani segnano, dunque, l’avvio dell'esperienza della specie, i cui sviluppi successivi non sono altro che “trasformazioni” delle regole di appartenenza e dei rapporti sociali che si definiscono sulla base dello sviluppo economico, tecnologico, sociale e culturale.

Della condizione neotenica e istintivamente sprovveduta dell'uomo, Marx naturalmente non sa nulla. A maggior ragione è sorprendente che egli la dia come scontata.

A questo punto, è opportuno cominciare a familiarizzare con la scrittura di Marx che, tra le influenze filosofiche giovanili (hegeliane) e la "scientificità" delle opere maggiori, è un grosso scoglio, data la sua complessità e densità.

Affronto il problema nella maniera più semplice e corretta: riportando brani che si possono ritenere particolarmente significativi e tentando di commentarli al fine di renderli più comprensibili.

I Lineamenti di critica dell’economia politica (Grundrisse) scritti tra il 1857 e il 1859, comportano un esordio di grande interesse:

"L'oggetto in questione è anzitutto la produzione materiale. Individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente il punto di avvio. Il cacciatore e pescatore singolo e isolato con cui cominciano Smith e Ricardo rientrano tra le fantasie prive di immaginazione delle robinsonate del XVIII secolo le quali, a differenza di quanto pensano gli storici della cultura, non esprimono affatto solo una reazione all'eccessiva raffinatezza e un ritorno a una malintesa vita naturale... Questa è l’apparenza, e soltanto l'apparenza estetica delle robinsonate piccole e grandi.

Si tratta piuttosto dell'anticipazione della «società civile» che si stava preparando dal XVI secolo e che nel XVIII ha compiuto passi da gigante in direzione della sua maturità. In questa società della libera concorrenza il singolo appare svincolato dai legami naturali ecc. che nelle precedenti epoche storiche ne fanno un accessorio di un conglomerato umano determinato, limitato.

Ai profeti del XVIII secolo,[…] questo individuo […]che da un lato è il prodotto della dissoluzione delle forme sociali feudali, dall'altro delle forze produttive nuove sviluppatesi a partire dal XVI secolo sta dinanzi agli occhi come un ideale che sarebbe esistito in passato. Non come un risultato storico, bensì come il punto d'avvio della storia. Poiché per individuo naturale, in conformità con la loro concezione della natura umana, essi non intendono un individuo che sorge storicamente, ma che invece è posto dalla natura stessa. Finora questa illusione è stata caratteristica di ogni nuova epoca...

Quando si parla di produzione si parla... sempre di produzione a un determinato livello dello sviluppo sociale - della produzione di individui sociali...

Ai profeti del XVIII secolo, l’individuo del loro stesso secolo - che, da un lato, è il prodotto della dissoluzione delle forme sociali feudali e, dall’altro, è il risultato delle nuove forze produttive sviluppatesi nel corso del XVI secolo - si profila come un ideale, la cui esistenza è già qualcosa di antico: non un risultato della storia, ma il suo stesso punto di inizio. Esso appare individuo secondo natura, giusta la loro raffigurazione della stessa natura umana, non come qualcosa che nasca storicamente, sì invece qualcosa di posto dalla natura stessa. Tale inganno si è mostrato, finora, proprio di ogni epoca nuova...

Più torniamo indietro nella storia e più l'individuo, e quindi anche l'individuo che produce, ci appare non autonomo, parte di una totalità più vasta: dapprima ancora in modo del tutto naturale nella famiglia e nella famiglia allargata a tribù; più tardi nella comunità, sorta dal contrasto e dalla fusione delle tribù, nelle sue diverse forme. Solo nel XVIII secolo, nella «società civile», le differenti forme dei nessi sociali si presentano al singolo come un puro mezzo per i suoi fini privati, come una necessità esteriore. Ma l'epoca che crea questo modo di vedere, il modo di vedere del singolo isolato, è proprio quella dei rapporti sociali (generali per questo modo di vedere) finora più sviluppati. L'uomo è nel senso più letterale del termine uno zoon politicon, non solo un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società. La produzione dell'individuo isolato all'esterno della società - una rarità, un fatto che può effettivamente accadere a un individuo civilizzato che il caso ha condotto in un luogo selvaggio, a un individuo che in sé possiede già dinamicamente le forze sociali - è una assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme...” (Grundrisse, Einaudi, Torino 1977, pp. 5-7)

La citazione non è tra le più oscure tra quelle che si possono trarre dalle opere di Marx. Essa però pone di fronte non solo ad un pensiero estremamente denso, ma ad un linguaggio e ad un periodare in qualche misura ostico, che si ritrova in quasi tutte le opere maggiori di Marx. Se teniamo conto che tali opere sono state scritte al fine di fornire al movimento socialista, vale a dire agli operai, strumenti adeguati per capire la logica del sistema capitalistico e lottare contro di esso, si rimane perplessi. Se ancora oggi un soggetto di media cultura deve impegnarsi molto per leggere Marx, com'è possibile che egli potesse pensare che il suo messaggio potesse essere recepito dagli operai?

Il problema è che, per un verso, Marx ha una fiducia smisurata nella coscienza umana, e soprattutto nella coscienza dei diseredati, e, per un altro, egli ha un modo di pensare e di scrivere che condensa in poche righe un insieme fittissimo di nozioni, concetti, intuizioni.

Tentiamo, dunque, una “traduzione” o "volgarizzazione" del brano citato.

Per sopravvivere, l’uomo, a differenza degli animali, ha bisogno di produrre i mezzi della sua sussistenza. Ma non può farlo da solo. Egli ha bisogno del sostegno, della collaborazione e della cooperazione del gruppo. Questo significa che l’individuo, originariamente, non è autonomo o, per dire meglio, è letteralmente incorporato nel gruppo e dipendente da esso.

Solo con un lento sviluppo economico, tecnologico e sociale, la dipendenza dell’individuo dal gruppo (parentale, tribale, ecc.) si allenta al punto che, nel XVIII secolo, i filosofi e, dopo di essi gli economisti, cominciano ad ipotizzare uno stato originario di indipendenza e di libertà tale che l’individuo singolo si pone come cellula della società, come un prodotto della natura. Essi, insomma, confondono un punto di arrivo con un punto di partenza, una realtà storica con una realtà naturale (l’esistenza di infiniti Robinson Crusoe che stabiliscono successivamente un contratto sociale tra loro).

In conseguenza di questa concezione, il singolo individuo può pensare che, al di là eventualmente della sfera affettiva e privata, il suo rapporto con il mondo sociale, eccezion fatta per i rapporti strettamente privati, sia meramente strumentale, vale a dire mediato dai beni di cui ha bisogno. Può immaginare, insomma, di essere autosufficiente e padrone di sé, ma in realtà è legato alla realtà sociale (che trascende il gruppo) da fili più sottili e generali di quanto sia mai accaduto. Tali fili gli consentono di isolarsi nell’individualismo e nell’egoismo ma in nome della loro ricchissima trama, che viene celata da scambi quantitativi, mediati dal denaro e, dunque, apparentemente insignificanti sotto il profilo interpersonale.

Egli, insomma, è uno zòon politikon, un essere radicalmente sociale, anche se lo nega. Sulla base di questo presupposto, è assolutamente paradossale che lo sviluppo più ampio della socialità intervenuto con il libero mercato nella storia dell’uomo, che, attraverso le merci, crea una comunicazione universale tra tutti gli esseri del Pianeta, coincida con la genesi dell’individuo borghese egoista. Questo paradosso rimarrà sempre un tema centrale nel pensiero di Marx.

L'effetto immediato della lettura è di farci capire con chi abbiamo a che fare: un genio capace di condensare in poche, dense righe, un’interpretazione totale della storia umana che identifica nella socialità cooperativa la matrice stessa del linguaggio e della trasformazione del mondo naturale in ambiente culturale, nella dipendenza dell’individuo dal gruppo una necessità originaria che, nel corso dei secoli, cristallizza la gerarchia sociale fondata sulle classi, e, nell’avvio del capitalismo, lo sprigionarsi di un bisogno di individuazione prodigiosamente intenso e creativo di ricchezza che, però, separa l’uomo dalla natura, che egli comincia a “sfruttare” intensivamente, e dall’altro uomo, che diventa un rivale e o una merce.

Il problema della natura umana in filosofia

L'attribuzione di Marx all'uomo di una natura radicalmente sociale può sembrare oggi ovvia, anche se egli non parla esplicitamente di un istinto sociale (che è un riferimento classico del socialismo pre- e post-marxiano), ma prende semplicemente atto che l'uomo è uno zòon politikòn.

Marx dà per scontato che l’uomo originario non sarebbe sopravvissuto senza l’appartenenza, la partecipazione e la cooperazione di un gruppo. Oggi, acquisita la consapevolezza della neotenia, della sprovvedutezza istintiva e della carenza della specie umana, la cosa può non sorprendere. Ma Marx è arrivato a questa conclusione quasi contemporaneamente a Darwin (i Grundrisse sono stati scritti tra il 1857 e il 1859), in un periodo in cui la borghesia, avviata verso il suo trionfo, aderiva sempre più alla concezione antropologica dell’individuo autonomo come prodotto della natura, concezione avviata da Th. Hobbes, ripresa dal liberalesimo e culminata, in pieno Novecento, nella teoria pulsionale di Freud.

Non è forse superfluo ricostruire il retroterra di questa opzione, che tanto ha pesato e pesa sulla civiltà occidentale.

La specie umana, come oggi sappiamo, è nata circa centomila anni fa. Per un periodo sterminatamente lungo, la cultura umana si è trasmessa oralmente. Solo cinquemila anni fa è stata inventata la scrittura che, tra l'altro, ha consentito la trasmissione documentaria delle riflessioni che gli uomini hanno fatto su se stessi e sul loro passato. In ogni cultura, anche la più primitiva, si danno miti sulle origini, il più noto dei quali fa riferimento all'età dell'oro.

E' solo nel XVII secolo, però, che la filosofia esprime un interesse per il cosiddetto stato di natura, vale a dire per la condizione umana prima dell'avvento dello Stato. Su di una base speculativa, si definiscono tre tradizioni filosofiche riconducibili a Th. Hobbes, J.-J- Rousseau e J. Locke.

Thomas Hobbes (1588-1679) espone la sua teoria della natura umana, della società e dello stato nel Leviatano. Egli immagina uno stato di natura caratterizzato dal fatto che gli individui sono liberi, indipendenti e protesi ad affermare i loro diritti su tutti i beni disponibili. In conseguenza della scarsità dei beni disponibili, gli uomini ingaggiano una guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes) tal che ogni individuo diventa un lupo divoratore per l'altro uomo (homo homini lupus). Per natura, dunque, gli uomini sono egoisti, desiderosi di potere e aggressivi. Questo stato non può durare indefinitamente perché finirebbe con lo sterminio reciproco della specie umana. Per scongiurare tale pericolo, essi stipulano un Patto Sociale fondato sul fatto che ogni individuo rinuncia al proprio diritto originale (su tutto e su tutti) e lo cede a un terzo (il Sovrano) verso il quale è obbediente.

Il Leviatano rappresenta per Hobbes la forza gigantesca di tutti coloro che hanno sottoscritto il contratto e che formano lo Stato, l'unità corporale di questo. I diritti totali che si avevano nello stato di natura devono essere completamente affidati ad un unico grande sovrano, lo Stato, sotto il cui potere tutti potranno vivere sicuri; le leggi di natura sono quindi i precetti di un'etica razionale della reciprocità, ed il contratto rappresenta la garanzia del loro rispetto.

In questa ottica, la natura umana è caratterizzata da un cieco egoismo e non già da un bisogno sociale. Essa si piega malvolentieri alle regole della convivenza civile, riconoscendo in esse una necessità che contrasta però perennemente con le pulsioni originarie orientate a soddisfare i propri bisogni. L'istituzione dello Stato è, dunque, un male minore rispetto al bellum omnium contra omnes, che consente agli esseri umani di raggiungere uno stato di sicurezza altrimenti impossibile.

A Hobbes, come vedremo, farà esplicito riferimento Freud nel formulare, dopo la Grande Guerra, la teoria dell'istinto di morte, secondo la quale la natura umana non comporta alcun bisogno sociale, ma si piega (malvolentieri) alla convivenza civile per effetto dell'angoscia prodotta da quell'istinto.

Anche Rousseau, ne Il discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, muove dal presupposto che allo stato di natura, l'individuo è libero e indipendente, e non avverte alcun bisogno di socialità. A differenza di Hobbes, però, Rousseau ritiene che, in questo stato, l'uomo sia sostanzialmente buono: "I selvaggi non sono cattivi, precisamente perché non sanno che cosa sia l'esser buoni; poiché non lo sviluppo delle conoscenze, né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l'ignoranza del vizio impediscono loro di mal fare."

"Con passioni così poco attive e con un freno così salutare, gli uomini, più feroci che malvagi, e più preoccupati di garantirsi dal male che potessero ricevere, che non tentati di farne ad altri, non sarebbero soggetti a conflitti molto pericolosi."

"[…] errando nella foresta, senza industria, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senz'associazione, senz'alcun bisogno dei suoi simili come senza desiderio di nuocer loro, forse anche senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l'uomo selvaggio, soggetto a poche passioni, e bastando a se stesso, non aveva che i sentimenti e le conoscenze adatte a tale stato; non sentiva che i suoi veri bisogni, non considerava che ciò che credeva di aver interesse a vedere, e la sua intelligenza non faceva più progressi che la sua vanità. Non dotato di un istinto sociale, egli, però, è dotato di pietas per cui, vedendo qualche simile soffrire, è spinto ad aiutarlo."

Nell'ottica di Rousseau, è solo l'istituzione dello stato che, costringendo gli esseri umani a convivere e a rispettare determinate regole, li mette in competizione e li incattivisce:

"Di libero e indipendente che era prima l'uomo, eccolo, da una quantità di nuovi bisogni, assoggettato per così dire a tutta la natura e sopra tutto ai suoi simili, di cui diventa in certo senso lo schiavo, anche diventandone il padrone: ricco, ha bisogno dei loro servigi; povero, ha bisogno dei loro soccorsi; e la mediocrità non lo mette punto in grado di farne a meno. Bisogna dunque che egli cerchi senza posa d'interessarli alla sua sorte e di far loro trovare, in realtà o in apparenza, il loro utile nel lavorar per l'utile suo: ciò che lo rende furbo e artificioso cogli uni, imperioso e duro cogli altri, e lo mette nella necessità di ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non possa farsene temere, e non trovi il suo interesse a servirli utilmente. […] In una parola, concorrenza e rivalità da una parte, opposizione d'interessi dall'altra, e sempre il desiderio nascosto di fare l'utile proprio a spese altrui: tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e il corteo inseparabile della disuguaglianza sorgente."

John Locke (1632-1704), viceversa, in opposizione a Hobbes, ritiene che l'uomo sia dotato sia di diritti naturali sia di un istinto sociale che lo porta spontaneamente ad aggregarsi. Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile o politico (passaggio necessario per poi approdare al governo) è indispensabile proprio per tutelare tutti i diritti che lo stato di natura assegna all'uomo (a partire dalla proprietà).

Nello Stato di natura tutti gli uomini possono essere uguali e godere di una libertà senza limiti; con l'introduzione del denaro e degli scambi commerciali, tuttavia, l'uomo tende ad accumulare le sue proprietà e a difenderle, escludendone gli altri dal possesso. Sorge a questo punto l'esigenza di uno stato, di una organizzazione politica che assicuri la pace fra gli uomini. A differenza di Hobbes, infatti, Locke non riteneva che gli uomini cedessero al corpo politico tutti i loro diritti, ma solo quello di farsi giustizia da soli. Lo Stato non può perciò negare i diritti naturali, vita, libertà, uguaglianza civile e proprietà coincidente con la cosiddetta property, violando il contratto sociale, ma ha il compito di tutelare i diritti naturali inalienabili propri di tutti gli uomini.

A Hobbes si contrappone, nel XVIII secolo, anche la scuola di filosofia morale scozzese. Francis Hutcheson (1696-1746) avanza per primo l'ipotesi della simpatia. Hume, influenzato da Butler e Hutcheson, afferma che la benevolenza, necessaria per il nostro benessere, non si esaurisce tuttavia in quest’ultimo, e promuove l’affermazione dell’altra virtù sociale, la giustizia. Infatti i sentimenti di benevolenza ci conducono a condurre vita sociale, ci consentono di comprenderne i vantaggi, ci portano ad apprezzare atti giusti e a compierne noi stessi.

Neanche le virtù individuali, secondo Hume, possono essere approvate in virtù dell’amor proprio, benché possa sembrare che esse, a differenza delle virtù sociali, non si allontanino dall’ambito dei propri interessi.

A Hutcheson e a Hume si riconduce, come noto, Adam Smith, il cui pensiero, attraverso la mediazione di Malthus, viene recepito da Darwin. Isolato nella sua dimora di campagna, e in rapporto epistolare solo con alcuni amici e allevatori, Darwin non ha modo di capire l'intima contraddizione che si dà nel liberismo tra i principi elevati e la pratica economica.

Di fatto, l'affermazione della borghesia comporta un'opzione hobbesiana, sia pure contrastata. La concezione antropologica borghese, come Marx ha intuito, si riconduce alla concezione dell'individuo libero e indipendente, impegnato a concorrere con gli altri per accaparrasi le risorse di cui ha bisogno. La socialità, eccezion fatta per la vita privata, non esiste come espressione di un bisogno primario, bensì della necessità di regolare la competizione reciproca nel rispetto dei diritti altrui.

Il liberismo è l'espressione propria di tale concezione, che comporta una sorta di scissione tra società politica, ove valgono i diritti umani e la pari dignità delle persone, e società civile, laddove, invece, sulla base delle leggi oggettive di mercato, si afferma tout court la legge del più forte.

Solo con l'avvento del darwinismo sociale, questa scissione apparirà in tutta la sue evidenza. Marx la coglie anticipatamente mentre essa è in via di realizzazione e ritiene che sia infondata e densa di conseguenze negative. Per ciò, egli ironizza sulle robinsonate liberistiche, che fanno riferimento ad un individuo originariamente libero e indipendente che, per paura (Hobbes) o per utilitarismo (Locke), si piega alla necessità della convivenza sociale.

Ancora oggi alcuni liberisti sostengono che l'individuo viene prima della società. Secondo Marx, una concezione del genere non fa altro che proiettare sul passato una condizione che si è realizzata solo attraverso un lento e graduale sviluppo della società e della sua organizzazione, e che è, peraltro, più apparente che sostanziale: in altri termini, è una mistificazione ideologica.

La contestazione di Marx dell’antropologia borghese non riguarda, però, solo la concezione dell’individuo naturalmente libero e indipendente. Essa concerne, con non minore vigore critico, l’inserimento della proprietà privata tra i diritti naturali inviolabili dell’individuo. Riprenderemo ulteriormente questo tema di vitale importanza nell’ottica della progettazione di un mondo non borghese, ma di straordinaria complessità. Per ora basterà dire che anche questo diritto viene ricondotto da Marx ad un processo storico che riconosce, prima di esso, la proprietà comune della terra, vale a dire lo strumento di produzione che ha governato i tre quarti della storia della specie umana.

Pensare la storia

Ci si può chiedere, a questo punto, se il gioco della lettura di Marx vale la candela. Perché rompersi letteralmente la testa su un autore così complesso? Cerco di fornire una risposta preliminare.

Al di là delle proposte politiche rivoluzionarie di Marx, sulle quali si può o no essere d’accordo (soprattutto, oserei dire, per quanto riguarda i modi e non l’obiettivo del superamento del sistema capitalistico), appropriarsi del pensiero di Marx, dei complessi presupposti che esso implica e degli orizzonti problematici che schiude, significa acquisire la capacità di pensare la storia, vale a dire la vicenda nella quale siamo tutti immersi e alla quale partecipiamo in una nuova luce.

P. Vilar ha scritto che non si diventa marxisti studiando i libri, ma analizzando criticamente la realtà. Aggiungerei che non c'è neppure bisogno di diventare marxisti per tenere conto della lezione di Marx: basta leggere la realtà, dando per scontato che il suo significato autentico - le cause e le ragioni che la determinano - non coincide mai con le apparenze. Questo principio, al quale Marx ha dato un contributo di enorme portata, va integrato integrato con altre discipline che lo accolgono per procedere verso un sapere integrato sull'uomo, una panantropologia.

Vediamo in concreto se la citazione precedente può fornire qualche spunto per l'analisi della situazione contemporanea.

Gli uomini vivono nel presente, vale a dire in una realtà storica alla quale sono assuefatti fino al punto di considerarla naturale, e di non riuscire più a coglierne l’autentico significato, che viene rimosso. Un esempio banale di tale assuefazione riguarda il nostro ruolo di consumatori.

Andiamo continuamente in giro alla ricerca di beni, vale a dire di “cose” che soddisfano i nostri bisogni, e di solito ne troviamo anche troppe. Sappiamo che si tratta di prodotti artificiali, vale a dire di prodotti del lavoro umano (con l’ausilio imponente ormai delle macchine). Questa consapevolezza, però, è mutila sotto il profilo dell’immaginazione. Solo con uno sforzo riusciamo a ricostruire l’imponente catena di individui la cui attività produce i beni. Non sappiamo chi essi siano, anche se alcuni prodotti hanno una sigla che consente di identificare la data, l’ora e gli operatori coinvolti nella produzione. Ancora meno sappiamo della loro condizione, anche se periodicamente rimaniamo turbati dagli scandali che attestano un regime di “schiavitù” ancora diffuso sul pianeta, soprattutto a livello minorile.

Se riuscissimo ad immaginare quella catena, che ormai si estende su tutto il globo, capiremmo immediatamente in che senso Marx vede nel capitalismo l'espressione di una socialità che ha raggiunto una dimensione universale (mentre prima era locale): siamo di fatto ormai cittadini del mondo che scambiano con infiniti altri soggetti al fine di soddisfare i reciproci bisogni.

Nella misura in cui l'assuefazione al consumo crea un corto-circuito tra i nostri bisogni e gli oggetti, però, noi, oltre ad essere inconsapevolmente complici di varie forme di sfruttamento, dimentichiamo che quella soddisfazione in tanto si realizza in quanto l'umanità ha raggiunto un livello di sviluppo sociale avanzatissimo, universale.

Questo sviluppo non è vissuto come tale, bensì come scambio tra cose: denaro e beni.

L’alternativa è illustrata da Marx nei seguenti termini:

Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attività, di una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come una potenza concreta, sensibilmente visibile e quindi elevata sopra ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento e nel tuo uso del mio prodotto io proverei immediatamente il godimento consistente tanto nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, quanto di aver oggettivato l'essere umano e quindi di aver procurato al bisogno di un altro essere umano l'oggetto ad esso corrispondente; 3) di esser stato per te l’intermediario tra te e la specie e dunque di venire inteso e sentito da te come una integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore; 4) di aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque di aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune e umana.” (Estratti 1844)

La dipendenza dell'individuo dallo sviluppo sociale è reso ancora più evidente da un singolare fenomeno sociale - quello dei singles - che si sta diffondendo in tutti i Paesi occidentali. I singles, che in Italia rappresentano il 10% della popolazione, sono distribuiti in due categorie: gli anziani e individui adulti che hanno scelto di vivere da soli. Questi ultimi, che spesso sono abbienti, rappresentano l’espressione contemporanea del culto della libertà individuale. In realtà si tratta in gran parte di soggetti affetti da una forma più o meno seria di “claustrofobia” affettiva, celata spesso dall’orgoglio di essere del tutto indipendenti e autonomi.

Marx ha presagito questo fenomeno scrivendo:

"L'individuo egoistico della società civile può presumere di sé, nella sua idea astratta e nella sua astrazione inanimata, fino a diventare un atomo, cioè un essere asociale, autosufficiente, privo di bisogni, assolutamente completo, beato. Ma la non beata realtà sensibile non si dà pensiero della sua immaginazione, ciascuno dei suoi sensi lo costringe a credere al senso del mondo e degli individui fuori di lui ed anche il suo stomaco profano gli ricorda giornalmente che il mondo fuori di lui non è vuoto ma è ciò che propriamente riempie. Ognuna delle sue attività essenziali e delle sue proprietà, ognuno dei suoi istinti vitali diventano bisogno, necessità che trasforma il suo egoismo in avidità di cose e di uomini fuori di lui." (Marx-Engels, La sacra famiglia, 1845)

La coscienza che ha di sé il single è dunque una coscienza mistificata. La possibilità di vivere da single postula una struttura socio-economica atta a sopperire alla collaborazione domestica e alla solidarietà affettiva: una struttura socio-economica che consente di soddisfare il bisogno di stare da soli fornendo indefinite possibilità “strumentali” di relazioni sociali, dal supermarket, al servizio sanitario nazionale, alla prostituzione, ecc.

L’indipendenza del single è solo apparente, e riguarda la condivisione intima, domestica della propria esperienza con altri (partner, figli, parenti). Essa realizza di fatto una condizione di dipendenza strumentale dal sociale più marcata di qualunque altra condizione: una condizione che dà credito all’assioma marxiano per cui l’uomo è un animale sociale che può isolarsi solo in società.

Questa stessa formula, ovviamente, vale anche per coloro il cui isolamento non è dettato da una scelta personale o ideologica di vita, ma da una condizione psicopatologica. In alcuni casi, essa assume un significato inquietante che consente di penetrare la struttura profonda dell’apparato mentale.

Un giovane, in conseguenza di un’interazione dolorosa con il mondo, “decide” di chiudersi in casa, di isolarsi nella sua camera e di vivere al buio disteso sul letto. Cerca la pace, ma non la trova, perché sente che le persone lo osservano, hanno accesso all’intimità dei suoi pensieri, gli parlano, lo rimproverano, lo prendono in giro, lo minacciano.

L’esperienza è persecutoria. L’io cosciente ha deciso di isolarsi, ma non può farlo scindendo il nesso con un sociale che si anima a livello inconscio e lo mantiene in una particolarissima relazione “coercitiva”.

L'esempio fa riferimento ad una situazione psichiatrica grave.

Gran parte della psicopatologia, però, può essere ricondotta ai tentativi consci e inconsci dei soggetti di scindere i legami sociali, di rifiutare la dipendenza, di impedire all'affettività di stabilire nessi significativi con il mondo sociale, ecc.

Si può pensare, e di fatto spesso si pensa, che tali circostanze siano di ordine privato, abbiano cioè rapporto con la storia familiare, sociale, interiore del soggetto, e non con la sua appartenenza ad un sistema socio-economico. Si tratta però di una banalità, dovuta al fatto di considerare la dimensione privata avulsa dalla storia e dalla struttura sociale.

In realtà, gli uomini vivono nel loro tempo e la loro stessa psicologia risente profondamente della cultura di cui sono partecipi. La nostra cultura è stata influenzata dall'economia più di quanto si possa pensare: di fatto è una cultura "economicistica" che ha condizionato i soggetti a valutare lo scambio interpersonale sulla base del criterio costi/benefici.

In un articolo pubblicato su Nilalienum (Economicismo e psicologia individuale) cito un testo di microeconomia (Robert H. Frank, Microeconomia. Comportamento razionale, mercato istituzioni, Mc Graw-Hill, Milano 1992), ispirato al modello delle scelte razionali secondo il quale la microeconomia è la "disciplina che studia le decisioni degli individui in condizioni di scarsità" (p. 3). Il riferimento immediato, in rapporto all'economia, è ovviamente il tempo. Ma, secondo l'autore, "né tempo né denaro sono le uniche risorse limitate" (id): "di fatto, ogni scelta implica scarsità di risorse: talora si tratta di risorse monetarie, ma non sempre le decisioni più importanti sono condizionate dalla scarsità di denaro. La scarsità è un attributo in qualche modo inerente alla condizione umana, e in un certo senso è anche il sale della vita: chi avesse a disposizione tempo e risorse illimitate non sarebbe mai posto di fronte ad un'alternativa di scelta." (pp. 3-4). Su questa base, il modello delle scelte razionali appare estensibile a tutti i comportamenti umani ("i principi della teoria della scelta razionale non sono limitati a questioni riguardanti i mercati di beni e servizi in senso stretto, ma si utilizzano implicitamente o esplicitamente in quasi ogni decisione e comportamento umano" p. 22), al punto che l'autore, nella prefazione, giunge ad affermare che "alla fine del testo, lo studente dovrebbe interpretare ogni dettaglio del paesaggio umano come risultato di un calcolo, implicito o esplicito, di costi e benefici." (p. XXVI)

L'impostazione di Frank è esemplare di come procede ancora oggi l'economia "borghese", che Marx ha passato la vita a criticare: ricavando leggi oggettive di significato universale senza tenere conto della storicità dei contesti da cui le ricava. Il paesaggio umano di cui parla Frank ha una corrispondenza reale nel modo in cui gli esseri umani oggi vivono la socialità, ma ciò dipende dal fatto la nostra psicologia è stata modellata dall'ideologia del mercato, e non dal fatto che il mercato si fondi e si realizzi sulla base di un criterio psicologico naturale.

Come è ormai noto da una particolare disciplina nell'ambito delle scienze umane e sociali - l'antropologia economica -, sono esistite infinite culture all'interno delle quali lo scambio tra le persone si realizzava sulla base del dono.

La trasformazione economicistica della mentalità è effettivamente avvenuta, ma è l'espressione di un processo storico. Nell'articolo citato ho scritto:

"Pochi dubbi si possono avere riguardo al fatto che in una società in cui i soggetti sono impegnati frequentemente a scambiare beni e servizi con denaro, e devono quindi adottare più o meno consapevolmente il criterio costi-benefici, tale criterio possa giungere ad assumere una configurazione totalizzante, fino al punto di investire anche le sfere di vita che dovrebbero esserne esenti.

Quali prove si possono fornire a favore di questa trasformazione economicistica della psicologia individuale e collettiva?

Le prove sono molteplici. Mi limiterò ad accennare alle più importanti.

Un primo ambito riguarda i rapporti tra genitori e figli, e va esaminato sotto il duplice profilo del rapporto dei genitori con i figli e dei figli con i genitori.

Mettere al mondo un figlio, curarlo, allevarlo, farlo studiare, portarlo all'autonomia comporta un investimento netto in termini di affetti, energie, tempo, denaro. Sulla carta, dato che la procreazione e l'assunzione di responsabilità che ne consegue rappresentano (o dovrebbero rappresentare) una libera scelta, l'investimento genitoriale dovrebbe avere le caratteristiche del dono almeno in gran parte gratuito. Dovrebbe, in breve, essere una scelta ispirata al fine di mettere il figlio in considerazione di vivere la sua avventura terrena e di giocarsi le sue carte.

Nella realtà, via via che i cambiamenti sociali hanno comportato da parte dei genitori un investimento sempre maggiore di risorse psicologiche e economiche, ciò ha comportato, a livello inconscio, il prodursi dell'aspettativa di un utile o, al limite, di un beneficio maggiore del costo. Il beneficio in questione può essere riferito semplicemente al fatto che i figli vengano su bene, si comportino bene in società, e acquisiscano uno status di cui i genitori possano menar vanto. Il problema è che tale beneficio spesso viene perseguito proiettando sui figli aspettative piuttosto definite, narcisistiche, corrispondenti cioè più ai desideri dei genitori che dei figli, e cercando di mobilitare in essi una risposta sulla base dell'indebitamento.

In casi estremi, ma non eccezionali, il figlio diventa addirittura un capitale da cui trarre un guadagno. E' questa logica che sottende il comportamento dei genitori che alimentano le speranze dei figli di diventare calciatori o sportivi di successo, che cercano di inserire i propri rampolli, fin da bambini, nei circuiti dorati dello spettacolo (dalle pubblicità alla televisione al cinema), ecc., che smaniano perché divengano professionisti di successo (avvocato, medico, ingegnere), ecc.

La risposta dei figli alle aspettative genitoriali, consce e inconsce, fondate sul calcolo, non sono univoche. Alcuni, in numero sempre minore, sviluppano di fatto un vissuto di indebitamento, che li porta ad accondiscendere a quelle aspettative. Nella maggioranza, però, l'adozione della logica economicistica comporta una risposta paradossale fondata sul credito piuttosto che sul debito.

Il punto su cui fa leva questa trasformazione è che, non avendo essi chiesto di venire al mondo, coloro che hanno operato questa scelta, sono tenuti ad assicurare loro il massimo agio possibile. L'arma che viene adottata per conseguire il beneficio è la minaccia di una rappresaglia, che va dal mettere i genitori di fronte alla loro infelicità al fare incombere nella loro mente il fantasma della devianza o, al limite, del suicidio.

La motivazione rivendicativa dei figli è ulteriormente accresciuta dal fatto che essi, in genere, analizzando i comportamenti dei genitori alla luce di un modello astratto di razionalità per cui questi dovrebbero essere perfetti, giungono facilmente a rilevare degli errori che avrebbero danneggiato il loro sviluppo. In conseguenza di questo, al credito che vantano per essere stati messi al mondo "arbitrariamente", si aggiunge spesso il riferimento ad un danno subito per il quale chiedono un risarcimento.

Mentre il vissuto d'indebitamento filiale si può ritenere psicologicamente originario, quello fondato sul credito e sul risarcimento, vale a dire sul principio di ricavare un vantaggio dal proprio ruolo è evidentemente influenzato dall'aria che si respira, vale a dire dal criterio costi-benefici.

Al di là del rapporto tra genitori e figli, tale criterio influenza ormai potentemente la vita di relazione interpersonale a tutti i livelli, fin dall'adolescenza.

L'amicizia giovanile viene considerata un grande valore, perché affranca dallo spettro della solitudine e dell'isolamento. Essa però viene vissuta alla luce di aspettative idealizzate, per cui ci si aspetta dall'amico un comportamento costantemente conforme ai propri bisogni. L'amico, insomma, è colui che, nel rapporto, si dà molto da fare.

Questo codice economicistico impatta in una situazione che riproduce, a livello amicale, la differenza già accennata a livello filiale. Alcuni soggetti, che hanno acquisito attraverso il rapporto con i genitori il vissuto dell'indebitamento, i quali dunque credono che il fondamento dei rapporti sia il donarsi agli altri, trasferiscono questa modalità a livello amicale. Si tratta, anche in questo caso, di una minoranza, che attira irresistibilmente gli altri, contaminati, senza saperlo, dalla logica del vantaggio interpersonale.

Su questa base, si organizzano reti di relazioni all'interno delle quali c'è qualcuno che si danna l'anima per soddisfare le aspettative altrui e qualcun altro che sfrutta la disponibilità per avvantaggiarsi. Relazioni del genere tendono alla cristallizzazione, perché gli uni sono terrorizzati dall'idea di tradire le aspettative altrui e di essere rifiutati e gli altri si rivolgono ad essi dando per scontata la loro disponibilità illimitata.

Il criterio costi-benefici governa ormai anche gran parte dei rapporti affettivi tra uomo e donna, fin dall'adolescenza. Il "costo" dei rapporti affettivi è il grado di libertà cui occorre rinunciare per stare insieme e il rischio che si corre in caso di abbandono; il "beneficio" è la sicurezza che si ricava dal poter contare su qualcuno e dall'organizzare la vita in coppia.

Nella nostra società, il costo viene sistematicamente enfatizzato a partire dall'adolescenza, in nome di un orientamento claustrofobico pressoché universale e della vergogna estrema di poter subire un abbandono.

In conseguenza di questo, i rapporti affettivi, adolescenziali e giovanili, si configurano come relazioni competitive all'interno delle quali ciascuno tenta di scongiurare la possibilità di trovarsi in una condizione di debolezza rispetto all'altro. Si dà per scontato, infatti, che chi cade in una tale condizione deve temere, in nome della sua debolezza, sia un disinvestimento affettivo sia una rappresaglia (l'abbandono). La cosa più importante, infine, non è sperimentare la capacità di amare e di costruire con l'altro una relazione significativa, bensì salvare la faccia, vale a dire non ritrovarsi, nel caso dello scioglimento del rapporto, in una situazione svantaggiosa, di perdita.

Al di là delle relazioni giovanili, tale logica governa anche le scelte matrimoniali e la vita di coppia. Sempre più spesso, le scelte matrimoniali avvengono sulla base di un calcolo. Ogni soggetto aspira ad avere un partner che abbia caratteristiche qualitativamente elevate in termini di bellezza, status, reddito, patrimonio, cultura, ecc. La scelta reale, di fatto, poi porta a rinunciare a queste aspettative ottimali, ma in nome di un bisogno supremo di sicurezza, che assegna al partner la funzione di soddisfare le proprie esigenze più intime, spesso inconsapevoli o nevrotiche.

Per quanto riguarda le donne, tali esigenze sono in genere riconducibili ad un bisogno incoercibile di attenzione, di affetto, di calore, tale per cui il partner dovrebbe trasformarsi in un erogatore a comando di conferme. Il partner ideale, insomma, è uno schiavo sempre pronto ad assoggettarsi a richieste che, data la precarietà della condizione psicologica femminile, si pongono spesso come insaziabili.

Gli uomini, viceversa, trasferiscono nel rapporto con la partner un bisogno di accadimento alimentato dalle madri e misconosciuto, che si trasforma nella pretesa di essere curati, di ricevere attenzioni, di essere sollevati dalle incombenze domestiche e dalla cura dei figli, ecc. Anche per essi, la partner ideale è una schiava che soddisfa tutte le loro esigenze.

Anche a livello matrimoniale, si riproduce la contraddizione cui s' è fatto cenno. Alcuni soggetti, di fatto, sentono come un loro dovere imprescindibile l'annullarsi a favore dell'altro. La maggioranza, però, avverte come un proprio diritto ricavare il massimo vantaggio dalla relazione con il partner.

Analizzando le relazioni interpersonali affettive senza alcun atteggiamento moralistico, riesce dunque evidente che il criterio costi-benefici impregna profondamente ormai la soggettività e dà luogo, quasi sempre inconsapevolmente, ad un modo di relazionarsi con gli altri che appare chiaramente incentrato sullo "sfruttamento". Che questa situazione non sia vissuta drammaticamente, come espressione di un'alienazione dell'affettività, dipende dal fatto che le aspettative fondate sul calcolo si realizzano in conseguenza del fatto che alcuni soggetti, di solito estremamente sensibili e condizionati dal rapporto originario con la famiglia a vivere per sdebitarsi, le accolgono e, dandosi da fare, soddisfano il loro incoercibile bisogno di sentirsi confermati: in breve, si sfruttano e si fanno sfruttare."

Che il pensiero di Marx possa essere utilizzato per interpretare anche fenomeni psicosociologici e psicopatologici è sorprendente, tenendo conto che una delle accuse ricorrenti che gli sono state rivolte è di non avere mai prestato attenzione alla psicologia e alla soggettività individuale, vale a dire di avere sempre e solo considerato l'individuo come agente storico inserito in un sistema socioeconomico. E' vero che la storia e l'economia hanno assorbito totalmente Marx.

Dalla sua biografia, si ricavano, però, almeno due circostanze che denotano un interesse per la psicologia che, se fosse stato coltivato, avrebbe prodotto, forse, grandi risultati.

La prima è legata ad una saggio sul suicidio che risale al 1846: saggio è tal punto anomalo nella produzione di Marx che esso non risulta neppure pubblicato nelle Opere complete. Si tratta di una libera traduzione e interpretazione del libro di un archivista della polizia francese, che rievoca alcuni suicidi dovuti a fallimenti o a conflitti individuali. Nella sua interpretazione, Marx non minimizza affatto l'importanza che l'archivista francese riconosce all'esperienza familiare nella qualità della vita di un individuo, ma ne approfitta per inserire un'osservazione sull'autorità paterna assoluta, che ricollega alla subordinazione e alla dipendenza prevalenti nella società civile. Nella prefazione, inoltre, egli presenta il saggio "come un esempio del modo in cui la critica sociale moderna in Francia rivela le contraddizioni e le mostruosità presenti in tutti gli aspetti della vita."

La seconda circostanza risale al 1861, quando egli visita nei Paesi Bassi una zia materna sposata ad un banchiere, un cui figlio è affetto da una grave depressione. Marx si interessa del giovane al punto che, tornato a Londra, scrive al banchiere per ringraziarlo dell'accoglienza (e del generoso prestito che egli, affascinato dalla genialità del nipote, gli ha fatto). Nella lettera egli accenna anche alla depressione del giovane cugino, "malattia che si spiega facilmente con il fatto che, a differenza della maggior parte degli uomini, egli è critico verso se stesso e non si è creato ancora una solida opinione politica che lo soddisfi."

Marx ritiene dunque che una solida opinione politica valga a curare anche i mali dell'anima. Si tratta di capire perché, pure avendone una solidissima, egli non è scampato del tutto a tali mali.

A tale fine, occorre però partire non già dalla teoria, bensì dall'uomo Marx e dal suo travagliato rapporto con il contesto storico-culturale.