La rivoluzione scientifica compiuta da Marx nell'economia politica era stata preparata sin dagli anni 1840 44. Ma solo gli ultimi dieci anni di questo duro lavoro furono particolarmente fecondi.
Marx elaborò copiosi manoscritti nel 1857-59, 1861-63 e 1864-65: tra questi i Gründrisse occuparono senz'altro il posto principale, in quanto è in essi che per la prima volta si elabora a grandi linee la teoria del plusvalore, nonché il punto d'avvio dell'analisi del modo di produzione capitalistico: il concetto di merce.
Editi per la prima volta in versione integrale dall'Istituto Marx Engels Lenin di Mosca nel 1939-41, i Gründrisse divennero accessibili in Occidente negli anni '60 e all'inizio dei '70, grazie soprattutto alle traduzioni nelle principali lingue europee e in giapponese. Essi apparvero nel circuito scientifico internazionale nel momento in cui i problemi dell'umanesimo, dell'alienazione e dello sviluppo della libertà umana - così come sono affrontati nelle opere di Marx - erano largamente dibattuti in Occidente. In particolare, speculando sul carattere un po' equivoco di talune espressioni dei Manoscritti del '44, i sostenitori del "neomarxismo" cercarono di opporre il giovane Marx (quello umanista) all'autore del Capitale, considerando questo marxismo umanista come il più autentico e genuino.
L'apparizione dei Gründrisse, che documentava il rapporto reale fra le idee del giovane Marx e la teoria economica sviluppata nel Capitale, avrebbe dovuto por fine al perpetuarsi della falsificazione del pensiero di Marx. Ciò in quanto i Gründrisse costituiscono una specie di ponte fra gli anni '40 e gli anni '60-70 del XIX sec., cioè fra i Manoscritti del 44 e il Capitale.
Ma così non è stato, almeno per quei critici che, pur riconoscendo ai Gründrisse un trait d'union fra la critica marxiana della società borghese, condotta a livelli meramente filosofici, e lo studio economico-politico sistematico delle leggi tendenziali interne al capitalismo (come appare nel Capitale), sostengono che i manoscritti in questione costituiscono il vertice dell'opera marxiana e che la loro pubblicazione ha rivelato al mondo un "Marx sconosciuto" (cfr. le tesi di M. Nicolaus e D. McLellan). Il che portava a dedurre, più o meno esplicitamente, che soltanto la conoscenza dei Gründrisse autorizzasse l'autentica comprensione della dottrina filosofica ed economica del marxismo.
L'influenza di questa parziale e riduttiva interpretazione dei manoscritti economici del 1857-59 si è fatta sentire anche su alcuni teorici marxisti occidentali, i quali hanno creduto sulla scia di Nicolaus di superare definitivamente sia l'unilateralità dei panegirici sul "giovane Marx", sia le concezioni della scuola di Althusser che, nella polemica col revisionismo, era arrivato, pur partendo da posizioni diverse, alla medesima conclusione quanto alla esistenza d'una "rottura epistemologica" tra il giovane Marx e quello maturo.
Costituendo l'anello mancante, i Gründrisse in effetti rappresentano la continuità del pensiero marxiano. Tuttavia, se essi apparentemente appaiono più ricchi del Capitale, di fatto, sul piano sostanziale e teorico, risultano più poveri.
I marxisti borghesi e i revisionisti mettono soprattutto l'accento sul fatto che i manoscritti economici del 1857-58 trattano tutta una serie di questioni assenti o appena accennate nel Capitale. E. Hobsbawm e E. Mandel sottolineano la dialettica del tempo libero sotto il capitalismo e nel socialismo, la tendenza alla trasformazione della scienza in una forza produttiva diretta e quella della produzione meccanizzata in azienda automatizzata, l'analisi delle forme precapitalistiche, le premesse delle crisi di sovrapproduzione nel capitalismo, ecc; Mandel allunga la lista rilevando che certe questioni legate alla proprietà fondiaria, al lavoro salariato, al commercio estero e al mercato mondiale non hanno trovato alcun riflesso nel Capitale.
E’ anche vero che l'importante analisi della duplice natura della merce e quindi della genesi del denaro non è presente che a livello embrionale nei Gründrisse, mentre il problema del costo della produzione non è neppure posto, benché la nozione di profitto sia stata dedotta dallo studio del plusvalore.
Proprio per queste ragioni R. Rosdolsky, J. E. Elliot, A. Oakley e altri hanno ridimensionato alquanto l'originalità dei Gründrisse rispetto al Capitale. E' assurdo contrapporre in modo meccanico questo a quelli: si tratta di tappe differenti di un medesimo processo di conoscenza teorica del capitalismo.
Questa strumentale contrapposizione cela però un disegno più vasto: quello di "ristrutturare" il marxismo in modo da privarlo del suo nucleo centrale. Si tratta di un'operazione tutt'altro che scientifica, tesa a suffragare surrettiziamente una "nuova" interpretazione del marxismo, forse un po' più sofisticata, ma avente sempre lo stesso obiettivo: togliere al marxismo il suo potenziale rivoluzionario.
La specificità dei Gründrisse risiede piuttosto nel fatto che in essi è evidente la necessità di passare dalla scoperta della legge del plusvalore alla costruzione d'un sistema categoriale del modo di produzione capitalistico. Un sistema che qui appare come l'intelaiatura del Gründrisse. Nel senso cioè che se Marx ha rinunciato nel Capitale a esaminare taluni problemi, è stato unicamente perché essi non avevano un rapporto diretto, immediato, con l'oggetto specifico, malgrado l'importanza che in sé potessero avere. Non dimentichiamo inoltre in quali incredibili difficoltà economiche ha vissuto Marx e la sua famiglia proprio mentre elaborava la stesura dei Gründrisse e del Capitale: gran parte del suo tempo doveva dedicarlo a risolvere problemi tutt'altro che teoretici.
Questo spiega il motivo per cui è impossibile comprendere pienamente l'originalità dei Gründrisse separandoli dal Capitale. La teoria economica di Marx può essere efficacemente rappresentata come un movimento ascendente, lineare e continuo.
Ma c'è un altro aspetto che i teorici borghesi e i revisionisti amano sottolineare: la presunta dipendenza del metodo di Marx dalla "logica" di Hegel. In particolare essi credono di ravvisare nei Gründrisse una stretta correlazione con la hegeliana Filosofia del diritto (vedi le tesi di S. Avineri, specialista israeliano di storia del marxismo e di N. Fischer, neohegeliano americano).
Questo problema, in verità, era già stato sollevato da R. Rosdolsky, l'autore della prima fondamentale opera sui manoscritti del 1857-59; e verrà ripreso negli anni 1960-70 in Francia e in Italia (vedi J. Potier, Lectures italiennes de Marx 1883-1983, Lyon 1986).
Senonché il rapporto tra Marx ed Hegel è quanto mai controverso. La nozione di "capitale in generale" non ha nulla a che vedere col concetto metafisico di Allgemeine Begriff. La categoria marxiana esprime non solo delle caratteristiche generali astratte, inerenti a qualunque capitale, ma anche il rapporto universale concreto "in opposizione ai capitali particolari reali". Il capitale sociale globale è un'immagine reale del capitale in generale.
Il ricercatore russo A. Kogan è riuscito a dimostrare che il metodo di Marx era così dialettico che, a differenza di Hegel, non riusciva a sopportare alcuno schema astratto arbitrariamente imposto. Il Capitale, in questo senso, non è che uno sviluppo del contenuto della nozione di "capitale in generale". E' cioè un'opera finalizzata ad approfondire un argomento ritenuto di fondamentale importanza. In modo particolare, è la produzione del plusvalore al centro del suo interesse, la fonte principale di tutte le ingiustizie della società borghese, moderna e contemporanea.
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L'Introduzione ai Grundrisse è uno spaccato dei più macroscopici errori di metodologia storico-economica compiuti dagli economisti borghesi.
E' singolare che, per svelarli, ci sia stato bisogno di un filosofo tedesco preveniente da un paese, la Prussia, che sicuramente, sul piano capitalistico, non era avanzato come Francia e Inghilterra e che pertanto non poteva permettere a nessun intellettuale, per quanto illuminato fosse, di avere una consapevolezza così critica delle contraddizioni del capitale, tant'è che Marx dovette per così dire farsi le ossa studiando economia prima in Francia poi in Inghilterra. Quando approdò per la prima volta a Parigi nel suo bagaglio culturale aveva solo la critica della religione e della filosofia del diritto pubblico (in cui aveva però già capito il ruolo negativo della proprietà privata e il ruolo illusorio dello Stato), e ovviamente aveva la piena padronanza della dialettica hegeliana.
Stessa cosa però si potrebbe dire del "russo" Lenin, che pur provenendo da un paese economicamente arretrato come il suo, riuscì a dare delle indicazioni molto più precise degli "intellettuali" tedeschi o dei politici per definizione, quali sono sempre stati i francesi, sul modo in cui si doveva compiere una rivoluzione proletaria.
La cosa che soprattutto stupisce è che Marx, a differenza degli economisti borghesi, aveva chiarissima l'idea che il capitalismo andava considerato come una pura e semplice formazione storica, destinata, come tutte quelle che l'avevano preceduta, ad essere superata da una più avanzata.
Marx doveva misurarsi con intellettuali che o si erano messi smaccatamente al servizio della borghesia, oppure le erano al servizio semplicemente perché partivano da presupposti sbagliati, frutto di vari pregiudizi. Quand'egli scrive che gli economisti moderni non erano in grado di isolare "le determinazioni che valgono per la produzione in generale" dalla "diversità essenziale" che permette di capire quando alcune determinazioni appartengono a tutte le epoche storiche e quando altre invece appartengono solo ad epoche particolari (p. 7), e mostra così che sulla base di questo errore essi finivano col sostenere l'eternizzazione del capitalismo, sembra di assistere a un confronto tra un maestro e i suoi scolaretti.
E non si può neanche sostenere che, siccome il capitalismo era appena nato, detti economisti vedevano inevitabilmente più gli aspetti positivi di quelli negativi. Basta leggersi il cap. XXIV del Capitale per rendersi conto che le tragedie maggiori il capitalismo europeo (in questo caso inglese) le ha subite proprio nei suoi primi secoli di sviluppo. Persino T. More, cancelliere di re Enrico VIII, mostrava d'essere perfettamente consapevole dei disastri delle enclosures a lui coeve.
Il livello di consapevolezza critica di Marx, rispetto a questi economisti borghesi, forse può essere paragonato a quello che aveva, sul piano filosofico, Hegel nei confronti di tutti i filosofi che l'aveva preceduto e, se vogliamo essere onesti, anche di tutti quelli che lo seguiranno, poiché, se si esclude lo stesso Marx, noi non vediamo alcun altro intellettuale in grado di competergli. Ancora per molti secoli la filosofia hegeliano avrebbe potuto continuare a egemonizzare la Germania se questa avesse dimostrato d'essere superiore, sul piano dell'organizzazione della società, ai suoi concorrenti anglo-francesi. Si può in un certo senso sostenere che il rifiuto dell'idealismo assoluto di lasciarsi superare dal socialismo scientifico, porterà detta filosofia ad appoggiare, più o meno direttamente, soluzioni estreme come quella nazista, o ad involversi (il che poi è sostanzialmente lo stesso) in situazioni ideologicamente non meno estreme come quella dell'irrazionalismo di Nietzsche.
Probabilmente questo limite di fondo nella metodologia dell'economia politica borghese trova le sue radici nel fatto che gli economisti avevano bisogno di dimostrare l'impossibile pur di convincere l'intera società civile che la strada intrapresa, nonostante le immani tragedie, era quella giusta. Oggi una posizione del genere o sarebbe difficilmente sostenibile, dopo il marxismo, per quanto il crollo del "socialismo reale" abbia di nuovo posto le premesse per un suo revival in grande stile, oppure sarebbe inutile sostenerla, in quanto il capitalismo, al proprio interno, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali (e il crac del '29), ha praticamente esportato il grosso delle proprie contraddizioni nel Terzo Mondo, e se di questa area geografica i media occidentali non parlano, è molto difficile che le masse popolari occidentali abbiano bisogno di intellettuali borghesi disonesti per essere convinte di ciò di cui sono già convinte, e cioè che il capitalismo è al momento, se non il migliore sistema sociale di tutti i tempi, certamente l'unico a non avere alternative praticabili.
E' fuor di dubbio comunque che quando un economista difende la proprietà privata come un totem da adorare, è perché egli stesso è proprietario di qualcosa di sufficientemente significativo da indurlo a comportarsi così. Questa non è una congettura psicologica ma una constatazione sociologica. A questi economisti difetta la coscienza storica semplicemente perché sono schiacciati sotto il peso del presente e del loro interesse personale e di ceto privilegiato.
Marx fa notare nei Lineamenti che l'oggetto dei suoi studi è la "produzione materiale dell'uomo sociale". Non vuole partire, non credendo neppure nella sua esistenza, dall'individuo isolato, generico, universalmente astratto, come fecero gli inglesi Smith (1723-1790) e Ricardo (1772-1823), e come continuano a fare gli economisti a lui coevi: l'americano Carey (1793-1879), i francesi Bastiat (1801-1850) e Proudhon (1809-1865) ecc.
L'individuo isolato è stato fatto passare dagli storici delle civiltà come una forma di ritorno all'uomo di natura, in contrasto agli eccessi dell'uomo civilizzato, al punto che si è voluto vedere nel "contratto sociale" di Rousseau un patto tra "soggetti per natura indipendenti"(p. 4). Il che, secondo Marx, non ha senso. Tali "robinsonate" - egli afferma - servirono piuttosto per anticipare, legittimandola, la "società civile", quella che tutela la proprietà.
"In questa società della libera concorrenza - dice Marx - l'individuo si presenta sciolto da quei vincoli naturali ecc. che nelle epoche storiche precedenti fanno di lui un elemento accessorio di un determinato e circoscritto conglomerato umano". Cioè Smith e Ricardo hanno avuto tutto l'interesse a presentare l'uomo borghese come un Robinson che esce dallo stato di natura, rozzo e primitivo, per diventare finalmente un individuo libero, autonomo e soprattutto "sociale".
Marx come al solito è bravissimo nel ribaltare la prospettiva con cui si guardano le cose e spiega che in realtà l'individuo isolato (così come dagli economisti è stato descritto) non era affatto un "uomo di natura", ma semplicemente il prototipo d'individuo di cui la classe borghese aveva bisogno per affermarsi come tale. Era un uomo isolato proprio perché doveva appartenere alla società borghese, in cui appunto deve avvenire un contratto tra individui liberi, indipendenti - almeno così si vuol far credere, in quanto la critica di Marx è appunto rivolta contro il carattere formale, illusorio, della libertà di uno dei due contraenti, quello privo di proprietà.
Anche senza verificare i testi di Smith e Ricardo e di tutti gli altri economisti borghesi, è evidente quello che Marx intende dimostrare. E noi dobbiamo dare per scontato che avesse ragione, in quanto non avrebbe senso ripercorrere i suoi studi per verificare la fondatezza delle sue tesi. Se non partiamo da questo presupposto, cioè se non ci mettiamo sulle spalle di Marx e non guardiamo avanti, non riusciremo a superare i limiti del marxismo.
Dunque l'isolamento dell'uomo di natura è funzionale alla necessità di stabilire un contratto di lavoro, che a sua volta dipende da determinati, ancorché mistificati, rapporti di proprietà. Per gli economisti e ideologi borghesi l'individuo isolato è "il punto di partenza della storia", per Marx invece un "risultato storico", quello del crollo del feudalesimo e della nascita, sulle sue ceneri, del capitalismo.
Robinson o Adamo sono per detti economisti delle rappresentazioni naturali dell'uomo, per Marx invece delle rappresentazioni ideali della borghesia, che vede l'individuo singolo, isolato come un limite che va superato col "contratto" - in realtà, dice Marx, solo per giustificare la distruzione delle comunità precapitalistiche.
I Gründrisse sono stati scritti di getto, come riflessioni spontanee che emergevano nel corso degli studi: non erano assolutamente destinati alla pubblicazione. Di qui la fatica che spesso si fa a capire certi passaggi. Tuttavia, proprio l'immediatezza di queste riflessioni a volte ci è più d'aiuto a capire lo svolgimento dei pensieri marxiani che non un intero testo strutturato. P. es. nei Grundrisse gli accenni sul precapitalismo sono molto più interessanti di quelli che si possono incontrare nel I libro del Capitale. Il motivo di questo è semplice: Marx non dava mai alle stampe qualcosa che per lui non avesse la caratteristica della definitività. Nel suo metodo d'indagine era talmente scrupoloso che non avrebbe potuto tollerare dei giudizi approssimativi, generici su un argomento così importante come quello del precapitalismo. Per cui preferiva tacere.
Nei Gründrisse, quando parla dell'uomo primitivo o anche solo dell'uomo preborghese, i giudizi di Marx sono spesso tra loro contraddittori, a testimonianza che le sue conoscenze in materia non erano approfondite. A p. 5 p.es. cita un testo di B. G. Niebuhr, Römische Geschicte (Berlino 1827), più avanti citerà un testo di W. H. Prescott, History of the Conquest of Perù (Londra 1850) e si ricordi quel che scrisse Engels nell'edizione inglese del Manifesto del 1888: "Nel 1847, la preistoria della società - l'organizzazione sociale esistente prima della storia tramandata per iscritto - era poco meno che sconosciuta". Non dimentichiamo che l'Appendice ai Gründrisse, che passa sotto il nome di Formen, contiene passi molto significativi sul precapitalismo, ma anch'essa rimase inedita. Persino nel 1866, quando ormai era pronta la pubblicazione del I volume del Capitale, Marx decise di togliere dalla sua stesura definitiva il VI capitolo intitolato "Risultati del processo di produzione immediato", che, guarda caso, tratta molto estesamente dei problemi del precapitalismo.
Marx nutre nei confronti del precapitalismo un atteggiamento ambivalente, poco decifrabile, che si trascinerà sino agli ultimi scritti coi populisti. Prendiamo alcune affermazioni dai Gründrisse: una l'abbiamo già riportata: l'uomo preborghese è un "accessorio di un determinato e circoscritto conglomerato umano"(p. 4); Marx lo vede come un individuo "privo di autonomia, come parte di un insieme più grande... (famiglia, tribù, comunità)"(p. 5). E in questo il suo giudizio non è molto diverso da quello degli economisti borghesi. Tuttavia, a p. 10 scrive: "La storia mostra che la proprietà comune (p.es. presso gli indiani, gli slavi, gli antichi celti ecc.) è la forma più originaria, una forma che, nella veste di proprietà comunale, svolge ancora per lungo tempo una funzione importante".
Marx intende riferirsi non alla proprietà comune (che ancora non prevedeva quella "privata" come contraltare) dei popoli primitivi, preschiavistici, bensì a quella proprietà d'uso comune tra gli abitanti di una comunità di villaggio feudale, come p.es. i boschi, le foreste, determinati pascoli, le paludi... Marx dice questo per contestare che dal concetto di "proprietà" si debba per forza passare (come appunto fanno gli economisti borghesi) alla proprietà "privata". Cioè nel Medioevo, p.es., è esistita la proprietà privata dei feudatari, ma anche, e per moltissimo tempo, una proprietà comune, utilissima per i contadini.
Queste considerazioni il marxismo contemporaneo non le ha mai sviluppate come avrebbe dovuto. Infatti, se lo avesse fatto avrebbe dovuto rivedere molti pregiudizi nei confronti del feudalesimo, nonché la tesi di una necessità storica della transizione al capitalismo.
Secondo Marx l'uomo primitivo è destinato a recidere il cordone ombelicale che lo lega alla comunità e, in tal senso, il passaggio dal comunismo primitivo alla civiltà, o dalla preistoria alla storia deve essere considerato inevitabile. Tuttavia Marx vede questo processo con una sorta di angoscia esistenziale: "L'uomo è nel senso più letterale un zòon politikòn [nel testo la citazione è in greco] non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi"(p. 5). Un'affermazione di questo genere è potente, in quanto Marx, a differenza degli economisti borghesi, non si fa illusioni sul capitalismo. Dunque, per tornare alle "robinsonate" iniziali, "la produzione dell'individuo isolato al di fuori della società" - dice Marx - è un'assurdità totale.
Esattamente come l'altra cosa, quella di considerare le civiltà preborghesi, ignare del diritto, come più "barbare" di quella moderna. Scrive Marx a p. 11: "Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte [la borghesia che oppone il proprio diritto alla forza del signore feudale, laico od ecclesiastico]. Essi dimenticano soltanto - prosegue Marx- che anche il diritto del più forte è un diritto [infatti è sempre esistita una legislazione anche sotto il Medioevo] e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma anche nel loro 'Stato di diritto'", cioè è cambiata la forma ipocrita in cui si cela il primato della forza, in quanto tutti i cittadini sono formalmente uguali davanti alla legge.
Parlando di produzione, distribuzione, scambio e consumo, Marx fa delle considerazioni molto importanti. Qui si ha a che fare con uno studioso che si accinge ad esaminare in maniera approfondita (come in Francia non era riuscito a fare) dei testi economici di una certa complessità e in tale esame, lo si vede benissimo, da un lato egli opera delle sintesi concettuali del pensiero degli economisti borghesi, in cui a volte si fatica a capire dove stiano le sue personali interpolazioni, ovvero s'egli stia riassumendo posizioni dominanti tra gli economisti borghesi o quelle che lui condivide maggiormente; dall'altro egli, di tanto in tanto, come suo solito, fa il punto "critico" della situazione, cercando altresì di trovare soluzioni o nuove impostazioni di metodo agli argomenti che gli economisti borghesi hanno trattato in maniera superficiale o incompleta.
E' come assistere allo svolgimento in tempo reale della sua metodologia di lavoro. I Gründrisse sono una sorta di diario personale, in cui un filosofo discepolo e nel contempo critico di Hegel, si accinge a modificare radicalmente (come nessun altro filosofo della Sinistra hegeliana riuscì a fare, se si esclude Engels, che anzi per molti versi anticipò Marx) il suo oggetto di studi e che inevitabilmente è costretto a trattare con un linguaggio filosofico degli argomenti di tipo economico. Si prenda p.es. questa affermazione, che in un certo senso è paradigmatica: "Questa identità di produzione e consumo perviene al principio di Spinoza: determinatio est negatio"(p. 14). Parallelismi del genere, che s'incontrano continuamente negli scritti di Marx, sono semplicemente stupefacenti e indicativi della sua vastissima cultura.
Questo tuttavia, se può sembrare un limite per il lettore che vorrebbe vedere l'economia trattata con linguaggio puramente "economico", senza essere costretto a faticosi sforzi di astrazione, è stato in realtà un grande vantaggio per Marx, poiché gli ha permesso di guardare con occhi completamente diversi - quelli appunto della dialettica hegeliana - cose che gli economisti classici vedevano in maniera più limitata, con gli occhi tipici della dialettica illuministica, in forza della quale l'idea di progresso finiva col deformare la visione obiettiva delle contraddizioni sociali. Bisogna quindi avere molta pazienza nell'esaminare un testo spesso involuto come i Grundrisse e bisogna essere convinti di potervi trovare cose non meno interessanti di quelle contenute nel Capitale.
Ai tempi di Marx l'economia politica borghese continuava a ritenere il capitalismo il migliore sistema sociale di tutti i tempi, al punto che non ce ne sarebbe stato un altro. Questa era anche l'opinione della politica dominante in tutti i paesi capitalistici. Solo il socialismo utopistico aveva messo in crisi queste certezze, ma senza ottenere risultati apprezzabili sul piano pratico. Non deve stupire, in tal senso, la scarsa considerazione in cui si tenevano le teorie di Marx, se si esclude - e ciò stupiva e ammirava lui stesso- la Russia populista.
Marx esordisce a p. 12 dicendo che secondo lui le connessioni poste dagli economisti borghesi relativamente ai concetti di produzione, distribuzione, scambio e consumo sono "superficiali". E a p. 13 fa notare che "gli avversari degli economisti politici" si sono già accorti che non si possono "dissociare barbaramente cose che sono invece connesse". Questi avversari sarebbero i "belletristi socialisti" ma anche alcuni "economisti prosaici", come p.es. Say. Marx qui non fa citazioni, anzi sembra piuttosto evasivo, limitandosi a parlare di avversari "all'interno e all'esterno" del campo degli economisti politici. Il motivo di ciò probabilmente dipende dal fatto ch'egli non sembra nutrire particolare considerazione per questi critici, in quanto afferma ch'essi "o stanno sul loro [dei suddetti economisti] terreno o stanno al di sotto di loro".
In sostanza il problema che i critici degli economisti borghesi pongono è relativo al fatto che per quest'ultimi la produzione viene concepita come "troppo esclusivamente fine a se stessa", mentre "la distribuzione avrebbe un'importanza altrettanto grande".
Il socialismo utopistico infatti puntava molto sulla "distribuzione", in quanto con questa categoria, che implica dei processi di carattere etico-sociale, si poteva meglio affrontare la questione della democraticità della società borghese.
Insomma il problema che Marx vuole affrontare in questo capitolo è quello di capire in che rapporto stanno produzione e consumo, poiché in astratto (o nelle pubblicazioni degli economisti borghesi) tutto sembra funzionare perfettamente: produzione e consumo praticamente coincidono, in quanto si supportano reciprocamente, in una sorta di mutuo condizionamento, ma in concreto, nella realtà sociale del capitalismo sembra essere la produzione a dettare un ruolo egemonico e lo prova il fatto che tra produzione e consumo "s'interpone la distribuzione che, in base a leggi sociali, determina quale quota della massa dei prodotti spetti al produttore"(p. 19). Infatti sotto il capitalismo "il ritorno del prodotto al soggetto [che lo produce] dipende dalle relazioni in cui questi si trova con altri individui. Egli non se ne impossessa immediatamente"; sicché in altre parole produzione e consumo non coincidono affatto, in quanto la distribuzione appare sempre squilibrata, iniqua, frutto dell'antagonismo sociale. Marx non si esprime esattamente così, ma non v'è dubbio che il suo pensiero sia questo.
Non stiamo forzando i testi. Si prenda p.es. quest'altro problema, esposto subito dopo da Marx con una frase apparentemente enigmatica: "quando egli [l'operaio] produce nella società, l'appropriazione immediata del prodotto non è il suo scopo". Che significato ha questa frase buttata lì? Semplicemente che la finalità della produzione capitalistica è la valorizzazione progressiva del capitale, non la soddisfazione dei bisogni. Marx non ne parla perché dà per scontata la risposta. I Gründrisse sono diari di lavoro, non dimentichiamolo. Già nei Manoscritti del 1844 egli aveva detto che l'operaio non produce affatto per consumare ciò che produce.
A suo parere - e qui veniamo al punto forte di contrasto tra il socialismo scientifico e quello utopistico - il problema non è quello di come intervenire sul versante della distribuzione, al fine di cambiare, in favore dell'operaio, il rapporto tra produzione e consumo, ma è quello di come intervenire direttamente sulla produzione, poiché "il modo determinato in cui si partecipa alla produzione determina le forme particolari della distribuzione, la forma in cui si partecipa alla distribuzione"(p. 20).
Su questo problema di natura economica ovviamente s'innesta quello di natura politica, i cui termini di confronto oggi vengono affrontati con maggiore flessibilità: riforme sociali, in direzione di un mutamento progressivo della distribuzione nell'ambito del sistema capitalistico, o rivoluzione politica, in direzione della conquista del potere per un ribaltamento immediato del modello capitalistico di produzione? Marx propendeva per questa seconda soluzione e il suo radicalismo lo porterà a rompere molto presto con tutto il socialismo utopistico.
Gli economisti borghesi, dal canto loro, erano su questo aspetto ancora più astratti dei socialisti utopisti, poiché nella distribuzione non vedevano neppure i problemi connessi ai conflitti di classe. Marx dice che secondo loro "la distribuzione si presenta come distribuzione dei prodotti e quindi essa è ben lontana dalla produzione e quasi autonoma rispetto ad essa"(p. 21). Gli economisti avevano interesse a mostrare questa diversità, in quanto non volevano che i critici della distribuzione ineguale facessero ricadere sulle forme della produzione i motivi dello scompenso tra produzione e consumo. Per il resto erano tranquillamente disposti ad ammettere che tra produzione e consumo vi fosse identità o reciproco condizionamento, ed erano del tutto indifferenti al fatto che - prosegue Marx- "all'origine, l'individuo non possiede alcun capitale, alcuna proprietà fondiaria. Fin dalla nascita esso è assegnato al lavoro salariato dalla distribuzione sociale".
Qui Marx arriva a sostenere che sotto il capitalismo la distribuzione è iniqua e l'identità di produzione e consumo è soltanto teorica, proprio perché il primato della produzione, basato sulla proprietà privata dei mezzi produttivi, rispetto alla distribuzione dei prodotti, è così assoluto che praticamente non ha confronti nella storia dell'economia. Gli esempi, presi dal precapitalismo, sono tutti calzanti: "Un popolo conquistatore divide il paese tra i conquistatori e impone così una determinata ripartizione e forma della proprietà fondiaria: esso determina perciò la produzione [cioè fa dipendere la produzione da una nuova distribuzione della terra]. Oppure trasforma i vinti in schiavi e pone così il lavoro schiavistico alla base della produzione [cioè ridistribuisce le forze umane secondo funzioni diverse e sulla base di questo reimposta la produzione]. Ovvero, mediante una rivoluzione, un popolo fraziona la grande proprietà fondiaria e la riduce in parcelle, dando con questa nuova distribuzione un nuovo carattere alla produzione [è l'esempio della Rivoluzione francese]. Oppure la legislazione perpetua la proprietà fondiaria tra certe famiglie o suddivide il lavoro come un privilegio ereditario e lo fissa così in forme di caste [è la situazione dell'India classica]. In tutti questi casi... storici... è la produzione che sembra strutturata e determinata dalla distribuzione".
Marx fa notare che prima di ogni cosa la distribuzione è anzitutto "distribuzione degli strumenti di produzione", la cui proprietà, nel capitalismo, è privata, e in secondo luogo è "distribuzione dei membri della società tra i differenti generi di produzione", nel senso che esistono determinati rapporti produttivi che non solo danno un valore molto diverso alle diverse attività produttive, ma che esprimono anche dei conflitti di classe veri e propri. Dunque si può anche sostenere -dice Marx- che la produzione capitalistica s'imponga in virtù di presupposti distribuitivi che incontra prima ancora di sorgere, come "momenti d'origine naturale"(p. 22), ma poi questi momenti vengono completamente stravolti dalla produzione stessa.
Sicché il concetto che gli economisti borghesi hanno della "distribuzione" è del tutto astratto. Marx parla di "insulsaggine degli economisti che trattano la produzione come una verità eterna, relegando la storia nel campo della distribuzione"(p. 22). In realtà non solo la distribuzione dipende dal tipo di produzione, ma anche lo scambio e il consumo delle merci. Marx su questo è esplicito, proprio perché egli vuole cercare le origini economiche del capitalismo e la sua analisi delle forme deve soltanto a servire a chiarire la natura di queste origini.
Con Marx l'economia è diventata una "scienza storica", uscendo dal limbo delle categorie metafisiche, per quanto molti economisti borghesi contemporanei rimproverino a Marx di aver fatto dell'economia un oggetto d'indagine filosofica. In realtà questi economisti borghesi stanno a Marx come il paganesimo al cristianesimo o come l'idealismo greco a quello tedesco. Vien da chiedersi se, dopo il marxismo, l'economia politica borghese possa ancora dibattersi soltanto tra ingenuità e pregiudizio, come quella classica.
Nell'esaminare il metodo dell'economia politica, Marx sostiene che se apparentemente sembra essere giusto iniziare l'analisi partendo dai dati concreti ma generali (popolazione, risorse, commerci ecc.), di fatto questo approccio è sbagliato perché generico. "La popolazione è un'astrazione se tralascio p.es. le classi di cui si compone"(p. 26), e le classi, a loro volta, sono un altro non senso se prescindiamo dai rapporti di proprietà.
Marx fa notare che gli economisti del XVII sec. partivano sempre "dall'insieme vivente"(p. 27), per poi suddividerlo in "relazioni determinanti generali, astratte, come la divisione del lavoro, il denaro, il valore ecc.". Ma poi non arrivavano mai a fare il percorso inverso, cioè partendo dalle determinazioni più semplici arrivare a quelle più generali, poste all'inizio. In tal modo non riuscivano a pervenire alla comprensione della totalità, "fatta di molte determinazioni e relazioni".
Tuttavia - prosegue Marx - appena fu chiarito (dalla seconda generazione di economisti) quali potevano essere gli aspetti più semplici, i sistemi economici cominciarono a essere più scientifici, appunto perché si poteva partire da questi aspetti per poi risalire a quelli più complessi.
Queste riflessioni sono molto importanti perché indicano la metodologia scientifica usata da Marx per scrivere il Capitale, che non a caso inizia con l'analisi della merce.
Marx dice che "il concreto... è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice". Il concreto per Marx può essere la "popolazione", che "nel pensiero si presenta come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza", perché alla popolazione, come sintesi di elementi più semplici, bisogna arrivare dopo aver analizzato le classi e i rapporti di proprietà, altrimenti il concetto di popolazione rimane astratto, "benché -precisa Marx- il concreto sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione": infatti non si perviene alle classi senza partire dalla popolazione. Il primo metodo partiva dal concreto: la popolazione, ma non arrivava alle classi, per cui alla fine la determinazione concreta risultava astratta. Il secondo invece parte dalla determinazione astratta delle classi per arrivare a comprendere il concetto di popolazione.
Naturalmente Marx non dà per scontato che si possa arrivare dalla popolazione alle classi e da queste di nuovo a quella in maniera automatica e soprattutto in maniera adeguata, in quanto occorre acquisire una prospettiva che veda la popolazione come sintesi di un conflitto tra classi che va superato. E' dunque vero che gli economisti borghesi potevano facilmente immaginare e persino teorizzare il conflitto di classe, ma è anche vero ch'essi rifiutavano, e ovviamente, d'immaginarne il superamento, preferendo, al contrario, supporlo come inevitabile o naturale. Si ricordi che nella lettera a J. Weydemeyer del 5 marzo 1852 Marx precisa che l'esistenza delle classi e della lotta di classe era già stata scoperta e analizzata dagli storici e dagli economisti borghesi, e che il suo contributo consisteva soltanto nell'aver dimostrato: "1. che l'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2. che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi..."(Marx-Engels, Sul materialismo storico, Roma 1949, p. 72 s.),
Marx, che sa bene queste cose, ne parla semplicemente perché per la prima volta può mettere a confronto due metodologie d'indagine che, pur avendo oggetti diversi, hanno aspetti in comune: quella degli economisti borghesi e quella hegeliana. Essendo stato discepolo del più grande filosofo della Germania (e se vogliamo di tutti i tempi, poiché in Hegel la filosofia raggiunge il suo vertice), Marx non può fare a meno di confrontarsi col suo maestro, mostrando dove pensa di averlo superato. E scrive, ma bisogna fare attenzione a quello che scrive, perché mentre critica Hegel lo elogia: "E' per questo che Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come risultato del pensiero... mentre il metodo di salire dall'astratto al concreto [ora Marx dà per scontata la giustezza del metodo hegeliano che lui stesso fin qui ha seguito, anche in rapporto al metodo scientifico usato dagli economisti borghesi di seconda generazione] è solo il modo, per il pensiero, di appropriarsi il concreto [si badi che Marx dice "appropriarsi" non "produrre"], di riprodurlo come qualcosa di spiritualmente concreto [di riprodurlo cioè nella mente, nella consapevolezza che si tratta appunto di una riproduzione astratta, utile per compiere delle sintesi]. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso" [per l'esame del quale la filosofia è del tutto impotente e va trasformata in economia politica, sociologia, statistica ecc.].
Nonostante Marx su questo avesse già scritto molto negli anni precedenti, mostrando come la Germania si fosse limitata a "produrre" la realtà rivoluzionaria unicamente nel pensiero, prima luterano poi hegeliano, qui avverte ancora la medesima esigenza, rapportandola però, questa volta, agli studi approfonditi di economia. E' dunque confermato che di per sé la speculazione filosofica non può mai pervenire alla comprensione scientifica della realtà, in quanto, dando per scontato che "il pensiero pensante sia l'uomo reale"(p. 28), tale filosofia finisce col credere che "il mondo pensato sia la sola realtà".
Marx è disposto ad accettare, come metodo, che la realtà diventi una riproduzione del pensiero basato sulle leggi della dialettica, ma a condizione che poi si faccia effettivamente l'analisi della realtà, e non con gli strumenti della filosofia, ma con quelli dell'economia, che esaminano la realtà dall'interno e non si accontentano di ricevere "soltanto un impulso dal di fuori", esterno al pensiero. In altre parole, Marx condivide "l'elaborazione in concetti dell'intuizione e della rappresentazione", cioè la rappresentazione astratta, per categorie o per concetti, della realtà concreta, ma rifiuta l'idea che il concetto possa formarsi in maniera indipendente dall'intuizione e dalla rappresentazione della realtà, che devono appunto avvalersi di strumenti d'indagine non filosofici. "Anche nel metodo teorico -precisa Marx-, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto".
Queste affermazioni non sono finezze o cavilli o astruserie tra i metodi di Marx e di Hegel, anche se il fatto d'averle scritte di getto contribuisce a renderle tali, ma la testimonianza di una precisa consapevolezza: quella che Marx aveva di essere, su questo punto metodologico, superiore a Hegel e a tutta la Sinistra hegeliana. Quest'ultima aveva superato Hegel nella critica della religione, ma si era fermata lì. Dal canto suo, Marx aveva anche scritto dei testi molto significativi di critica della filosofia del diritto pubblico. Ora però egli presume d'averlo superato nella concezione della filosofia in generale e in particolare nell'uso di quanto di meglio avesse prodotto la filosofia hegeliana: le leggi della dialettica.
Si badi, il Marx pre-inglese aveva ragionato in termini più politici: Hegel andava superato con la rivoluzione politica del proletariato, se si voleva inverare la filosofia eliminando definitivamente il suo primato come scienza. I principi della filosofia hegeliana potevano essere inverati solo se realizzati politicamente e tale realizzazione avrebbe comportato necessariamente la fine del primato della filosofia su tutte le altre scienze, poiché se l'idealismo andava considerato rivoluzionario come metodo, andava però considerato conservatore come sistema, poiché la filosofia hegeliana era contraria a qualunque forma di rivoluzione politica. Lo stesso Hegel lo lasciò capire quando scrisse nella prefazione della sua Rechtsphilosophie: "a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi"(Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 20).
Ma procediamo con le questioni di metodo. Marx si pone una domanda chiave: "le categorie semplici hanno un'esistenza storica o naturale indipendente, prima delle categorie più concrete?"(p. 28). La risposta è sì, ma sub conditione. Marx fa tre esempi di categorie semplici (di cui il primo preso da Hegel): il possesso, il denaro e il lavoro.
Il possesso sembra una categoria semplice, ma se la si prende come "la più semplice relazione giuridica del soggetto" [come fa Hegel nella Filosofia del diritto, § 40] si dovrebbe poi precisare [ed Hegel non lo fa] che il possesso, di per sé, non significa nulla, in quanto tale categoria va messa in relazione con categorie più concrete, come p.es. famiglia, tribù, signoria/servitù, le cui realtà storiche, paradossalmente, possono anche aver beneficiato del "possesso" senza mai aver conosciuto la "proprietà". Detto altrimenti, Hegel non avrebbe capito che il "possesso" del singolo si configura solo attraverso il rapporto della famiglia o della tribù rispetto alla "proprietà". Se il possessore è un "selvaggio isolato", allora -osserva con evidenza lapalissiana Marx- non c'è "rapporto giuridico"(p. 29). Categorie come tribù, famiglia e servaggio non solo sono più semplici di possesso ma anche più concrete. E' proprio partendo da queste categorie che ci si può accorgere della possibilità di un possesso senza proprietà privata. Viceversa in Hegel il possesso coincide con la proprietà, o comunque dal possesso individuale (come relazione giuridica) si arriva al possesso sociale o pubblico (famiglia, società civile, Stato): il che, storicamente parlando, in effetti, non ha senso.
Tuttavia per Marx le cose non sono così semplici. Il secondo esempio, infatti, quello del denaro, risulta piuttosto elaborato. Come noto, il denaro è esistito prima del capitale. "In questo senso - rileva Marx - si può dire che la categoria più semplice [appunto il denaro] può esprimere i predominanti di un insieme meno sviluppato [p.es. l'Italia comunale] oppure i rapporti subordinati di un insieme più sviluppato [p.es. il capitale usuraio]". Se è così, allora "il cammino del pensiero astratto, che sale dal più semplice [il denaro] al complesso [il capitale], corrisponde al processo storico reale".
Eppure esiste anche il rovescio della medaglia, e qui Marx cita un'opera di W. H. Prescott, History of the Conquest of Peru (Londra 1850), in cui viene detto che nel Perù esistevano "forme di società molto sviluppate [cooperazione, divisione del lavoro...] in cui non esisteva affatto denaro", e che per questo Marx considera "storicamente immature". Stessa cosa - egli rileva - per le comunità slave, dove il denaro aveva una funzione importante solo ai confini, nei traffici con altre comunità (pp. 29-30).
Noi qui ci chiediamo: perché considerare queste comunità "storicamente immature"? Qual è per Marx il metro di misura della "maturità" di una civiltà? Il metro di misura è l'uso del denaro, al di fuori del quale è impossibile arrivare al capitalismo. Si noti che a Marx è estranea l'idea che una civiltà possa essere considerata tanto più "storica" quanto più "naturale" e che la conformità alle esigenze della natura si misuri proprio in relazione all'esiguità o addirittura all'assenza di tracce storiche permanenti, indelebili. Per Marx è esattamente il contrario: l'umanità dell'uomo, cioè la sua storicità, sta nella progressiva indipendenza dalla natura. In questo egli resta hegeliano.
Il problema che Marx vuole risolvere è quello relativo alla nascita del capitalismo, poiché se questo non nasce, sic et simpliciter, là dove c'è il denaro, è anche vero che dove questo non c'è, di sicuro il capitalismo non nasce. Cioè oltre al denaro occorrono altri fattori. "Come elemento dominante, esso - dice Marx - appartiene all'antichità solo a nazioni caratterizzatesi in modo unilaterale, a nazioni commerciali. E perfino presso i popoli più evoluti dell'antichità, presso i greci e i romani, il suo completo sviluppo - che nella moderna società borghese costituisce una premessa - si manifesta solo nel periodo della dissoluzione"(p. 30).
Questa è una considerazione molto importante, perché Marx è convinto che il capitalismo non sarebbe mai potuto nascere nel mondo greco-romano. Egli non arriva a capire i profondi nessi culturali tra religione ed economia, in quanto si limita ad attribuire la nascita del capitalismo allo sviluppo completo del capitale commerciale, però ha saputo impostare il criterio d'indagine.
Fino all'introduzione del cristianesimo nella storia non esisteva un sufficiente livello di astrazione intorno al concetto di "persona". E' stato infatti in forza del cristianesimo che si è potuta valorizzare e negare allo stesso tempo l'unicità e irripetibilità della persona umana. La mistificazione principale del cristianesimo è stata quella relativa al rapporto tra persona e libertà: la persona, essendo unica e irripetibile, può essere o sentirsi libera in quanto tale, a prescindere da ciò che effettivamente è, nella realtà, o da ciò che possiede, proprio perché la sua coscienza, il suo pensiero, la sua "anima" vanno sempre oltre la contingenza, il finito, ivi inclusa la proprietà. La convinzione di possedere qualcosa che andasse sempre "oltre" le apparenze fenomeniche, illudeva la persona cristiana di poter sopportare qualunque privazione e sofferenza, qualunque condizione terrena. Senza questa convinzione cristiana, non sarebbe stato possibile l'inganno da parte della borghesia.
Astraendo dal discorso culturale, Marx è poi costretto a fare indebite generalizzazioni. Dice: "Nell'impero romano, nel momento del suo maggiore sviluppo, la base rimase l'imposta e la prestazione in natura". Anche nel Medioevo fu così, ma c'è differenza tra "colonato" e "servaggio". Quest'ultimo non è semplicemente un modo di produzione, ma anche una sintesi tra cristianesimo e mondo barbarico; viceversa, il colonato è la semplice trasformazione dello schiavismo resasi necessaria dopo la fine delle grandi conquiste militari: in sostanza è un ripiego. Il servaggio implica un'organizzazione del feudo, in antitesi all'economia schiavistica.
Marx è convinto che il capitalismo non sia potuto nascere nel mondo romano perché qui "il sistema monetario, in sostanza, era sviluppato completamente solo nell'esercito, e non investì neppure tutta la sfera del lavoro". Ma non può essere stato solo questo il motivo, e neanche mille altri motivi economici possono essere sufficienti a spiegarlo.
In sintesi: "benché la categoria più semplice [il denaro] possa essere esistita storicamente prima di quella più concreta [il capitale], essa può appartenere nel suo pieno sviluppo intensivo ed estensivo solo ad una forma sociale complessa [il capitalismo], mentre la categoria più concreta [il capitale] era già pienamente sviluppata in una forma sociale meno evoluta [il capitalismo mercantile o commerciale]". Cioè il denaro non può trasformarsi in capitale se l'uso del denaro non ne ha posto le sicure basi.
Il terzo esempio, come già detto, si riferisce al lavoro. Anche questa - dice Marx - sembra una categoria semplice, però ad es. "il bullionismo pone la ricchezza in modo ancora completamente oggettivo, come cosa fuori di sé, nel denaro".
Sarà il sistema manifatturiero o commerciale che porrà la ricchezza nel commercio, cioè in "un'attività produttrice di denaro"(p. 31), nel senso che il mercante sfrutta una particolare situazione per accumulare capitali, senza essere interessato alla produzione in sé.
I fisiocratici invece sostengono che la ricchezza non sta tanto nel ricavare denaro da un'attività commerciale, ma piuttosto produrre beni alimentari dall'attività agricola, "come risultato generale del lavoro".
Adam Smith sarà il primo a sostenere che ciò che produce ricchezza è il lavoro in sé, qualunque esso sia. Quanta più gente lavora, tanto più ricca è una nazione. E Marx aggiunge, con acume, che "le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune a un gran numero... di elementi".
E' così vero che il lavoro qua talis è divenuto mezzo per creare ricchezza che negli Stati Uniti - dice Marx - "gli individui passano con facilità da un lavoro a un altro"(p. 32). L'individuo è indifferente a un determinato lavoro, anche se non è indifferente ai risultati del suo lavoro, cioè a quanto ottiene lavorando. E' questo il punto di partenza dell'economia moderna.
"Così l'astrazione più semplice [il lavoro] che l'economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna". Quindi "anche le categorie più astratte, sebbene siano valide - proprio a causa della loro natura astratta - per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni". Nessun economista borghese s'era mai espresso con una lucidità del genere. Con questa metodologia si può fare una storia scientifica dell'economia.
E' grazie alla società borghese che - secondo Marx - si possono capire le civiltà precedenti al capitalismo, che sono molto più semplici dal punto di vista economico, per quanto - ci piace aggiungere - proprio il capitalismo sia la civiltà che più di ogni altra si allontani dal comunismo primitivo e che, proprio per questo, renda praticamente impossibile un recupero equilibrato del rapporto tra persona e natura e tra le stesse persone.
Tuttavia ha pienamente ragione Marx quando afferma che "gli economisti [borghesi] cancellano tutte le differenze storiche e in tutte le forme di società vedono la società borghese"(p. 33). Basta vedere l'impostazione dei manuali scolastici di storia per accorgersi che ancora oggi è così. D'altra parte - prosegue Marx - "l'ultima forma [storica] considera le precedenti come semplici gradini che portano a se stessa, e poiché raramente... è capace di criticare se stessa... le concepisce sempre unilateralmente".
Dunque la borghesia non è capace di valutare obiettivamente il passato in quanto lo reputa funzionale a se stessa. Anche "la religione cristiana - dice Marx - è divenuta capace di contribuire alla comprensione obiettiva delle passate mitologie solo quando la sua autocritica fu in un certo grado... compiuta". Marx non fa riferimenti precisi, ma è noto p.es. che la riscoperta dell'aristotelismo fu possibile solo dopo la crisi d'identità del cattolicesimo-romano al cospetto della nascente ideologia borghese comunale.
Tutto ciò, per Marx, comporta una conseguenza teoretica di capitale importanza. Lo storico, in particolare lo storico dell'economia o delle scienze sociali, deve rendersi conto che quando esamina un "oggetto" (nella fattispecie, "la moderna società borghese"), questo va considerato come un "già dato", ancor prima che i contemporanei dell'oggetto stesso ne comincino a parlare. Non solo, ma le categorie con cui si analizza la società borghese apparentemente sembrano dover essere le stesse che si usano per le altre formazioni sociali: in particolare quelle connesse a processi standard (p.es. la rendita fondiaria) o a risorse di tipo naturale (p.es. la terra). Niente di più sbagliato. Da quando è nato il capitalismo lo storico dell'economia deve sapere che non si possono più "disporre le categorie economiche nell'ordine in cui esse furono storicamente determinanti"(p. 35).
Ora, nell'esaminare la diversità tra le formazioni precapitalistiche e quella capitalistica, bisogna subito chiarire che mentre le prime sono strettamente legate a processi di tipo naturale, in cui il ruolo degli strumenti produttivi non va a sconvolgere in modo irreversibile il rapporto uomo-natura (per quanto le formazioni schiavistiche abbiano avuto nei confronti della natura un rapporto più devastante rispetto a quelle feudali), la seconda invece a legata a processi di tipo storico, in cui l'azione dell'uomo mira a prevalere su quella della natura. E l'azione prevalente è quella del capitale, "la potenza economica della società borghese che domina tutto". La differenza quindi tra processo naturale e processo storico sta nell'uso del macchinismo, cioè in una concezione superomistica della scienza e della tecnica.
Marx in sostanza non fa solo una critica a quegli economisti che "cancellano tutte le differenze storiche e che in tutte le forme di società vedono la società borghese"(p. 33), ma tenta anche di spiegare le motivazioni delle proprie scelte metodologiche. Lo dice dunque a se stesso che la società borghese non può essere interpretata con le categorie usate per interpretare le formazioni precedenti o comunque non può essere interpretata usando lo stesso ordine in cui quelle categorie sono state poste. Marx vuole evitare accuratamente di cadere nei limiti della storiografia idealistica (che caratterizza anche gli studi di economia politica) e che è antistoricistica per definizione. Questo perché - dice Marx a chiare lettere - "in tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell'influenza di tutte le altre"(p. 34).
Il fatto che la società borghese vada considerato come un "già dato" non sta tanto a significare che il passato ha una propria autonomia da rispettare, una propria intangibilità e che lo storico non può sapere con esattezza quando sorgono determinati fenomeni, ma sta piuttosto a significare che nell'uso delle categorie interpretative bisogna fare molta attenzione al fatto che la società borghese è una totalità che obbliga a riconsiderare e a disporre dette categorie in modo molto particolare, in quanto tra l'apparenza e la realtà vi sono differenze sostanziali.
Lo stesso Marx si trova spesso in difficoltà nell'esaminare le differenze tra le varie formazioni sociali. "Prendiamo p. es. i popoli dediti alla pastorizia (popoli puramente dediti alla caccia o alla pesca rimangono al di qua del punto dove comincia il reale sviluppo) [si noti questo inciso tra parentesi di Marx, che non sa cogliere l'equivalenza di "natura", "umanità" e "storicità" nei popoli preschiavistici, tribali, nomadi, e che fa iniziare lo sviluppo dell'umanità con la nascita delle formazioni antagonistiche, ovvero con quella che per lui è l'inizio della "storia"]. Presso di essi compare una certa forma di agricoltura, ma in maniera sporadica. La proprietà fondiaria è determinata da questo fatto".
Subito dopo Marx fa l'esempio della "proprietà comune degli slavi" che a p. 32 aveva definito col termine di "barbari", là dove dice che c'è "una maledetta differenza se dei barbari [i russi] hanno disposizione [naturale] ad essere utilizzati per tutto [in forza di influenze esterne": autocrazia, proprietari fondiari ecc.], o se degli esseri inciviliti [i lavoratori americani presenti negli States capitalistici] si applicano essi stessi a tutto". Ponendo una differenza tra atteggiamento naturale, istintivo, e atteggiamento storico, frutto di circostanze economiche, Marx non ha dubbi su quale preferire. Non dimentichiamo che per lui la tragedia della transizione dal feudalesimo al capitalismo è stata necessaria, come deve esserlo quella dal capitalismo al socialismo.
Anche quando pone una differenza tra popoli nomadi e popoli stanziali, quest'ultimi sono senza dubbio da preferire. "Dove predomina l'agricoltura praticata da popoli a dimora stabile e questa stabilità è già un grande progresso", tutto dipende da questa stanzialità (p. 35).
"In tutte le forme in cui domina la proprietà fondiaria - dice Marx - il rapporto con la natura è ancora predominante. In quelle invece dove domina il capitale, prevale l'elemento sociale, prodotto storicamente". Ora, è fuor di dubbio che categorie del genere o vengono ulteriormente precisate, oppure dobbiamo assolutamente considerarle superate. L'antinomia infatti non può essere quella di "natura" e "storia", poiché i popoli precapitalistici sono non meno "storici" di quelli capitalistici. La "storicità" di una formazione sociale è data dalla "umanità" dei suoi protagonisti. La "preistoria", in tal senso, dovrebbe essere considerata non la storia dell'uomo primitivo, ma quella del mondo animale prima della comparsa dell'uomo. Là dove vediamo oggetti di lavoro, che servono per costruire altri oggetti, in una catena infinita; là dove vediamo espressioni artistiche o segni di relazioni sociali che vanno oltre la mera istintualità, lì è sicuramente presente l'essere umano e quindi la storia umana. E quanto più lo sviluppo di questa storia è stato conforme alle esigenze della natura, tanto più dobbiamo considerarlo "umano".
Ma c'è di più. La stessa antinomia di natura/individualità e storia/socialità va completamente ripensata, in quanto la vera antinomia è semmai quella di "storia secondo natura/socialità umana" da un lato e "storia contronatura/socialità disumana" dall'altro. Cioè la vera socializzazione, quella umana, gli esseri umani l'hanno sperimentata solo nelle epoche che hanno preceduto la nascita delle formazioni antagonistiche, la prima delle quali è stata quella schiavistica.
L'analisi economica di Marx va in un certo senso rovesciata. Il capitalismo va superato non solo perché non garantisce rapporti produttivi adeguati alle forze produttive, ma anche perché non garantisce alcuna forma di umanità. Cioè l'antinomia non è semplicemente tra capitalismo e socialismo, ma tra "umanizzazione" e "disumanizzazione". In tal senso è giusto il motto "o socialismo o barbarie", ma a condizione di precisare cosa s'intende per "socialismo". Infatti, se noi guardiamo quanto di umano la storia ha prodotto, dobbiamo mettere al primo posto le società tribali e all'ultimo quelle forme di socialismo autoritario che si sono realizzate in Russia, Cina e in altri paesi asiatici.
Questo per dire che l'adeguamento dei rapporti produttivi alle forze produttive non è condizione sufficiente a garantire una transizione dalla disumanità alla umanizzazione delle relazioni sociali. Ciò che dobbiamo riesaminare sono le condizioni di vita dell'uomo primitivo, nonché quelle delle ultime tribù storicamente rimaste. Non come oggetto di studio antropologico, ma proprio come ipotesi di modello della futura società democratica. Se noi non riusciamo a conciliare le esigenze dello sviluppo storico con quelle della riproduzione della natura, non c'è futuro per la specie umana, sia che questa permanga nel capitalistica, sia che approdi al socialismo.
Con questo non si vuol dire che in Marx non vi siano tracce o spunti di riflessione che avrebbero potuto essere sviluppati in questa direzione. E' che sono rimaste appunto delle "tracce", degli abbozzi che avrebbero necessitato di ulteriori sviluppi. Il fatto è purtroppo che tali sviluppi non si sono verificati adeguatamente neppure a distanza di 150 anni dalla morte di Marx.
* * *
Prendiamo ora l'ultima parte di questo capitolo dedicato al metodo dell'economia politica: si tratta di un vero e proprio canovaccio di ciò che Marx, se avesse avuto forze e tempo sufficienti, avrebbe voluto fare.
Marx parte sempre dai mezzi di produzione e dai corrispondenti rapporti, perché secondo lui è necessario partire da ciò che stabilisce come vive, materialmente, una determinata popolazione o civiltà. Anche nei vangeli, che pur certo non sono un testo di economia, continuamente si precisa il mestiere dei vari protagonisti e vi sono brani in cui si parla di "moneta" e di "tributi", senza considerare il famoso passo degli Atti (2, 44) in cui si parla del "comunismo assistenziale" della primitiva comunità cristiana o dell'eloquente episodio di Anania e Saffira (5,1ss.).
Nella storiografia idealistica gli aspetti economici erano e sono ancora considerati marginali. Il che oggi non ha davvero più senso, semplicemente perché l'affermazione della proprietà privata ha finito coll'incidere su tutti gli altri aspetti della società civile, ed è stato un merito del marxismo aver indicato la priorità di questo problema: l'impossibilità, sotto il capitalismo, di realizzare una democrazia di tipo socioeconomico, rende formale, anzi illusoria ogni altra forma di democrazia.
Quindi qualunque presentazione storica di una società o di una civiltà deve necessariamente partire dalle condizioni economiche delle forze e dei rapporti produttivi, non tanto perché da questo si possa dedurre tutto il resto, quanto perché questa è la premessa da cui può svilupparsi una determinata esegesi. La democrazia economica è il presupposto per realizzare una democrazia globale.
Se Marx avesse avuto il tempo di esaminare le "forme della coscienza in relazione ai rapporti di produzione e di traffico"(p. 37), si sarebbe sicuramente accorto che la coscienza può andare "oltre" l'economia. Lui stesso lo dirà, più avanti, parlando del rapporto arte/economia.
Si noti comunque la successione dei punti da sviluppare:
"1. La guerra è sviluppata prima della pace: modo in cui certi rapporti economici come lavoro salariato, macchinismo ecc., sono stati sviluppati dalla guerra e negli eserciti, prima che all'interno della società borghese"(p. 37). Questa cosa in realtà è stata sviluppata pochissimo da Marx, per quanto sia indubbiamente vera. A p. 108 la ripete, in un contesto d'analisi differente, quello dei rapporti "puramente personali" sotto il feudalesimo, che, a suo parere, sarebbero illusori, giacché essi "in una fase determinata, assunsero nell'ambito della loro sfera un carattere materiale, come dimostra p.es. lo sviluppo dei rapporti di proprietà fondiaria da rapporti di subordinazione puramente militari".
Il motivo del mancato approfondimento probabilmente è dovuto al fatto che questa regola non è sempre vera o comunque non è così determinante come sembra. La Spagna di Colombo, conquistatrice di un grande impero coloniale, è un esempio lampante del mancato passaggio dai rapporti militari feudali ai rapporti economici borghesi.
Resta tuttavia significativo che Marx abbia messo questa cosa al primo punto. Evidentemente stava cercando nelle forme di antagonismo non economico preborghese una delle cause che spiegassero le origini economiche dell'antagonismo borghese. E forse questo ripiego è stato determinato dal fatto ch'egli non è mai riuscito a integrare in maniera efficace l'analisi culturale con quella economica, cioè l'analisi del movimento delle idee (teologiche e filosofiche) che in qualche modo ha reso possibile la transizione al capitalismo.
Infatti il punto 2 è chiaro: "Rapporti della storiografia ideale come essa si è sviluppata fino ad ora, con la storiografia reale. In particolare, delle cosiddette storie della civiltà, che sono tutte storie della religione e degli Stati". Cioè Marx vuole porre la propria storiografia, basata sull'economia o, se si vuole, sulle scienze sociali, in antitesi alla storiografia idealistica, basata sulle idee filosofiche o religiose o politiche. Non c'è in Marx l'esigenza di trovare una sintesi ma piuttosto di porre una certa demarcazione. Si badi, per "sintesi" non s'intende il tentativo di recuperare quanto di meglio aveva prodotto la storiografia idealistica, poiché questo era già stato fatto dal Marx discepolo di Hegel; s'intende piuttosto la necessità di riformulare le categorie culturali entro quelle economiche, in modo che le une e le altre arrivino a supportarsi reciprocamente. Marx non ha mai fatto questa sintesi, non solo per mancanza di forze e di tempo, ma anche per scarsa sensibilità o predisposizione personale. Non è mai partito da questo presupposto teoretico, anche se ne avvertiva la necessità per esigenze di completezza, specie nella sua fase giovanile.
Non a caso lo dice al punto 4 (dopo aver parlato al punto 3 dei rapporti internazionali): "Rimproveri sul materialismo di questa concezione [storiografica]. Rapporto col materialismo naturalistico"(p. 38). Marx sa bene che possono accusarlo d'eccessivo determinismo e sa anche che il modo per difendersi dal determinismo è quello di storicizzare le categorie (vedi la sua critica alle tesi di Feuerbach). Tuttavia, quando Marx parla di "storicizzare le categorie" attribuisce sempre al compito della storicizzazione una valenza prevalentemente economicistica: è l'economia che storicizza. Con ciò è impossibile sfuggire all'accusa di determinismo.
Cioè non basta prospettare l'affronto - com'egli fa al punto 5 - della "dialettica dei concetti di forza produttiva (mezzo di produzione) e rapporto di produzione", per poter uscire dai limiti del determinismo, in quanto questa stessa dialettica, se vuole essere completa, deve andare oltre l'economico e toccare aspetti relativi alla sovrastruttura, quale p.es. quello della libertà umana di decidere "un certo adeguamento" dei rapporti alle forze produttive.
Marx intuisce questa difficoltà e al punto 6 è costretto a dover ammettere che esiste "l'ineguale rapporto dello sviluppo della produzione materiale con lo sviluppo, p.es., artistico". Egli afferma testualmente: "il punto propriamente difficile da discutere qui, è come i rapporti di produzione nell'aspetto di rapporti giuridici abbiano uno sviluppo ineguale". Si tratta di un problema eminentemente culturale. La difficoltà non sta nell'oggetto del diritto (molti studi del Marx prussiano sono dedicati proprio alla filosofia hegeliana del diritto pubblico), ma nel dove e come cercare i nessi che legano cultura a economia, alla luce appunto del fatto ch'esiste un indubbio sviluppo ineguale.
E bisogna notare che Marx prende l'arte solo come "esempio", lasciando intendere che ci possono essere altre sovrastrutture, come p.es. -aggiungiamo noi- la letteratura, lo sviluppo delle idee creative in generale, la stessa politica. "Questa sproporzione [tra cultura ed economia] non è ancora così importante né così difficile da concepire come all'interno dei rapporti pratico-sociali stessi. P.es., della cultura". E' infatti proprio da qui che vanno ripresi gli studi su Marx, sviluppandoli in una direzione per lui inedita. Quanto grande sia, in tal senso, il contributo di Gramsci è facile intuirlo.
C'è tuttavia un aspetto, quello che Marx cita al punto 7, che va riconsiderato: "Questa concezione [materialistico-dialettica della storia] si presenta come sviluppo necessario. Ma giustificazione del caso. (Tra l'altro anche della libertà). Influenza dei mezzi di comunicazione. La storia universale non è esistita sempre; la storia come storia universale è un risultato". Questo punto è decisivo per comprendere come Marx si muoveva, o meglio, come avrebbe voluto muoversi e come oggi bisogna muoversi per poterlo superare.
Come noto, Marx si basava sulla categoria hegeliana della "necessità storica", ovviamente riveduta e corretta secondo le priorità dell'economia. Egli si sarebbe voluto muovere esaminando anche lo sviluppo della libertà, sempre però in relazione alla categoria della necessità e, sapeva bene, che la funzione dei media è appunto quella di influenzare le scelte degli individui. Determinate scelte vengono compiute perché esistono determinati condizionamenti culturali.
Ora, il punto è proprio questo: come dimostrare che si poteva andare oltre determinati condizionamenti e fare scelte diverse da quelle che storicamente si fecero e che ad un certo punto risultarono dominanti? Marx dice che "la storia come storia universale è un risultato" - necessario o frutto di una libertà?
Scrive al punto 8, l'ultimo: "Il punto di partenza è dato naturalmente dalla determinatezza naturale; soggettivamente e oggettivamente. Tribù, razze ecc." (pp. 38-39). Dunque lo sviluppo di questo punto di partenza doveva necessariamente essere così come si è svolto?
Noi in realtà possiamo considerare necessario uno sviluppo, ma non un suo determinato modo. Marx ci ha messo moltissimo tempo prima di capire che si poteva passare dal feudalesimo al socialismo. Quanto, in questa miopia storiografica e insieme politica, abbia pesato il fallimento della rivoluzione comunista europea (o anche della sola Germania) è facile intuirlo. Ma questo non toglie che la storiografia marxista debba riconsiderare il primato concesso alla categoria della "necessità storica".
Il genere umano non parte affatto da "determinatezze naturali", come se quelle "storiche" fossero una conseguenza dello sviluppo necessario, o una prerogativa di particolari formazioni sociali. Le "determinatezze naturali" sono già "storiche", fanno già parte della storia dell'uomo, anzi esse rappresentano il lato "umano" dello sviluppo storico, quello in cui la necessità era frutto di una libertà consapevole.
Marx rileva uno sviluppo ineguale tra arte (presa come esempio) ed economia. Ma, ci si può chiedere, se avesse saputo collegare cultura a economia, si sarebbe trovato ugualmente in difficoltà di fronte a questo sviluppo ineguale o avrebbe trovato risposte convincenti? Partiamo dunque da questa domanda.
Marx fa una prima constatazione: "Per l'arte è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale... della sua organizzazione"(p. 39). Nel senso che p.es. l'arte greca è decisamente superiore alla società in cui si è sviluppata (ma anche, aggiunge, il teatro di Shakespeare rispetto all'Inghilterra elisabettiana).
"Per certe forme dell'arte -dice Marx-, p.es. per l'epica, si riconosce addirittura che esse non possono più prodursi nella loro forma classica... certe importanti manifestazioni dell'arte sono possibili solo in uno stadio non sviluppato dell'evoluzione artistica".
Marx ovviamente si rende conto della complessità e scrive: "La difficoltà sta solo nella formulazione generale di queste contraddizioni". E prova a formulare alcune idee, che solo un esperto potrà dire quanto originali, considerando anche che il campo non era certo quello di Marx.
"La mitologia greca non fu soltanto l'arsenale ma anche il terreno nutritivo dell'arte greca" Qui Marx attribuisce alla religione un'importanza decisiva per spiegare l'evoluzione della cultura. L'ha mai fatto nei confronti del cristianesimo?
"Ogni mitologia vince, domina e plasma le forze della natura nell'immaginazione e mediante l'immaginazione: essa scompare allorché si giunge al dominio effettivo su quelle forze". Ogni religione, in verità, svolge il medesimo ruolo. Ma di quella cristiana perché non dire nulla?
Marx ha studiato bene il mondo classico, perché, come il giovane Hegel, vedeva in quel mondo qualcosa di più genuino e autentico, di più libero rispetto alla politicizzazione della fede realizzata dal cristianesimo di stato.
Marx fa degli strani collegamenti tra mitologia greca e scienza moderna, senza rendersi ben conto che alle radici della scienza moderna vi è una deformazione della cultura cristiana operata in maniera esplicita a partire da Copernico, Keplero, Galilei e Newton: una deformazione che sarebbe stata culturalmente impossibile nell'ingenuo mondo classico.
La mitologia greco-romana non ha avuto bisogno della scienza per scomparire: è bastato il cristianesimo. E non è esatto dire che il cristianesimo ha soltanto mutato le forme della mitologia greca. C'è stato un progresso di tipo culturale, una forma superiore di astrazione delle fantasie religiose.
Il vertice del politeismo greco-romano s'è scontrato col monoteismo ebraico-cristiano e ha perduto nettamente il confronto. Non poteva perderlo coll'ebraismo, a motivo del carattere politicamente chiuso di questa religione, ma l'ha perso con la trasformazione dell'ebraismo da religione nazionalistica a religione universale, per quanto il cristianesimo (paolino) abbia dovuto rinunciare a una politica di liberazione nazionale.
A noi non interessa sapere il motivo per cui il politeismo o la mitologia classica abbia trovato nel mondo greco la sua massima fioritura, anche perché siamo convinti, anche perché siamo convinti che la Grecia sia stata una sorta di centro catalizzatore di culture e mitologie nate altrove, in Africa, nel Medio Oriente... La Grecia, essendo un crocevia strategico per i commerci di tutto il Mediterraneo, gestiti da popolazioni le più diverse, ha potuto operare una sintesi politica e culturale di grande valore e originalità.
Marx probabilmente si sarà chiesto il motivo per cui il capitalismo non nacque in Grecia, visto che qui i commerci si svilupparono intensamente almeno sino all'arrivo dei turchi selgiuchidi. Il motivo, in sostanza, è uno solo: in Grecia il cristianesimo rimase il più possibile vicino alle sue origini culturali (apostoliche) e non subì le deformazioni politiche del cattolicesimo-romano, nell'alto Medioevo, che portarono a quelle socioeconomiche del basso Medioevo, le quali, a loro volta, come un effetto domino, da un lato portarono agli sviluppi della riforma protestante e alla nascita del capitalismo, e dall'altro subirono un arresto nei paesi controriformisti, quando la chiesa di Roma s'accorse che in forza di quelle trasformazioni sociali essa rischiava di perdere il proprio potere politico.
Le strade da intraprendere per andare oltre Marx e il marxismo sono dunque le seguenti:
1. recuperare il rapporto uomo/natura passando attraverso la storia dell'uomo primitivo (o del comunismo primitivo), con la precisazione che la soddisfazione delle esigenze femminili garantisce meglio la riproducibilità della natura (per un socialismo democratico);
2. trovare un'alternativa culturale integrale al cristianesimo primitivo, la cui espressione più originaria resta quella della chiesa ortodossa (per un umanesimo laico). Il cristianesimo primitivo è stato il più importante tentativo, fallito, di recuperare le origini sociali e umanitarie dell'uomo primitivo.
"Perché mai la fanciullezza storica dell'umanità -si chiede Marx-, nel momento più bello del suo sviluppo, non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna?"(p. 40). Marx lo dice pensando al mondo greco, vero paradiso perduto per l'intellettuale tedesco in generale. Ed è disposto a fare delle concessioni poetiche che deroghino dalla ferrea legge economica della "necessità storica". Ma noi dobbiamo essere ancora più rigorosi; non possiamo fare concessioni, non possiamo essere nostalgici e non possiamo accettare l'idea di un paradiso definitivamente perduto.
Oggi la totale dissoluzione di quella forma di cristianesimo che ha portato, direttamente o indirettamente, all'edificazione del capitalismo, il quale, a sua volta, sta portando alla dissoluzione dell'umanità, deve porre all'ordine del giorno il problema di come recuperare in forme nuove ciò che del passato cosiddetto "preistorico" è andato perduto e che non si vuole resti perduto per sempre. E' evidente, in tal senso, che limitarsi ad accettare le forze produttive del capitalismo modificandone unicamente i rapporti, è un obiettivo troppo limitato.
Il capitolo sul denaro è abbastanza confuso, in quanto s'intrecciano argomenti diversi e in parallelo. Qui non sarà possibile esaminare tutto. Nella prima parte si analizza il passaggio dal baratto allo scambio basato sul denaro, mostrando il passaggio dal feudalesimo o comunque da un'economia basata sull'autoconsumo al capitalismo commerciale (non industriale). Quest'ultimo infatti necessita del macchinismo e dello sfruttamento del plusvalore attraverso il macchinismo. Dunque, questo capitolo serve anche per capire le premesse materiali che hanno portato il capitalismo a trasformarsi da commerciale a industriale. (Le parti relative a valore e prezzo vanno trattate separatamente).
Che Marx tratti l'economia in maniera non solo fenomenologica ma anche filosofica è fuor di dubbio, poiché egli avverte continuamente la necessità di chiarire il significato ultimo, recondito, delle categorie usate nell'economia politica borghese, nonché la necessità di chiarire, non storicamente ma appunto filosoficamente, l'origine dei processi storico-economici che hanno portato alla nascita del capitalismo.
Il lavoro di Marx si pone quindi a un duplice livello:
1. come storico dell'economia, ed è la parte meno significativa di tutta la sua opera economica, in quanto quella meno sviluppata, anche se impostata chiaramente sul piano metodologico;
2. come economista: in questo secondo caso l'analisi procede in due direzioni, entrambe sviluppate ampiamente: 1. descrizione fenomenologica dei processi economici del capitalismo, 2. critica teorica dell'economia politica.
Nei Grundrisse Marx agisce prevalentemente come un critico dell'economia politica borghese e, in questa critica, indulge non poco alla metodologia della dialettica hegeliana, al punto che si potrebbe affermare che la variante inglese della teoria marxiana è, per molti versi, una sorta di applicazione della dialettica hegeliana all'economia politica borghese, con l'ovvia precisazione che la proprietà privata dei mezzi produttivi va abolita, cosa che Hegel non avrebbe mai ammesso.
Ovviamente, partendo dai presupposti hegeliani della "necessità storica", l'analisi di Marx non prevede mai la possibilità di un passaggio diverso da quello descritto di baratto-denaro-capitale. Questo però comporta una conseguenza molto particolare, che mai si sarebbe potuta verificare nelle speculazioni di Hegel: da un lato infatti Marx vede chiaramente il formarsi di un processo di reificazione ed estraneazione che rompe le relazioni sociali tra le persone, che distrugge cioè qualcosa di significativo esistito nel precapitalismo; dall'altro però considera questo processo del tutto naturale ed anzi inevitabile ai fini del superamento dei limiti del precapitalismo.
A titolo esemplificativo, per cercare di capire il motivo di questa singolarità nello svolgimento del pensiero marxiano, proviamo ad esaminare tre coppie di categorie antitetiche usate da Marx per classificare le differenze tra capitalismo e precapitalismo: locale/universale, naturale/storico, individuale/sociale. Il passaggio dall'una all'altra categoria è sempre determinato da un certo grado di sviluppo della divisione del lavoro. Marx, non facendo un discorso culturale ma solo economico, non è in grado di spiegare il motivo per cui ad un certo punto, in un certo luogo, si sviluppa la divisione del lavoro, né il motivo per cui questa porta ad un certo punto, in un certo luogo, alla nascita del capitalismo. Forse, in tal senso, le pagine più significative dedicate a questo argomento sono quelle dell'Ideologia tedesca, che però qui non possiamo esaminare.
L'antinomia marxiana di locale/universale, così com'è stata impostata, risulta indubbiamente inadeguata alle esigenze del socialismo democratico e autogestito. Produzione "locale" non può di per sé significare produzione "limitata", ristretta, in opposizione a commercio mondiale. La localizzazione della produzione indica, al contrario, la possibilità di una gestione autonoma dell'economia, relativamente indipendente da influenze extraterritoriali, per quanto oggi si abbia la consapevolezza di vivere in un mondo di cui ogni sua parte è interconnessa a tutte le altre.
Quanto più una produzione è integrata con le caratteristiche specifiche di un territorio, quanto più rispetta le esigenze riproduttive di un ambiente naturale, tanto più può pretendere una caratteristica di universalità, nel senso che può valere come modello universale per altre tipologie produttive. Al di fuori di questi parametri ogni forma di universalizzazione rischia facilmente di trasformarsi in un arbitrio, oggi tipica delle multinazionali che impongono la loro tipologia di sviluppo a ogni comunità locale.
L'universalismo dovrebbe essere una conseguenza indiretta del localismo, poiché ogni comunità locale dovrebbe potersi riconoscere liberamente in esperienze diverse dalla propria. Quando Marx parla, in riferimento al precapitalismo, di "limiti locali" (p. 88), non si rende conto ch'essi non solo "limiti" bensì "condizioni". Il locale soffre solo i "limiti" che l'universale gli vuole imporre.
Bisognerebbe anzitutto chiarire che l'universale capitalistico (ma è esistito un universale feudale con le crociate e prima ancora un universale imperiale di Roma e di tutte le altre formazioni schiavistiche) è in realtà il frutto di un interesse privato in opposizione agli interessi della comunità locale. E' l'universale, prima nazionale poi mondiale, che individui singoli o di una ristretta classe hanno opposto alle esigenze democratiche e sociali contestualmente localizzate. Lo stesso concetto di nazione è un universale che si oppone alla comunità locale.
Marx parla anche di "limiti naturali" del precapitalismo, in antitesi ai "limiti storici" in cui il capitalismo si muove (e che si riassumono nell'antinomia di forze e rapporti produttivi). Si noti che la differenza tra gli economisti borghesi e Marx sta proprio nel concetto di "limite storico", in quanto i primi considerano il capitalismo una formazione sociale la cui durata è potenzialmente illimitata.
Quanto, in questa diatriba, avesse ragione Marx non stiamo neppure a discuterlo. A noi piuttosto interessa mettere in discussione il fatto che per Marx si esce dalla natura e si entra nella storia nel momento stesso in cui l'uso delle forze produttive svincola l'uomo dalla dipendenza dalla natura. Quanto più l'uomo domina, con la scienza e la tecnica, le forze, le risorse della natura, tanto più fa "storia".
Questo modo di vedere le cose oggi va capovolto. L'uomo è tanto più "storico" quanto più è "naturale". Cioè è proprio il rispetto delle esigenze della natura che garantisce l'umanità, il carattere etico-sociale della produzione e quindi la sua storicità. Ciò che va oltre la natura può restare umano se le esigenze riproduttive della stessa natura vengono salvaguardate. Una storia che si pone in antitesi alla natura non solo non garantisce alcun futuro alla natura, ma pone una seria ipoteca anche sul futuro dell'uomo.
La terza coppia di categorie che va ripensata è quella di "limiti individuali" e "condizioni sociali" della produzione . Il fatto che gli operai vengano concentrati in un unico luogo: la fabbrica, è per Marx un motivo sufficiente per affermare che il capitalismo rappresenta una produzione sociale, in antitesi a quella individuale del Medioevo.
Marx non ha mai parlato di "produzione sociale medievale", perché secondo lui una forma "sociale" della produzione agricola è esistita solo in tempi remoti, precedente addirittura allo schiavismo, e nel feudalesimo al massimo la si ritrova nella gestione collettiva delle terre comuni, che però è collaterale a quella più propriamente produttiva del feudo, per cui non avrebbe senso contrapporre questa forma di produzione sociale, scomparsa da secoli, a quella del capitalismo.
Per quanto riguarda il feudalesimo Marx parla sempre di "limiti individuali" e di "isolamento" del produttore. Naturalmente anche questo modo di vedere le cose è funzionale alla categoria della "necessità storica" con cui Marx giustifica il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, ed è, sostanzialmente, un modo che rispecchia le esigenze della borghesia.
Occorre invece affermare il contrario, e cioè che la produzione feudale agricola, pur essendo sottoposta a servaggio, presentava caratteristiche di socializzazione di molto superiori a quelle del capitalismo, e proprio in riferimento alla gestione del feudo da parte delle comunità di villaggio.
Se si contrappone schematicamente "naturale" a "storico" si finisce col fraintendere la realtà: sarebbe stato meglio intendere col termine "naturale" il rovescio del termine "artificiale". La produzione feudale aveva un carattere di socializzazione naturale, in quanto conforme alle esigenze della natura e per quanto nei limiti storici del servaggio, che imponeva corvées ingiustificate e non assicurava alla comunità di villaggio una vera "proprietà" della terra ma solo un suo "possesso".
Viceversa, la socializzazione capitalistica è del tutto artificiale, indotta, contraria alle esigenze non solo della natura ma anche della persona, che viene considerata solo come "strumento di lavoro" e che come tale viene sradicata da un contesto locale tradizionale per essere convogliata con la forza (della proprietà privata dei mezzi produttivi) verso un altro del tutto estraneo, in cui il ruolo della macchina appare nettamente superiore a quello dell'operaio.
Marx è certamente in grado di vedere i limiti storici del capitalismo e dell'economia politica borghese, ma non è in grado di vedere i pregi del precapitalismo né le teorie preborghesi che hanno portato al capitalismo. Questo pregiudizio lo porta a formulare delle ipotesi alternative al capitalismo non sufficientemente elaborate, non soltanto nel senso "politico" del termine, poiché sotto questo aspetto il leninismo ha decisamente superato i limiti del marxismo, ma anche nel senso "culturale", quello globale, riguardante ogni aspetto della vita sociale, non esclusivamente quello economico.
Marx dice che è romantico "volgersi indietro a quella pienezza originaria"(p. 105, e qui cita A. H. Müller, Die Elemente der Staatskunst, Berlino 1809). Tuttavia, vorremmo sapere come qualificare chi sostiene le seguenti argomentazioni: "il lato magnifico [sic!] sta proprio in questo ricambio materiale e spirituale [spirituale?], in questa connessione naturale [?], indipendente dal sapere e dal valore degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche"(p. 104).
Attenzione che Marx non è così ingenuo da ritenere "naturale" il mercato e il valore di scambio che lo supporta. "E' insulso pensare quel nesso soltanto materiale come un nesso naturale, inscindibile dalla natura dell'individualità (in antitesi al sapere e volere riflessi) e ad essa immanente. Esso invece ne è il prodotto storico... Quella naturale è la connessione di individui nell'ambito di determinati e limitati rapporti di produzione". Cioè Marx usa il termine "naturale" nel senso di "spontaneo", poste debite premesse storico-economiche. Il mercato si sviluppa "spontaneamente" una volta affermato il primato del valore di scambio sul valore d'uso o sullo scambio sensu lato. Le condizioni di esistenza sotto il capitalismo, "sebbene prodotte dalla società, si presentano per così dire come condizioni di natura, ossia incontrollabili da parte degli individui"(p. 106).
Si noti, en passant, questa equazione, decisamente fuori luogo, di "natura=incontrollabilità", benché in effetti il mercato capitalistico sia di tipo anarchico, anche sotto il regime dei monopoli. Usando il concetto di "natura" in opposizione a "storia", Marx è continuamente costretto ad assegnare alla "natura" una ingiustificata funzione "antistorica". Egli infatti afferma: "gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia"(p. 104). Il che significa che il concetto di "natura" può essere applicato o al regno animale oppure alle formazioni sociali prive o di macchinismo (tutte quelle precapitalistiche) o di controllo scientifico della produzione (quella capitalistica).
In sostanza Marx dà per scontato che il socialismo futuro dovrà presupporre il primato del valore di scambio e del mercato, poiché "la produzione sulla base dei valori di scambio... produce, insieme con l'universalità, l'alienazione dell'individuo da sé e dagli altri, anche l'universalità e l'organicità delle sue relazioni e delle sue capacità". Si tratta quindi soltanto di abolire la proprietà privata, fonte di ogni alienazione sociale e anarchia produttiva. Infatti, "nei precedenti stadi di sviluppo l'individuo singolo si presenta in tutta la sua pienezza appunto perché non ha ancora elaborato la pienezza delle sue relazioni, e perché questa pienezza di relazioni egli non se l'è ancora contrapposta come forze e rapporti sociali indipendenti da lui"(pp. 104-5). Questi son solo giochi di parole: la realtà è che per il Marx hegeliano la negatività è positiva, è necessaria allo sviluppo.
Il capitalismo, questa sorta di "negatività metafisica", viene considerato inevitabile e necessario il suo superamento (la negazione della negazione), come processo intrinseco al male stesso, che porta in maniera deterministica e quindi, in ultima istanza, spontanea, a prescindere in un certo senso dalla volontà degli uomini, a un bene superiore, che è il socialismo. Nel suo porsi iniziale il male è un bene, come appunto lo è stato il capitalismo nei confronti del feudalesimo. Il capitalismo diventa un male nel suo divenire, percorrendo, in un certo qual modo, un processo analogo a quello del feudalesimo, che era stato un bene nel momento del suo porsi, in antitesi allo schiavismo. Il passaggio al bene superiore avviene in maniera spontanea, quando il male ha esaurito tutte le proprie potenzialità: il che però non significa che non esistano drammi e tragedie. Infatti, è proprio il mancato riconoscimento della necessità storica del superamento (qui si gioca la libertà umana) che rende più o meno dolorosa la transizione: "il carattere antitetico [delle forme capitalistiche] -dice Marx- non può mai essere fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi. D'altra parte se noi non trovassimo già occultate nella società, così com'è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali per una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi"(p. 101).
Esiste quindi nella storia un processo unidirezionale che porta gli uomini a una progressiva e sempre maggiore consapevolezza di sé. In questa filosofia della storia il ruolo della libertà umana, nel porre la realtà del male, è praticamente irrilevante. E tale ruolo diventa relativo anche nel porre il superamento del male. Questo significa, e Marx praticamente l'ha sempre sostenuto (almeno sino agli ultimi contatti coi populisti russi), che la possibilità di una transizione al socialismo non può avvenire prima che il capitalismo abbia esaurito la sua forza propulsiva. E un passaggio dal feudalesimo al socialismo sarebbe stato possibile in Russia solo a condizione che in Europa occidentale si fosse contestualmente verificato quello dal capitalismo al socialismo.
Oggi, alla luce del crollo del "socialismo reale", si potrebbe essere indotti ad affermare che avesse ragione Marx nella diatriba coi populisti: non può esserci transizione al socialismo se prima non si sviluppa il capitalismo. In realtà il socialismo est-europeo è crollato per motivi endogeni: il socialismo è imploso per mancanza di democrazia. Cioè per l'assenza di qualcosa che certamente non può esser data dal capitalismo, che prevede una democrazia puramente fittizia. Il socialismo deve trovare in se stesso le ragioni del proprio futuro. E' illusorio pensare di poter utilizzare le forme del capitalismo mutandone il contenuto: nel capitalismo la forma, essendo innaturale per definizione, è sostanza.
Nutrendo pregiudizi nei confronti del passato contadino, Marx non vede in tutta la loro profondità ontologica i limiti del capitalismo. Egli è come abbacinato dall'individualismo borghese quando si tratta di contrapporre questo a quel collettivismo feudale ch'egli definisce coi termini politicamente spregiativi e storicamente falsi di "isolamento" e "individualismo" dei produttori. Salvo poi contestare il capitalismo quando oppone all'individualismo borghese il collettivismo socialista. "E certamente [sic!] questo nesso materiale [il mercato, il valore di scambio] è preferibile alla loro mancanza di nesso [l'autoconsumo. Da notare che per Marx l'assenza del mercato o dell'industria implica, ipso facto, l'individualismo produttivo] o a un nesso soltanto locale [il vero mercato è quello mondiale, la produzione vera è quella per il mercato mondiale], fondato su rapporti naturali di consanguineità o di signoria e servitù"(p. 104).
Parlando dell'uso del denaro, Marx dice delle cose che evidenziano i limiti di Adam Smith, ma che paradossalmente avrebbero potuto andar bene per descrivere una situazione di socialismo avanzato.
In altre parole, al fine di giustificare la superiorità del capitalismo industriale (dei suoi tempi) rispetto a quello manifatturiero dei tempi di Smith, Marx sostiene che lo scambio non è qualcosa che si aggiunge al valore d'uso, lo scambio cioè non avviene semplicemente perché alcuni prodotti, portati sul mercato, acquistano questa specifica qualità di merce e possono quindi essere scambiati contro denaro.
Smith aveva a che fare con un produttore parzialmente autonomo, che si serviva del mercato per scambiare le eccedenze (eccedenze che peraltro, proprio in forza del capitalismo, stavano sempre più diventando necessarie).
Per Marx invece il capitalismo maturo fa del lavoro in sé il presupposto dello scambio, in quanto il lavoratore è completamente separato dalla sua proprietà e dai suoi prodotti.
Un lavoro che non fosse utile allo scambio determinerebbe un'emarginazione immediata del lavoratore, lo porrebbe al di fuori non solo del lavoro ma della stessa società.
Ciò che più conta infatti è che da subito il lavoro produca merci. Non ci si deve neppure porre la domanda se un prodotto possa o non possa essere venduto, quanto piuttosto come venderlo.
Solo che per descrivere un processo del genere Marx usa delle parole che potrebbero applicarsi al socialismo avanzato.
Smith si era posto il compito di giustificare il passaggio dal feudalesimo al capitalismo e quindi di dimostrare la superiorità del valore di scambio su quello d'uso, la superiorità del mercato (che arricchisce) rispetto all'autoconsumo (che fa vivere a livelli di mera sussistenza).
Nella sua concezione - rileva Marx - il lavoratore è isolato e il suo lavoro si socializza solo sul mercato, nel momento stesso dello scambio. In tal senso la descrizione che Marx dà del funzionamento dello scambio nel capitalismo è diametralmente opposta a quella di Smith. Tuttavia essa sarebbe incomprensibile se al carattere "sociale" del lavoro non si desse la qualifica di una "massificazione coatta", relativo all'ambiente della fabbrica o dell'azienda in generale (sia essa produttrice di beni o di servizi).
Sotto il capitalismo il lavoro è "sociale" perché il lavoratore, essendo espropriato dei suoi mezzi di lavoro, è costretto a lasciarsi schiavizzare in un sistema sulle cui dinamiche di movimento non può intervenire.
E' una socializzazione materialmente alienata e psicologicamente alienante. Il prezzo che si paga per un bene immediatamente scambiabile, prodotto da un lavoro immediatamente sociale è l'alienazione dell'individuo, sempre più rotella di un ingranaggio che lo sovrasta.
Il lavoratore non ha personalità e i suoi bisogni sono semplicemente quelli inerenti alla sua riproduzione per le esigenze del capitale. Tutto ciò Marx lo sa perfettamente.
Per quale ragione dunque quello che dice potrebbe essere applicato al socialismo democratico? Vediamo anzitutto le frasi in questione: "Nel secondo caso [quello che per Marx è il capitalismo industriale] è presupposta una produzione sociale, la socialità come base della produzione. Il lavoro del singolo è posto fin dal principio come lavoro sociale. [Sicché] ciò che egli ha comperato col suo lavoro non è un prodotto particolare e determinato, ma una determinata quota della produzione sociale. Egli perciò non ha neanche da scambiare un prodotto particolare. Il suo prodotto non è un valore di scambio. Il prodotto non ha da essere anzitutto convertito in una forma particolare per ricevere un carattere generale per il singolo. Invece di una divisione del lavoro, che si genera necessariamente nello scambio dei valori di scambio, si avrebbe un'organizzazione del lavoro che ha come conseguenza la partecipazione del singolo al consumo sociale. [...] la partecipazione al mondo dei prodotti, al consumo, non è mediata dallo scambio di lavori o di prodotti di lavoro reciprocamente indipendenti. Esso è mediato dalle condizioni sociali della produzione entro le quali l'individuo agisce"(pp. 117-118).
Ciò che qui dice Marx potrebbe paradossalmente essere applicato a una qualunque comunità sociale pre-schiavistica, in cui cioè non esista separazione tra produttore e mezzi di produzione. Con una differenza però, altrimenti dimostreremmo di non aver capito nulla di quanto Marx ha scritto.
Con la differenza che per "carattere sociale della produzione" non andrebbe inteso semplicemente il fatto che esiste una produzione economica collettiva dei beni di consumo, poiché se la si intende solo così, allora bisognerebbe qualificare come "democratico" anche il socialismo amministrato che aveva statalizzato tutto.
Il "carattere sociale della produzione" è dato piuttosto dal fatto che nel mentre produce, il lavoratore sa di appartenere a un collettivo che lo precede e che deve essere tenuto in piedi. Il senso del "collettivo" di appartenenza può dare un senso "sociale" al lavoro sin dall'inizio, rendendo così scambiabile ogni prodotto, senza alcuna mediazione particolare (che nel capitalismo è per forza di cose il mercato).
Il collettivo di vita è, nella propria autonomia, mercato di se stesso e quando si confronta con altri collettivi, ognuno di essi resta nella propria autonomia, poiché è questa che offre un minimo di garanzia di sopravvivenza. E se si formano delle dipendenze, queste sono sempre volontarie, reciprocamente vantaggiose, e non imposte con la forza degli uni sulla debolezza degli altri.
Non è solo il "lavoro" del singolo che va posto sin dall'inizio come "lavoro sociale", ma è la sua stessa esistenza che va posta come "sociale", in modo che il lavoro acquisti significato in questo collettivo di vita, a prescindere dal bene prodotto.
La prima frase chiave da cui bisogna partire è la seguente: "il bisogno dello scambio e la trasformazione del prodotto in puro valore di scambio avanzano nella medesima misura della divisione del lavoro, ossia del carattere sociale della produzione"(p. 83).
Marx non verifica nei Grundrisse la fondatezza storica di questa tesi economica, la dà semplicemente per scontata. Cioè per lui non fa problema, in quanto del tutto normale, il "bisogno dello scambio", che evidentemente deve essere "crescente", al punto da dover determinare una cosa del tutto inedita: "la trasformazione del prodotto in puro valore di scambio".
La trasformazione, lo scambio sono normali, secondo Marx, anche nella modalità "crescente", quali "incontrollata", in quanto dipendono da un processo parallelo: "la divisione del lavoro", il quale quanto più aumenta, tanto più fa aumentare lo scambio.
Questo processo in realtà non sembra spiegare nulla. La divisione del lavoro potrebbe essere essa stessa un prodotto dello scambio crescente. Un processo genetico che non tenga conto delle condizioni storiche concrete sembra essere destinato a finire nella tautologia, in quanto troppo astratto.
Peraltro Marx ha il coraggio di sostenere un'equazione del tutto indimostrata, quella secondo cui il carattere "sociale" della produzione è direttamente proporzionale al grado della divisione del lavoro. La socializzazione sarebbe dunque equivalente alla parcellizzazione del lavoro, alla specializzazione dei singoli produttori. Una caratteristica "tecnica" dà significato "sociale" a una determinata attività: il lavoro.
Questo modo di vedere la realtà è riduttivo, in quanto la caratteristica "sociale" del lavoro non è data da alcuna caratteristica "tecnica", né da alcuna modalità specifica di gestione del lavoro: un lavoro in team o in équipe non è più "sociale" di quello del contadino che va a raccogliere l'uva per fare il vino.
Un lavoro è "sociale" nella misura in cui viene riconosciuto dalla comunità in cui viene esercitato. Il lavoro non può trarre da sé alcun significato né alcuna specificazione sociale e neppure alcuna rilevanza economica o produttiva.
L'altra motivazione sottolineata da Marx per spiegare la fondatezza della sua tesi, in realtà non spiega nulla, poiché viene dato per scontato qualcosa che non può esserlo. "Nel baratto immediato ciascun articolo non può essere scambiato con qualsiasi altro, e una determinata attività può essere scambiata soltanto con determinati prodotti"(p. 87). Marx vede nel baratto quelle difficoltà che possono essere viste dalla prospettiva dello scambio nel mercato: in realtà il baratto è stata la forma di commercio più naturale che la storia degli uomini abbia mai conosciuto e praticato. Il baratto è venuto meno non tanto quando si è sviluppato il denaro, né quando si è formato il mercato, ma quando il produttore ha totalmente perso la propria autonomia economica. Denaro e baratto possono convivere se il produttore è in grado di provvedere a se stesso. Può infatti esistere (questo Marx lo ammette) l'uso del denaro tra comunità e l'uso del baratto, contemporaneamente, all'interno di ogni singola comunità. Occorre un processo "violento" che imponga l'uso del denaro sul baratto (p. 87).
"E' assolutamente necessario che gli elementi violentemente separati [p.es. valore d'uso e valore di scambio], che sono essenzialmente omogenei [nel precapitalismo], attraverso una violenta eruzione si mostrino come scissione di qualcosa che è essenzialmente omogeneo [nel senso che per la borghesia il valore di scambio deve prevalere su quello d'uso ed essa ha necessità di dimostrarlo con ogni mezzo]. L'unità si ristabilisce violentemente [ora infatti non è più lo scambio che dipende dall'uso ma il contrario]". Cioè la separazione del produttore dai suoi prodotti è un fatto "violento" che -dice Marx- gli economisti borghesi non vedono . La violenza è dimostrata dal fatto che il prodotto del lavoro torna al produttore in maniera "accidentale"(p. 88).
La seconda frase chiave di Marx indica bene il dramma del passaggio dal prodotto alla merce: "nella misura in cui si sviluppa [il rapporto di scambio], si sviluppa il potere del denaro, ossia il rapporto di scambio si fissa come un potere esterno ai produttori e indipendente da loro"(p. 83).
In pratica da un processo spontaneo: lo scambio, si finisce col determinare un processo contronatura, in cui il produttore non è più padrone della sua produzione e del suo prodotto, poiché lo scambio, il mercato, il potere del denaro è diventato padrone della sua produzione e quindi dello stesso produttore.
Marx tende a giustificare questa tragedia storico-sociale in forza della categoria della "necessità storica" del superamento del feudalesimo. "L'abisso tra prodotto in quanto tale e prodotto in quanto valore di scambio", il fatto che "lo scopo diretto del commercio non è il consumo ma l'acquisto di denaro"(p. 86), non sono processi economici che possono prodursi in maniera spontanea e non c'è alcuna motivazione "umana" che possa giustificarli, eppure Marx non ha dubbi sulla necessità di questi processi.
Secondo noi occorre una preventiva elaborazione teoretica, culturale, sufficientemente sofisticata, in grado di far sembrare il naturale innaturale, il familiare estraneo e viceversa, nonché una lotta di tipo politico che imponga questo travisamento della realtà a livello istituzionale, prima che determinati processi possano essere considerati "spontanei" o "necessari", in quanto non vengono qui soltanto totalmente sconvolti "i rapporti tra domanda e offerta"(p. 87), ma è l'intera vita sociale che viene distrutta.
Le responsabilità storiche di questo processo ricadono immediatamente sul ceto mercantile e sugli intellettuali che in un modo o nell'altro l'hanno favorito, e indirettamente sulle forze sociali e politiche che non l'hanno sufficientemente ostacolato. Lo stesso Marx lo dice: "tra i consumatori si inserisce un ceto mercantile... che non fa che comprare per vendere e vendere per ricomprare, e che in tale operazione... mira solo a ottenere valori di scambio in quanto tali, ossia denaro"(p. 86).
Nei testi di Marx manca un'analisi della formazione di questo ceto (se si esclude il famoso cap. XXIV del Capitale), che deve essere stato un ceto refrattario alle leggi scritte e non scritte della comunità di villaggio, un ceto che deve aver posto in essere una sorta di revanche sociale (individuale e di classe) contro la propria comunità originaria, dalla quale si sentiva escluso proprio a motivo dei suoi traffici, inizialmente tollerati solo entro ristretti limiti: "lo scambio tra ceto mercantile e consumatori... è condizionato da leggi e motivi del tutto diversi e possono entrare, l'uno con l'altro, nelle più grandi contraddizioni. In questa separazione è già contenuta la possibilità delle crisi commerciali".
Noi infatti dobbiamo dare per scontato che i traffici tra comunità siano sempre esistiti, quindi è sempre esistito un ceto itinerante, disposto a rischiare, i cui componenti si sommavano agli stessi produttori che sul mercato, temporaneamente, si trasformavano in venditori, usando prevalentemente la forma del baratto, e che poi tornavano, per la gran parte dell'anno lavorativo, a fare i produttori. Il ceto mercantile, proprio per il carattere permanente dei suoi traffici, nella forma itinerante dei lunghi viaggi, deve aver progressivamente maturato, dovendo comprare e vendere ovunque potesse, una certa indifferenza ai valori specifici delle diverse comunità locali.
Questo ceto, rimasto ai margini della comunità originaria, è riuscito col tempo ad acquisire ingenti ricchezze in denaro (perché solo questa era la forma in cui poteva arricchirsi), finché non è sorto un altro ceto, quello intellettuale, che ha cominciato a prenderne le difese. Il legame tra teoria (teologia prima e filosofia dopo) e prassi economica porterà successivamente alla rivoluzione politica borghese, di cui quella francese è l'esempio più significativo.
"Nel semplice baratto - dice Marx - può formarsi un ceto mercantile. Ma poiché esso ha a disposizione soltanto l'eccedenza della produzione dai due lati [compera e vendita], la sua influenza sulla stessa produzione rimane, così come tutta la sua importanza, del tutto secondaria". Quindi deve per forza esserci stata una convergenza d'interessi teorico-pratica tra ceto mercantile e intellettuali, i quali possono non essere stati esplicitamente borghesi o filo-borghesi, però devono aver elaborato delle idee che in qualche modo (cioè anche contro le loro migliori intenzioni) potevano favorire dei comportamenti che col tempo avrebbero portato all'affermazione sociale della borghesia. Analisi del genere sono del tutto assenti in Marx. Gli intellettuali da lui presi in esame sono già gli economisti dichiarati della società borghese. Manca tutta l'indagine delle teorie implicitamente borghesi espresse nel corso del Medioevo, specie a partire dal Mille.
Dipendenza naturale e materiale
Si dirà che non ha senso sostenere che Marx "preferisca" la dipendenza materiale (quella dal mercato) rispetto a quella personale (tra signoria e servitù). Uno scienziato deve limitarsi a constatare i fatti, senza esprimere giudizi di merito sul loro contenuto etico. Eppure Marx non ha dubbi su quale dipendenza deve cadere la sua preferenza, pur avendo egli una consapevolezza critica di molto superiore a quella degli economisti borghesi sui grandi limiti del capitalismo.
Così scrive a p. 96: "La risoluzione di tutti i prodotti e di tutte le attività in valori di scambio presuppone sia la dissoluzione di tutti i rigidi rapporti di dipendenza personali (storici) nella produzione, sia la generale dipendenza reciproca dei produttori".
Marx usa l'aggettivo "rigidi" come determinazione negativa, priva di alcuna positività. Con questo però non si deve pensare ch'egli ragioni come un economista borghese. Infatti dice: "questa dipendenza reciproca si esprime nella necessità permanente dello scambio e nel valore di scambio quale mediatore universale. Gli economisti esprimono questo fatto nel modo seguente: ciascuno, perseguendo il suo interesse privato.... involontariamente e inconsapevolmente finisce col servire l'interesse privato di tutti...".
Per definizione, Marx è un "critico" dell'economia politica: non può cadere in simili ingenuità. Infatti afferma: "da questa frase astratta si potrebbe anzi dedurre che ognuno reciprocamente ostacola l'affermazione dell'interesse dell'altro, sicché invece di un'affermazione generale, da questo bellum omnium contra omnes risulta anzi una generale negazione"(pp. 96-97). Che poi, effettivamente, è quanto avviene sotto il capitalismo, specie nei regimi monopolistici, proprio perché anche quando il perseguimento di un interesse privato finisce col favorire un diverso interesse privato, ciò rientra sempre nella logica dello sfruttamento del lavoro altrui.
Marx, che sa bene quanto sia "innaturale" il mero perseguimento dell'interesse privato, può affermare, in tutta tranquillità, che "l'interesse privato stesso è già un determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto nell'ambito delle condizioni che la società pone e coi mezzi ch'essa offre... che sono condizioni sociali indipendenti da tutti"(p. 97). Il bene collettivo non nasce dal perseguimento dell'interesse privato, anche se in apparenza, sotto il capitalismo, sembra essere così, almeno finché le classi subalterne non si accorgono che in forza di tale perseguimento non traggono alcun vero beneficio.
Tuttavia, se la critica di Marx agli economisti borghesi a noi risulta - dopo il marxismo! - facile da capire e da condividere, non altrettanto possiamo dire riguardo alla sua critica del modo di produzione feudale. Prendiamo ad es. questa frase: "l'individuo naturalmente o storicamente allargatosi a famiglia e a tribù (e poi a comunità) [processo, questo, che non s'è mai verificato storicamente e che di naturale non ha nulla, in quanto, semmai, s'è verificato, storicamente, il processo inverso, dalla comunità a un individuo singolo estraniato], si riproduce su basi direttamente naturali [come se questo fosse un limite! Marx tende qui a contrapporre naturale a "indotto", ovvero a "macchinismo", che libera dalla dipendenza dalla natura], o in cui la sua attività produttiva e la sua partecipazione alla produzione è indirizzata ad una determinata forma di lavoro e di prodotto [questa "determinazione" per Marx è un limite, in quanto nel capitalismo c'è indifferenza per il tipo di lavoro e di merce da produrre e questo rende più liberi], e il suo rapporto con gli altri è altrettanto determinato".
E' strano che per un economista che ha fatto della "necessità storica" la categoria fondamentale della propria filosofia della storia, sia così ostico accettare che nel feudalesimo i rapporti sociali fossero economicamente "determinati", socialmente fissati. Se anche non fosse esistito il servaggio, tali rapporti non avrebbero comunque dovuto sottostare a una qualche forma di "determinazione"? Non ha senso prospettare il superamento del feudalesimo oltre i motivi che non riguardino strettamente il servaggio sul piano sociale e il clericalismo su quello culturale. Non esistono motivi tecnici o puramente economici che possano giustificare con assoluta certezza la necessità della transizione dal feudalesimo al capitalismo, in quanto se da un lato si mettono i vantaggi di un sistema, dall'altro bisogna osservare i suoi svantaggi, e quelli del capitalismo - oggi possiamo dirlo in forza di uno sguardo retrospettivo - sono infinitamente superiori. In nessuna formazione precapitalistica s'era mai paventata la minaccia della sopravvivenza della natura e dello stesso genere umano.
Ma anche prescindendo dai vantaggi, rispetto a Marx, che si offre lo sguardo retrospettivo, è sufficiente esaminare quello ch'egli stesso dice per rendersi conto dei limiti della sua analisi: "nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose [qui Marx anticipa l'analisi del feticismo delle merci, uno dei veri capolavori del Capitale]; la capacità personale [così tipica, p.es., dell'artigiano] in una capacità delle cose"(p.98). "Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto la forma di una cosa [cioè quante più cose possiede tanto più vale]. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone", nel senso che i legami interpersonali "devono essere organizzati su base politica, religiosa ecc."(p. 99 n. 40).
Ora, a questi legami "personali" Marx preferisce chiaramente quelli "impersonali", a quelli politici preferisce quelli economici. Alla "forza della comunità che lega insieme gli individui. il rapporto patriarcale, la comunità antica, il feudalesimo e la corporazione", Marx preferisce (e qui si noti come, quando si tratta di criticare il precapitalismo egli non faccia distinzione, nel confronto col capitalismo, tra le varie formazioni sociali e non distingua all'interno di ognuna di esse gli aspetti positivi da quelli negativi) una produzione e una partecipazione alla produzione che sia "come qualcosa di estraneo e di oggettivo [che sta] di fronte agli individui... come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall'urto degli individui reciprocamente indifferenti". Marx dà continuamente l'impressione di comportarsi come un filosofo individualista in lotta contro un sistema individualista al quale oppone un'ideologia collettivista.
Nei Grundrisse la filosofia della storia di Marx è sufficientemente chiara e difficilmente condivisibile (e qui non ci si venga a dire che solo perché Marx si è sempre rifiutato di fare una "filosofia della storia", questa non esiste nei suoi scritti). Dice: "i rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale [che però non viene specificata, e qui bisogna fare attenzione perché spesso Marx non pone alcuna differenza tra comunismo primitivo, comunità antiche asiatiche e feudalesimo occidentale, in quanto tutte queste formazioni rientrano nel concetto di precapitalismo]) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati ["ristrettezza" e "isolamento" sono i motivi tecnico-economici, non sociali secondo noi, sufficienti, secondo Marx, a giustificare la transizione verso il capitalismo]. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. [Qui di nuovo la falsa antinomia di locale/universale]. La libera individualità [del futuro socialismo, quindi si tratta anzitutto si riconoscere all'individuo singolo la propria specificità], fondata sullo sviluppo universale degli individui [così come il capitalismo ha realizzato] e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale [in antitesi alla privatizzazione dei profitti], costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo"(p. 99), mentre, d'altro canto, non esiste alcuna possibilità che il socialismo possa servirsi del precapitalismo, in quanto questo viene completamente distrutto dallo "sviluppo del commercio, del lusso, del denaro, del valore di scambio".
Se la tesi di Marx secondo cui il capitalismo pone le condizioni del socialismo non fosse vera, che possibilità avrebbe il socialismo di realizzarsi? Il capitalismo, secondo Marx, pone le condizioni materiali, strutturali (le forze produttive), per la transizione al socialismo, ma dal punto di vista sovrastrutturale non resta forse la formazione più lontana dalle caratteristiche etiche di socializzazione e di umanizzazione che dovrebbe avere il socialismo democratico? Da un lato il capitalismo pone le condizioni strutturali e dall'altro toglie tutte quelle sovrastrutturali. E in tal senso ci si potrebbe chiedere se il tentativo di realizzare il socialismo nei paesi est-europei non sia dipeso proprio dalla permanenza in quei paesi di molte condizioni strutturali e soprattutto sovrastrutturali del precapitalismo, e ci si potrebbe anche chiedere se in quei paesi il socialismo è fallito non per la preponderanza di queste condizioni, ma, al contrario, proprio perché non si è voluto tenerle in debita considerazione, preferendo realizzare una forma di socialismo troppo simile al modello "teorico" elaborato dal marxismo classico. I cui difetti principali sono stati da un lato la sottovalutazione dell'importanza del mondo contadino e dall'altro la sopravvalutazione dell'importanza del macchinismo.
Oggi si è finalmente arrivati alla convinzione che il macchinismo trovi la sua ragion d'essere solo nella misura in cui garantisce alla natura una sicura, agevole, riproduzione. Tutto ciò che ostacola o rallenta i ritmi riproduttivi della natura va considerato antiumanistico e quindi antistoricistico. Il rispetto integrale delle leggi di natura è la conditio sine qua non in cui l'uomo e la storia possono muoversi, salvaguardando se stessi. Nessuna civiltà ha mai rispettato integralmente questa condizione, se si escludono quelle del cosiddetto "uomo primitivo", le quali non hanno lasciate tracce indelebili di se stesse.
E ci si potrebbe altresì chiedere - ma in questo caso la risposta è scontatamente affermativa - se la versione leninista del marxismo è riuscita a realizzare il socialismo proprio perché, meglio di ogni altra corrente, seppe tener conto, seppure in maniera limitata, delle esigenze del mondo precapitalistico.
Ci si potrebbe infine chiedere se la possibilità di una transizione pacifica al socialismo resta ancora oggi tanto più possibile quanto maggiore è il rapporto costruttivo che si riesce a realizzare con le realtà (strutture e sovrastrutture) precapitalistiche (oggi presenti solo nel Terzo Mondo). Ogni occasione perduta rischia di ripercuotersi, accentuandone gli aspetti negativi, sul carattere stesso della transizione.
Nel capitalismo le relazioni sociali non dipendono dalle regole della dipendenza personale (salvo eccezioni inerenti alle forme illegali di neo-schiavismo), ma gli storici dovrebbero ammettere l'insensatezza della decisione con cui, nel superamento del feudalesimo, si sia voluta buttar via l'acqua sporca del servaggio e del clericalismo col bambino dell'autoconsumo o comunque dell'autonomia produttiva. Autosussistenza, autogestione non andavano considerati come "limiti" ma anzi come "vantaggi" di tutte le economie precapitalistiche, in cui il denaro ancora non giocava un ruolo chiave negli scambi commerciali.
Cioè la "reificazione del contesto sociale", pur presente nelle formazioni preborghesi, non poteva mai essere conseguenza del fatto che la totalità degli individui aveva "alienato, sotto forma di oggetto, la loro propria relazione sociale"(p. 102). Lo stesso Marx sostiene che la "reificazione del contesto sociale" è un fenomeno tipico delle società in cui il denaro è "mezzo di scambio e non misura del valore di scambio"; solo in queste società "gli uomini ripongono nella cosa materiale (il denaro) quella fiducia che non sono disposti a riporre in se stessi come persone". Il denaro è un "pegno di garanzia sociale... in virtù della sua (simbolica) qualità sociale". Ogni altra forma di accumulazione "appare ancora primordiale, limitata, condizionata per un verso dai bisogni, per l'altro dalla natura limitata dei prodotti (sacra auri fames)"(p. 106).
Marx è del tutto consapevole che la nuova dipendenza (quella dal mercato) presume degli individui estraniati, alienati da qualunque proprietà (salvo eccezioni) e soprattutto indifferenti tra loro. "Lo scambio, in quanto mediato dal valore di scambio e dal denaro, presuppone l'universale dipendenza reciproca dei produttori, ma presuppone al tempo stesso il completo isolamento dei loro interessi privati e una divisione del lavoro sociale, la cui unità e integrazione reciproca esiste, per così dire, come un rapporto naturale esterno agli individui, indipendentemente da loro. E' la pressione reciproca della domanda e dell'offerta generali che media la connessione degli individui reciprocamente indifferenti"(pp. 99-100).
Dunque la relazione sociale nel capitalismo non nasce da una tradizione consolidata, da una condivisione di valori e bisogni comuni, da una medesima esperienza comunitaria, ma nasce da un'esigenza di tipo economico: lo scambio di merci contro denaro. La socializzazione è una conseguenza dello scambio: "di pari passo con lo sviluppo di questa alienazione si tenta, sul suo stesso terreno, di sopprimerla: ed ecco i listini dei prezzi correnti, i corsi cambiari, i contatti epistolari, telegrafici, la possibilità di una statistica generale ecc. tra i commercianti (con un naturale sviluppo parallelo dei mezzi di comunicazione), attraverso i quali ciascun individuo si procura notizie sull'attività di tutti gli altri cercando di adeguarvi la propria"(p. 103).
La produzione di questi individui, a differenza di quella precapitalistica (aggiungiamo noi), "non è immediatamente sociale, non è il risultato di un'associazione (the offspring of association) che ripartisce al proprio interno il lavoro... la produzione sociale non è sussunta agli individui e da essi controllata come loro patrimonio comune" - dice Marx (p. 100).
Leggendo queste affermazioni si ha l'impressione che Marx non abbia voluto concedere nulla al precapitalismo per non doversi cimentare in un confronto culturale sui valori etici tra cristianesimo e socialismo. Il suo ragionamento pare essere il seguente: se il capitalismo ha spazzato via col feudalesimo anche il cristianesimo che ideologicamente lo giustificava, il socialismo non può trarre dal cristianesimo alcuna ispirazione per porre un'alternativa all'ideologia borghese, pertanto il socialismo diventa un fenomeno del tutto nuovo, che presume di porre in maniera inedita le basi della propria affermazione.
Ora, questo modo d'impostare le cose s'è rivelato fallimentare, in quanto se il socialismo non è in grado di recuperare quanto di meglio è stato prodotto dal precapitalismo, qualunque transizione al socialismo non fa che rafforzare, alla lunga, lo stesso capitalismo.
Ovviamente, come escludiamo che il socialismo futuro possa assomigliare a un capitalismo riveduto e corretto, così è impensabile che possa assomigliare a una sorta di neofeudalesimo. Deve necessariamente essere qualcosa di originale; tuttavia questo non significa che non si debbano andare a recuperare le cose migliori prodotte dall'uomo, fino a quelle più antiche della sua storia.
Ecco perché il ragionamento di Marx non può essere accettato così com'è: non è esattamente vero che il capitalismo sia il superamento del feudalesimo tout-court e che il socialismo supererà il capitalismo su basi inedite, non neofeudali. "Lo scambio privato di tutti i prodotti del lavoro, delle capacità e delle attività è in antitesi sia con la divisione fondata sulla sovrordinazione e subordinazione naturale e politica (sia essa di carattere patriarcale, antica o feudale) degli individui tra loro (dove lo scambio vero e proprio è soltanto marginale o grosso modo tocca meno la vita di tutta la comunità di quanto piuttosto non intervenga tra comunità diverse, e in generale non sottomette affatto tutti i rapporti commerciali e di produzione), sia con il libero scambio tra individui associati sulla base dell'appropriazione e del controllo comune dei mezzi di produzione. (Quest'ultima associazione non è nulla di arbitrario: essa presuppone lo sviluppo di condizioni materiali e spirituali che a questo punto non possono essere ulteriormente analizzate)" - così Marx a p. 100.
Dunque, la differenza sostanziale tra capitalismo e socialismo sta nell'abolizione della proprietà privata e quindi nella possibilità di gestire tale proprietà in maniera collettiva, sociale: tutto il resto può restare com'è. Per ottenere la transizione al socialismo occorre che le premesse su cui far leva siano già presenti nel capitalismo. "Nel mercato mondiale la connessione del singolo individuo con tutti, ma nello stesso tempo anche l'indipendenza di questa connessione dai singoli individui stessi, si è sviluppata ad un livello tale che perciò la sua formazione contiene già contemporaneamente la condizione del suo trapasso"(p. 103). Marx ha bisogno di dire questo, perché se nel capitalismo non esistono le condizioni del suo trapasso, e il precapitalismo è definitivamente scomparso, da dove andrà a prendere il socialismo le motivazioni del proprio agire?
"La scambiabilità di tutti i prodotti, attività e rapporti con un terzo elemento [il denaro], con qualcosa di oggettivo che a sua volta possa essere scambiato indifferentemente con tutto... si identifica con la venalità e corruzione generali. La prostituzione generale si presenta come una fase necessaria del carattere sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività personali"(pp. 105-6).
In questa frase Marx usa due volte l'aggettivo "generale". Nel capitalismo la corruzione è di massa ed essa, come tale, non può non intaccare anche il proletariato. Ecco perché ogni ritardo nella realizzazione del socialismo è un incentivo alla corruzione.
Marx dice che il singolo "casualmente" può anche liberarsi dei rapporti materiali indipendenti dalla sua volontà, ma "la massa di coloro che ne sono dominati no"(p. 107). A questo punto bisognerebbe aggiungere che se anche, per ipotesi, nei paesi capitalisti, la stragrande maggioranza diventasse "borghese", questo non costituirebbe affatto una garanzia di incorruttibilità: spesso infatti si sente dire che se un capitalista andasse al governo nessuno potrebbe corromperlo. Al contrario, ciò sarebbe un indizio sicuro della corruzione generale, poiché, essendo la ricchezza acquisita sempre sulla base dello sfruttamento del lavoro altrui, se questo "altrui" non fosse particolarmente presente nelle regioni metropolitane dell'occidente, in quanto anche il proletariato (manuale e intellettuale), pur sfruttato rispetto alla quantità e qualità del lavoro offerto, fruisce di uno standard di vita sufficientemente garantista, di certo questo "altrui" è presente nelle aree periferiche del Terzo Mondo, al cui sfruttamento partecipa anche, seppur indirettamente, lo stesso proletariato dei paesi avanzati.
Il fatto che il proletariato occidentale abbia saputo condurre delle rivendicazioni che si siano fermate a livello sindacale e non siano mai approdate a quello politico, in modo da assicurare un percorso istituzionale in direzione del socialismo, ha indubbiamente comportato un miglioramento delle sue condizioni di vita, ma contestualmente un peggioramento delle condizioni di vita del sottoproletariato terzomondista. Istituzionalizzando le rivendicazioni entro i limiti sindacali, il proletariato occidentale non ha fatto altro che rafforzare le basi del capitalismo.
La lotta va ripresa sul terreno politico, sociale, culturale. Sotto il capitalismo, dice Marx, "gli individui sembrano entrare in un contatto reciproco libero e indipendente (questa indipendenza che in se stessa è soltanto... indifferenza) e scambiare in questa libertà"(p. 106) - bisogna dunque riprendere la lotta contro le apparenze e le mistificazioni; "gli individui sono ora dominati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l'uno dall'altro. L'astrazione... non è che l'espressione teoretica di quei rapporti materiali che li dominano"(p. 107) - cioè nella lotta contro le apparenze occorre chiarire nuovamente che il "nemico" è un'entità astratta: il capitale, è dunque contro il sistema della dipendenza materiale e contro la reificazione delle relazioni sociali che il proletariato deve battersi; "la fede nell'eternità di queste idee, cioè di quei rapporti di dipendenza materiali, viene naturalmente consolidata, nutrita, inculcata in ogni modo dalle classi dominanti"(p. 108) - occorre quindi svolgere un lavoro contestativo non solo sul piano sociale e politico ma anche culturale: occorre una resistenza a 360 gradi.