III. Il Capitale.

Prima Sezione

Il processo di produzione del Capitale


Indice

Scambio semplice. Rapporti come individui che scambiano. Armonie di uguaglianza, di libertà ecc. (Bastiat, Proudhon)

1. Processo di produzione del capitale

Capitale. Somma di valore. Proprietà fondiaria e capitale. Il capitale proviene dalla circolazione. Contenuto: il valore di scambio. Capitale commerciale, capitale monetario e interesse monetario. La circolazione presuppone un processo diverso. Movimento tra estremi presupposti

Passaggio dalla circolazione alla produzione capitalistica. Capitale come lavoro oggettivato ecc. Somma di valori per la produzione di valori

I. La circolazione e il valore di scambio da essa risultante sono il presupposto del capitale

Il valore di scambio risultante dalla circolazione si presuppone ad essa, vi si conserva e moltiplica mediante il lavoro

Prodotto e capitale. Valore e capitale. Proudhon

Capitale e lavoro. Valore di scambio e valore d'uso per il valore di scambio. Denaro e suo valore d'uso (lavoro), in questo rapporto, come capitale. Automoltiplicazione del valore come suo unico movimento. A proposito della frase: nessun capitalista impiega il suo capitale senza trarne un profitto. Capitale come lavoro oggettivato dal punto di vista del contenuto materiale. Il lavoro vivo produttivo (che cioè conserva e aumenta il valore) come sua antitesi. Lavoro produttivo e lavoro come prestazione. Lavoro produttivo e improduttivo. A. Smith ecc. Il ladro nel senso di Lauderdale et lavoro produttivo

I due diversi processi nello scambio del capitale col lavoro. (Qui ciò che è scambiato col capitale rientra esso stesso, col suo valore d'uso, nella determinazione economica formale ecc.)

Capitale e proprietà fondiaria moderna. Wakefield

Scambio tra capitale e lavoro. Salario a cottimo. Valore della capacità lavorativa. Partecipazione solamente quantitativa dell'operaio salariato alla ricchezza generale. L'equivalente dell'operaio è il denaro. Quindi di fronte al capitale egli è un uguale. Ma lo scopo del suo scambio è la soddisfazione del suo bisogno. Per lui il denaro è soltanto un mezzo di circolazione. Il risparmio, l'astinenza, come mezzi di arricchimento dell'operaio. Mancanza di valore e svalutazione dell'operaio come condizione del capitale

II capitale, di fronte all'operaio, è soltanto un potere oggettivo, privo di valore personale. Differenza dalla prestazione. Scopo dell'operaio, nello scambio col capitale, è il consumo. Deve ricominciare continuamente da capo: lavoro come capitale dell'operaio. (Capacità lavorativa come capitale!) Il salario non è produttivo

Lo scambio tra capitale e lavoro rientra nella circolazione semplice, e non arricchisce l'operaio. La separazione tra lavoro e proprietà è il presupposto di questo scambio. Lavoro: povertà assoluta come oggetto, possibilità generale della ricchezza come soggetto. Di fronte al capitale sta il lavoro, senza una determinatezza particolare

Il processo di lavoro assunto nel capitale (capitale e capitalista)

Processo di produzione come contenuto del capitale. Lavoro produttivo e improduttivo (lavoro produttivo - che produce capitale). L'operaio si riferisce al suo lavoro come ad un valore di scambio, il capitalista come ad un valore d'uso. Egli si priva del lavoro come forza produttiva di ricchezza. (Il capitale se l'appropria come tale). Trasformazione del lavoro in capitale ecc. Sismondi, Cherbuliez, Say, Ricardo, Proudhon ecc

Processo di valorizzazione. (Costi di produzione). Impossibilità di spiegare il surplusvalue attraverso lo exchange. (Ramsay. Ricardo). Il capitalista non può vivere del suo salario ecc. (Spese improduttive). La semplice autoconservazione del valore, la sua moltiplicazione, contraddice alla natura del capitale

Il capitale entra nei costi di produzione come capitale. Capitale fruttifero. Proudhon

Plusvalore. Tempo di lavoro supplementare. Bastiat sul sistema salariale. Valore del lavoro. Come si determina? Autovalorizzazione è autoconservazione del capitale. Il capitalista non può vivere semplicemente del proprio lavoro ecc. Condizioni per la autovalorizzazione del capitale. Tempo di lavoro supplementare ecc. Fino a quali limiti il capitale è produttivo (come creatore di pluslavoro ecc.), è solo un fatto storico-transitorio. I liberi negri della Giamaica. La ricchezza come entità autonoma richiede lavoro schiavistico o lavoro salariato (in entrambi i casi è lavoro coercitivo)

Plusvalore. Ricardo. I Fisiocratici. A. Smith. Ricardo

Plusvalore e produttività. Rapporto tra il loro aumento. Risultato. Produttività del lavoro è produttività del capitale. Quanto più il lavoro necessario è già diminuito, tanto più difficile diventa la valorizzazione del capitale

Sull'aumento del valore del capitale

Il lavoro non riproduce il valore del materiale su cui lavora e dello strumento con cui lo lavora. Esso conserva il loro valore semplicemente per il fatto che nel processo lavorativo esso si riferisce loro come alle sue condizioni materiali. Questa forza vivificatrice e conservatrice non costa nulla al capitale; anzi si rivela come forza del capitale stesso ecc.

Tempo di lavoro supplementare, assoluto e relativo. Non è la quantità del lavoro vivo, ma la sua qualità di essere lavoro, quella che conserva nello stesso tempo il tempo di lavoro già esistente nel materiale ecc. La modificazione di forma e materia nel processo di produzione immediato. Nel processo di produzione semplice è implicito che i precedenti livelli di produzione vengano conservati dai successivi ecc. Conservazione del vecchio valore d'uso da parte del nuovo lavoro ecc. Processo di produzione e processo di valorizzazione. La quantità di lavoro oggettivato viene conservata in quanto, a contatto col lavoro vivo, viene conservata la sua qualità di valore d'uso per un nuovo lavoro. Nel processo di produzione reale la separazione del lavoro dalle sue condizioni di esistenza oggettiva è soppressa. Ma in questo processo il lavoro è già incorporato nel capitale ecc.: si presenta come forza di autoconservazione del capitale. Perpetuazione del valore

Il capitalista ottiene gratis il plusvalore e la conservazione del valore del materiale e dello strumento lavoro, aggiungendo nuovo valore a quello vecchio, nello stesso tempo conserva ed eternizza quest'ultimo. La conservazione dei valori del prodotto non costa nulla al capitale. Attraverso l'appropriazione del lavoro presente, il capitalista possiede già una polizza sulla (e rispettiva alla) appropriazione di lavoro futuro

Confusione tra profitto e plusvalore. Falso calcolo di Carey. Il capitalista, oltre a non pagare all'operaio la conservazione del vecchio valore, pretende addirittura una remunerazione per il permesso che gli dà di conservare il vecchio capitale. Plusvalore e profitto ecc. Differenza tra consumo dello strumento e consumo del salario. Il primo viene consumato nel processo di produzione, il secondo al di fuori di esso. Aumento del plusvalore e diminuzione del saggio di profitto. (Bastiat)

Aumento delle giornate lavorative simultanee. (Accumulazione del capitale). Macchinario. L'aumento della parte costante del capitale in rapporto alla parte variabile investita in salario è uguale all'aumento della produttività del lavoro. Rapporto in cui deve aumentare il capitale, in presenza di un aumento della produttività, per occupare lo stesso numero di operai

La percentuale sul capitale totale può esprimere rapporti differenti. Il capitale (come la proprietà) si basa sulla produttività del lavoro

Aumento del tempo di lavoro supplementare. Aumento delle giornate lavorative simultanee (popolazione). (La popolazione può essere aumentata nella misura in cui diminuisce relativamente il tempo di lavoro necessario o il tempo richiesto per la produzione della forza-lavoro viva). Pluscapitale e sovrappopolazione. Creazione di tempo libero per la società


IL PROCESSO DI PRODUZIONE DEL CAPITALE

Fin dai primi passi della civiltà gli uomini hanno fissato il valore di scambio dei prodotti del loro lavoro paragonandolo non con i prodotti offerti in cambio, ma con un prodotto preferito.

                                                                     (Ganilh, 13,9)1

[Scambio semplice. Rapporti tra individui che scambiano. Armonie di uguaglianza, di libertà ecc. (Bastiat, Proudhon)]

Ciò che rende particolarmente difficile la comprensione del denaro nella sua piena determinatezza di denaro - difficoltà a cui l'economia politica tenta di sfuggire dimenticandone una determinazione dopo l'altra e, quando le se ne presenta una, appellandosi all'altra, - è che qui un rapporto sociale, una determinata relazione degli individui tra loro, si presenta come metallo, come pietra, come oggetto puramente materiale esterno ad essi, il quale come tale viene trovato in natura e nel quale non resta più da distinguere, dalla sua esistenza naturale, neppure una determinazione formale.

Oro e argento non sono denaro in sé e per sé. La natura non produce denaro, così come non produce un corso di cambio o un banchiere. In Perù e in Messico oro e argento non servivano come denaro, pur esistendo come gioielli e pur riscontrandosi in quei paesi uno sviluppato sistema di produzione. Essere denaro non è una proprietà naturale dell'oro e dell'argento, e perciò è assolutamente sconosciuta al fisico, al chimico ecc. in quanto tali. Ma il denaro è, immediatamente, oro e argento.

Considerato come misura, il denaro predomina ancora come determinazione formale; e ancor più come moneta, ove tale determinazione compare anche visibilmente nel suo conio; ma nella sua terza determinazione, ossia nella sua pienezza, dove il fatto di essere misura e il fatto di essere moneta figurano soltanto come funzioni del denaro, ogni determinazione formale è scomparsa, o meglio essa coincide immediatamente con la sua natura di metallo. In esso non si vede affatto che la determinazione di essere denaro è un semplice risultato del processo sociale; esso è denaro. E lo è tanto più duramente in quanto il suo valore d'uso immediato per l'individuo vivente non è in alcun rapporto con tale ruolo, e in generale in esso quale incarnazione del puro valore di scambio è completamente scomparso il ricordo del valore d'uso distinto dal precedente.

Qui dunque viene in luce in tutta la sua purezza la contraddizione fondamentale contenuta nel valore di scambio e nel modo di produzione sociale ad esso corrispondente. I tentativi di superare questa contraddizione togliendo al denaro la sua forma metallica, e ponendolo anche esternamente come qualcosa di posto dalla società, come espressione di un rapporto sociale di cui la forma ultima sarebbe quella del denaro-lavoro, sono stati già criticati precedentemente. Deve essere completamente chiaro ormai che tali tentativi sono roba da arruffoni finché si mantiene la base del valore di scambio, e che poi l'illusione che sia il denaro metallico a falsificare lo scambio deriva da una totale ignoranza della sua natura.

D'altra parte è altrettanto chiaro che nella misura in cui cresce l'opposizione ai rapporti di produzione dominanti e questi stessi spingono alla loro violenta trasmutazione, la polemica si dirige contro il denaro metallico o contro il denaro in generale come al fenomeno più vistoso, più contraddittorio e più crudo in cui il sistema si presenta tangibilmente. Con tutta una serie di artifici operati su di esso, si tenta allora di superare antitesi di cui esso non è altro che il fenomeno rivelatore. E così è anche chiaro che alcune operazioni rivoluzionarie possono essere condotte con esso, solo in quanto un attacco al medesimo sembra lasciare tutto come prima, e rivelarsi come una semplice rettifica.

Succede allora che si batte sul sacco ma per cogliere l'asino. Ma finché l'asino non sente le botte sul sacco, in realtà si coglie solo il sacco e non l'asino. Non appena le sente, è l'asino ad essere battuto e non il sacco. Finché le operazioni sono dirette contro il denaro in quanto tale, si tratta di un semplice attacco alle conseguenze le cui cause continuano a sussistere, e quindi di un disturbo del processo produttivo, che la base solida possiede allora anche la forza di porre e dominare come semplici disturbi transitori attraverso una reazione più o meno violenta.

D'altra parte è implicito nella determinazione del rapporto di denaro — finché viene sviluppato, come si è fatto finora, nella sua purezza, e senza riferirlo a più sviluppati rapporti di produzione — che nei rapporti di denaro, intesi nella loro forma semplice, tutte le antitesi immanenti alla società borghese appaiono cancellate, ed è in questo senso che verso di esso cerca di nuovo scampo la democrazia borghese, ancor più di quanto non facciano gli economisti borghesi (i quali sono per lo meno così coerenti da retrocedere alla determinazione ancor più semplice del valore di scambio e dello scambio) verso l'apologetica degli attuali rapporti economici.

Di fatto, finché la merce o il lavoro sono ancora determinati soltanto come valore di scambio, e la relazione attraverso cui le diverse merci vengono riferite l'una all'altra è determinata come scambio reciproco di questi valori di scambio, come loro equiparazione — finché ciò accade gli individui, i soggetti tra cui ha luogo questo processo sono determinati soltanto come semplici individui che scambiano. Non esiste assolutamente alcuna differenza tra loro finché si considera la determinazione formale, che è la determinazione economica, la determinazione in cui essi sono reciprocamente legati nel rapporto di traffico; l'indice della loro funzione sociale o della loro relazione sociale reciproca. Ciascuno dei soggetti è un individuo che scambia; ciascuno cioè ha con l'altro la medesima relazione sociale, che questi ha con lui. Come soggetti dello scambio dunque la loro relazione è quella di uguaglianza. È impossibile scorgere una qualsiasi differenza oppure antitesi tra di loro, e nemmeno una diversità.

Inoltre le merci che essi scambiano sono, in quanto valori di scambio, degli equivalenti, o per lo meno valgono come tali (nella valutazione reciproca potrebbe nascere soltanto un errore soggettivo, e qualora un individuo truffasse l'altro, ciò accadrebbe non in virtù della natura della funzione sociale nella quale entrambi si contrappongono, — giacché essa è identica, e nel suo ambito essi sono uguali —, bensì soltanto in virtù della naturale scaltrezza o capacità di persuasione, e insomma della superiorità puramente individuale dell'uno sull'altro. La differenza sarebbe una differenza naturale che non riguarda affatto la natura del rapporto in quanto tale, e che — si potrebbe dire spingendo lo sguardo verso sviluppi ulteriori — nemmeno con la concorrenza si affievolisce e perde la sua potenza originaria).

Finché si considera la forma pura, il lato economico del rapporto — il contenuto, al di fuori di questa forma, propriamente esula ancora completamente dall'economia, o è posto come contenuto naturale distinto da quello economico, talché di esso si può dire che è ancora del tutto separato dal rapporto economico perché ancora coincide immediatamente con esso —, vengono in luce soltanto tre momenti, che sono formalmente distinti: i soggetti dello scambio, ossia gli individui che scambiano, posti nella medesima determinazione; gli oggetti del loro scambio, ossia i valori di scambio, gli equivalenti, i quali non solo sono uguali, ma anche debbono esserlo espressamente, e sono posti come uguali; infine l'atto dello scambio stesso, ossia la mediazione attraverso cui i soggetti vengono posti appunto come individui che scambiano, come uguali, e i loro oggetti come equivalenti, come uguali.

Gli equivalenti sono l'oggettivazione dell'un soggetto per l'altro; ossia essi stessi hanno il medesimo valore e si confermano nell'atto dello scambio come equivalenti e nello stesso tempo come indifferenti l'uno all'altro. I soggetti sono l'uno per l'altro nello scambio solo mediante gli equivalenti, sono equivalenti e si confermano come tali mediante lo scambio dell'oggettività, in cui l'uno è per l'altro. Poiché sono l'uno per l'altro solo come equivalenti, possessori di equivalenti che confermano questa equivalenza nell'atto dello scambio, essi sono, come equivalenti, nello stesso tempo indifferenti l'uno all'altro; la loro ulteriore differenza individuale non li riguarda affatto; essi sono indifferenti a tutte le loro ulteriori particolarità individuali.

Per quanto concerne poi il contenuto al di fuori dell'atto dello scambio, il quale è un porre e un confermare al tempo stesso i valori di scambio e i soggetti che scambiano, questo contenuto che esula dalla determinazione economica formale può essere soltanto: 1) La naturale particolarità della merce che viene scambiata. 2) Il particolare bisogno naturale dell'individuo che scambia, ovvero, presi tutti e due insieme, il diverso valore d'uso delle merci da scambiare. Questo, il contenuto dello scambio, che sta completamente fuori dalla sua determinazione economica, in tal modo, lungi dal compromettere l'uguaglianza sociale degli individui, fa anzi della loro diversità naturale il fondamento della loro uguaglianza sociale.

Se l'individuo A avesse lo stesso bisogno dell'individuo B e avesse realizzato il suo lavoro nel medesimo oggetto in cui l'ha realizzato l'individuo B, tra loro non vi sarebbe alcuna relazione; essi non sarebbero affatto individui diversi dal punto di vista della loro produzione. Entrambi hanno il bisogno di respirare; per entrambi esiste l'aria come atmosfera; non è ciò tuttavia che li pone in contatto sociale; come individui che respirano essi sono in relazione reciproca soltanto come corpi naturali, non come persone. La diversità del loro bisogno e della loro produzione offre motivo soltanto allo scambio e alla loro equiparazione sociale in esso; questa diversità naturale è perciò il presupposto della loro uguaglianza sociale nell'atto dello scambio e di questa relazione generale in cui essi si presentano l'uno rispetto all'altro come individui produttivi.

Considerato dal punto di vista di questa diversità naturale, l'individuo A è possessore di un valore d'uso per B, e B è possessore di un valore d'uso per A. Da questo lato la diversità naturale li pone di nuovo reciprocamente nel rapporto di uguaglianza. Su questa base essi non sono però indifferenti l'uno all'altro, bensì si integrano, hanno bisogno l'uno dell'altro, cosicché l'individuo B, in quanto oggettivato nella merce, è un bisogno per l'individuo A e viceversa, cosicché essi stanno non solo in rapporto di uguaglianza, ma anche in rapporto sociale. E non è tutto.

Il fatto che questo bisogno dell'uno può essere soddisfatto mediante il prodotto dell'altro e viceversa, e che l'uno è capace di produrre l'oggetto del bisogno dell'altro e ciascuno è, rispetto all'altro, nella posizione di proprietario dell'oggetto del bisogno dell'altro, dimostra che ciascuno è sovrano, come uomo, del suo proprio particolare bisogno ecc., e che essi sono, l'uno rispetto all'altro, in un rapporto di uomini; che la loro comune essenza generica è nota a tutti. Normalmente non accade che l'elefante produca per la tigre o un animale per un altro animale. Per esempio uno sciame di api costituisce, in fondo, un'ape soltanto, e tutte producono la stessa cosa.

Inoltre, finché questa diversità naturale degli individui e delle loro merci (prodotti, lavoro ecc. qui non sono ancora affatto diversi, bensì esistono soltanto nella forma di merci o, come vuole il signor Bastiat sulla scorta di Say, di servizi; per aver ridotto la determinazione economica del valore di scambio al suo contenuto naturale, alla merce o servizio, in pratica per essere incapace di fissare il rapporto economico del valore di scambio in quanto tale, Bastiat si picca di aver fatto un grande progresso sugli economisti classici della scuola inglese, i quali sono capaci di fissare i rapporti di produzione nella loro determinatezza in quanto tali, ossia nella loro forma pura) costituisce un motivo per l'integrazione di questi individui, per il loro rapporto sociale in quanto individui che scambiano, nel quale essi sono presupposti e si confermano come uguali, ossia alla determinazione dell'uguaglianza si aggiunge quella della libertà. Sebbene l'individuo A senta il bisogno della merce dell'individuo B, non è che esso se ne approprii con la violenza, né viceversa, bensì essi si riconoscono reciprocamente come proprietari, come persone la cui volontà permea le loro merci.

Qui entra in ballo allora anzitutto il momento giuridico della persona, e della libertà nella misura in cui vi è contenuta. Nessuno si appropria della proprietà dell'altro con la violenza. Ognuno se la aliena con libera volontà. E non è tutto: l'individuo A serve il bisogno dell'individuo B mediante la merce a solo in quanto e perché l'individuo B serve il bisogno dell'individuo A mediante la merce b e viceversa.

Ciascuno serve l'altro per servire se stesso; ciascuno si serve reciprocamente dell'altro come suo mezzo. Nella coscienza di entrambi gli individui c'è dunque la consapevolezza: 1) che ciascuno raggiunge il suo scopo solo in quanto serve all'altro come mezzo; 2) che ciascuno diventa mezzo per l'altro (essere per un altro) solo in quanto scopo a se stesso (essere per sé); 3) che la reciprocità, per la quale ciascuno è nello stesso tempo mezzo e scopo, e cioè raggiunge il suo scopo solo in quanto diventa mezzo, e diventa mezzo solo in quanto si pone come scopo a se stesso, sicché ciascuno si pone come essere per un altro in quanto è essere per sé, e l'altro si pone come essere per lui in quanto è essere per sé — che questa reciprocità, dicevamo, è un fatto necessario, presupposto come condizione naturale dello scambio, ma che in quanto tale essa è indifferente a ciascuno dei due soggetti dello scambio, e per ciascuno di essi ha interesse solo in quanto soddisfa il suo interesse ad esclusione di quello dell'altro, senza rapporto con esso. Il che vuol dire che l'interesse comune, che figura come motivo dell'intero atto, è, sì, riconosciuto come fatto da entrambi i lati, ma come tale non è motivo, bensì procede per così dire alle spalle degli interessi particolari riflessi in se stessi, alle spalle del singolo interesse dell'uno in antitesi a quello dell'altro.

Per quest'ultimo verso, l'individuo può avere ancora al massimo la consolante coscienza che la soddisfazione del suo antitetico interesse singolo è appunto la realizzazione dell'antitesi tolta, dell'interesse sociale generale. Dall'atto dello scambio stesso l'individuo, ciascuno dei due, è riflesso in sé come soggetto esclusivo e Sovrano (determinante) del medesimo. Con ciò è posta allora la piena libertà dell'individuo: transazione volontaria, niente violenza da entrambe le parti; posizione di sé come mezzo, o, in questa funzione di servizio, come mezzo soltanto per porsi come scopo a se stesso, come individuo sovrano ed egemone: infine, l'interesse egoistico, che non ne realizza alcun altro superiore; l'altro è anch'esso, riconosciuto e saputo come colui che realizza ugualmente il suo interesse egoistico, sicché entrambi sanno che l'interesse comune è riposto appunto soltanto nella bilateralità, nella multilateralità, e nel rendersi autonomi dai diversi lati, è lo scambio dell'interesse egoistico. L'interesse generale è appunto la generalità degli interessi egoistici.

Se dunque la forma economica, lo scambio, pone da tutti i lati l'uguaglianza dei soggetti, il contenuto, la materia, sia individuale sia oggettiva, che spinge allo scambio, pone la loro libertà. Non solo dunque uguaglianza e libertà sono rispettati nello scambio basato sui valori di scambio, ma lo scambio di valori di scambio è anzi la base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà. Come idee pure esse ne sono soltanto le espressioni idealizzate; e in quanto si sviluppano in rapporti giuridici, politici e sociali, esse sono soltanto questa base ad una diversa potenza. E del resto la storia lo conferma. L'uguaglianza e la libertà in questa estensione sono l'esatto contrario dell'uguaglianza e la libertà antiche, le quali appunto non avevano come base il valore di scambio sviluppato, ma anzi crollano con lo sviluppo di quest'ultimo. Uguaglianza e libertà presuppongono rapporti di produzione non ancora realizzati nel mondo antico, e nemmeno nel Medioevo. Base del primo è il lavoro coercitivo diretto; la comunità poggia su questa base che è un fondamento realmente esistente. Base del secondo è il lavoro stesso come privilegio, come lavoro ancora nella sua particolarizzazione, e non come lavoro generale che produce valori di scambio. Cioè il lavoro non è né il lavoro coercitivo, né, come nel secondo caso, esso ha luogo con riguardo ad una struttura comunitaria intesa come qualcosa di superiore (corporazioni).

È esatto dunque dire che [il rapporto degli] individui che scambiano, dal lato dei motivi, di quelli cioè naturali che esulano dal processo economico, poggia anche su di una certa costrizione; ma questa costrizione è, per un verso, soltanto l'indifferenza dell'altro per il mio bisogno in quanto tale, per la mia individualità naturale, e dunque la sua uguaglianza con me e la sua libertà, la quale però è altresì il presupposto della mia; per l'altro verso, finché io sono determinato, forzato dai miei bisogni, è soltanto la mia natura, che è un insieme di bisogni e di impulsi, a farmi violenza, e non qualcosa di estraneo (o il mio interesse posto in forma generale, riflessa). Ma è anche questo appunto il lato attraverso cui io costringo l'altro spingendolo nel sistema dello scambio.

Perciò nel diritto romano il servus è esattamente definito come colui che non può acquistare per sé mediante lo scambio (vedi Institutiones). E perciò è altrettanto chiaro che questo diritto, per quanto corrisponda ad una condizione sociale nella quale lo scambio non era affatto sviluppato, tuttavia, essendo stato elaborato in determinate sfere, potè sviluppare le definizioni di persona giuridica, e cioè appunto di individuo dello scambio, e anticipare così (nelle determinazioni fondamentali) il diritto per la società industriale, ma soprattutto dovette esser fatto valere, di fronte al Medioevo, come il diritto della nascente società borghese. Tuttavia il suo sviluppo stesso coincide anche pienamente con la dissoluzione della comunità romana.

Poiché soltanto il denaro è la realizzazione del valore di scambio, e il sistema dei valori di scambio si è realizzato soltanto in presenza di uno sviluppato sistema monetario o viceversa, il sistema monetario può essere in effetti soltanto la realizzazione di questo sistema della libertà e dell'uguaglianza. Solo il denaro come misura dà all'equivalente la sua espressione determinata, e solo esso lo rende equivalente anche formalmente. È ben vero che nella circolazione viene in luce un'ulteriore differenza formale: entrambi gli individui che scambiano si presentano nelle differenti determinazioni di compratore e venditore; il valore di scambio si presenta una volta come valore di scambio generale nella forma del denaro, e poi come valore di scambio particolare nella merce naturale, che ha poi un prezzo; ma anzitutto queste determinazioni mutano; la circolazione stessa non dà luogo ad una posizione di disuguaglianza, bensì soltanto ad un'equiparazione, ad un superamento della differenza che è puramente negata. La disuguaglianza è soltanto una disuguaglianza puramente formale.

Infine nel denaro stesso, come denaro circolante che si presenta ora in una mano ora nell'altra ed è indifferente a questo presentarsi, l'uguaglianza si pone addirittura materialmente. Ciascuno si presenta, rispetto all'altro, come possessore del denaro, egli stesso come denaro, finché si considera il processo dello scambio. Perciò l'indifferenza e l'equivalenza esistono espressamente in forma oggettiva. La particolare diversità naturale che era racchiusa nella merce è cancellata e viene continuamente cancellata nel corso della circolazione. Un lavoratore che acquista una merce di 3 scellini si presenta al venditore nella medesima funzione, nella medesima uguaglianza — nella forma di 3 scellini — del re che faccia lo stesso acquisto. Qualsiasi differenza tra loro è cancellata. Il venditore in quanto tale si presenta soltanto come possessore di una merce del prezzo di 3 scellini, sicché entrambi sono completamente uguali; solo che i 3 scellini esistono una volta in argento, un'altra sotto forma di zucchero ecc.

Nella terza forma del denaro poteva sembrare che intervenisse una diversa determinazione tra i soggetti del processo. Ma finché il denaro compare qui come materiale, come merce generale dei contratti, ogni differenza tra contraenti e contraenti è invece cancellata. In quanto esso diventa oggetto di accumulazione, sembra qui che il soggetto sottragga alla circolazione soltanto denaro, ossia la forma generale della ricchezza — nella misura in cui non le sottragga merci di ugual prezzo. Se dunque un individuo accumula e un altro no, nessuno lo fa a spese dell'altro. L'uno si gode la ricchezza reale, l'altro entra in possesso della forma generale della ricchezza. Se l'uno si impoverisce e l'altro si arricchisce, ciò è libera volontà loro, e non scaturisce affatto dal rapporto economico, dallo specifico rapporto economico in cui essi sono reciprocamente posti. Persino l'eredità e simili rapporti giuridici, che tanto contribuiscono a perpetuare le disuguaglianze iniziali, non apportano alcun pregiudizio a questa libertà e uguaglianza naturali.

Se la condizione originaria dell'individuo A non è in contraddizione con questo sistema, questa contraddizione non può essere certamente prodotta per il fatto che l'individuo B subentra al posto dell'individuo A, perpetuandolo. Si tratta piuttosto di una procrastinazione della validità della determinazione sociale oltre i limiti naturali della vita: di un consolidamento di essa contro gli effetti contingenti della natura la cui influenza in quanto tale significherebbe anzi la soppressione della libertà dell'individuo. Inoltre, poiché in tale rapporto l'individuo è soltanto l'individuazione del denaro, in quanto tale esso è allora immortale al pari del denaro, e la sua rappresentazione attraverso l'eredità costituisce piuttosto l'attuazione di tale determinazione.

Se non si dà risalto al significato storico di questo atteggiamento mentale, e lo si assume invece come confutazione dei più sviluppati rapporti economici nei quali gli individui si presentano non più come individui che scambiano ovvero come compratore e venditore, bensì in determinati rapporti reciproci, ossia non sono più posti tutti nella medesima determinazione — tanto vale allora sostenere che non esiste alcuna differenza, e tantomeno antitesi e contraddizione tra i corpi naturali perché essi, per esempio nella determinazione della gravità, sono tutti gravi e quindi uguali; o che sono uguali perché sono tutti tridimensionali. Il valore di scambio stesso viene qui altresì fissato nella sua determinazione semplice rispetto alle sue forme antitetiche più sviluppate. Viste nel decorso della scienza, queste determinazioni astratte si presentano appunto come le prime e le più povere; così come esse compaiono in parte anche storicamente; ciò che è più sviluppato è anche più tardo.

Nella totalità dell'attuale società borghese, questo ridurre a prezzi, la loro circolazione ecc. si presentano come il processo superficiale al fondo del quale invece si verificano ben altri processi nei quali questa apparente uguaglianza e libertà dell'individuo scompare. Da un lato si dimentica che il presupposto del valore di scambio quale base oggettiva dell'intero sistema di produzione implica già in sé fin dall'inizio la coercizione per l'individuo, che il suo prodotto immediato non è un prodotto per lui bensì lo diventa soltanto nel processo sociale ed è costretto ad assumere questa forma generale ma estrinseca; che l'individuo ha ormai un'esistenza soltanto come entità produttiva di valore di scambio, nel che è già implicita la negazione totale della sua esistenza naturale; che esso dunque è totalmente determinato dalla società; che ciò inoltre presuppone una divisione del lavoro ecc., nella quale l'individuo è già posto in rapporti del tutto differenti da quelli dei semplici individui che scambiano, ecc.; che quindi il presupposto non solo è un presupposto che non scaturisce né dalla volontà dell'individuo né dalla sua natura immediata, ma è un presupposto storico che pone l'individuo già come individuo determinato dalla società.

Dall'altro si dimentica che le forme superiori in cui [si realizza] lo scambio o i rapporti di produzione che si realizzano in esso non restano affatto fermi a questa semplice determinazione dove la più alta differenza cui si perviene è una differenza formale e perciò indifferente. Infine non si vede che già nella semplice determinazione del valor di scambio e del denaro è contenuta in forma latente l'antitesi tra lavoro salariato e capitale ecc. Tutta questa sapienza riesce dunque soltanto a rimaner ferma ai rapporti economici più semplici, i quali, presi autonomamente, sono pure astrazioni, mentre nella realtà sono mediati dalle più profonde antitesi e ne presentano soltanto un lato in cui la loro espressione è cancellata.

D'altra parte viene in luce l'inettitudine dei socialisti (soprattutto dei francesi, che pretendono di additare il socialismo come realizzazione delle idee della società borghese espresse dalla rivoluzione francese), i quali dimostrano che lo scambio, il valore di scambio ecc. sono originariamente (ossia nel tempo) o concettualmente (ossia nella loro forma adeguata) un sistema della libertà e uguaglianza di tutti, ma sono stati poi adulterati dal denaro, dal capitale ecc. O anche, che la storia ha finora operato continui tentativi falliti di realizzarli nella loro vera natura, e che ora essi, i socialisti come Proudhon per es. hanno scoperto il vero Giacobbe che fornirebbe la vera storia di questi rapporti al posto di quella falsa.

A costoro va risposto: che il valore di scambio o più precisamente il sistema del denaro è effettivamente il sistema dell'uguaglianza e della libertà, e che quegli elementi di disturbo che compaiono a contrastarle nello sviluppo più immediato del sistema sono disturbi immanenti al sistema stesso, e appunto la realizzazione dell' uguaglianza e della libertà, che si mostrano come disuguaglianza e illibertà. È desiderio tanto pio quanto sciocco che il valore di scambio non si sviluppi in capitale o che il lavoro che produce il valore di scambio non si sviluppi in lavoro salariato. Ciò che distingue questi signori dagli apologeti borghesi è da un lato la sensazione delle contraddizioni che il sistema racchiude; dall'altro l'utopismo di non capire la necessaria differenza tra configurazione reale e ideale della società borghese, e di volersi perciò assumere il compito superfluo di volerne realizzare di nuovo l'espressione ideale, ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa realtà.

L'insulsa dimostrazione poi, data contro questi socialisti da parte della decaduta economia contemporanea (classico rappresentante della quale, per quanto riguarda insulsaggine, affettazione di dialettica, boria di Biedermann, profluvio di melensi e autocompiaciuti luoghi comuni e totale incapacità di afferrare processi storici, può valere Frédéric Bastiat, giacché l'americano Carey fa per lo meno valere la determinatezza dei rapporti americani rispetto a quelli europei), la quale mostra che i rapporti economici esprimono dappertutto le medesime determinazioni semplici, e quindi dappertutto l'uguaglianza e la libertà dovute allo scambio puro e semplice dei valori di scambio si riducono ad una pura astrazione infantile. Per esempio, il rapporto tra capitale e interesse viene ridotto allo scambio di valori di scambio.

Dopo avere cioè accolto dalla semplice empiria che il valore di scambio esiste non solo in questa determinazione semplice, ma anche in quella essenzialmente diversa di capitale, il capitale viene di nuovo ridotto al semplice concetto del valore di scambio, e l'interesse, che pure esprime un determinato rapporto del capitale in quanto tale, viene anch'esso strappato dalla sua determinatezza ed equiparato al valore di scambio; si astrae dall'intero rapporto nella sua specifica determinatezza e si ritorna al rozzo rapporto dello scambio merce contro merce.

Nella misura in cui io astraggo da ciò che distingue un concreto dal suo astratto, esso è naturalmente l'astratto, e nient'affatto distinto da quello. Su questa base tutte le categorie economiche non sono che nomi sempre diversi di un rapporto sempre identico, sicché questa grossolana incapacità di cogliere le differenze reali finisce allora col rappresentare il puro common sense in quanto tale. Tirate le somme, le «armonie economiche» del signor Bastiat si riducono in fondo a questo: che esiste un unico rapporto economico che assume nomi diversi, o che una diversità esiste, ma è soltanto nominale. La riduzione non è neppure almeno formalmente tanto scientifica da ridurre tutto ad un reale rapporto economico lasciando cadere la differenza che costituisce lo sviluppo, ma anzi vien fatto cadere ora questo, ora quel lato per tirar fuori l'identità ora da questo, ora da quel lato.

Per esempio: il salario è un pagamento per un servizio che un individuo rende all'altro. (La forma economica in quanto tale, come già si è osservato, viene qui lasciata cadere). Il profitto è anch'esso un pagamento per un servizio che un individuo rende ad un altro. Dunque salario e profitto sono identici, sicché, chi chiama l'un pagamento salario e l'altro profitto, travisa le cose col linguaggio.

Ma vediamo ora le categorie: profitto e interesse. Nel profitto il pagamento del servizio è esposto ad alee; nell'interesse invece esso è fisso. Poiché dunque nel salario, relativamente parlando, il pagamento è esposto ad alee, mentre nel profitto, in antitesi al lavoro, è fisso, il rapporto tra interesse e profitto è identico a quello tra salario e profitto, il che, come abbiamo visto, costituisce lo scambio reciproco tra equivalenti 3. Gli avversari allora prendono alla lettera questa stupidaggine (derivante dal fatto che dai rapporti economici in cui l'antitesi è espressa essi retrocedono a quelli in cui essa è ancora soltanto allo stato latente) e fanno vedere che per esempio in capitale e interesse non c'è semplicemente scambio, in quanto non è che il capitale viene compensato da un equivalente, bensì il proprietario, dopo aver consumato 20 volte l'equivalente sotto forma di interessi, lo conserva pur sempre sotto forma di capitale e può di nuovo scambiare con 20 nuovi equivalenti. Di qui allora i fastidiosi dibattiti nei quali l'uno sostiene che non c'è alcuna differenza tra il valore di scambio sviluppato e quello non sviluppato, e gli altri invece sostengono che purtroppo c'è, ma che, se ci fosse giustizia, non dovrebbe esserci4.

Sezione Prima
PROCESSO DI PRODUZIONE DEL CAPITALE

[Capitale. Somma di valore. - Proprietà fondiaria e capitale. - Il capitale proviene dalla circolazione. Contenuto: il valore di scambio. - Capitale commerciale, capitale monetario e interesse monetario. - La circolazione presuppone un processo diverso. Movimento tra estremi presupposti]

Il denaro come capitale è una determinazione del denaro che oltrepassa la sua semplice determinazione di denaro. Può essere considerato una sua realizzazione superiore, così come si può dire che la scimmia si evolve nell'uomo. Allora però la forma inferiore è posta come soggetto predominante su quella superiore. Comunque il denaro come capitale è distinto dal denaro come denaro. Questa nuova determinazione va sviluppata. D'altra parte il capitale come denaro sembra essere la retrocessione del capitale ad una forma inferiore. Si tratta invece soltanto del medesimo che è posto in una particolarità che già preesiste ad esso sotto forma di non-capitale, e ne costituisce uno dei presupposti. Il denaro ritorna in tutti i rapporti successivi; ma allora esso funge non più da semplice denaro. Se, come è in questo caso, si tratta anzitutto di seguirlo finché ha raggiunto la sua totalità come mercato monetario, lo sviluppo ulteriore viene presupposto, e va introdotto quando se ne presenta l'occasione. Qui dunque affrontiamo la determinazione generale del capitale, prima di procedere alla sua particolarità di denaro.

Se io dico, come fa per es. Say5, che il capitale è una somma di valori, non dico altro che il capitale è = al valore di scambio. Ogni somma di valori è un valore di scambio, e ogni valore di scambio è una somma di valori. Io non posso giungere dal valore di scambio al capitale per semplice addizione. Nella semplice accumulazione di denaro, come abbiamo visto, non è ancora posto il rapporto del capitalizzare.

Soltanto nel cosìddetto commercio al dettaglio, nel traffico quotidiano della vita borghese che ha luogo direttamente tra produttori e consumatori, nel piccolo commercio, il cui scopo è da un lato lo scambio della merce col denaro e dall'altro lo scambio del denaro con la merce, al fine di soddisfare bisogni individuali — è soltanto in questo movimento che ha luogo alla superficie del mondo borghese, che il movimento dei valori di scambio, la loro circolazione, si verifica in maniera pura. Un operaio che compra un pezzo di pane e un milionario che compra il medesimo pezzo di pane figurano in questo atto soltanto come semplici compratori, così come il mercante figura di fronte ad essi soltanto come venditore. Tutte le altre determinazioni sono qui cancellate. Il contenuto dei loro acquisti, così come il loro ambito, appaiono completamente indifferenti rispetto a questa determinazione formale.

Se nella teoria il concetto di valore precede quello di capitale, ma d'altra parte per il suo sviluppo puro presuppone a sua volta un modo di produzione fondato sul capitale, lo stesso si verifica nella prassi. È per questo anche che gli economisti considerano il capitale necessariamente ora come creatore dei valori, come fonte di essi, e poi d'altra parte presuppongono i valori per la formazione del capitale e rappresentano quest'ultimo soltanto come una somma di valori in una determinata funzione.

L'esistenza del valore nella sua purezza e generalità presuppone un modo di produzione in cui il singolo prodotto ha cessato di essere tale per i produttori in generale e ancor più per il singolo lavoratore, e non è nulla se non si realizza attraverso la circolazione. Per chi crea una parte infinitesimale di un braccio di cotone, il fatto che essa sia un valore, un valore di scambio, non costituisce affatto una determinazione formale. Se egli non avesse creato un valore di scambio, denaro, non avrebbe creato nulla. Questa stessa determinazione di valore ha dunque come suo presupposto un determinato livello storico del modo sociale di produzione, ed essa stessa è un rapporto dato insieme con quest'ultimo, e quindi un rapporto storico.

D'altra parte singoli momenti di questa determinazione di valore si sviluppano in precedenti livelli del processo di produzione storico della società e figurano come suo risultato.

Nell'ambito del sistema della società borghese, dunque, al valore segue immediatamente il capitale. Storicamente si riscontrano altri sistemi, i quali costituiscono la base materiale dello sviluppo incompleto dei valori. E siccome in tali sistemi il valore di scambio ha un ruolo soltanto collaterale rispetto al valore d'uso, la sua base reale non è il capitale, bensì il rapporto di proprietà fondiaria. La moderna proprietà fondiaria invece è assolutamente impensabile, perché non può esistere, senza il presupposto del capitale, e di fatto storicamente essa si presenta come una forma generata dal capitale, come una forma adeguatamente posta della precedente figura storica della proprietà fondiaria. È proprio nello sviluppo della proprietà fondiaria dunque che è possibile studiare la graduale affermazione e formazione del capitale, motivo per cui Ricardo, l'economista del mondo moderno, per fissare nella loro forma specifica i rapporti di capitale, lavoro salariato e rendita fondiaria, con grande senso storico li ha considerati entro i termini della proprietà fondiaria.

Il rapporto del capitalista industriale col proprietario fondiario si presenta come un rapporto esterno alla proprietà fondiaria. Ma in quanto rapporto del moderno farmer col rentier fondiario [Grundrentner], esso si presenta come rapporto immanente della proprietà fondiaria stessa, a differenza dell'altro, che esiste ormai soltanto nel suo rapporto col capitale. La storia della proprietà fondiaria, che mostrerebbe la graduale trasformazione del landlord feudale in rentier fondiario, del fittavolo vitalizio legato al fondo per diritto ereditario, semitributario e spesso non libero, nel moderno farmer, e del servo della gleba e contadino feudale, vincolato al fondo, in salariato agricolo giornaliero, sarebbe in realtà la storia della formazione del capitale moderno e includerebbe in sé il rapporto col capitale urbano, col commercio ecc. Ma qui noi abbiamo a che fare con la società borghese matura, che si muove sulla sua base autonoma.

Il capitale proviene anzitutto dalla circolazione, e cioè dal denaro quale suo punto di partenza. Abbiamo visto che il denaro che entra in circolazione e nello stesso tempo ne esce per ritornare in se stesso è l'ultima istanza, nella quale il denaro si toglie. È ad un tempo il primo concetto del capitale e la sua prima forma fenomenica. Il denaro si è negato dissolvendosi semplicemente nella circolazione; ma si è anche negato contrapponendosi ad essa come elemento autonomo. Questa duplice negazione, presa insieme, nelle sue positive determinazioni, contiene i primi elementi del capitale.

Il denaro è la prima forma in cui compare il capitale come tale. D - M - M - D; il fatto che il denaro si scambia con la merce e la merce col denaro, questo movimento per cui si compra per vendere, il quale definisce formalmente il commercio, il capita le come capitale commerciale, tutto ciò si trova nelle più primitive condizioni dello sviluppo economico; è il primo movimento, in cui il valore di scambio come tale costituisce il contenuto, è non solo forma, ma suo proprio contenuto. Il movimento può verificarsi all'interno di popoli e tra popoli per la cui produzione il valore di scambio non è ancora diventato un presupposto. Il movimento riguarda soltanto il surplus della loro produzione destinata all'uso immediato e si sviluppa soltanto ai suoi margini.

Come gli ebrei nell'antica società polacca o in generale nella società medievale, così interi popoli mercantili — com'è accaduto nell'antichità e successivamente con i lombardi — possono assumere questo ruolo tra popoli il cui modo di produzione non è stato ancora condizionato dal valore di scambio come presupposto fondamentale.

Il capitale commerciale è soltanto capitale circolante, e il capitale circolante è la sua prima forma6, nella quale esso non è ancora diventato la base della produzione. Una forma ulteriormente sviluppata è il capitale monetario e l'interesse monetario, l'usura, la cui comparsa autonoma appartiene anch'essa ad uno stadio primitivo. Infine la forma M - D - D - M, nella quale il denaro e la circolazione in generale si presentano come semplici mezzi per la merce circolante, la quale a sua volta esce dalla circolazione e soddisfa direttamente il bisogno, è essa stessa il presupposto di quella primitiva comparsa del capitale commerciale. I presupposti appaiono ripartiti tra i diversi popoli, ovvero nell'ambito della società il capitale commerciale come tale appare condizionato soltanto da questa circolazione diretta al puro consumo. D'altra parte la merce circolante, la merce che si realizza soltanto assumendo la forma di un'altra, che esce dalla circolazione e serve ai bisogni immediati, è anch'essa una prima forma del capitale, il quale è essenzialmente capitale di merci.

D'altra parte è altrettanto chiaro che il semplice movimento dei valori di scambio quale esiste nella pura circolazione non può mai realizzare un capitale. Esso può condurre alla sottrazione e all'accumulazione del denaro, ma non appena il denaro rientra in circolazione, esso si risolve in una serie di processi di scambio con merci che vengono consumate, e quindi va perduto non appena si è esaurita la sua capacità di acquisto. Allo stesso modo la merce, che si è scambiata mediante il denaro con una merce, esce dalla circolazione per essere consumata, annientata. Se invece essa, nel denaro, viene resa autonoma di fronte alla circolazione, allora rappresenta soltanto la forma generale inconsistente della ricchezza.

Avendosi uno scambio reciproco di equivalenti, la forma della ricchezza fissata come denaro scompare non appena esso viene scambiato con la merce, e il valore d'uso presente nella merce scompare non appena viene scambiato col denaro. Attraverso il semplice atto dello scambio ciascun elemento può soltanto perdersi nella sua determinazione di fronte all'altro, non appena si realizza in esso. Nessuno può mantenersi nella sua determinazione mentre trapassa nell'altra. Contro i sofismi degli economisti borghesi che cercano di mascherare il capitale tentando di ridurlo al puro scambio, è stata perciò avanzata viceversa l'esigenza altrettanto sofistica, ma di fronte ad essi giustificata, di ridurre realmente il capitale al puro scambio, con la qual cosa esso scomparirebbe come forza e sarebbe negato sia nella forma di merce che in quella di denaro*. (* Come nel denaro il valore di scambio, ossia tutti i rapporti delle merci come valori di scambio, si presentano come cosa, lo stesso avviene nel capitale per tutte le determinazioni dell'attività creatrice dei valori di scambio, ossia del lavoro.)

La ripetizione del processo dai due punti, denaro o merce, non è posta nelle condizioni dello scambio stesso. L'atto può essere ripetuto soltanto fino alla fine, ossia finché si è scambiato per l'importo del valore di scambio. Esso non può riaccendersi di nuovo in se medesimo. La circolazione dunque non contiene in se stessa il principio del suo autorinnovamento. I momenti di quest'ultimo sono ad essa presupposti, non da essa posti. Le merci devono essere continuamente gettate in essa dall'esterno, come legna nel fuoco. Altrimenti essa si spegne nell'indifferenza. Si spegnerebbe nel denaro come risultato indifferente, il quale, non stando più in rapporto con le merci, con i prezzi, con la circolazione, avrebbe cessato di essere denaro e di esprimere un rapporto di produzione; di esso resterebbe soltanto la sua esistenza metallica, mentre quella economica sarebbe annientata.

La circolazione, che compare quindi come fatto immediato alla superficie della società borghese, è possibile soltanto in quanto viene costantemente mediata. Considerata in se stessa, essa è la mediazione di estremi presupposti. Ma non è essa a porre questi estremi. Sicché essa deve essere mediata non soltanto in ciascuno dei suoi momenti, ma come totalità, come processo totale stesso. Il suo essere immediato è perciò pura parvenza. Essa è il fenomeno di un processo che si svolge alle sue spalle. Essa è ora negata in ciascuno dei suoi momenti — come merce —- come denaro — e come relazione di entrambi, come semplice scambio e come circolazione di essi. Se all'origine l'atto della produzione sociale si è presentato come creazione di valori di scambio, e questa nel suo ulteriore sviluppo come circolazione — come movimento pienamente sviluppato dei valori di scambio tra di loro —, ora la circolazione stessa ritorna all'attività che crea o produce valori di scambio. Vi ritorna come al suo fondamento. Ciò che le è presupposto sono merci (nella forma sia particolare che generale del denaro), le quali costituiscono la realizzazione di un determinato tempo di lavoro e in quanto tali sono valori.

Il suo presupposto è dunque tanto la produzione di merci mediante lavoro, quanto la loro produzione come valori di scambio. Questo è il suo punto di partenza, e attraverso il suo movimento interno essa ritorna alla produzione creatrice di valori di scambio quale suo risultato. Siamo così ritornati al punto di partenza, alla produzione creatrice di valori di scambio, ma questa volta con la differenza che questa presuppone la circolazione come momento sviluppato e come processo perenne che pone la circolazione e da essa ritorna costantemente in sé per tornare a porla da capo.

Il movimento che pone il valore di scambio si presenta allora qui in una forma ben più complicata, in quanto esso non è più soltanto il movimento dei valori di scambio presupposti, o che li pone formalmente come prezzi, ma è nello stesso tempo il movimento che li crea, li produce come presupposti. La produzione stessa qui non esiste più prima dei suoi risultati, non è più presupposta ad essi, bensì appare nello stesso tempo come la produttrice stessa di questi risultati; non producendoli tuttavia, come accadeva nel primo stadio, come semplice via alla circolazione, ma presupponendo al tempo stesso la circolazione, la circolazione sviluppata nel suo processo. (La circolazione consiste in fondo soltanto nel processo formale onde il valore di scambio vien posto una volta nella determinazione della merce, un'altra in quella del denaro).

[Passaggio dalla circolazione alla produzione capitalistica - Capitale come lavoro oggettivato ecc. - Somma di valori per la produzione di valori]

Questo movimento si configura diversamente sia storicamente, come movimento che conduce al lavoro produttivo di valore, sia anche, d'altra parte, nell'ambito del sistema della produzione borghese stessa, ossia della produzione creatrice del valore di scambio. Anzitutto, accanto ai popoli semi- o completamente barbarici compaiono popoli che praticano il commercio; oppure, quelle stirpi la cui produzione è naturalmente diversa entrano in contatto e scambiano le loro eccedenze. Il primo caso costituisce la forma più classica. Soffermiamoci dunque su di esso.

Lo scambio delle eccedenze è un sistema di traffici che crea scambio e valore di scambio. Questo sistema di traffici però si limita soltanto allo scambio delle eccedenze e si svolge ai margini della produzione stessa. Ma se la comparsa dei mercanti che sollecitano lo scambio si ripete (sono soprattutto i lombardi, i normanni ecc. che si assumono questo ruolo rispetto a quasi tutti i popoli europei), e se si sviluppa un commercio continuativo, in cui il popolo produttore pratica ancora soltanto il cosiddetto commercio passivo in quanto la spinta all'attività creatrice di valore di scambio proviene dall'esterno e non dalla forma interna della sua produzione — se ciò accade, allora il surplus della produzione deve essere presente non accidentalmente e occasionalmente, ma costantemente e ripetutamente, cosicché la stessa produzione interna acquista una tendenza indirizzata alla circolazione, alla creazione di valori di scambio.

Ne deriva anzitutto un effetto più vasto dal punto di vista materiale. La sfera dei bisogni si allarga; lo scopo è la soddisfazione di nuovi bisogni, e perciò una maggiore regolarità e aumento della produzione. La stessa organizzazione della produzione interna viene già modificata ma non ancora investita dalla circolazione e dal valore di scambio, né in tutta la sua estensione né in tutta la sua profondità. È ciò che si chiama azione civilizzatrice del commercio estero. In che misura allora il movimento creatore di valore di scambio investe la totalità della produzione dipende in parte dall'intensità di questa azione esterna, in parte dal grado di sviluppo già raggiunto dagli elementi della produzione interna — divisione del lavoro ecc.

Nell'Inghilterra del XVI e degli inizi del XVII secolo per esempio, l'importazione di merci olandesi rese assolutamente decisivo per l'Inghilterra produrre un surplus di lana da scambiare. Per produrre allora più lana, si trasformò il terreno arativo in terreno da pascolo per le pecore, si abolì il sistema della piccola affittanza ecc., si procedette al clearing of estates. L'agricoltura perse allora il carattere di lavoro per il valore d'uso e per lo scambio delle sue eccedenze, ossia quel carattere che le è indifferente, se considerata nella sua strutturazione interna. L'agricoltura fu in certi punti addirittura puramente condizionata dalla circolazione, e trasformata in produzione creatrice di valori di scambio. Con ciò non solo si trasformò il modo di produzione, ma si dissolsero tutti i vecchi rapporti civili e produttivi, i rapporti economici che ad esso corrispondevano. In tal modo alla circolazione si veniva a presupporre una produzione che creava valori di scambio soltanto come eccedenza; ma così essa si rifaceva ad una produzione che ormai aveva luogo soltanto in rapporto alla circolazione, ad una produzione creatrice di valori di scambio come suo contenuto esclusivo.

D'altra parte nella produzione moderna, dove il valore di scambio e la circolazione sviluppata costituiscono un presupposto, da un lato i prezzi determinano la produzione, dall'altro la produzione determina i prezzi.

Quando si dice che il capitale è «lavoro (propriamente lavoro oggettivato) accumulato (realizzato), il quale serve da mezzo per un nuovo lavoro (produzione)»8, si considera semplicemente la materia del capitale, prescindendo dalla determinazione formale senza la quale esso non è capitale. Non si dice altro, se non che il capitale è uno strumento di produzione, giacché in senso lato ogni cosa, anche il puro oggetto fornito dalla natura, anche una pietra p. es., deve essere anzitutto appropriata mediante una qualsiasi attività prima di poter servire da strumento, da mezzo di produzione.

Su questa base il capitale sarebbe esistito in tutte le forme della società, e sarebbe qualcosa di assolutamente astorico. Ogni membro del corpo allora sarebbe un capitale, visto che ognuno di essi, per poter funzionare come organo, deve essere non solo sviluppato ma anche nutrito e riprodotto mediate un'attività, mediante un lavoro. Se è così, il braccio, e specialmente la mano, sono capitale. Capitale sarebbe soltanto un nuovo nome per una cosa vecchia quanto il genere umano, giacché ogni specie di lavoro, anche la meno sviluppata, come la caccia, la pesca ecc., presuppone che il prodotto del lavoro passato sia trasformato in mezzo per il lavoro immediato, vivo.

L'ulteriore determinazione contenuta nella precedente definizione, onde si astrae totalmente dal contenuto materiale dei prodotti e si considera il lavoro passato stesso come loro unico contenuto (materia), così come si astrae dal determinato e particolare scopo alla cui istituzione questo prodotto deve poi di nuovo servire come mezzo, e come scopo si pone anzi una produzione in generale — tutto ciò è parso una pura opera di astrazione, che è ugualmente vera in tutte le condizioni sociali e non fa che proseguire e formulare l'analisi più astrattamente (più generalmente) di quanto sia di solito accaduto. Una volta fatta astrazione dalla forma determinata del capitale, accentuandone soltanto il contenuto, per cui in tale veste esso diventa un momento necessario di ogni lavoro, nulla è più facile naturalmente che dimostrare che il capitale è una condizione necessaria di ogni produzione umana. La dimostrazione viene appunto condotta astraendo dalle specifiche determinazioni che lo rendono un momento di un particolare livello di sviluppo storico della produzione umana.

Il punto è che se ogni capitale è lavoro oggettivato che serve da mezzo per una nuova produzione, non ogni lavoro oggettivato che serve da mezzo per una nuova produzione è capitale. Il capitale viene concepito come cosa, non come rapporto.

Se d'altra parte si dice che il capitale è una somma di valori applicata alla produzione di valori, ciò vuol dire: il capitale è il valore di scambio che riproduce se stesso. Ma formalmente il valore di scambio si riproduce anche nella circolazione semplice. In questa definizione è bensì mantenuta la forma, per la quale il valore di scambio costituisce il punto di partenza, ma è lasciata cadere la relazione al contenuto (la quale nel capitale non è indifferente come nel semplice valore di scambio). Se si dice che il capitale è valore di scambio che produce un profitto, o per lo meno è adoperato con l'intenzione di produrre un profitto, allora il capitale è già presupposto alla sua definizione, giacché il profitto è un determinato rapporto del capitale con se stesso9. Il capitale non è un rapporto semplice, ma un processo, nei cui diversi momenti esso è sempre capitale. Questo processo va dunque sviluppato.

Nel concetto di lavoro accumulato c'è già qualcosa di surrettizio, giacché nella sua determinazione concettuale esso deve essere soltanto lavoro oggettivato, nel quale senza dubbio è accumulata una determinata quantità di lavoro. Ma il lavoro accumulato abbraccia già una quantità di oggetti nei quali il lavoro è realizzato10.

«All'inizio ognuno si accontentava, giacché lo scambio verteva solo su oggetti privi di valore per ogni individuo che scambiava: non si annetteva importanza che ad oggetti per loro privi di valore, e ciascuno era soddisfatto di ricevere un oggetto utile in cambio di un oggetto inutile. Ma non appena la divisione del lavoro fece di ognuno un mercante, e della società una società mercantile, ciascuno non volle cedere i suoi prodotti che in cambio del loro equivalente; fu necessario allora, per determinare questo equivalente, conoscere il valore di ciò che si riceveva» (Ganilh, 12, b)11.

Ciò significa, in altre parole, che lo scambio non si arrestò alla creazione formale di valori di scambio, bensì procedette necessariamente a subordinare la produzione stessa al valore di scambio.

1. - La circolazione e il valore di scambio da essa risultante sono il presupposto del capitale

Per sviluppare il concetto del capitale occorre prendere le mosse non dal lavoro ma dal valore, o meglio dal valore di scambio già sviluppato nel movimento della circolazione. È altrettanto impossibile passare direttamente dal lavoro al capitale, quanto lo è passare direttamente dalle diverse razze umane al banchiere o dalla natura alla macchina a vapore.

Noi abbiamo visto che nel denaro in quanto tale il valore di scambio ha già acquistato una forma autonoma, di fronte alla circolazione, la quale però, quando la si va a fissare, si rivela come una forma meramente negativa, evanescente o illusoria. Il denaro esiste soltanto in rapporto alla circolazione e come possibilità di entrarvi; ma esso perde tale determinazione non appena si realizza, e ricade nelle due precedenti determinazioni, di misura dei valori di scambio, e di mezzo di scambio. Non appena il denaro è posto come valore di scambio che non solo si rende autonomo di fronte alla circolazione, ma in essa si mantiene, allora esso non è più denaro — giacché questo come tale non va al di là della determinazione negativa — ma capitale.

Che il denaro sia la prima forma in cui il valore di scambio si avvia alla determinazione di capitale, e che quindi la prima forma fenomenica del capitale venga confusa col capitale stesso o considerata come sua unica forma adeguata, è un fatto storico che, lungi dal contraddire la nostra analisi, piuttosto la conferma. La prima determinazione del capitale è dunque questa: che il valore di scambio che risulta dalla circolazione e che perciò la presuppone, si mantiene in essa e attraverso essa; non si perde, entrandovi; il suo non è un movimento che porta alla sua scomparsa, ma anzi un movimento che porta alla sua reale posizione come valore di scambio, alla sua realizzazione come tale.

Non si può dire che nella circolazione semplice il valore di scambio si realizzi in quanto tale. Esso viene sempre realizzato soltanto nel momento del suo scomparire. Se la merce viene scambiata con la merce mediante il denaro, la sua determinazione di valore scompare nel momento in cui essa si realizza, ed esce fuori dal rapporto, diventa indifferente ad esso e ormai soltanto oggetto diretto del bisogno. Se il denaro viene scambiato con la merce, si pone addirittura la scomparsa della forma dello scambio in quanto mediazione puramente formale per impadronirsi del materiale naturale della merce. Se la merce viene scambiata con denaro, la forma del valore di scambio, il valore di scambio posto come tale, il denaro, persiste soltanto finché si mantiene al di fuori dello scambio, finché gli si sottrae, diventando dunque una realizzazione puramente illusoria, puramente ideale in questa forma in cui l'autonomia del valore di scambio esiste tangibilmente. Se infine il denaro viene scambiato col denaro — la quarta forma in cui può essere analizzata la circolazione, ma in fondo soltanto la terza espressa nella forma dello scambio —, allora non appare neanche più una differenza formale tra i distinti; si ha distinzione senza differenza; non solo scompare il valore di scambio, ma anche il movimento formale del suo scomparire.

In fondo queste quattro determinazioni formali della circolazione semplice sono riducibili a due, che naturalmente in sé coincidono; la differenza sta tutta su quale dei due si pone l'accento; quale dei due momenti cioè — denaro e merce — costituisce il punto di partenza. Diciamo scambio denaro-merce: vale a dire che il valore di scambio della merce scompare di fronte alla sua sostanza materiale; diciamo scambio merce-denaro: vale a dire che la sua sostanza scompare di fronte alla sua forma di valore di scambio. Nel primo caso viene cancellata la forma del valore di scambio, nel secondo la sua sostanza; in entrambi dunque la sua realizzazione è una realizzazione evanescente.

Soltanto nel capitale il valore di scambio è posto come valore di scambio, e ciò perché esso si mantiene nella circolazione, ossia né perde la sua sostanza, bensì si realizza perennemente in altre sostanze, in una totalità di esse; né perde la sua determinazione formale, bensì in ciascuna delle diverse sostanze conserva la sua identità con se stesso. Esso rimane dunque sempre denaro e sempre merce. È in ciascun momento l'uno e l'altro dei momenti che nella circolazione scompaiono l'uno nell'altro. Ma lo è solo in quanto esso stesso è un ciclo perennemente rinnovantesi di scambi. Anche in questo rapporto la sua circolazione è distinta da quella dei semplici valori di scambio in quanto tali. La circolazione semplice è in effetti circolazione soltanto dal punto di vista dell'osservatore, o solo in quanto è posta in sé, ma non come tale. Non è il medesimo valore di scambio — appunto perché la sua sostanza è una merce determinata — che diventa prima denaro e poi di nuovo merce; bensì sono valori di scambio sempre diversi, merci diverse, che appaiono di fronte al denaro.

La circolazione, il ciclo, consiste soltanto nella semplice ripetizione o alternanza della determinazione merce e della determinazione denaro, e non nel fatto che il punto di partenza reale è anche il punto di ritorno. È per tal motivo che, finché si considera la circolazione semplice in quanto tale, e soltanto il denaro è il momento persistente, essa è stata definita come pura circolazione del denaro.

«I valori capitali si perpetuano» (Say, 21)12. «Il capitale è un valore permanente» (non rientra ancora qui l'altro suo attributo «che si moltiplica»), «che non perisce mai; questo valore si stacca dalla merce che lo aveva creato; essa rimase, al modo di una qualità metafisica e non sostanziale, sempre in possesso del medesimo cultivateur» (qui indifferentemente nel senso di possessore, «per il quale assumeva diverse forme» (Sismondi, VI)13.

La perennità cui aspirava il denaro ponendosi negativamente contro la circolazione e sottraendosi ad essa, è raggiunta dal capitale in quanto esso si conserva appunto abbandonandosi alla circolazione. Il capitale come valore di scambio presupposto alla circolazione o che presuppone la circolazione e in essa si conserva è non soltanto in ciascun momento idealiter ciascuno dei due momenti contenuti nella circolazione semplice, bensì esso assume alternativamente la forma dell'uno e dell'altro, ma non più in modo da passare soltanto dall'uno all'altro come nella circolazione semplice, bensì in ciascuna delle determinazioni è nello stesso tempo relazione a quella opposta, ossia la implica in sé idealmente.

Il capitale diventa alternativamente merce e denaro; ma 1) esso è l'alternanza stessa di queste due determinazioni; 2) esso diventa merce; ma non questa o quella merce, bensì una totalità di merci. Esso non è indifferente alla sostanza, ma alla forma determinata; da questo lato si presenta come una costante metamorfosi di questa sostanza; sicché in quanto esso è posto come contenuto particolare del valore di scambio, questa particolarità stessa è una totalità di particolarità; per cui è indifferente non alla particolarità come tale, bensì alla singola o isolata particolarità. La identità, la forma dell'universalità che esso riceve, è quella di essere valore di scambio e come tale denaro. Perciò viene posto ancora come denaro, di fatto si scambia come merce contro denaro. Ma posto come denaro, ossia come questa antitetica forma dell'universalità del valore di scambio, esso è nello stesso tempo destinato a perdere non, come nella circolazione semplice, l'universalità, bensì la determinazione antitetica di essa, o di assumerla soltanto mentre scompare, ossia a scambiarsi di nuovo con la merce, ma come merce che esprime nella sua stessa particolarità l'universalità del valore di scambio e perciò muta costantemente la sua forma determinata.

Il capitale di cui parliamo è però ancora soltanto un nome. L'unica determinazione nella quale il capitale si distingue dal valore di scambio immediato e dal denaro è quella del valore di scambio che si conserva e si perpetua nella e attraverso la circolazione. Finora noi abbiamo considerato soltanto un lato, quello dell'autoconservazione nella o attraverso la circolazione. L'altro lato altrettanto importante è quello per cui il valore di scambio è presupposto, ma, né più come semplice valore di scambio che esiste come determinazione meramente ideale della merce prima che questa entri in circolazione, o piuttosto come determinazione soltanto presunta, giacché essa diventa valore di scambio solo scomparendo nella circolazione; né come valore di scambio che esiste come momento della circolazione, come denaro; esso esiste qui come denaro, come valore di scambio oggettivato, ma in modo tale che in esso è posto il rapporto dianzi descritto.

Ciò che distingue la seconda determinazione dalla prima è che esso 1) esiste nella forma dell'oggettività; 2) deriva dalla circolazione, e quindi la presuppone, ma nello stesso tempo prende le mosse da sé come presupposto di fronte ad essa.

Si tratta di due lati secondo cui si può esprimere il risultato della circolazione semplice:

il lato negativo semplice: le merci messe in circolazione hanno raggiunto il loro scopo; si sono scambiate reciprocamente; ciascuna diventa oggetto del bisogno e viene consumata. Con ciò la circolazione è al termine. Non rimane altro che il denaro come semplice residuo. Ma come tale esso ha cessato di essere denaro, perde la sua determinazione formale. Si disintegra nella sua materia, cenere inorganica che resta dell'intero processo.

Il lato negativo positivo: il denaro è negato non come valore di scambio oggettivato, per sé [stante] — che cioè non scompare meramente nella circolazione —; ciò che viene negato è bensì l'autonomia antitetica, l'universalità puramente astratta in cui esso si è irrigidito; ma

terzo: il valore di scambio in quanto presupposto e nello stesso tempo risultato della circolazione, siccome è presupposto come uscito fuori da essa, deve anche uscirne di nuovo. Se ciò accade soltanto in maniera formale, esso sarebbe di nuovo semplicemente denaro; se invece esso viene fuori come merce reale, come nella circolazione semplice, allora diventerebbe semplice oggetto del bisogno, come tale sarebbe consumato, e perderebbe altresì la sua determinazione formale. Affinché l'uscita sia reale esso deve ugualmente diventare oggetto del bisogno e come tale essere consumato, ma deve essere consumato dal lavoro e così riprodursi di nuovo.

In altri termini: il valore di scambio era originariamente, per il suo contenuto, una quantità oggettivata di lavoro o di tempo di lavoro; come tale esso procedeva, attraverso la circolazione, alla sua oggettivazione fino ad esistere come denaro, denaro tangibile. Esso ora deve porre di nuovo il punto di partenza della circolazione — il quale giaceva al di fuori di essa, le era presupposto, e per il quale essa stessa si presentava come un movimento che lo afferrava dall'esterno facendolo ruotare al suo interno —, e cioè il lavoro; ma ora non più come semplice equivalente o semplice oggettivazione del lavoro, bensì come valore di scambio oggettivato e reso autonomo, che si sottomette soltanto al lavoro, diventa suo materiale per rinnovarsi e ricominciare da sé la circolazione. Con ciò non si tratta nemmeno più di una semplice equiparazione, di una conferma della sua identità, come nella circolazione, ma di una moltiplicazione di se medesimo.

Il valore di scambio si pone come tale solo in quanto si valorizza, ossia moltiplica il suo valore. Il denaro (quando ritorna a sé dalla circolazione) ha perduto, come capitale, la sua rigidità, e da cosa tangibile è diventato un processo. Ma d'altra parte il lavoro ha modificato il suo rapporto con la sua oggettività: anch'esso è ritornato a sé. Ma il ritorno è di tale natura, che il lavoro oggettivato nel valore di scambio pone il lavoro vivo come mezzo della sua riproduzione, mentre originariamente il valore di scambio si presentava soltanto come un prodotto del lavoro.

2. - Il valore di scambio risultante dalla circolazione si presuppone ad essa, vi si conserva e moltiplica mediante il lavoro

1) Concetto generale di capitale. 2) Particolarità del capitale: capitale circolante, capitale fisso (capitale come mezzo di sussistenza, come materia prima, come strumento di lavoro). 3) Il capitale come denaro. - II. 1) Quantità del capitale. Accumulazione. 2) Il capitale misurato su se s tesso. Profitto. Interesse. Valore del capitale: ossia il capitale distinto da sé come interesse e profitto. 3) La circolazione dei capitali, a) Scambio del capitale col capitale. Scambio del capitale col reddito. Capitale e prezzi, ß) Concorrenza dei capitali. y) Concentrazione dei capitali. - III. Il capitale come credito. - IV. Il capitale come capitale azionario. - V. Il capitale come mercato monetario. - VI. Il capitale come fonte della ricchezza. Il capitalista.

Dopo il capitale si dovrebbe trattare della proprietà fondiaria. Dopo questa, del lavoro salariato. Presupposti tutti e tre, si dovrebbe trattare del movimento dei prezzi, quale è determinato dalla circolazione nella sua totalità interna. D'altra parte le tre classi intese come la produzione nelle sue tre premesse e forme fondamentali della circolazione. Poi lo Stato. (Stato e società borghese. - L'imposta o l'esistenza delle classi improduttive. Il debito pubblico. - La popolazione- - Lo Stato nella sua proiezione esterna: colonie. Commercio estero. Corso dei cambi. Denaro come moneta internazionale. - Infine il mercato mondiale. Egemonia della società borghese sullo Stato. Le crisi. Dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio. Reale porsi del lavoro individuale come lavoro sociale e viceversa«)]].

[Prodotto e capitale. Valore e capitale. Proudhon]

(Niente è più falso del modo in cui sia gli economisti, sia i socialisti considerano la società in rapporto alle condizioni economiche. Dice per es. Proudhon in polemica con Bastiat (XVI, 29)14: «La differenza tra capitale e prodotto, per la società, non esiste. Questa differenza è del tutto soggettiva, relativa agli individui». Dunque egli chiama soggettivo proprio ciò che è sociale; e l'astrazione soggettiva la chiama società. La differenza tra prodotto e capitale è appunto questa, che come capitale il prodotto esprime un rapporto determinato, relativo ad una forma storica della società. La cosiddetta considerazione dal punto di vista della società non significa altro che trascurare le differenze che appunto esprimono il rapporto sociale (rapporto della società borghese). La società non consiste di individui, bensì esprime la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l'uno rispetto all'altro. È come se uno dicesse: dal punto di vista della società non esistono schiavi e cittadini: sono entrambi uomini. In realtà, invece, uomini lo sono al di fuori della società. Essere schiavo ed essere cittadino sono determinazioni sociali, rapporti degli uomini A e B. L'uomo A in quanto tale non è schiavo. Schiavo lo è nella e per la società. Ciò che il signor Proudhon dice qui del capitale e del prodotto, significa in lui che dal punto di vista della società non esiste alcuna differenza tra capitalisti e operai — una differenza che appunto esiste solo dal punto di vista della società).

Tutta l'intenzione di Proudhon, nello scritto polemico contro Bastiat Gratuité du Crédit, non mira ad altro che a ridurre lo scambio tra capitale e lavoro al semplice scambio di merci intese come valori di scambio, ossia ai momenti della circolazione semplice; egli cioè astrae appunto dalla differenza specifica, che è il punto fondamentale di tutto. Egli dice: «Ogni prodotto diventa ad un certo punto capitale, perché tutto ciò che viene consumato ad un certo punto si consuma in maniera riproduttiva». Ciò è notevolmente falso, ma non importa 15. «Che cos'è che fa si che la nozione di prodotto si trasformi tutt'a un tratto in quella di capitale? È l'idea di valore. Ciò vuol dire che il prodotto, per diventare capitale, deve essere passato attraverso una valutazione autentica, essere stato comprato o venduto, il suo prezzo trattato e fissato per una sorta di convenzione legale. P. es. la pelle che esce dalla macelleria è il prodotto del macellaio. Questa pelle è comprata dal conciatore? Subito allora costui la porta o ne porta il valore al suo laboratorio. Attraverso il lavoro del conciatore, questo capitale ridiventa prodotto ecc.»16. Ogni capitale è qui «un valore fatto» 17. Il denaro è il «valore più perfetto»18, ossia il valore fatto alla massima potenza.

Ciò significa dunque: 1) il prodotto diventa capitale per il fatto che diventa valore. Oppure: il capitale non è altro che semplice valore. Tra di essi non esiste alcuna differenza. Perciò egli dice alternativamente una volta merce (la parte naturale di essa espressa come prodotto), un'altra volta valore, o anzi, poiché presuppone l'atto di compra*-vendita, prezzo. 2) Poiché il denaro appare come la più perfetta forma di valore, che è nella circolazione semplice, anche il denaro diventa il vero valore fatto).

[Capitale e lavoro. Valore di scambio e valore d'uso per il valore di scambio. - Denaro e suo valore d'uso (lavoro), in questo rapporto, come capitale. Automoltiplicazione del valore come suo unico movimento. - A proposito della frase: nessun capitalista impiega il suo capitale senza trarne un profitto. - Capitale come lavoro oggettivato dal punto di vista del contenuto materiale. Il lavoro vivo produttivo (che cioè conserva e aumenta il valore) come sua antitesi. - Lavoro produttivo e lavoro come prestazione. - Lavoro produttivo e improduttivo. A. Smith ecc. - Il ladro nel senso di Lauderdale et lavoro produttivo]

Il passaggio dal semplice valore di scambio e relativa circolazione al capitale può essere espresso anche così: Nella circolazione il valore di scambio si presenta in una duplice maniera: una volta come merce, un'altra come denaro. Quando è in una delle determinazioni, non è nell'altra. Ciò vale per ogni merce particolare. Ma la totalità della circolazione, considerata in sé, consiste in questo: che il medesimo valore di scambio, il valore di scambio in quanto soggetto, si pone una volta come merce, un'altra come denaro, ed è appunto il movimento del porsi in questa duplice determinazione e del mantenersi in ciascuna di esse come contrario dell'altra, cioè nella merce, come denaro, e nel denaro, come merce. Questa situazione, che pure in sé è presente nella circolazione semplice, non è tuttavia posta nella circolazione stessa. Il valore di scambio posto come unità di merce e di denaro è il capitale, e questo stesso porre si presenta come circolazione del capitale (la quale è però una spirale, una curva che si estende, e non un semplice circolo)19.

Analizziamo anzitutto le determinazioni semplici che sono contenute nel rapporto tra capitale e lavoro, in modo da trovare sia il nesso interno di queste determinazioni, sia i loro sviluppi ulteriori rispetto a quelle precedenti.

II primo presupposto è che da una parte c'è il capitale e dall'altra il lavoro, entrambi come figure autonome, l'una di fronte all'altra, e quindi anche estranee l'una rispetto all'altra. Il lavoro che si contrappone al capitale è lavoro estraneo, e il capitale che si contrappone al lavoro è capitale estraneo. Gli estremi, che si contrappongono, sono specificamente diversi. Nella prima creazione del valore di scambio semplice il lavoro era determinato in questo modo: che il prodotto non era immediato valore d'uso per l'operaio, non era suo diretto mezzo di sostentamento. Era questa la condizione generale della creazione di un valore di scambio e dello scambio stesso. Altrimenti l'operaio avrebbe creato soltanto un prodotto — un valore d'uso immediato per sé — ma non un valore di scambio. Questo valore di scambio tuttavia era materializzato in un prodotto, che come tale aveva un valore d'uso per altri e quindi era oggetto del loro bisogno.

Il valore d'uso che l'operaio ha da offrire di fronte al capitale, e che dunque ha da offrire in generale ad altri, non è invece materializzato in un prodotto, non esiste in generale al di fuori di lui, non esiste dunque realmente, ma soltanto in via possibile, ossia come sua capacità. Realtà esso lo diventa soltanto non appena viene sollecitato dal capitale e messo in movimento, giacché un'attività priva di oggetto non è nulla o è al massimo attività ideale, della quale qui non si tratta. Non appena riceve il movimento dal capitale, questo valore d'uso diventa attività determinata, attività produttiva dell'operaio; è la sua stessa vitalità, che è diretta ad uno scopo determinato e che perciò si estrinseca in una forma determinata.

Nel rapporto fra capitale e lavoro, valore di scambio e valore d'uso sono posti in rapporto reciproco, ossia l'una parte (il capitale) è anzitutto contrapposta all'altra come valore di scambio*, e l'altra (il lavoro) è contrapposta al capitale come valore d'uso. (*Il valore non va inteso come unità di valore d'uso e di valore di scambio? In sé e per sé il valore come tale non è l'universale rispetto al valore d'uso e al valore di scambio come sue forme particolari? Ha un significato, questo, nell'economia? Il valore d'uso è presupposto anche nello scambio semplice o puro scambio. Ma qui, dove lo scambio ha luogo proprio a causa del semplice uso scambievole della merce, il valore d'uso, ossia il contenuto, la particolarità naturale della merce in quanto tale, non esiste affatto come determinazione economica formale. La sua determinazione formale è piuttosto il valore di scambio. Il contenuto, al di fuori dì questa forma, è indifferente; non è contenuto del rapporto in quanto rapporto sociale. Ma questo contenuto come tale non si sviluppa in un sistema di bisogni e di produzione? Il valore d'uso in quanto tale non entra nella forma stessa, come elemento determinante della forma stessa, p. es. nel rapporto tra capitale e lavoro? nelle varie forme di lavoro? — agricoltura, industria ecc. — nella rendita fondiaria? nelle influenze stagionali sui prezzi dei prodotti grezzi? ecc. Se solo il valore di scambio in quanto tale giocasse un ruolo nell'economia, come potrebbero intervenire in seguito questi elementi che si riferiscono puramente al valore d'uso, come accade subito, p. es., nel capitale come materia prima ecc. Da dove fiocca giù, di colpo, la costituzione fisica della terra ecc. di cui parla Ricardo? (Cfr. D. Ricardo, On the Principles ecc., cit., pp. 55-75.) II rapporto sta nel termine merce (il tedesco Güter [beni, derrate] forse vale come denrée [derrata] a differenza di marchandise [merce]?). Il prezzo figura come mera determinazione formale di essa. Né contraddice a ciò il fatto che il valore di scambio è la determinazione prevalente. Ma naturalmente l'uso non cessa per il fatto che è determinato soltanto mediante lo scambio; anche se naturalmente da questo esso riceve la sua direzione. Comunque nell'analisi del valore occorre attentamente indagare questo punto e non, come fa Ricardo, astrarre puramente da esso, né, come fa l'insulso Say, renderlo importante premettendo semplicemente la parola «utilità» (Cfr. J.-B. Say, Cours complet ecc., cit., t. I, pp. 80-83, e Traité ecc., cit., t. I, pp. 2-7.) Con l'evolversi delle singole sezioni apparirà e dovrà apparire in che misura il valore d'uso rimane non solamente come contenuto presupposto esterno all'economia e alle sue determinazioni formali, e in che misura esso vi entra a far parte. Per le sciocchezze di Proudhon a tal proposito vedi la «Misère». Questo è sicuro: che nello scambio noi abbiamo (nella circolazione) la merce — il valore d'uso — come prezzo; che al di fuori del suo prezzo essa sia merce, oggetto del bisogno, si capisce da sé. Entrambe le determinazioni non entrano affatto in rapporto reciproco, fuorché nella misura in cui il valore d'uso particolare si presenta come limite naturale della merce e perciò pone il denaro, ossia il suo valore di scambio, al tempo stesso come esistenza in denaro esterna alla merce stessa, ma soltanto formalmente. Il denaro stesso è merce, ha come sostanza un valore d'uso.)

Nella circolazione semplice ognuna delle merci può essere considerata alternativamente nell'una o nell'altra determinazione. In entrambi i casi, se essa vale come merce in quanto tale, esce dalla circolazione come oggetto del bisogno e cade del tutto al di fuori del rapporto economico. Se si fissa la merce come valore di scambio — denaro — essa finisce ugualmente per non avere una forma, ma cade all'interno del rapporto economico. In ogni caso le merci hanno interesse soltanto finché sono valori di scambio (circolazione semplice), finché hanno valore di scambio; d'altra parte il loro valore di scambio ha soltanto un interesse transitorio in quanto esso sopprime l'unilateralità — ossia il fatto di essere relativo soltanto all'individuo determinato e di avere quindi per lui una utilità soltanto immediata, di essere cioè un valore d'uso —, ma non questo valore d'uso stesso, che anzi pone e media come valore d'uso per altri ecc.

Ma finché si fissa il valore di scambio come tale nel denaro, il valore di uso gli sta di fronte ancora soltanto come caos astratto; e appunto attraverso la separazione dalla sua sostanza esso coincide in se stesso e però spinge fuori dalla sfera del valore di scambio semplice, il cui movimento massimo è la circolazione semplice e la cui massima compiutezza è il denaro. Ma nell'ambito della sfera stessa la differenza esiste in effetti soltanto come una diversità superficiale, come una distinzione puramente formale. Il denaro stesso nella sua massima fissità è a sua volta merce e come tale si distingue dalle altre soltanto per il fatto che esso esprime il valore di scambio più compiutamente, ma appunto per questo, in quanto moneta perde il suo valore di scambio come determinazione immanente e diventa mero valore d'uso, seppure valore d'uso per la prezzificazione ecc. delle merci. Le determinazioni coincidono ancora immediatamente e altresì immediatamente divergono. Ove il loro rapporto reciproco di autonomia è positivo, come nella merce, che diventa oggetto del consumo, questa cessa di essere momento del processo economico; ove è negativo, come nel denaro, essa diventa irrazionalità; l'irrazionalità naturalmente come un momento dell'economia e come elemento che determina la vita pratica dei popoli.

Noi abbiamo visto precedentemente come non si possa dire che il valore di scambio si realizza nella circolazione semplice. Ciò accade tuttavia perché il valore d'uso non gli si contrappone come tale, ossia come un valore d'uso determinato dallo stesso valore di scambio; mentre viceversa il valore d'uso come tale non è in rapporto al valore di scambio, bensì diventa valore di scambio determinato per il fatto che la natura comune dei valori d'uso — di essere cioè tempo di lavoro — è imposta loro come criterio estrinseco. La loro unità è ancora immediatamente differenza, e la loro differenza ancora immediatamente unità. Che il valore d'uso divenga tale soltanto mediante il valore di scambio, e che il valore di scambio si medi attraverso il valore d'uso, deve essere ora posto. Nella circolazione del denaro noi avevamo soltanto le diverse forme del valore di scambio (prezzo delle merci — denaro) o soltanto diversi valori d'uso (merce — M), per i quali il denaro, il valore di scambio, è una mediazione puramente evanescente. Un reale rapporto tra valore di scambio e valore d'uso non aveva luogo.

La merce in quanto tale — la sua particolarità — è perciò anche un contenuto indifferente, meramente accidentale, rappresentato en général, il quale cade al di fuori del rapporto economico formale, o il rapporto economico formale è una forma meramente superficiale, una determinazione formale al di fuori della cui sfera sta la sostanza reale e che con questa in quanto tale non ha alcun rapporto; per cui se si va a fissare questa determinazione formale in quanto tale nel denaro, ecco che essa ci si trasforma tra le mani in un prodotto naturale indifferente, un metallo, nel quale persino l'ultimo rapporto, sia esso con l'individuo o con la società degli individui, è cancellato. Il metallo in quanto tale naturalmente non esprime affatto rapporti sociali; persino la forma della moneta è in esso cancellata — l'ultimo segno di vita del suo significato sociale.

Il valore di scambio che si contrappone allo stesso valore d'uso posto come un lato del rapporto, gli si contrappone come denaro, ma il denaro che così gli si contrappone è denaro non più nella sua determinazione di denaro in quanto tale, ma nella determinazione di capitale. Il valore d'uso o merce che si contrappone al capitale o valore di scambio posto, non è più quella merce che appariva contrapposta al denaro, la cui determinatezza formale era altrettanto indifferente del suo contenuto, e che si presentava come una sostanza qualsiasi in generale. In primo luogo essa è un valore d'uso per il capitale, vale a dire quindi un oggetto, scambiandosi con il quale il capitale non perde la sua determinazione di valore, come la perde il denaro quando si scambia con una merce determinata. L'unica utilità che un oggetto può avere in generale per il capitale, può essere soltanto quella di conservarlo o di moltiplicarlo.

Noi abbiamo già visto, analizzando il denaro, come il valore diventato autonomo come denaro — o la forma generale della ricchezza — non sia capace di alcun altro movimento che non sia quello quantitativo del moltiplicarsi. Dal punto di vista concettuale, esso è l'insieme di tutti i valori d'uso; ma in quanto è pur sempre una determinata quantità di denaro (qui: capitale) il suo limite quantitativo è in contraddizione con la sua qualità. È nella sua natura, perciò, tendere ad oltrepassare continuamente il suo limite intrinseco. (Come ricchezza godibile, p. es. nell'età imperiale romana, esso si presenta perciò come sperpero illimitato che cerca di sollevare anche il godimento alla presunta illimitatezza, divorando insalate di perle ecc.).

Per il valore che in sé si mantiene come valore, moltiplicazione e autoconservazione coincidono, ed esso si conserva già per il fatto che tende continuamente ad oltrepassare il suo limite quantitativo che contraddice alla sua determinazione formale, alla sua intima universalità. L'arricchirsi diventa così fine a se stesso. L'attività finalistica del capitale può essere soltanto quella dell'arricchimento, ossia dell'incremento, della moltiplicazione di se stesso. Una determinata somma di denaro — e il denaro, per il suo possessore, esiste sempre solo in una determinata quantità, sempre come determinata somma di denaro (ciò va sviluppato già nel capitolo del denaro) — può essere pienamente sufficiente ad un determinato consumo, in cui appunto cessa di essere denaro. Ma come rappresentante della ricchezza generale non può esserlo. Come somma quantitativamente determinata, limitata, esso è anche rappresentante soltanto limitato della ricchezza generale o rappresentante di una ricchezza limitata, la quale ha l'esatta portata del suo valore di scambio, è esattamente commisurata ad esso. Esso non ha affatto dunque la capacità — che dovrebbe avere secondo il suo concetto generale — di acquistare qualsiasi godimento, qualsiasi merce, la totalità delle sostanze materiali che costituiscono ricchezza; non è un précis de toutes les choses ecc.

Fissato come ricchezza, come forma generale della ricchezza, come valore che vale come tale, esso è allora la tendenza costante ad andare continuamente al di là del suo limite quantitativo: un processo infinito. La sua vitalità interna consiste esclusivamente in questo; esso si conserva come valore di scambio distinto dal valore d'uso, valido per sé, solo in quanto si moltiplica continuamente. (Per i signori economisti diventa maledettamente difficile il passaggio teorico dall'autoconservazione del valore nel capitale, alla sua moltiplicazione; cioè alla sua moltiplicazione come determinazione sostanziale e non soltanto come accidente o come mero risultato. Vedi per es. come Storch introduce questa determinazione sostanziale mediante la locuzione «in senso stretto». Naturalmente gli economisti tentano di introdurla come elemento essenziale nel rapporto del capitale, ma quand'anche non accade nella forma brutale per cui il capitale viene definito come ciò che dà un profitto — dove il moltiplicarsi del capitale stesso è già posto come particolare forma economica in termini di profitto —, accade soltanto di soppiatto e in maniera assai debole, come mostreremo più avanti attraverso una breve rassegna di tutto ciò che gli economisti hanno addotto sulla categoria di capitale. La chiacchiera che nessuno impiega il suo capitale senza ricavarne un profitto, rinvia o alla sciocchezza che i bravi capitalisti rimangono capitalisti anche senza impiegare il loro capitale, o all'affermazione molto ordinaria che nel concetto di capitale è implicita la nozione di impiego profittevole. Bene. Ma ciò andrebbe appunto dimostrato). — Il denaro come somma di denaro è misurato dalla sua quantità. Questo esser misurato contraddice alla sua determinazione, la quale deve tendere allo smisurato. Tutto ciò che qui si dice del denaro vale ancor più per il capitale, nel quale soltanto, propriamente, il denaro si sviluppa nella sua compiuta determinazione. Come valore d'uso, che ha cioè un'utilità, al capitale come tale può contrapporsi soltanto ciò che lo accresce, che lo moltiplica, e che quindi è elemento di conservazione del capitale.

In secondo luogo: il capitale, per il suo concetto, è denaro, ma denaro che esiste non più nella forma semplice di oro e argento, e nemmeno in quella di denaro opposto alla circolazione, bensì nella forma di tutte le sostanze — nella forma di merci. Esso pertanto, come capitale, non è in opposizione al valore d'uso, bensì esiste al di fuori del denaro appunto esclusivamente sotto forma di valori d'uso. Queste sue stesse sostanze sono ora sostanze fugaci, che non avrebbero mai un valore di scambio se non avessero un valore d'uso, ma che come valori d'uso perdono il loro valore, e vengono dissolte dal semplice ricambio materiale della natura se non vengono usate realmente; e che, quando vengono usate realmente, è proprio il momento in cui scompaiono. Da questo lato l'opposto del capitale non può essere di nuovo una merce particolare; giacché come tale questa non costituisce alcuna opposizione al capitale, essendo la sostanza stessa del capitale un valore d'uso; esso non è questa o quella merce, bensì ogni merce.

La sostanza comune di tutte le merci, la loro sostanza cioè non di nuovo come loro contenuto materiale e quindi come determinazione fisica, ma la sostanza comune di esse in quanto merci e perciò valori di scambio, è costituita dal fatto di essere lavoro oggettivato*. (* Ma di questa sostanza economica (sociale) dei valori d'uso, ossia della loro determinazione economica in quanto contenuto distinto dalla loro forma (ma questa forma [è] valore, perché [è] una determinata quantità di questo lavoro) si può parlare soltanto se se ne cerca l'antitesi al capitale. Per quanto concerne le loro diversità naturali, nessuna di esse esclude che il capitale ne assuma la veste e se ne faccia suo corpo, nella misura in cui nessuna esclude la determinazione del valore di scambio e della merce.) L'unica cosa differente dal lavoro oggettivato è il lavoro non oggettivato ma ancora da oggettivare, il lavoro come soggettività. Oppure: il lavoro oggettivato, ossia spazialmente presente, può essere anche contrapposto, come lavoro passato, al lavoro temporalmente presente. Nella misura in cui deve essere presente temporalmente, come lavoro vivo, esso può esserlo soltanto come soggetto vivo, in cui esiste come capacità, come possibilità; perciò, come operaio.

L'unico valore d'uso perciò che può costituire opposizione al capitale è il lavoro (o meglio il lavoro creatore di valore, ossia produttivo. Questa ulteriore osservazione è anticipata e deve essere sviluppata; e lo facciamo subito. Il lavoro come mera prestazione per la soddisfazione di bisogni immediati non ha nulla a che fare col capitale, perché questo non lo cerca. Se un capitalista si fa tagliare della legna per arrostire il suo montone, il rapporto non solo del taglialegna con lui, ma anche di lui col taglialegna è un rapporto di scambio semplice. Il taglialegna gli presta il suo servizio, ossia un valore d'uso che non accresce il capitale ma nel quale anzi questo si consuma, e il capitalista gli dà in cambio un'altra merce sotto forma di denaro. Così accade con tutte le prestazioni che i lavoratori scambiano direttamente col denaro di altre persone e che vengono da queste consumate. Si tratta allora di consumo del reddito, che come tale rientra sempre nella circolazione semplice, non in quella del capitale. Poiché uno dei contraenti non si contrappone all'altro come capitalista, questa prestazione in veste di servitore non può rientrare sotto la categoria di lavoro produttivo. Dalla prostituta al papa, di tali canaglie ce n'è una massa.

Ma in questa massa rientra anche il proletariato straccione onesto e «lavoratore»; per esempio tutta quella banda di sbirri ecc. che ti offrono i loro servigi nelle città portuali ecc. Il rappresentante del denaro chiede il servizio soltanto in ragione del suo valore d'uso, che per lui svanisce immediatamente; lo sbirro invece chiede il denaro, e poiché a colui che offre il denaro interessa la merce, mentre a colui che offre la merce interessa il denaro, essi rappresentano soltanto i due lati reciproci della circolazione semplice; è poi evidente che lo sbirro, a cui interessa il denaro, ossia immediatamente la forma generale della ricchezza, cerchi di arricchirsi alle spalle del suo improvvisato amico, il che tanto più umilia costui, che è un freddo calcolatore, in quanto questa prestazione di cui ha momentaneamente bisogno è imputabile soltanto alla sua umana debolezza, e non è invece richiesta da lui in quanto capitalista.

A. Smith aveva sostanzialmente ragione col suo lavoro produttivo e improduttivo, ragione dal punto di vista dell'economia borghese. A ciò gli altri economisti ribattono adducendo o un sacco di superficialità (valga per tutti Storch, e in maniera più pidocchiosa Senior), e cioè che ogni azione muove comunque qualcosa, ed è dunque una trasformazione del prodotto nel suo senso naturale ed economico — sicché in tal modo anche un furfante è un lavoratore produttivo in quanto mediatamente produce libri di diritto penale; (per lo meno questo ragionamento è altrettanto giusto che chiamare lavoratore produttivo un giudice perché preserva dal furto)24. Oppure gli economisti moderni si sono fatti tal sicofanti del borghese da volergli dare ad intendere che è lavoro produttivo se uno gli cerca i pidocchi in testa o gli strofina il codino, perché puta caso quest'ultima azione gli terrà più ordinata la testona — testa di legno — il giorno dopo quando starà al bancone del suo ufficio.

È perciò giustissimo — ma nello stesso tempo anche caratteristico — che gli economisti nella loro coerenza, giudichino i lavoratori di oggetti di lusso, per es., lavoratori produttivi, anche se quelli che di tali oggetti fanno consumo vengono a chiare lettere castigati come spendaccioni improduttivi. Il fatto è che questi lavoratori in realtà sono produttivi in quanto incrementano il capitale del loro padrone, e improduttivi riguardo al risultato materiale del loro lavoro. In effetti questo lavoratore «produttivo» è interessato alla merda che è costretto a produrre tanto quanto lo è il capitalista che lo fa lavorare, a cui di quei fronzoli non gliene importa un fico. Ma allora, ad esser precisi, si scopre che in effetti la vera definizione di un lavoratore produttivo è questa: un uomo che ha bisogno e chiede esattamente non più di quanto è necessario a metterlo in grado di apportare al suo capitalista il massimo vantaggio possibile. Tutto ciò è un non senso. Divagazioni. Ma bisognerà ritornare più attentamente su ciò che è produttivo, e ciò che è improduttivo.).

[I due diversi processi nello scambio del capitale col lavoro. (Qui ciò che è scambiato col capitale rientra esso stesso, col suo valore d'uso, nella determinazione economica formale ecc.)]

Il valore d'uso che si presenta di fronte al capitale inteso come valore di scambio realizzato, è il lavoro. Il capitale si scambia, ovvero in questa determinatezza soltanto esso è in relazione col non-capitale, con la negazione del capitale, in rapporto alla quale solamente esso è capitale; il vero non-capitale è il lavoro.

Se consideriamo lo scambio tra capitale e lavoro, troviamo che esso si scinde in due processi non solo formalmente ma qualitativamente differenti e persino contrapposti.

1) L'operaio scambia la sua merce — il lavoro, il valore d'uso che come merce ha anche un prezzo al pari di tutte le altre merci —, con una determinata somma di valori di scambio, una determinata somma di denaro che il capitale gli rilascia.

2) Il capitalista ottiene nello scambio il lavoro stesso, il lavoro come attività creatrice di valore, come lavoro produttivo; ossia egli ottiene nello scambio la forza produttiva che il capitale riceve e moltiplica, e che con ciò diventa forza produttiva e forza riproduttiva del capitale, una forza che appartiene al capitale stesso.

La separazione di questi due processi è così evidente che essi possono presentarsi cronologicamente separati l'uno dall'altro e non debbono affatto coincidere. Il primo processo può essere compiuto, e in un certo grado il più delle volte è compiuto, addirittura già prima che cominci il secondo. Il compimento del secondo atto presuppone il compimento del prodotto. Il pagamento del salario invece non può aspettare che questo sia compiuto. Noi troveremo persino come determinazione essenziale del rapporto il fatto che non lo aspetta.

Nello scambio semplice, nella circolazione, questo duplice processo non ha luogo. Se la merce a viene scambiata con il denaro b, e questo a sua volta con la merce c destinata al consumo — che è l'oggetto originario dello scambio per a —, l'uso della merce c, il suo consumo, avviene interamente fuori dalla circolazione; non riguarda per nulla la forma del rapporto; sta al di là della circolazione stessa, ed è un interesse puramente materiale che esprime ancora un puro rapporto dell'individuo A, nella sua determinatezza naturale, con un oggetto del suo bisogno isolato. Ciò che egli comincia a fare con la merce c, è un problema che sta al di fuori del rapporto economico. Qui viceversa il valore d'uso di ciò che nello scambio è ricevuto in cambio del denaro si presenta come un rapporto economico particolare, e la determinata utilizzazione di ciò che nello scambio è ricevuto in cambio del denaro costituisce lo scopo ultimo di entrambi i processi. Ciò distingue dunque già formalmente lo scambio tra capitale e lavoro dallo scambio semplice —, si tratta di due processi differenti.

Se ora passiamo a fissare la differenza di contenuto tra lo scambio capitale-lavoro e lo scambio semplice (circolazione), troviamo che questa differenza non viene fuori da un estrinseco rapporto o raffronto, ma che la seconda forma si distingue dalla prima nella totalità dell'ultimo processo considerato, e che questo stesso raffronto vi è incluso. La differenza tra il secondo atto e il primo — il secondo atto è il processo particolare di appropriazione del lavoro da parte del capitale — è esattamente la differenza tra lo scambio capitale-lavoro e lo scambio tra merci mediato dal denaro. Nello scambio tra capitale e lavoro il primo atto è uno scambio che avviene interamente nell'ambito della circolazione ordinaria; il secondo è un processo qualitativamente differente dallo scambio, e solo impropriamente esso potrebbe essere detto in generale scambio di una certa specie. Esso si contrappone direttamente allo scambio; è una categoria essenzialmente diversa.

[Capitale e proprietà fondiaria moderna. - Wakefield]

[[Capitale. I. Generalità: 1) a) Origine del capitale dal denaro, b) Capitale e lavoro (che si media attraverso il lavoro altrui), c) Gli elementi del capitale, analizzato secondo il suo rapporto col lavoro (Prodotto. Materia prima. Strumento di lavoro). 2) Particolarizzazione del capitale: a) Capitale circolante, capitale fisso. Circolazione del capitale. 3) L'individualità del capitale: capitale e profitto. Capitale e interesse. Il capitale come valore, distinto da se stesso in quanto interesse e profitto. - II. Particolarità: 1) Accumulazione dei capitali. 2) Concorrenza dei capitali. 3) Concentrazione dei capitali (differenza quantitativa del capitale che è nello stesso tempo differenza qualitativa, in quanto misura della sua grandezza e del suo effetto). - III. Individualità: 1)Il capitale come credito. 2) Il capitale come capitale azionario. 3) Il capitale come mercato monetario.

Nel mercato monetario il capitale è posto nella sua totalità; ivi esso è determinatore dei prezzi, datore di lavoro, regolatore della produzione, in una parola: fonte di produzione; ma il capitale non solo come produttore di se stesso (che determina materialmente i prezzi attraverso l'industria ecc., e sviluppa forze produttive), ma nello stesso tempo anche come creatore di valori, deve creare un valore o forma di ricchezza specificamente differente dal capitale. Questa è la rendita fondiaria. È l'unico valore che il capitale crea in quanto valore distinto da se stesso, dalla produzione di se stesso.

Sia per la sua natura, sia storicamente, il capitale è il creatore della moderna proprietà fondiaria, della rendita fondiaria; la sua azione perciò si presenta anche come dissoluzione dell'antica forma della proprietà fondiaria. Quella moderna nasce dall'azione del capitale su quella antica. Il capitale è tale — visto da uno dei suoi lati — in quanto creatore dell'agricoltura moderna. Nei rapporti economici della moderna proprietà fondiaria — che si presenta come un processo: rendita fondiaria-capitale-lavoro salariato (la forma del sillogismo può anche essere intesa altrimenti, e cioè: lavoro salariato-capitale-rendita fondiaria; ma il capitale deve sempre comparire come il medio attivo) —, è perciò riposta la costruzione interna della società moderna, o il capitale nella totalità dei suoi rapporti. Il problema ora è questo: come risulta il passaggio dalla proprietà fondiaria al lavoro salariato? (Il passaggio dal lavoro salariato al capitale risulta da sé; giacché qui quest'ultimo si rifà al suo principio attivo).

Storicamente tale passaggio è fuori discussione. Esso è già implicito nel fatto che la proprietà fondiaria è un prodotto del capitale. Noi troviamo dunque sempre che là dove, per reazione del capitale sulle più antiche forme di proprietà fondiaria, quest'ultima si trasforma in rendita monetaria (lo stesso si verifica sotto altra forma là dove viene creato il contadino moderno), e quindi nello stesso tempo l'agricoltura sotto la spinta del capitale si trasforma in agronomia industriale, necessariamente i cottiers, servi della gleba, contadini feudali, fittavoli ereditari, domestici ecc. si trasformano in salariati giornalieri, in operai salariati, e che dunque il lavoro salariato nella sua totalità viene creato soltanto dall'azione del capitale sulla proprietà fondiaria e poi, una volta elaborata questa come forma, dal proprietario fondiario stesso. È costui allora che — come dice Steuart — libera la terra dalle bocche inutili, strappa i figli della terra dal petto che li ha nutriti, trasformando così lo stesso lavoro della terra, che per sua natura è fonte immediata di sostentamento, in fonte di sostentamento mediata, puramente dipendente dai rapporti sociali. (La dipendenza reciproca deve essere anzitutto elaborata in forma pura, prima che si possa pensare ad una reale collettività sociale. Tutti i rapporti come rapporti posti dalla società, non determinati dalla natura). È per questa via soltanto che diventa possibile l'applicazione della scienza e lo sviluppo integrale della forza produttiva.

Non può esservi dunque nessun dubbio che il lavoro salariato nella sua forma classica, come forma cioè che pervade la società in tutta la sua estensione e si fa essa, in luogo della terra, terreno su cui quella poggia, viene creato soltanto dalla moderna proprietà fondiaria, ossia dalla proprietà fondiaria come valore creato a sua volta dal capitale. Ecco perché allora la proprietà fondiaria riconduce al lavoro salariato.

Non si tratta, visto da un lato, che del trasferimento del lavoro salariato dalla città alla campagna, del lavoro salariato dunque esteso all'intera superficie della società. Il vecchio proprietario fondiario, se è ricco, non ha bisogno del capitalista per diventare un proprietario fondiario moderno. Ha bisogno soltanto di trasformare il suo lavoratore in operaio salariato e di lavorare per il profitto invece che per il reddito. Nella sua persona allora sono presupposti il moderno fittavolo e il moderno proprietario fondiario. Ciò tuttavia non costituisce una differenza formale, per cui muta soltanto il modo di ricavare il reddito o il modo di pagare l'operaio, ma suppone una totale trasformazione del modo di produzione stesso (dell'agricoltura); ha dunque dei presupposti che poggiano su di un determinato sviluppo industriale, commerciale e scientifico, in breve, su di un determinato sviluppo delle forze produttive. Così come in generale la produzione che si fonda sul capitale e sul lavoro salariato è non soltanto formalmente diversa da altri modi di produzione, ma presuppone altresì una totale rivoluzione e uno sviluppo totale della produzione materiale. Sebbene il capitale come capitale commerciale possa pienamente svilupparsi (ma in misura quantitativamente limitata) senza questa radicale trasformazione della proprietà fondiaria, ciò tuttavia esso non può fare come capitale industriale.

Persino lo sviluppo della manifattura presuppone una dissoluzione iniziale dei vecchi rapporti economici di proprietà fondiaria. D'altra parte da questa puntuale dissoluzione la nuova forma, nella sua estensione totale, nasce solo quando l'industria moderna è giunta ad un alto livello di sviluppo, sviluppo che però è sempre tanto più rapido quanto più si sono sviluppati la moderna agricoltura, la forma di proprietà ad essa corrispondente, e i corrispondenti rapporti economici. Ecco perché l'Inghilterra, sotto questo rapporto, è il paese modello per gli altri paesi continentali. E così anche: se la prima forma di industria, la grande manifattura, presuppone già la dissoluzione della proprietà fondiaria, questa stessa è poi a sua volta condizionata dallo sviluppo ancora subalterno del capitale urbano, nelle -sue forme non ancora sviluppate (medievali), e nello stesso tempo dall'influenza della manifattura sviluppatasi di pari passo col commercio in altri paesi (per es. l'Olanda che influenza l'Inghilterra nel XVI e nella prima metà del XVII secolo), nei quali il processo è già avvenuto, l'agricoltura è stata sacrificata all'allevamento del bestiame, e il frumento viene procurato importandolo (di nuovo l'Olanda) dai paesi arretrati come la Polonia.

Bisogna considerare che le nuove forze produttive e i nuovi rapporti produttivi non si sviluppano dal nulla, né dall'aria, né dal grembo dell'Idea che pone se stessa, ma nell'ambito e in antitesi allo sviluppo della produzione esistente e ai rapporti di proprietà tradizionali. Se nel sistema borghese sviluppato ogni rapporto economico presuppone l'altro nella forma economico-borghese, per cui ogni elemento posto è nello stesso tempo un presupposto — ciò è tipico di ogni sistema organico. Questo sistema organico stesso come totalità ha i suoi presupposti, e il suo sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinare a sé tutti gli elementi della società, o di ricavare da essa gli organi che ancora gli mancano. In tal modo esso diventa totalità storicamente. Il divenire siffatta totalità costituisce un momento del suo processo, del suo sviluppo.

D'altra parte, quando nell'ambito di una società i rapporti di produzione moderni, ossia il capitale, sono sviluppati nella loro totalità, e questa società conquista un nuovo territorio, per es. colonie, essa scopre, e lo scopre personalmente il suo rappresentante, il capitalista, che il suo capitale senza il lavoro salariato cessa di essere capitale, e che uno dei suoi presupposti è non solo la proprietà fondiaria in genere, ma la proprietà fondiaria moderna; proprietà fondiaria che come rendita capitalizzata è costosa, e come tale esclude lo sfruttamento immediato della terra da parte degli individui.

Donde la teoria coloniale di Wakefield25, seguita nella prassi dal governo inglese in Australia. La proprietà fondiaria viene qui artificiosamente rincarata per trasformare i lavoratori in operai salariati, per mettere in azione il capitale come capitale, e in tal modo rendere produttiva la nuova colonia; per sviluppare in essa la ricchezza, e non, come si è fatto in America, sprecarla nel provvedere momentaneamente a fornire operai salariati. La teoria di Wakefield è infinitamente importante per l'esatta comprensione della proprietà fondiaria moderna. — Il capitale come creatore di rendita fondiaria ritorna dunque alla produzione di lavoro salariato, come al suo generale principio creativo. Il capitale proviene dalla circolazione e pone il lavoro come lavoro salariato; in tal modo si sviluppa, e giunto alla sua totalità, pone la proprietà fondiaria come sua condizione e sua antitesi nello stesso tempo. Ma in realtà con ciò esso ha finito col creare soltanto il lavoro salariato come suo presupposto generale. Questo dunque va ora considerato per se stesso.

D'altra parte la proprietà fondiaria stessa si manifesta nella maniera più possente nel processo di liberazione delle campagne [clearing of estates]26 e trasformazione dei lavoratori della terra in operai salariati. Il passaggio al lavoro salariato è dunque duplice. Questo, per il lato positivo. Negativamente, il capitale dopo aver posto la proprietà fondiaria e raggiunto con ciò il suo duplice scopo, ossia: 1) agricoltura industriale e quindi sviluppo della produttività della terra; 2) lavoro salariato, e quindi dominio assoluto del capitale sulla campagna — considera l'esistenza della stessa proprietà fondiaria come uno sviluppo meramente transitorio, che è, sì, necessario in quanto azione del capitale sui vecchi rapporti di proprietà fondiaria, ed è un prodotto della loro dissoluzione, ma che come tale — una volta raggiunto tale scopo — costituisce una mera limitazione del profitto, non una necessità per la produzione. Allora esso cerca di dissolvere la proprietà fondiaria come proprietà privata e di trasferirla allo Stato. Questo il lato negativo. In tal modo l'intera società viene trasformata internamente in capitalisti e operai salariati.

Quando il capitale è giunto a tal punto, anche il lavoro salariato è giunto a tal punto che da una parte cerca di liquidare il proprietario fondiario come superfetazione, per giungere ad una semplificazione dei rapporti, ad una attenuazione delle imposte ecc., agendo nella stessa forma in cui agisce il borghese; e d'altra parte, per sottrarsi al lavoro salariato e diventare produttore autonomo — per l'uso immediato — chiede lo smembramento della grande proprietà fondiaria. La proprietà fondiaria viene così negata da due lati; la negazione da parte del capitale è soltanto un mutamento formale ai fini della sua onnipotenza. (Rendita fondiaria come rendita (imposta) pubblica generale, sicché la società borghese riproduce in altra forma il sistema medievale, ma come completa negazione di esso). La negazione da parte del lavoro salariato non è altro che, in forma dissimulata, la negazione del capitale, e quindi anche di se stesso. Esso va dunque considerato ora come autonomo di fronte al capitale. Abbiamo così un duplice passaggio: 1) un passaggio positivo dalla proprietà fondiaria moderna, ovvero del capitale attraverso la proprietà fondiaria, al lavoro salariato generale; 2) un passaggio negativo: negazione della proprietà fondiaria da parte del capitale, ossia dunque negazione del valore autonomo da parte del capitale, e cioè appunto negazione del capitale da parte di se stesso. Ma la sua negazione è il lavoro salariato. Quindi: negazione della proprietà fondiaria e, attraverso questa, del capitale da parte del lavoro salariato. Cioè a dire: il lavoro salariato che vuol porsi come autonomo!]].

[[Il mercato, che all'inizio si presenta come determinazione astratta dell'economia, assume dimensioni totali. Esso diventa, finalmente, mercato del denaro. Questo include in sé il mercato di cambio, e in generale il mercato di prestito; quindi commercio del denaro, mercato dei lingotti. Come mercato di prestito del denaro esso si presenta sia sotto forma di banche, per esempio di banche di sconto: loan-market [mercato di prestito] billbrokers [agenti di cambio] ecc.; sia poi anche come mercato di tutti i titoli fruttiferi: dei titoli statali e delle azioni. Queste ultime si suddividono in gruppi più vasti (anzitutto le azioni degli istituti finanziari stessi; azioni bancarie; azioni delle banche con capitale azionario; azioni dei mezzi di comunicazione (le ferroviarie — che sono le più importanti; dei canali; dei trasporti marittimi, del telegrafo, dei trasporti urbani); azioni delle imprese industriali generali (le principali sono le minerarie). Vengono poi quelle relative all'approvvigionamento degli elementi di utilità generale (azioni del gas, degli acquedotti). Da ultimo, un'infinità di altri tipi di azioni, come quelle relative alla conservazione delle merci (azioni dei magazzini ecc.), quelle delle imprese, compagnie industriali o commerciali con capitale azionario, e infine l'infinita varietà di azioni assicurative).

Come il mercato in generale si suddivide in mercato interno e mercato estero, così il mercato interno a sua volta si suddivide in mercato delle azioni interne, dei titoli nazionali ecc., e mercato dei titoli esteri, delle azioni estere ecc. Ad essere precisi questo sviluppo riguarda però il mercato mondiale, il quale non solo è il mercato interno in rapporto a tutti gli altri mercati esteri esistenti; ma nello stesso tempo è il mercato interno di tutti i mercati esteri come parti costitutive del mercato interno. [Fenomeno della] concentrazione del mercato del denaro nella piazza principale di una nazione, mentre gli altri mercati si ripartiscono più che altro in base alla divisione del lavoro; per quanto anche qui [si verifichi] una grande concentrazione nella città principale quando questa è nello stesso tempo porto d'esportazione.

I mercati distinti dal mercato del denaro sono anzitutto differenti quanto i prodotti e i rami di produzione, e formano altrettanti mercati differenti. Mercati principali di questi diversi prodotti si formano in centri che sono tali o in rapporto all'importazione ed esportazione, oppure perché sono o essi stessi centri di una determinata produzione, o le immediate piazze di offerta di tali centri. Ma da questa semplice diversità questi mercati passano poi ad una più o meno organica separazione in grandi gruppi, che necessariamente si suddividono, secondo gli elementi fondamentali del capitale, in: mercato dei prodotti e mercato delle materie prime. Lo strumento di produzione in quanto tale non costituisce un mercato separato; esso esiste principalmente anzitutto già sotto forma di materie prime vendute come strumenti di produzione; ma particolarmente poi sotto forma di metalli — i quali escludono ogni idea di consumo immediato —, e sotto forma di prodotti — come carbone, olio, prodotti chimici — destinati a sparire come mezzi di produzione accessori. Lo stesso vale per i colori, il legno, le droghe.

Quindi: I. Prodotti. 1) Mercato granario con le sue varie suddivisioni. Per esempio: mercato delle semenze: riso, tapioca, patata ecc. È economicamente molto importante perché è nello stesso tempo mercato per la produzione e per il consumo. 2) Mercato dei prodotti coloniali. Caffè, tè, cacao, zucchero; spezie (pepe, tabacco, pimento, cinnamomo, cassia lignea, garofano, zenzero, cannella, noce moscata ecc.); 3) Frutti. Mandorle, uva sultanina, fichi, prugne, uva secca, arance, limoni, ecc. melassa (per uso industriale ecc.); 4) Generi alimentari. Burro; formaggio; lardo affumicato; prosciutto; lardo; carne di maiale; di bue (affumicato), pesce ecc. 5) Alcoolici. Vino, rum, birra ecc. II. Prodotti grezzi. 1 ) Materie prime dell'industria meccanica . Lino; canapa; cotone; seta; lana; pelli; cuoio; guttaperca ecc.; 2) Materie prime dell'industria chimica. Soda, salnitro; trementina; nitrato di soda ecc. III. Materie prime che sono nello stesso tempo mezzi di produzione. Metallo (rame, ferro, stagno, zinco, piombo, acciaio ecc.), legno. Legno in genere, legno da costruzione, legno per mobili, legno per costruzioni navali ecc. Mezzi di produzione e materie prime accessorie. Droghe e coloranti (carminio, indaco, ecc. catrame, sego, olio, carbone ecc.).

Ogni prodotto naturalmente deve entrare nel mercato; ma in realtà i grandi mercati, che si distinguono dal commercio al minuto, li formano soltanto i grandi prodotti di consumo (economicamente è importante soltanto il mercato granario, e quello dello zucchero, del tè e del caffè; il mercato dei vini, e soprattutto quello degli alcoolici, in misura relativa) o quelli che costituiscono materie prime industriali, come la lana, la seta, il legno, i metalli ecc. Dove vada collocata la categoria astratta del mercato si vedrà in seguito.]]

[Scambio tra capitale e lavoro. Salario a cottimo. - Valore della capacità lavorativa. - Partecipazione solamente quantitativa dell'operaio salariato alla ricchezza generale. - L'equivalente dell'operaio è il denaro. Quindi di fronte al capitale egli è un uguale. - Ma lo scopo del suo scambio è la soddisfazione del suo bisogno. Per lui il denaro è soltanto un mezzo di circolazione. - Il risparmio, l'astinenza, come mezzi di arricchimento dell'operaio. - Mancanza di valore e svalutazione dell'operaio come condizione del capitale]

Lo scambio tra l'operaio e il capitalista è uno scambio semplice; ciascuno riceve un equivalente; l'uno denaro, l'altro una merce, il cui prezzo è esattamente uguale al denaro per essa pagato; ciò che il capitalista riceve in questo scambio semplice è un valore d'uso: una disposizione su lavoro altrui. Dal lato dell'operaio — giacché la prestazione è lo scambio in cui egli si presenta come venditore —, è evidente che l'uso che il compratore fa della merce cedutagli, la determinazione formale del rapporto, gli interessa tanto poco quanto interessa al venditore di qualsiasi altra merce o valore d'uso. Ciò che l'operaio vende è la disposizione sul suo lavoro, che è un lavoro determinato, una determinata abilità tecnica ecc.

Che cosa il capitalista fa del suo lavoro è assolutamente indifferente, anche se naturalmente egli può adoperarlo solo secondo la sua determinatezza, e la sua stessa disposizione si limita soltanto ad un lavoro determinato e ad una disposizione su di esso temporalmente determinata (tanto e tanto tempo di lavoro). Il sistema di pagamento a cottimo del lavoro dà senza dubbio l'illusione che egli riceva una determinata quota del prodotto. Ma questa è soltanto una diversa forma di misurazione del tempo (invece di dire: lavori per 12 ore, si dice: ricevi tanto a pezzo; ossia noi misuriamo il tempo che tu hai lavorato sulla quantità dei prodotti), e non ci interessa affatto in questa sede, dove consideriamo il rapporto generale. Se il capitalista si accontentasse della semplice disponibilità senza far lavorare realmente l'operaio, per esempio per avere il suo lavoro come riserva ecc. o per privare il suo concorrente della possibilità di disporne (come fanno per es. certi direttori di teatro, che acquistano delle cantanti per una stagione non per farle cantare, ma perché non cantino in un teatro concorrente), lo scambio ha avuto luogo lo stesso pienamente.

Col denaro cioè l'operaio riceve il valore di scambio, la forma generale della ricchezza in una determinata quantità, e il più o meno che egli riceve gli procura una maggiore o minore quota della ricchezza generale. Il modo in cui viene fissato questo più o meno, il modo in cui viene misurata la quantità di denaro che egli riceve, non ha alcun interesse ai fini del rapporto generale, e non può quindi essere svolto a partire da questo stesso rapporto in quanto tale.

Da un punto di vista generale il valore di scambio della merce dell'operaio può essere fissato non attraverso il tipo di uso che il compratore fa della sua merce, ma soltanto attraverso la quantità di lavoro oggettivato che è presente nella merce stessa; quindi, in questo caso, attraverso la quantità di lavoro che costa a produrre l'operaio stesso. Infatti il valore d'uso che questi offre esiste soltanto come attitudine, capacità del suo corpo; — fuori di queste non esiste affatto. Il lavoro oggettivato, che è necessario sia per conservare materialmente la sostanza generale nella quale esiste la capacità di lavoro dell'operaio e quindi l'operaio stesso, sia per modificare questa sostanza generale ai fini dello sviluppo della capacità particolare, è il lavoro oggettivato nella merce. È questo lavoro la misura generale della quantità di valore, della somma di denaro che l'operaio riceve nello scambio. Il processo ulteriore, cioè il modo di misurare il salario, al pari di ogni altra merce, attraverso il tempo di lavoro necessario per produrre l'operaio in quanto tale, non rientra ancora in quanto stiamo dicendo. Nella circolazione, quando io scambio una merce con denaro, in cambio di questo compro una merce e soddisfo il mio bisogno, l'atto è concluso. Così è per l'operaio.

Ma questi ha la possibilità di ricominciare quell'atto da capo, perché le sue risorse fisiche costituiscono la fonte in cui il suo proprio valore d'uso (almeno per un certo tempo, ossia finché non è esaurito) si riaccende incessantemente e rimane costantemente di fronte al capitale, per poi ricominciare da capo il medesimo scambio. Come ogni individuo che funge da soggetto nella circolazione, l'operaio è possessore di un valore d'uso. Egli lo converte in denaro, ossia nella forma generale della ricchezza, ma soltanto per riconvertire a sua volta questa ultima in merci, in oggetti del suo consumo immediato o mezzi per la soddisfazione dei suoi bisogni. Scambiando il suo valore d'uso con la forma generale della ricchezza, egli diventa compartecipe nel godimento della ricchezza generale fino al limite del suo equivalente — un limite quantitativo che naturalmente si rovescia in un limite qualitativo, come accade in ogni scambio. Egli però non è vincolato né a particolari oggetti né ad un particolare modo di soddisfazione. La sfera dei suoi godimenti non è delimitata qualitativamente, ma soltanto quantitativamente. È questo che lo distingue dallo schiavo, dal servo della gleba ecc.

Certamente il consumo reagisce sulla produzione stessa; ma questo contraccolpo non interessa l'operaio nel suo scambio così come non interessa qualsiasi altro venditore di una merce; anzi, dal punto di vista della semplice circolazione — e per ora non abbiamo dinanzi nessun altro rapporto sviluppato — esso cade al di fuori del rapporto economico. Tuttavia si può osservare fin d'ora per inciso che la relativa limitazione, — soltanto quantitativa, non qualitativa, e qualitativa soltanto perché posta attraverso la quantità —, della sfera dei godimenti dei lavoratori conferisce a costoro, anche in quanto consumatori, un'importanza, come agenti della produzione, del tutto diversa da quella che hanno e avevano per es. nel mondo antico o nel Medioevo o in Asia (nello sviluppo ulteriore del capitale bisogna considerare in generale più attentamente il rapporto tra consumo e produzione). Ma ciò, ripetiamo, non rientra ancora in questo contesto.

Ugualmente, in quanto l'operaio riceve l'equivalente sotto forma di denaro, cioè nella forma della ricchezza generale, in questo scambio egli è di fronte al capitalista un uguale al pari di qualsiasi altro individuo che scambia; per lo meno in apparenza. In realtà, questa uguaglianza è già turbata per il fatto che il suo rapporto di operaio verso il capitalista — ossia la sua condizione di valore d'uso nella forma specificamente differente dal valore di scambio, in antitesi cioè al valore posto come valore —, è il presupposto di questo scambio apparentemente semplice; e quindi egli si trova già in un rapporto economico diversamente determinato — ossia fuori dal rapporto di scambio in cui la natura del valore d'uso, il valore d'uso particolare della merce, è in quanto tale indifferente. Questa apparenza esiste tuttavia come illusione da parte sua e in un certo grado dall'altra parte, e quindi modifica anche sostanzialmente il suo rapporto, a differenza di quello in cui i lavoratori si trovano in altri modi sociali di produzione.

Ma il fatto essenziale è che per l'operaio lo scopo dello scambio è la soddisfazione del suo bisogno. L'oggetto del suo scambio è un oggetto immediato del bisogno, non il valore di scambio in quanto tale. È vero che egli riceve denaro, ma soltanto nella sua determinazione di moneta, ossia soltanto sotto forma di una mediazione che si toglie e scompare. Ciò che egli scambia non è perciò il valore di scambio, non è la ricchezza, ma sono mezzi di sussistenza, oggetti atti a mantenere in efficienza le sue risorse fisiche e a soddisfare in generale i suoi bisogni fisici, sociali ecc. Si tratta di un determinato equivalente in mezzi di sussistenza, in lavoro oggettivato, misurato attraverso i costi di produzione del suo lavoro. Ciò che egli cede è la disposizione su di esso. D'altra parte è poi vero che già nell'ambito della circolazione semplice la moneta passa ad essere denaro, e che quindi l'operaio, ricevendo nello scambio moneta, può trasformare quest'ultima in denaro accumulandola e sottraendola alla circolazione; egli cioè la fissa come forma generale della ricchezza invece che come evanescente mezzo di scambio.

Da questo lato si potrebbe dire dunque che nello scambio che l'operaio attua col capitale, il suo oggetto — e quindi anche il prodotto dello scambio che lo interessa — non sia il mezzo di sussistenza, ma la ricchezza, non un particolare valore d'uso, ma il valore di scambio in quanto tale. L'operaio pertanto potrebbe fare esclusivamente del valore di scambio il suo proprio prodotto, allo stesso modo che la ricchezza in generale può figurare esclusivamente come prodotto della circolazione semplice in cui si scambiano equivalenti; e ciò egli potrebbe fare sacrificando la soddisfazione sostanziale alla forma della ricchezza, ossia, mediante astinenza, risparmio e restrizioni nei suoi consumi, sottraendo alla circolazione meno beni di quanto ve ne introduca. Questa è l'unica forma possibile di arricchimento concesso dalla circolazione stessa.

L'astinenza potrebbe inoltre presentarsi in una forma più attiva che non è contemplata nella circolazione semplice, ossia addirittura come rinuncia dell'operaio al suo riposo, in generale come rinuncia alla sua esistenza in quanto separata dalla sua esistenza di operaio, in modo da esistere possibilmente soltanto come operaio che, con impegno volontario27, rinnova con maggior frequenza l'atto dello scambio o lo prolunga quantitativamente. Perciò ancora nella società odierna la richiesta dell'impegno volontario, ed espressamente anche del risparmio, della astinenza, viene rivolta non ai capitalisti ma agli operai, ed espressamente dai capitalisti.

La società attuale avanza appunto la paradossale richiesta che ad astenersi debba essere colui per il quale l'oggetto dello scambio è il mezzo di sussistenza, e non colui per il quale è l'arricchimento. L'illusione che i capitalisti abbiano effettivamente praticato «l'astinenza», e per questo siano diventati capitalisti — una richiesta e un'idea che in generale avevano un senso soltanto nell'ambito della fase preliminare, quando il capitale viene sviluppandosi dai rapporti feudali ecc. — è stata abbandonata da tutti gli economisti moderni responsabili28. L'operaio, si dice, deve risparmiare, e si è fatto un gran baccano con le casse di risparmio ecc. (A proposito delle quali tuttavia gli stessi economisti ammettono che il loro scopo effettivo non è neanche la ricchezza, ma soltanto una più opportuna ripartizione delle spese, affinché nella vecchiaia, o in caso di malattia, di crisi ecc., esse non gravino sugli ospizi dei poveri, sullo Stato, sulla questua, e soprattutto non gravino e non vegetino sui capitalisti e sulle loro tasche, ma, in fin dei conti, gravino sulla classe operaia stessa. Il loro scopo dunque è quello di risparmiare per i capitalisti, di diminuire per questi ultimi i costi di produzione).

Solamente, nessun economista potrà negare che se gli operai in generale, cioè in quanto operaio collettivo (ciò che il singolo operaio fa o può fare a differenza del suo genus può essere appunto l'eccezione, non la regola, perché non rientra nella determinazione del rapporto stesso), accedessero regolarmente a questa richiesta (a prescindere dal danno che arrecherebbero al consumo generale — il deficit sarebbe enorme — e perciò stesso alla produzione, e alla quantità e alla massa di scambi che essi potrebbero fare con il capitale, e quindi a se stessi come operai), l'operaio adopererebbe assolutamente mezzi che distruggono il loro stesso scopo, e che finirebbero necessariamente col degradarlo al livello dell'irlandese, al livello del salariato in cui il minimo più bestiale di bisogni e di mezzi di sussistenza gli si presenta come l'unico oggetto e scopo del suo scambio col capitale.

Con l'intento di fare della ricchezza, invece che del valore d'uso, il suo scopo, egli perciò non solo non raggiungerebbe nessuna ricchezza, ma per giunta perderebbe anche il valore d'uso. Giacché di regola il massimo di sforzo volontario e di lavoro, e il minimo di consumo — e questo è il massimo della sua astinenza e del suo guadagno — non potrebbero portarlo ad altro che a ricevere un minimo di salario in cambio di un massimo di lavoro. Aumentando lo sforzo egli non avrebbe fatto altro che diminuire il livello generale dei costi di produzione del suo stesso lavoro e quindi il suo prezzo generale. È soltanto un'eccezione che l'operaio possa trasformare la sua moneta in denaro con la forza di volontà, lo sforzo fisico prolungato, l'avidità ecc. — un'eccezione rispetto alla sua classe e alle condizioni generali della sua esistenza. Se tutti o la maggior parte si impegnano al di sopra del normale (nei limiti in cui nell'industria moderna tale impegno è lasciato a loro beneplacito, il che non è il caso dei più importanti e sviluppati rami di produzione), essi aumentano non il valore della loro merce, ma soltanto la sua quantità; aggravano cioè le pretese che verrebbero avanzate ad essi in quanto valori d'uso.

Se tutti risparmiano, una generale riduzione del salario li rimette subito in linea; giacché il generale risparmio mostrerebbe al capitalista che il loro salario è generalmente troppo alto, e che essi ricevono più dell'equivalente della loro merce, costituita dalla disponibilità sul loro lavoro; infatti la natura dello scambio semplice — ed è questo il rapporto in cui essi stanno col capitalista — consiste esattamente nel fatto che nessuno mette in circolazione più di quanto ne detrae, ma può detrarne soltanto quanto vi ha messo. Un singolo operaio può impegnarsi al di sopra del limite normale, e più di quanto debba farlo per vivere come operaio, soltanto perché un altro sta al di sotto di quel limite ed è più pigro; egli può risparmiare soltanto perché e se un altro sperpera. Il risultato massimo cui egli può giungere in media con la sua parsimonia, è la possibilità di sopportare meglio la compensazione dei prezzi — i loro alti e bassi, il loro ciclo; ossia, soltanto una più razionale distribuzione dei suoi godimenti, non l'acquisto di ricchezza. Ed è proprio questo che chiedono i capitalisti.

Secondo loro gli operai in periodo di prosperità economica devono risparmiare tanto da poter più o meno vivere in periodo di crisi, sopportare la riduzione d'orario o il ribasso dei salari ecc. (che allora sarebbe ancora più forte). La pretesa insomma è che gli operai si mantengano costantemente su un tenore di vita minimo, e facilitino ai capitalisti le crisi ecc., che si comportino come pure macchine lavoratrici e possibilmente ne paghino anche l'uso e consumo29. È evidente che tutto ciò sboccherebbe in un vero e proprio abbrutimento e che tale abbrutimento renderebbe già impossibile anche il solo desiderio della ricchezza nella forma generale di denaro, di denaro accumulato, (mentre la partecipazione dell'operaio a godimenti superiori, anche spirituali, come l'agitazione per i propri interessi, la possibilità di avere propri giornali, di erudirsi, di educare i figli, di sviluppare il gusto ecc., la sua unica partecipazione all'incivilimento, che lo distingue dallo schiavo, è economicamente possibile solo mediante l'allargamento della sfera dei suoi godimenti nei periodi di prosperità degli affari, ossia nei periodi in cui in una certa misura è possibile il risparmio).

Ma a prescindere da tutto ciò, l'operaio che risparmiasse in maniera veramente ascetica e accumulasse in tal modo premi per il sottoproletariato e per i furfanti, i quali aumenterebbero in rapporto alla domanda, potrebbe conservare e far fruttare i suoi risparmi — quando essi sono superiori al salvadanaio delle casse di risparmio ufficiali, che gli pagano un interesse minimo per permettere ai capitalisti di trarre grossi interessi dai loro risparmi, oppure allo Stato di rastrellarli, con la qual cosa l'operaio non fa che aumentare la forza del suo avversario e la propria dipendenza —, soltanto depositandoli nelle banche, cosìcché poi in periodo di crisi egli perde i suoi depositi, mentre in periodo di prosperità ha rinunciato ad ogni godimento per accrescere il potere del capitale; insomma in ogni caso egli ha risparmiato per il capitale, non per sé.

Del resto, — nella misura in cui tutta la faccenda non si riduce ad una ipocrita fraseologia della «filantropia» borghese, che in generale consiste nel pascere l'operaio di «pii desideri» — ciascun capitalista pretende, è vero, che i suoi operai risparmino, ma vuole anche che siano soltanto i suoi a risparmiare, perché gli stanno di fronte come operai; ma per l'amore del cielo non lo faccia il restante mondo degli operai, giacché questi gli stanno di fronte come consumatori. A dispetto di tutta la «pia» fraseologia, egli ricorre allora a tutti i mezzi pur di stimolarli al consumo, di dare nuove attrattive alle sue merci, di convincerli a crearsi nuovi bisogni.

È proprio questo lato del rapporto tra capitale e lavoro che è un momento essenziale di incivilimento, sul quale si basa la giustificazione storica, ma anche la forza attuale del capitale. (Questo rapporto tra produzione e consumo va sviluppato soltanto sotto 'capitale e profitto', o anche sotto 'accumulazione e concorrenza dei capitali'). Ma queste sono tutte considerazioni essoteriche, pertinenti nella misura in cui si dimostra che le pretese dell'ipocrita filantropia borghese si dissolvono internamente e confermano quindi proprio ciò che vorrebbero smentire, e cioè che nello scambio dell'operaio col capitale, l'operaio si trova nel rapporto di circolazione semplice, e che dunque egli non riceve ricchezza ma soltanto mezzi di sussistenza, valori d'uso per il consumo immediato.

(A proposito dell'esigenza che è stata prospettata recentemente, talvolta con autocompiacimento, di dare agli operai una certa partecipazione al profitto, bisognerà parlarne nel capitolo sul salario; non può trattarsi che di un premio speciale, che può raggiungere il suo scopo solo in quanto eccezione alla regola, e in effetti nella prassi normale si limita ad una incetta di singoli overlookers ecc., nell'interesse del datore di lavoro contro l'interesse della sua classe; oppure ai commis ecc., ossia, in breve, non più al semplice operaio, e quindi nemmeno al rapporto generale; oppure si tratta di una particolare maniera di truffare gli operai trattenendo una parte del loro salario sotto la forma precaria di un profitto che dipende dalla situazione dell'azienda30. Ma che questa pretesa contraddica il rapporto stesso risulta dalla semplice riflessione che, se il risparmio dell'operaio non deve rimanere un semplice prodotto della circolazione — denaro risparmiato che può essere realizzato solo convertendolo prima o poi nel contenuto sostanziale della ricchezza, ossia in godimenti —, il denaro accumulato stesso dovrebbe diventare capitale, ossia dovrebbe comprare lavoro, riferirsi al lavoro come valore d'uso. Il risparmio dell'operaio presuppone dunque a sua volta lavoro che non è capitale, e presuppone che il lavoro sia diventato il suo contrario — cioè non-lavoro. Per diventare capitale, esso presuppone già il lavoro come non-capitale di fronte al capitale; insomma, il ristabilimento dell'antitesi, che deve essere soppressa in un punto, in un altro punto.

Se dunque già nel rapporto originario l'oggetto eil prodotto dello scambio dell'operaio — come prodotto dello scambio semplice esso non può essere altro prodotto che questo — non fossero il valore d'uso, i mezzi di sussistenza, la soddisfazione del bisogno immediato, la sottrazione dalla circolazione dell'equivalente in essa introdotto per distruggerlo mediante il consumo —, allora il lavoro si contrapporrebbe al capitale non come lavoro, non come noncapitale, ma come capitale. Ma anche il capitale non può contrapporsi al capitale se al capitale non si contrappone il lavoro, giacché il capitale è capitale solo in quanto non-lavoro; in questa relazione antitetica. Ossia, verrebbe negato il concetto e il rapporto del capitale stesso. Che esistano situazioni in cui proprietari che lavorano in proprio attuano uno scambio reciproco, non lo neghiamo. Ma tali situazioni non sono quelle della società in cui esiste il capitale sviluppato come tale; e perciò esse vengono eliminate in tutti i punti dal suo sviluppo. Come capitale esso può porsi solo in quanto pone il lavoro come non-capitale, come puro valore d'uso. (Come schiavo il lavoratore ha un valore di scambio, ha un valore; come libero lavoratore invece egli non ha nessun valore; solamente la disposizione sul suo lavoro, prodotta dallo scambio con lui, ha valore. Non è lui che sta come valore di scambio di fronte al capitalista, ma il capitalista di fronte a lui. La sua mancanza di valore, la sua svalutazione è il presupposto del capitale e la condizione del lavoro libero in generale. Linguet lo considera un regresso; ma egli dimentica che con ciò il lavoratore è formalmente posto come persona che è ancora qualcosa per sé al di fuori del suo lavoro, e che aliena le sue energie vitali solo come mezzo per la sua vita personale.

Finché il lavoratore come tale ha un valore di scambio, non può esistere il capitale industriale come tale, e quindi in generale il capitale sviluppato. Di fronte a quest'ultimo il lavoro deve stare come puro valore d'uso, che viene offerto dal suo possessore stesso come merce in cambio del capitale, in cambio del suo valore di scambio, [la moneta], la quale naturalmente nelle mani dell'operaio diventa reale soltanto nella sua determinazione di mezzo di scambio generale; altrimenti scompare). Orbene. L'operaio si trova soltanto nel rapporto di circolazione semplice, di scambio semplice, e riceve, in cambio del suo valore d'uso, soltanto moneta, mezzi di sussistenza, ma in forma mediata. Questa forma di mediazione, come abbiamo visto, è essenziale e caratteristica ai fini del rapporto. Che l'operaio possa poi passare a trasformare la moneta in denaro — ossia a risparmiare — dimostra solamente, appunto, che il suo rapporto è quello di circolazione semplice; egli può risparmiare più o meno; ma più in là non va; egli può realizzare i suoi risparmi soltanto allargando momentaneamente la sfera dei suoi godimenti. Ma l'elemento importante — quello che giunge al cuore della determinazione del rapporto stesso — è che, in quanto il denaro è il prodotto del suo scambio, egli è spinto dall'illusione della ricchezza generale. È questa illusione che lo rende industrioso. Ma nello stesso tempo con ciò si dà largo spazio, e non soltanto formalmente, a scelte arbitrarie al fine di realizz ..

(A questo punto il quaderno II si interrompe. Il manoscritto ricomincia con la p. 8 del quaderno III, recante la sovrascritta «29, 30 novembre, dicembre. Il capitolo sul capitale.».)

[Il capitale, di fronte all'operaio, è soltanto un potere oggettivo, privo di valore personale. - Differenza dalla prestazione. - Scopo dell'operaio, nello scambio col capitale, è il consumo. Deve ricominciare continuamente da capo: lavoro come capitale dell'operaio. (Capacità lavorativa come capitale!). Il salario non è produttivo]

«... a processi del medesimo soggetto; così p. es.: la sostanza dell'occhio è il capitale della vista ecc. Tali frasi bellettristiche, che fanno d'ogni erba un fascio secondo una vaga analogia, possono sembrare persino ingegnose quando sono dette per la prima volta, e tanto più, quanto più identificano le cose più disparate. Ma ripetute, e addirittura con autocompiacimento, come asserzioni di valore scientifico, sono frasi tout bonnement insulse, buone per candidi bellettristi e ciarlatani visionari che insozzano tutte le scienze con la loro broda caramellosa.

Che il lavoro rappresenti per l'operaio, finché ne è capace, una fonte inesauribile di scambio — non dello scambio puro e semplice, ma dello scambio col capitale —, è già implicito concettualmente nella definizione che l'operaio vende la disposizione sulla sua capacità lavorativa soltanto in via temporanea, e che quindi egli può sempre ricominciare lo scambio non appena abbia ricevuto quella quantità di cose necessarie per poter riprodurre di nuovo le sue energie. Invece di rivolgere il loro stupore a cose simili — e di mettere in conto all'operaio come un grande beneficio del capitale il fatto stesso di vivere, e di poter quindi ripetere quotidianamente determinati processi vitali subito dopo essersi riposato e saziato —, i candidi sicofanti dell'economia borghese avrebbero dovuto rivolgere piuttosto la loro attenzione sul fatto che, dopo aver continuamente ripetuto il lavoro, all'operaio non resta da scambiare altro che il suo stesso lavoro vivo, immediato. La ripetizione stessa è di fatto soltanto apparente.

Ciò che egli scambia col capitale è la sua intera capacità di lavoro, che egli spende, poniamo, in venti anni. Invece di pagargliela in una sola volta, il capitale gliela paga a dosi, a seconda di come l'operaio gliela mette a disposizione, per es. settimanalmente. Ciò dunque non cambia affatto la natura della cosa, e tanto meno autorizza a concludere che — poiché l'operaio deve dormire 10 ÷12 ore prima di essere in condizione di ripetere il suo lavoro e il suo scambio col capitale — il lavoro costituisce il suo capitale32. Ciò che questa argomentazione intende in effetti per capitale dell'operaio, è il limite, l'interruzione del suo lavoro, il fatto che egli non è un perpetuum mobile. La lotta per la legge delle dieci ore ecc. dimostra che il capitalista non desidera altro che l'operaio spenda le sue dosi di energia quanto più è possibile senza interruzione.

Veniamo ora al secondo processo che dopo questo scambio costituisce il rapporto tra il lavoro e il capitale. Qui vogliamo soltanto aggiungere che gli stessi economisti esprimono la proposizione precedente nella forma: il salario non è produttivo. Essere produttivo, per loro, significa naturalmente essere produttivo di ricchezza. E poiché il salario è il prodotto dello scambio tra l'operaio e il capitale — ed è l'unico prodotto che è posto in questo atto stesso —, essi ammettono che in questo scambio l'operaio non produce nessuna ricchezza, né per il capitalista, in quanto per costui pagare denaro per un valore d'uso — e questo pagare rappresenta l'unica funzione del capitale in tale rapporto — significa cedere, non creare ricchezza (ed ecco la ragione per cui egli cerca di pagare il meno possibile); né per l'operaio, giacché il salario gli procura soltanto mezzi di sussistenza, soddisfazione di bisogni individuali in misura più o meno elevata — ma mai la forma generale della ricchezza, mai ricchezza.

Né può farlo, dal momento che il contenuto della merce che l'operaio vende non pone mai quest'ultimo al di sopra della legge generale della circolazione, ossia: attraverso il valore da lui messo in circolazione, ottenere, mediante la moneta, un equivalente di un altro valore d'uso, che egli consuma. Un'operazione di tal genere non può naturalmente mai produrre ricchezza, bensì riconduce necessariamente colui che la compie, alla fine del processo, esattamente al punto in cui egli si trovava all'inizio. Ciò non esclude, come abbiamo visto, anzi implica che la sfera delle sue soddisfazioni immediate sia suscettibile di una certa restrizione o di ampliamento. D'altra parte se il capitalista — che in tale scambio non è posto ancora come capitalista ma semplicemente come denaro — ripetesse continuamente questo atto, il suo denaro verrebbe presto divorato dall'operaio ed egli lo avrebbe sprecato in una serie di godimenti accessori, pantaloni rattoppati, stivali puliti — insomma, per servizi ricevuti. In ogni caso la ripetizione di questa operazione sarebbe esattamente condizionata dai limiti della sua borsa. Essa lo arricchirebbe non più di quanto lo arricchisce la spesa di denaro per i vari valori d'uso destinati alla sua cara persona, i quali, com'è noto, non gli fruttano, ma gli costano.

[Lo scambio tra capitale e lavoro rientra nella circolazione semplice, e non arricchisce l'operaio. - La separazione tra lavoro e proprietà, è il presupposto di questo scambio. - Lavoro: povertà assoluta come oggetto, possibilità generale della ricchezza come soggetto. - Di fronte al capitale sta il lavoro, senza una determinatezza particolare]

Può sembrare strano che mentre nel rapporto tra lavoro e capitale, ed anche in questo primo rapporto di scambio tra i due, l'operaio compra il valore di scambio e il capitalista compra il valore d'uso — in quanto il lavoro si contrappone al capitale non come un valore d'uso, ma come il valore d'uso puro e semplice —, il capitalista finisca con l'ottenere ricchezza, mentre l'operaio finisce con l'ottenere soltanto un valore d'uso che si estingue nel consumo. [[Per quanto riguarda il capitalista, ciò va sviluppato soltanto nel secondo processo]]. Questo fatto assume l'aspetto di una dialettica che si capovolge esattamente nel contrario di ciò che ci si dovrebbe attendere. Ma ad una considerazione più attenta si vede che l'operaio che scambia la sua merce percorre nel processo di scambio la forma M-D-D-M. Se nella circolazione si parte dalla merce, dal valore d'uso quale principio dello scambio, alla fine si giunge necessariamente di nuovo alla merce, in quanto il denaro si presenta solo come moneta, e come mezzo di scambio è soltanto una mediazione che svanisce; la merce come tale invece, una volta descritto il suo circolo, viene consumata come oggetto diretto del bisogno. Il capitale rappresenta d'altra parte la forma D-M-M-D, ossia il momento opposto.

La separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non-capitale in quanto tale è:

1) lavoro non-oggettivato, negativamente concepito (ma pur sempre oggettivo; il non-oggettivo stesso in forma oggettiva). Come tale esso è non-materia prima, non-strumento di lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli «oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresì come non-valore); questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro. È il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva. O anche, in quanto è il non-valore esistente, e perciò un valore d'uso puramente oggettivo, che esiste senza mediazione, questa oggettività può essere soltanto un'oggettività non separata dalla persona: soltanto una oggettività coincidente con la sua immediata esistenza corporea. Poiché l'oggettività è puramente immediata, essa è altresì immediatamente non-oggettività. In altre parole: un'oggettività che non va al di là dell'immediata esistenza dell'individuo stesso.

2) È lavoro non-oggettivato, non-valore, concepito positivamente, o negatività riferentesi a se stessa; in quanto tale esso è l'esistenza non- oggettivata , quindi non-oggettiva, i.e. soggettiva del lavoro stesso. È il lavoro non come oggetto, ma come attività; non come valore esso stesso, ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, esso è la ricchezza generale ma come sua possibilità generale, che si conferma nell'attività come tale. Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto, per l'altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività; o piuttosto i due lati di questa tesi del tutto contraddittoria si condizionano reciprocamente e derivano dalla natura del lavoro, giacché questo, come antitesi, come esistenza antitetica del capitale, è presupposto dal capitale, e d'altra parte presuppone da parte sua il capitale.

L'ultimo punto a cui occorre prestare attenzione, trattando del lavoro che si contrappone al capitale, è questo: che il lavoro come quel valore d'uso che si contrappone al denaro posto come capitale, non è questo o quel lavoro, ma lavoro puro e semplice, lavoro astratto, assolutamente indifferente ad una particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza. Alla particolare sostanza di cui è costituito un capitale determinato deve corrispondere naturalmente il lavoro come lavoro particolare; ma poiché il capitale in quanto tale è indifferente ad ogni particolarità della sua sostanza, ed è tanto la totalità di ogni particolarità della sua sostanza quanto l'astrazione da tutte le sue particolarità, il lavoro che gli si contrappone ha in sé soggettivamente la medesima totalità e la medesima astrazione. Per es. nel lavoro corporativo, artigianale, ove il capitale ha ancora una forma limitata, è ancora immerso in una determinata sostanza, e quindi non è ancora capitale in quanto tale, anche il lavoro si presenta ancora immerso nella sua particolare determinatezza: non si presenta dunque nella totalità e nell'astrazione, come il lavoro che si contrappone al capitale.

Ossia: il lavoro è bensì in ogni singolo caso un lavoro determinato, ma il capitale può contrapporsi ad ogni lavoro determinato; la totalità di tutti i lavori gli si contrappone δυνὰμει, ed è del tutto accidentale quale lavoro propriamente gli si contrapponga. D'altra parte l'operaio stesso è assolutamente indifferente alla determinatezza del suo lavoro; questo non gli interessa come tale, ma solo nella misura in cui è lavoro in generale e come tale è un valore d'uso per il capitale. Il carattere economico dell'operaio io quindi è dato dal fatto che egli è portatore del lavoro in quanto tale — ossia del lavoro come valore d'uso per il capitale —; egli è operaio in opposizione al capitalista. Questo invece non è il carattere dell'artigiano, del «compagno» della corporazione ecc., il cui carattere economico è dato proprio dalla determinatezza del suo lavoro e dal rapporto che lo lega ad un determinato maestro ecc. Questo rapporto economico — il carattere, che il capitalista e l'operaio hanno, di estremi di un rapporto di produzione — viene perciò tanto più puramente e adeguatamente sviluppato quanto più il lavoro perde ogni carattere artigianale; la sua particolare rifinitezza diventa sempre più qualcosa di astratto e indifferente, ed esso diventa progressivamente attività puramente astratta, attività puramente meccanica, e perciò indifferente, indifferente alla sua forma particolare; attività semplicemente formale, o, che è lo stesso, semplicemente materiale, attività in generale, indifferente alla forma.

Qui si vede allora di nuovo come la particolare determinatezza del rapporto di produzione, della categoria — qui, capitale e lavoro —, diventa vera solo con lo sviluppo di un particolare modo materiale di produzione e di un particolare livello di sviluppo delle forze produttive industriali. (Questo punto in generale va particolarmente sviluppato, più avanti, entro questo rapporto; giacché qui esso è già posto nel rapporto stesso, mentre nelle determinazioni astratte del valore di scambio, della circolazione e del denaro, esso rientra ancora più che altro nella nostra riflessione soggettiva).

[Il processo di lavoro assunto nel capitale (capitale e capitalista)]

Veniamo ora alla seconda parte del processo. Lo scambio tra capitale, o capitalista, e operaio è ormai compiuto — per quanto riguarda il processo di scambio in generale. Ora si passa al rapporto del capitale col lavoro quale suo valore d'uso. Il lavoro non è soltanto il valore d'uso che si oppone al capitale, ma è il valore d'uso del capitale stesso. Come non-essere dei valori in quanto valori oggettivati, il lavoro è il loro essere in quanto non-oggettivati, il loro essere ideale; è la possibilità dei valori e, come attività, è attività creatrice dei valori.

Di fronte al capitale esso è la forma puramente astratta, la pura possibilità dell'attività creatrice di valori, che esiste soltanto come capacità, come potenza, nella esistenza corporea dell'operaio. Ma portato ad attività reale mediante il contatto col capitale — da se stesso non può giungervi, perché è privo di oggetto —, esso diventa un'attività reale creatrice di valori, un'attività produttiva. In rapporto al capitale l'attività in generale può consistere soltanto nella riproduzione di se stessa — nella conservazione e moltiplicazione di sé come valore reale ed operante, e non meramente ideale, come è nel denaro in quanto tale. Mediante lo scambio con l'operaio il capitale si è appropriato del lavoro stesso; questo è divenuto uno dei suoi momenti, che ora agisce sulla sua oggettività meramente esistente e perciò morta, come vitalità fecondante.

Il capitale è denaro (valore di scambio posto per sé), ma non più denaro che esiste in una sostanza particolare, quindi escluso dalle altre sostanze dei valori di scambio e accanto ad esse, bensì denaro che conserva la sua determinazione ideale in tutte le sostanze, nei valori di scambio di qualsiasi forma e modo di essere del lavoro oggettivato. In quanto ora il capitale, come denaro che esiste in tutte le forme particolari di lavoro oggettivato, entra in processo col lavoro non oggettivato, bensì vivo, esistente come processo e come atto, esso è anzitutto questa differenza qualitativa della sostanza in cui consiste, dalla forma in cui esso consiste anche come lavoro. Esso è il processo di questa distinzione e del suo superamento, in cui il capitale stesso diventa processo. Il lavoro è il fermento che, gettato nel capitale, lo porta a fermentazione.

Da una parte l'oggettività in cui il capitale esiste deve essere elaborata, ossia consumata dal lavoro, dall'altra la mera soggettività del lavoro in quanto pura forma deve essere negata e oggettivata nella materia del capitale. La relazione del capitale, nel suo contenuto, col lavoro, la relazione del lavoro oggettivato col lavoro vivo — in questa relazione, in cui il capitale si presenta passivamente di fronte al lavoro, è la sua esistenza passiva di sostanza particolare ad entrare in rapporto col lavoro come attività formatrice —, può essere in generale soltanto la relazione del lavoro con la sua oggettività, con la sua materia (ciò va svolto già nel primo capitolo, che deve precedere quello sul valore di scambio e trattare della produzione in generale); e rispetto al lavoro come attività la materia, il lavoro oggettivato, ha soltanto due relazioni: quella di materia prima, ossia di materia priva di forma, di puro materiale per l'attività formatrice, finalistica, del lavoro; e quella di strumento di lavoro, di mezzo anch'esso oggettivo, onde l'attività soggettiva inserisce, tra sé e l'oggetto, un altro oggetto che le fa da conduttore.

La determinazione di prodotto che a questo punto gli economisti introducono, in realtà non è ancora pertinente, essendo una determinazione distinta dalla materia prima e dallo strumento di lavoro. Esso è un risultato , non un presupposto del processo che si svolge tra il contenuto passivo del capitale e il lavoro come attività. Come presupposto il prodotto non è un rapporto dell'oggetto col lavoro diverso da quello della materia prima e dello strumento di lavoro, giacché questi ultimi, essendo la sostanza dei valori, sono già lavoro oggettivato, ossia prodotti. La sostanza del valore non è la sostanza naturale particolare ma il lavoro oggettivato. Questo stesso, rispetto al lavoro vivo, si presenta a sua volta come materia prima e strumento di lavoro.

Considerato il semplice atto della produzione in sé, strumento di lavoro e materia prima possono anche presentarsi già esistenti in natura, sicché non resta che appropriarseli, ossia renderli oggetto e mezzo del lavoro — il che però non costituisce di per se stesso un processo di lavoro. Rispetto ad essi dunque il prodotto appare qualitativamente diverso, ed è un prodotto non soltanto come risultato del lavoro eseguito sulla materia mediante lo strumento, ma come prima oggettivazione del lavoro accanto ad essi. Ma come parti costitutive del capitale, materia prima e strumento di lavoro sono già lavoro oggettivato, e quindi prodotto. Ciò tuttavia non esaurisce la relazione. Giacché per es. nella produzione in cui non esistono valori di scambio, in cui non esiste quindi capitale, il prodotto del lavoro può diventare mezzo e oggetto di nuovo lavoro, — per es. in un'agricoltura che produce puramente in vista del valore d'uso. L'arco del cacciatore, la rete del pescatore, e insomma le condizioni più semplici presuppongono già un prodotto che cessa di valere come prodotto e diventa materia prima o specificamente strumento di produzione, giacché è questa propriamente la prima forma specifica in cui si presenta il prodotto come mezzo della riproduzione.

Questa relazione non esaurisce dunque affatto il rapporto in cui materia prima e strumento di lavoro compaiono come momenti del capitale stesso. Gli economisti del resto introducono il prodotto, in tutt'altro senso, come terzo elemento della sostanza del capitale. È il prodotto in quanto ha la determinazione di uscire sia dal processo di produzione sia dalla circolazione, e di essere oggetto immediato del consumo individuale, o approvisionnement, come lo chiama Cherbuliez 33.

Si tratta cioè dei prodotti che sono presupposti affinché l'operaio possa vivere in quanto operaio, e sia in grado di vivere durante la produzione, ossia prima che sia creato un nuovo prodotto. Che il capitalista possieda questa possibilità è implicito nel fatto che ogni elemento del capitale è denaro e come tale può essere trasformato da forma generale della ricchezza in materia di essa, in oggetto di consumo. L'approvisionnement degli economisti si riferisce perciò soltanto agli operai; si tratta cioè del denaro, espresso in forma di oggetti di consumo, di valore d'uso, che essi ricevono dal capitalista nell'atto di scambio che avviene tra loro. Ma ciò riguarda il primo atto. In che misura questo primo atto sia in relazione al secondo, qui non se ne tratta ancora. L'unica distinzione che è posta attraverso il processo di produzione stesso è la distinzione originaria, quella posta dalla differenza fra lavoro oggettivato e lavoro vivo, ossia la distinzione tra materia prima e strumento di lavoro. Che gli economisti confondano queste determinazioni, è assolutamente normale, giacché essi debbono confondere i due momenti della relazione tra capitale e lavoro e non possono fissarne la differenza specifica.

Dunque: la materia prima viene consumata in quanto viene alterata, formata mediante il lavoro, e lo strumento di lavoro viene consumato in quanto viene usato, utilizzato in questo processo. D'altra parte il lavoro viene anch'esso consumato in quanto viene applicato, posto in movimento, e in tal modo si ha un dispendio di una determinata quantità di energia muscolare ecc. dell'operaio, in seguito al quale egli si esaurisce. Ma il lavoro viene non solo consumato, ma nello stesso tempo fissato, materializzato dalla forma di attività a quella di stasi, di oggetto; mutandosi in oggetto, esso muta la sua forma caratteristica e da attività diventa essere. Il processo termina col prodotto, nel quale la materia prima si presenta unita col lavoro, e lo strumento di lavoro si è parimenti tradotto da mera possibilità a realtà, in quanto è diventato il reale conduttore del lavoro, ma con ciò, per la sua relazione meccanica o chimica con la materia del lavoro, esso stesso è stato consumato nella sua forma statica.

Tutti e tre i momenti del processo, la materia, lo strumento, il lavoro coincidono in un risultato neutro — il prodotto. Nel prodotto sono contemporaneamente riprodotti,! momenti del processo di produzione che sono stati assorbiti in esso. L'intero processo si presenta perciò come consumo produttivo, ossia come consumo che non finisce né in nulla, né nella mera soggettivazione dell'oggettività, ma che è posto esso stesso a sua volta come un oggetto. Il consumo non è semplice consumo dell'elemento materiale, ma consumo del consumo stesso; nella negazione dell'elemento materiale c'è la negazione di questa negazione e perciò la posizione di esso. L'attività formatrice consuma l'oggetto e consuma se stessa, ma consuma soltanto la forma data dell'oggetto per porlo in una nuova forma oggettiva, e consuma se stessa soltanto nella sua forma soggettiva di attività. Essa consuma l'oggettività dell'oggetto — l'indifferenza alla forma — e la soggettività dell'attività; forma l'uno, materializza l'altra. Ma come prodotto, il risultato del processo di produzione è un valore d'uso.

Se ora consideriamo il risultato finora ottenuto, troviamo che:

Primo: attraverso l'appropriazione, l'incorporazione del lavoro nel capitale — il denaro, ossia l'atto di acquisto della disponibilità sull'operaio figura qui soltanto come mezzo per effettuare questo processo, non come momento di esso stesso — il capitale entra in fermentazione e diventa processo, processo di produzione, in cui esso, come totalità, come lavoro vivo si riferisce a se stesso non soltanto in quanto lavoro oggettivato, ma, appunto perché è oggettivato, si riferisce a se stesso in quanto mero oggetto del lavoro.

Secondo: Nella circolazione semplice la sostanza della merce e del denaro stesso era indifferente alla determinazione formale, vale a dire finché merce e denaro rimanevano momenti della circolazione. La merce, per quanto riguardava la sua sostanza, cadeva al di fuori del rapporto economico in quanto oggetto di consumo (del bisogno); il denaro, nella misura in cui la sua forma si rendeva autonoma, continuava a riferirsi alla circolazione, ma soltanto negativamente, ed era soltanto questo negativo riferirsi. Fissato per se stesso, si spegneva anch'esso in una materialità morta, cessando di essere denaro. Merce e denaro erano entrambi espressioni del valore di scambio, ed erano diversi soltanto come valore di scambio universale e particolare. Questa stessa diversità a sua volta era puramente ideale, in quanto nella circolazione reale finivano col permutarsi tanto le due determinazioni quanto ciascuna considerata per sé, e cioè il denaro era esso stesso una merce particolare, e la merce come prezzo era essa stessa denaro universale. La differenza era puramente formale. Ciascuno era posto nell'una determinazione solo perché e finché non era posto nell'altra. Ora invece, nel processo di produzione, il capitale stesso come forma si distingue da sé some sostanza. Esso è al tempo stesso entrambe le determinazioni, e al tempo stesso la relazione reciproca di entrambe. Ma:

Terzo: In questa relazione esso si presentava ancora soltanto in sé. La relazione non è ancora posta, o è posta soltanto sotto la determinazione di uno dei due momenti, quello materiale, il quale in se stesso si distingue come materia (materia prima e strumento) e forma (lavoro), mentre come relazione di entrambi, come processo reale è di nuovo soltanto una relazione materiale — relazione dei due elementi materiali che costituiscono il contenuto del capitale distinto dalla sua relazione formale in quanto capitale. Se consideriamo il capitale dal lato per cui esso originariamente si presenta distinto dal lavoro, nel processo esso è soltanto un'esistenza passiva, meramente oggettiva, nella quale la determinazione formale per la quale esso è capitale — ossia un rapporto sociale che è per sé — è completamente estinta. Esso entra nel processo soltanto dal lato del suo contenuto — come lavoro oggettivato in generale —; ma il fatto che esso sia lavoro oggettivato è assolutamente indifferente per il lavoro — la cui relazione con esso, si badi, è quella che costituisce il processo —; anzi è soltanto come oggetto, non come lavoro oggettivato, che esso entra nel processo e viene elaborato.

Il cotone che diventa filo, o il filo che diventa tessuto, o il tessuto che diventa materiale di stampaggio e di colorazione, esistono per il lavoro soltanto come cotone filo e tessuto tangibili. Nella misura in cui sono già prodotti del lavoro, e cioè lavoro oggettivato, essi non entrano in alcun processo, bensì sono soltanto delle esistenze materiali con determinate qualità naturali. Il modo in cui queste vi sono state poste non riguarda per nulla il rapporto del lavoro con essi; per il lavoro essi esistono solo in quanto esistono distinti da esso stesso, ossia come materiale di lavoro. Tutto ciò, finché si parte dal capitale nella sua forma oggettiva presupposta al lavoro. D'altra parte, nella misura in cui il lavoro stesso è diventato uno dei suoi elementi oggettivi in seguito allo scambio con l'operaio, la sua differenza dagli elementi oggettivi del capitale è essa stessa una differenza soltanto oggettiva; gli uni esistono in forma statica, l'altro in forma di attività. La relazione è la relazione materiale di uno dei suoi elementi con l'altro; ma non la sua propria relazione con entrambi.

Il capitale si presenta dunque per un verso soltanto come oggetto passivo, in cui ogni relazione formale è estinta; per l'altro, soltanto come semplice processo di produzione, nel quale il capitale in quanto tale, in quanto cioè diverso dalla sua sostanza, non entra. Esso non si presenta nemmeno nella sua sostanza, che pur gli compete — cioè come lavoro oggettivato, giacché è questa la sostanza del valore di scambio —, ma soltanto nella forma di esistenza naturale di tale sostanza, nella quale ogni relazione col valore di scambio, col lavoro oggettivato, col lavoro stesso in quanto valore d'uso del capitale — e perciò ogni relazione col capitale stesso — è estinta. Visto da questo lato, il processo del capitale coincide col semplice processo di produzione in quanto tale, in cui la sua determinazione di capitale è interamente estinta nella forma del processo, così come il denaro in quanto denaro si estingueva nella forma del valore. Fino al punto in cui finora abbiamo considerato il processo, il capitale per sé stante — ossia il capitalista — non vi entra affatto.

Non è il capitalista che viene consumato dal lavoro, come materia prima e strumento di lavoro. E non è neanche il capitalista che consuma, bensì il lavoro. Il processo di produzione del capitale si presenta dunque non come processo di produzione del capitale, ma come processo di produzione semplicemente, e il capitale si presenta distinto dal lavoro soltanto nella determinatezza materiale di materia prima e strumento di lavoro. È questo lato — che non è soltanto un'astrazione arbitraria, ma un'astrazione che avviene nel processo stesso —, che gli economisti fissano, al fine di rappresentare il capitale come elemento necessario di ogni processo di produzione. Essi fanno ciò naturalmente solo perché dimenticano di stare attenti al suo comportamento di capitale durante questo processo.

È opportuno richiamare qui l'attenzione su di un momento che a questo punto viene in luce non solo dal punto di vista dell'osservazione, ma è posto nel rapporto economico stesso. Nel primo atto, nello scambio tra capitale e lavoro, il lavoro in quanto tale, per sé stante, si è presentato necessariamente in veste di operaio. Accade lo stesso qui nel secondo processo: il capitale in generale è posto come valore per sé stante, come valore egoistico per così dire (mentre nel denaro vi era soltanto la tendenza ad assumere questa posizione). Ma il capitale per sé stante è il capitalista. Hanno un bel dire i socialisti 34: noi abbiamo bisogno del capitale, non del capitalista. Ma allora il capitale figura come pura cosa, non come rapporto di produzione che, riflesso in sé, è appunto il capitalista. Io posso ben separare il capitale da questo singolo capitalista, ed esso può passare nelle mani di un altro. Ma se egli perde il capitale, perde la sua qualità di capitalista. Il capitale perciò può ben essere separato dal singolo capitalista, ma non dal capitalista, che in quanto tale si contrappone all' operaio. E così anche il singolo operaio può cessare di essere l'essere-per-sé del lavoro; egli può ereditare denaro, rubarlo ecc. Ma allora cessa di essere operaio. In quanto operaio egli è soltanto il lavoro per sé stante. (Ciò va ulteriormente sviluppato in seguito).

[Processo di produzione come contenuto del capitale. - Lavoro produttivo e improduttivo (lavoro produttivo - che produce capitale). L'operaio si riferisce al suo lavoro come ad un valore di scambio, il capitalista come ad un valore d'uso. Egli si priva del lavoro come forza produttiva di ricchezza. (Il capitale se l'appropria come tale). - Trasformazione del lavoro in capitale ecc. Sismondi, Cherbuliez, Say, Ricardo, Proudhon ecc.]

Al termine del processo non può risultare nulla che non si sia presentato al suo inizio come presupposto e condizione del processo stesso. D'altra parte però deve anche risultare tutto ciò che vi era presupposto. Se perciò al termine del processo di produzione, che era iniziato sotto il presupposto del capitale, risulta che il capitale è scomparso come relazione formale, ciò può accadere solo perché non si sono scorti gli invisibili fili che esso distende attraverso il processo stesso. Prendiamo allora in considerazione questo lato.

Il primo risultato dunque è questo:

a) Mediante l'incorporazione del lavoro nel capitale, il capitale stesso diventa processo di produzione; ma è dapprima un processo materiale di produzione, un processo di produzione in generale, cosìcché il processo di produzione del capitale non è distinto dal processo materiale di produzione in generale. La sua determinazione formale è completamente scomparsa. Per il fatto che il capitale ha scambiato una parte del suo essere oggettivo con il lavoro, la sua stessa esistenza oggettiva si è scissa internamente da una parte come oggetto, dall'altra come lavoro, la relazione di questi due elementi costituisce il processo di produzione o, più precisamente, il processo lavorativo. Con ciò il processo lavorativo che era pre supposto al valore, e ne costituiva il punto di partenza — e che per la sua astrattezza, per la sua pura materialità, è comune a tutte le forme di produzione — si presenta di nuovo all'interno del capitale, come processo che avviene nell'ambito della sua materia, ne costituisce cioè il contenuto. (In seguito si vedrà che anche all'interno del processo di produzione stesso questa scomparsa della determinazione formale è soltanto una parvenza).

Se è vero che il capitale è un valore, tuttavia come processo esso si presenta dapprima sotto forma di processo di produzione semplice, di processo di produzione che non è posto in alcuna determinatezza economica particolare, ma è, appunto, processo di produzione in generale. In questo senso — a seconda che consideriamo isolatamente uno qualsiasi dei lati del processo di produzione semplice (che in quanto tale, come abbiamo visto, non presuppone affatto capitale, ma è proprio di tutti i modi di produzione) — si può dire che il capitale diventi prodotto, oppure sia strumento di lavoro o anche materia prima del lavoro. Se inoltre lo si considera come uno dei lati che, come materia o semplice mezzo, stanno di fronte al lavoro, si può dire a buon diritto che il capitale non sia produttivo*, perché allora esso non viene considerato appunto che come oggetto, come materia che sta di fronte al lavoro in modo meramente passivo. La verità invece è che esso non si presenta né in uno dei lati o come diversità di uno dei lati in se stesso, né come mero risultato (prodotto), ma come semplice processo di produzione stesso. È quest'ultimo ora il contenuto dinamico del capitale.

(*Ciò che è o non è lavoro produttivo — un punto, questo, su cui si è molto polemizzato per ogni verso da quando Adam Smith operò questa distinzione — deve risultare dall'esposizione dei diversi lati del capitale stesso. Lavoro produttivo è soltanto quello che produce capitale. Non è ridicolo, chiede per es. (per lo meno in termini affini) il sig. Senior, che il costruttore di pianoforti debba essere un la v o r a t o - re produttivo, e il pianista no? quantunque senza quest'ultimo il pianoforte sarebbe un nonsenso? 36 (Cfr. nota 137 e W. N. Senior, Principes Fondamentaux ecc., cit., pp. 197-206.)

Ma è esattamente cosi. Il costruttore di pianoforti riproduce capitale, mentre il pianista scambia il suo lavoro soltanto con reddito. Ma il pianista che produce musica e soddisfa il nostro senso musicale, non produce quest'ultimo in una certa misura? In effetti, sì: il suo lavoro produce qualcosa; ma per questo esso non è lavoro produttivo in senso economico, così come non lo è il lavoro del pazzo produce chimere. Il lavoro è produttivo solo in quanto produce il suo contrario. Perciò altri economisti fanno essere il cosidetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo. Per es. il pianista offre uno stimolo alla produzione, sia perché dispone la nostra individualità ad una maggiore energia e vitalità, o anche nel senso comune per cui desta un nuovo bisogno per la cui soddisfazione viene impiegata pili solerzia nella produzione materiale immediata. Con ciò si ammette già che soltanto il lavoro che, produce capitale è produttivo; e che quindi il lavoro che non fa ciò, per quanto possa essere utile — ma può essere anche dannoso —, è lavoro non produttivo, e perciò improduttivo, ai fini della capitalizzazione. Altri economisti poi affermano che la differenza tra produttivo e improduttivo debba essere riferita non alla produzione ma al consumo. È esattamente il contrario. Il produttore di tabacco è produttivo, quantunque il consumo di tabacco sia improduttivo. La produzione destinata al consumo improduttivo è produttiva tanto quanto lo è quella destinata al consumo produttivo; sempre supposto Che si produca o riproduca capitale. «Lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente la ricchezza del suo padrone », dice perciò molto giustamente Malthus (IX, 40) (Cfr. T. R. Malthus, Principles ecc., cit., p. 47, nota); giustamente per lo meno in un certo senso. L'espressione è troppo astratta, tanto è vero che in questa formulazione vale anche per lo schiavo. La ricchezza del padrone, in rapporto all'operaio, è la forma stessa della ricchezza nel suo rapporto col lavoro; è il capitale. Lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente il capitale.)

In quanto valore d'uso il lavoro è soltanto per il capitale, ed è il valore d'uso stesso del capitale, ossia l'attività mediatrice attraverso cui esso si valorizza. Il capitale in quanto riproduce e moltiplica il suo valore è il valore di scambio autonomo (il denaro) come processo, come processo di valorizzazione. Il lavoro perciò non è valore d'uso per l'operaio; e perciò non è per lui forza produttiva di ricchezza, mezzo o attività di arricchimento. L'operaio nello scambio col capitale porta il lavoro come valore d'uso, e il capitale in questo caso gli sta di fronte non come capitale, ma come denaro. Capitale in quanto capitale esso lo è soltanto, in rapporto all'operaio, nel processo di consumo del lavoro, un processo che esula da questo scambio e ne è indipendente. Se è valore d'uso per il capitale, il lavoro è semplice valore di scambio per l'operaio; un valore di scambio tangibile. È questa la sua posizione all'atto dello scambio col capitale dato che viene venduto per denaro.

Il valore d'uso di una cosa non riguarda per nulla il suo venditore in quanto tale, ma soltanto il suo compratore. La proprietà del salnitro di poter essere usato in polvere non determina il prezzo del salnitro stesso; questo prezzo è determinato dai suoi costi di produzione, ossia dalla quantità di lavoro in esso oggettivato. Nella circolazione, in cui i valori d'uso entrano come prezzi, il loro valore non risulta dalla circolazione medesima, anche se è in essa che il valore si realizza; il valore le è presupposto e viene soltanto realizzato attraverso lo scambio con denaro. In tal modo il lavoro che l'operaio vende come valore d'uso al capitale, rappresenta per l'operaio il suo valore di scambio, che egli vuol realizzare, ma che è già determinato prima dell'atto di questo scambio, gli è presupposto come condizione; ed è determinato, al pari del valore di qualsiasi altra merce, dalla domanda e dalla offerta o, in generale — giacché è soltanto in questo ambito che per ora ci muoviamo — dai costi di produzione, dalla quantità di lavoro oggettivato mediante la quale è stata prodotta la capacità di lavoro dell'operaio e che questa perciò riceve come equivalente. Il valore di scambio del lavoro, la cui realizzazione ha luogo nel processo di scambio col capitalista, è perciò presupposto, predeterminato, e subisce soltanto quella modificazione formale che ogni prezzo solo idealmente posto riceve all'atto della sua realizzazione. Esso non è determinato dal valore d'uso del lavoro.

Per l'operaio stesso il lavoro ha un valore d'uso soltanto in quanto è valore di scambio, non in quanto produce valori di scambio. Per il capitale invece esso ha valore di scambio solo in quanto ha valore d'uso. Valore d'uso, in quanto distinto dal suo valore di scambio, esso lo è non per l'operaio, ma soltanto per il capitale. L'operaio scambia dunque il lavoro come semplice valore di scambio predeterminato, determinato da un processo passato — egli cioè scambia il lavoro stesso come lavoro oggettivato, ossia soltanto nella misura in cui esso già oggettivizza una determinata quantità di lavoro, e quindi il suo equivalente è già fissato in una misura precisa, è già dato —; il capitale lo riceve nello scambio come lavoro vivo, come generale capacità di produrre ricchezza, come attività che moltiplica la ricchezza.

Che l'operaio non possa dunque arricchirsi attraverso questo scambio, è evidente: come Esaù per un piatto di lenticchie cedeva la sua primogenitura, così egli cede la sua forza creativa in cambio della capacità di lavoro già fissata in una precisa misura. Egli anzi è destinato a impoverirsi, come vedremo in seguito, in quanto la forza creativa del suo lavoro gli si stabilisce di fronte come forza del capitale, come potere estraneo. Egli si priva del lavoro come capacità di produrre ricchezza; il capitale se l'appropria come tale. La separazione tra lavoro e proprietà del prodotto del lavoro, tra lavoro e ricchezza, è perciò posta già in questo atto dello scambio. Ciò che sembra paradossalmente un risultato, è già implicito nel presupposto stesso. Gli economisti hanno espresso tutto ciò in maniera più o meno empirica.

Di fronte all'operaio dunque la produttività del suo lavoro diventa un potere altrui, e in generale lo diventa il suo lavoro, nella misura in cui non è capacità lavorativa, bensì movimento, lavoro effettivo; il capitale viceversa si valorizza attraverso l'appropriazione di lavoro altrui. (O per lo meno, il risultato dello scambio tra lavoro e capitale è che è posta la possibilità della valorizzazione. La realizzazione del rapporto avviene soltanto nell'atto di produzione stesso, dove il capitale consuma effettivamente il lavoro altrui). Come per lui il lavoro in quanto valore di scambio presupposto viene scambiato conun equivalente in denaro, così questo denaro viene scambiato a sua volta con un equivalente in merce, che viene consumata. In questo processo di scambio il lavoro non è produttivo; esso diventa produttivo soltanto per il capitale; dalla circolazione il lavoro può detrarre soltanto quanto vi ha immesso, ossia una predeterminata quantità di merce, che non è un suo proprio prodotto più di quanto non sia un suo valore.

Gli operai, dice Sismondi, scambiano il loro lavoro con frumento, ma mentre essi consumano il frumento, il lavoro «è diventato capitale per il loro padrone» (Sismondi, VI). «Dando in cambio il loro lavoro, gli operai lo trasformano in capitale» (id. VIII). L'operaio, vendendo il suo lavoro, ottiene un diritto soltanto sul prezzo del lavoro, non sul prodotto di questo lavoro, né sul valore che il lavoro gli ha aggiunto (Cherbuliez, XXVIlI§9. «Vendita del lavoro = rinuncia a tutti i frutti del lavoro» (1. c.). Tutti i progressi della civiltà dunque, o in altre parole ogni incremento delle forze produttive sociali, if you want, delle forze produttive del lavoro stesso — quali risultano dalla scienza, dalle scoperte, dalla divisione e combinazione del lavoro, dal miglioramento dei mezzi di comunicazione, dalla creazione del mercato mondiale, dalle macchine — arricchiscono non l'operaio, ma il capitale; non fanno altro che ingigantire il dominio sul lavoro; incrementano soltanto la produttività del capitale. Poiché il capitale è l'antitesi dell'operaio, quei progressi accrescono soltanto il potere oggettivo sul lavoro.

La trasformazione del lavoro (come attività vivente finalistica) in capitale, è in sé il risultato dello scambio tra capitale e lavoro, in quanto dà al capitalista il diritto di proprietà sul prodotto del lavoro (e il comando sul lavoro). Ma questa trasformazione viene posta soltanto nel processo di produzione stesso. È dunque assurdo chiedersi se il capitale sia produttivo oppure no. Il lavoro stesso è produttivo solo in quanto è assunto nel capitale, ove il capitale costituisce la base della produzione, e il capitalista è colui che comanda la produzione. La produttività del lavoro diventa produttività del capitale così come il valore di scambio generale delle merci si fissa nel denaro. Il lavoro quale esiste per sé nell'operaio, in antitesi al capitale, il lavoro dunque nella sua esistenza immediata, separata dal capitale, non è produttivo. Come attività dell'operaio esso non diventa nemmeno mai produttivo finché entra soltanto nel processo di circolazione semplice, in cui la trasformazione è soltanto formale.

Perciò coloro che indicano in ogni produttività attribuita al capitale nient'altro che una transustanziazione, una trasposizione della produttività del lavoro, dimenticano appunto che il capitale stesso è essenzialmente questa transustanziazione, questa trasposizione; essi poi dimenticano che, poiché il lavoro salariato in quanto tale presuppone il capitale, anche esso da parte sua è questa transustanziazione, questo necessario processo di rendere le sue stesse forze estranee all'operaio. Lasciar sussistere il lavoro salariato e nello stesso tempo sopprimere il capitale è dunque una rivendicazione che si autocontraddice e si autodistrugge.

Altri, anch'essi economisti, come p. es. Ricardo, Sismondi ecc., dicono che soltanto il lavoro e non il capitale, è produttivo. Ma in tal modo costoro lasciano sussistere il capitale non nella sua specifica determinatezza formale, ossia come rapporto di produzione riflesso in sé, ma pensano soltanto alla sua sostanza materiale, alla materia prima ecc. Ma non sono questi elementi materiali che fanno del capitale il capitale. D'altra parte poi essi si accorgono che il capitale per un suo verso è valore, quindi qualcosa di immateriale, di indifferente alla sua sostanza materiale44. E allora Say afferma: «Il capitale è sempre di natura immateriale, giacché non è la materia che costituisce il capitale, ma il valore di questa materia, valore che non ha nulla di corporeo» (Say, 21) Oppure Sismondi: «Il capitale è un'idea commerciale» (Sismondi, LX). Ma a questo punto si accorgono che il capitale è anche una determinazione economica diversa da quella di valore, perché altrimenti non sarebbe nemmeno possibile parlare di capitale a differenza del valore, dato che, se tutti i capitali sono valori, non tutti i valori in quanto tali sono capitale. E allora si rifugiano di nuovo nella forma materiale che esso assume entro il processo di produzione, come fa p. es. Ricardo quando definisce il capitale come «lavoro accumulato impiegato per la produzione di nuovo lavoro», ossia come mero strumento o materiale di lavoro.

In questo senso Say47 parla addirittura di «servizio produttivo del capitale» su cui si baserebbe la sua remunerazione: come se lo strumento di lavoro in quanto tale pretendesse il ringraziamento dell'operaio, e come se non fosse invece proprio in virtù di quest'ultimo che esso è posto come strumento di lavoro produttivo. In tal modo l'autonomia dello strumento di lavoro — che è una sua determinazione sociale, vale a dire la sua determinazione di capitale — viene presupposta per dedurne i diritti del capitale. L'affermazione di Proudhon: «il capitale vale, il lavoro produce»48 — non significa assolutamente nient'altro che: il capitale è valore; e poiché qui del capitale non si dice altro, quell'affermazione non significa altro che: esso è valore, ossia il valore è valore (il soggetto del giudizio è qui semplicemente un altro nome per il predicato), e il lavoro produce, è attività produttiva, ossia il lavoro è lavoro, giacché appunto esso non è altro al di fuori del «produrre».

Che questi giudizi identici non contengano un particolare fonds di saggezza, non occorre nemmeno insistervi, tanto è evidente come essi non riescano ad esprimere una situazione in cui valore e lavoro entrino in un rapporto di interferenza e di distinzione reciproche al tempo stesso, e non di giustapposizione di elementi reciprocamente indifferenti. Già il fatto che è il lavoro a presentarsi come soggetto di fronte al capitale, e cioè che l'operaio è soltanto nella determinazione del lavoro, e questa non coincide con lui personalmente —, già questo fatto dovrebbe aprire gli occhi. A prescindere dal capitale, in ciò è già implicito una relazione, un rapporto dell'operaio con la sua stessa attività, rapporto che non è affatto «naturale», ma contiene già una specifica determinazione economica.

Il capitale, finché lo consideriamo qui come rapporto da distinguere dal valore e dal denaro, è il capitale in generale, ossia l'insieme delle determinazioni che distinguono il valore come capitale, dal valore come mero valore o denaro. Valore, denaro, circolazione ecc., prezzi ecc., sono presupposti, e così anche lavoro ecc. Ma noi non abbiamo a che fare ancora né con una forma particolare del capitale, né col singolo capitale distinto da altri singoli capitali ecc. Siamo ancora al suo processo di formazione. Questo processo di formazione dialettico è soltanto l'espressione ideale del movimento reale attraverso cui il capitale si sviluppa. I rapporti successivi debbono essere considerati come sviluppo da questo germe. Ma è necessario fissare la forma determinata in cui esso è posto ad un certo punto. Altrimenti nasce confusione.

[Processo di valorizzazione. - (Costi di produzione). Impossibilità di spiegare il surplusvalue attraverso lo exchange. (Ramsay. Ricardo). Il capitalista non può vivere del suo salario ecc. (Spese improduttive). - La semplice autoconservazione del valore, la sua moltiplicazione, contraddice alla natura del capitale]

Fin qui abbiamo considerato il capitale dal suo lato materiale come un processo di produzione semplice. Questo processo però, dal lato della determinazione formale, è un processo di autovalorizzazione, e l'autovalorizzazione implica sia la conservazione, sia la moltiplicazione del valore preesistente.

Il valore compare come soggetto. Poiché il lavoro è attività conforme a scopo, dal lato materiale si presuppone che nel processo di produzione lo strumento di lavoro sia stato realmente usato come mezzo per uno scopo, e che la materia prima, come prodotto, abbia conservato, attraverso la trasformazione chimica o la modificazione meccanica, un valore d'uso superiore a quello precedentemente posseduto. Solo che questo lato materiale, riguardando soltanto il valore d'uso, rientra ancora nel processo di produzione semplice.

Qui il problema non è — anzi, ciò è già implicitamente presupposto — che si è prodotto un valore d'uso superiore (il che è un fatto estremamente relativo; se p. es. il grano viene adoperato per fare l'acquavite, il valore d'uso superiore è già implicito, in rapporto alla circolazione); per l'individuo, per il produttore, non si è prodotto ancora alcun valore d'uso superiore. Per lo meno ciò è accidentale e non riguarda il rapporto in quanto tale. Il problema invece è che viene prodotto un valore d'uso superiore per altri, e quindi un superiore valore di scambio. Nella circolazione semplice il processo, per la singola merce, terminava quando essa giungeva al suo destinatario e veniva consumata come valore d'uso. Con ciò essa usciva dalla circolazione, perdeva il suo valore di scambio, e in generale la sua determinazione economica formale. Il capitale da parte sua ha consumato il suo materiale mediante il lavoro e il lavoro mediante il suo materiale; questo si è consumato come valore d'uso, ma soltanto come valore d'uso per esso stesso in quanto capitale. Il suo consumo come valore d'uso rientra dunque anch'esso nella circolazione, o piuttosto esso cosìtuisce l'inizio stesso della circolazione o, se si vuole, la sua fine. Il consumo del valore d'uso rientra qui esso stesso nel processo economico perché qui il valore d'uso è esso stesso determinato dal valore di scambio. In nessun momento del processo di produzione il capitale cessa di essere capitale, o il valore cessa di essere valore e, come tale, valore di scambio.

Nulla è più insulso che dire, come fa il sig. Proudhon49, che attraverso l'atto dello scambio, ossia per il fatto di rientrare di nuovo nella circolazione semplice, il capitale da prodotto diventa valore di scambio. Se così fosse noi saremmo di nuovo ricacciati all'inizio, addirittura al baratto immediato, dove è contemplata la nascita del valore di scambio dal prodotto. Che il capitale, dopo la fine del processo di produzione, dopo essere stato consumato come valore di uso, entri e possa entrare di nuovo in circolazione come merce, è già implicito nel fatto che esso era presupposto come valore di scambio che si conserva. Ma nella misura in cui esso ora, come semplice prodotto, ridiventa merce, e come merce diventa valore di scambio, riceve un prezzo e come tale viene realizzato nel denaro, esso è una semplice merce, un valore di scambio in generale, e come tale nella circolazione è esposto ugualmente al destino di realizzarsi ma anche di non realizzarsi nel denaro; ossia al destino che il suo valore di scambio diventi o non diventi denaro. Il suo valore di scambio quindi — che poc'anzi era posto idealmente — è diventato molto più problematico di quanto non fosse all'origine. Ora, il fatto che esso è posto nella circolazione realmente come un valore di scambio superiore, questo fatto non può derivare dalla circolazione stessa, nella quale, appunto perché è una circolazione semplice, vengono scambiati soltanto equivalenti. Se esso ne esce come valore di scambio superiore, deve esservi entrato come tale.

Il capitale, formalmente, non è costituito di oggetti di lavoro e lavoro, ma di valori, e più precisamente di prezzi. Che i suoi elementi di valore abbiano in comune sostanze diverse durante il processo di produzione, non riguarda la loro determinazione di valori; non è questo ciò che li modifica. Se, partendo dalla loro forma dinamica — di processo —, alla fine di quest'ultimo essi si consolidano di nuovo nella forma statica e oggettiva del prodotto, anche questo è un semplice ricambio materiale che investe il valore, ma che non lo altera. Certo, le sostanze come tali sono state distrutte, ma non sono finite in nulla, bensì in una sostanza diversamente formata. Prima esse si presentavano come condizioni elementari e indifferenti del prodotto. Ora esse sono prodotto. Il valore del prodotto può essere dunque soltanto uguale alla somma dei valori che erano materializzati nei determinati elementi materiali del processo, come materia prima, strumento di lavoro (cui appartengono anche le merci puramente strumentali) e come lavoro stesso.

La materia prima è stata totalmente consumata, il lavoro è stato totalmente consumato, lo strumento di lavoro invece è stato consumato soltanto parzialmente, sicché continua a possedere una parte del valore del capitale nella determinata forma di esistenza che esso aveva prima del processo. Questa parte perciò non entra in considerazione qui, perché non ha subito alcuna alterazione. I diversi modi di esistere dei valori sono pura parvenza; mentre essi scomparivano, il valore stesso ne costituiva la sostanza permanente. Il prodotto considerato come valore non è, in questo senso, un prodotto, ma anzi un valore rimasto identico, inalterato, salvo ad avere acquistato un'altra forma di esistenza, che però gli è anche indifferente e può essere scambiata con denaro. Il valore del prodotto è = al valore della materia prima + il valore della parte distrutta (ossia passata al prodotto, superata nella sua forma primitiva) dello strumento di lavoro + il valore del lavoro. Oppure: il prezzo del prodotto è = a questi costi di produzione, ossia = alla somma dei prezzi delle merci consumate nel processo di produzione.

Ciò vuol dire, in altri termini, nient'altro che questo: che il processo di produzione, per il suo lato materiale, è stato indifferente ai fini del valore; e che perciò il valore è rimasto identico a se stesso e ha soltanto assunto un altra forma di esistenza materiale, si è materializzato in un'altra forma e sostanza. (La forma della sostanza non riguarda affatto la forma economica, il valore in quanto tale). Posto che all'inizio il capitale era = 100 talleri, esso è rimasto = 100 talleri come prima, quantunque i 100 talleri nel processo di produzione siano esistiti come 50 talleri di cotone, 40 talleri di salario + 10 talleri di fuso; ed ora esistono sotto forma di filo al prezzo di 100 talleri. Questa riproduzione dei 100 talleri è un semplice rimanere-identico-a-se-stesso, salvo che è mediato dal processo materiale di produzione.

Questo deve dunque continuare fino a sfociare nel prodotto, giacché altrimenti il cotone perde il suo valore, lo strumento è stato usato inutilmente, e il salario pagato inutilmente. L'unica condizione per l'auto-conservazione del valore è che il processo di produzione sia un processo totale reale, che cioè continui fino a sfociare nel prodotto. La totalità del processo di produzione, il fatto cioè di continuare fino a sfociare nel prodotto, è qui in effetti condizione dell'autoconservazione, del rimanere-identico-a-sé del valore, ma ciò è già implicito nella prima condizione, quella per cui il capitale diventa realmente un valore d'uso, è cioè un reale processo di produzione; a questo punto dunque la totalità del processo di produzione è presupposta.

D'altra parte per il capitale il processo di produzione è tale soltanto in quanto esso, come valore, si conserva in questo processo, ovvero nel prodotto. La proposizione: il prezzo necessario è = alla somma dei prezzi dei costi di produzione — è perciò puramente analitica. È il presupposto della produzione stessa del capitale. Il capitale è posto una volta come 100 talleri, ossia come valore semplice; poi in questo processo è posto come somma dei prezzi dei determinati — determinati dal prezzo di produzione stesso — elementi di valore di cui esso è composto. Il prezzo del capitale, il suo valore espresso in denaro, è = al prezzo del suo prodotto. Vale a dire che il valore del capitale come risultato del processo di produzione è lo stesso che era come presupposto di esso. Solo che questo valore durante il processo non rimane intatto, né nella sua semplicità iniziale né in quella finale che esso ha di nuovo come risultato, bensì si scompone in elementi quantitativi dapprima assolutamente indifferenti, ossia in valore del lavoro (salario), valore dello strumento di lavoro e valore della materia prima.

Inoltre non esiste ancora altra relazione, tranne quella per cui nel prezzo di produzione il valore semplice si scompone numericamente, diventa cioè una quantità di valori, la quale nel prodotto si ricompone nella sua semplicità, ma ormai sotto forma di somma. Ma la somma è = all'unità originaria. Per il resto, per quanto riguarda il valore, se si eccettua questa divisione quantitativa non c'è qui ancora alcun'altra differenza nella relazione tra le diverse quantità di valore. 100 talleri era il capitale originario; 100 talleri è il prodotto, ma questi 100 talleri ora sono la somma di 50 + 40 + 10 talleri. Io avrei potuto considerare anche all'origine i 100 talleri come una somma di 50 + 40+10 talleri, oppure come somma di 60 + 30 + 20 talleri ecc. Il fatto che ora essi si presentano come somma di determinate quantità di unità, è dovuto al fatto che i diversi elementi materiali in cui il capitale si è scomposto nel processo di produzione rappresentano ognuno una parte, ma una parte determinata del suo valore.

In seguito si vedrà che queste quantità in cui si scompone l'unità originaria hanno anch'esse determinati rapporti reciproci — ma ciò per ora non ci interessa.

Se durante il processo di produzione esiste un movimento nel valore stesso, tale movimento è puramente formale, ed è costituito da questo semplice atto: che in primo luogo il valore esiste come unità, o meglio è una determinata quantità di unità che viene considerata essa stessa come unità, come un tutto — capitale di 100 talleri; che, in secondo luogo, durante il processo di produzione questa unità viene suddivisa in 50, 40 e 10 talleri — una divisione che è essenziale in quanto la materia di lavoro, lo strumento e il lavoro vengono usati in determinate quantità, ma qui, in rapporto ai 100 talleri, essi rappresentano soltanto un'indifferente scomposizione di una medesima unità in diverse quantità; che infine nel prodotto i 100 talleri ricompaiono come somma. In relazione al valore il processo è un solo: il valore si presenta una volta come un tutto, come unità; poi come divisione di questa unità in una determinata quantità; infine come somma. I 100 talleri che alla fine compaiono come somma sono esattamente la stessa somma che all'inizio compariva come unità. La determinazione della somma, dell'addizione, venne fuori soltanto attraverso la divisione avvenuta nell'atto di produzione ma non esiste nel prodotto come tale.

Quindi la proposizione, che il prezzo del prodotto è = al prezzo dei costi di produzione, o che il valore del capitale è = al valore del prodotto, non vuol dire altro che questo: che il valore del capitale si è conservato nell'atto di produzione, ed ora si presenta come somma. Con questa mera identità del capitale o riproduzione del suo valore attraverso il processo di produzione noi non avremmo fatto ancora alcun passo avanti rispetto alla posizione iniziale. Ciò che all'inizio esisteva come presupposto, esiste ora come risultato, e in forma inalterata. Che gli economisti in realtà non intendano dir questo quando parlano della determinazione del prezzo mediante i costi di produzione, è chiaro. Altrimenti non si potrebbe mai creare un valore maggiore di quello esistente all'origine; non si potrebbe creare alcun valore di scambio maggiore, sebbene si possa creare un valore d'uso maggiore — di cui però qui non si fa parola. Qui si tratta del valore d'uso del capitale, non del valore d'uso di una merce.

Quando si dice che i costi di produzione o il prezzo necessario di una merce è =110, si fa questo calcolo: capitale originario =100 (quindi p. es., materia prima =50; lavoro =40; strumento =10) +5% d'interesse +5% di profitto. Dunque i costi di produzione sono =110, non = 100; i costi di produzione sono cioè maggiori dei costi della produzione. Non giova a nulla a questo punto rifugiarsi, come amano fare alcuni economisti, dal valore di scambio nel valore d'uso della merce. Che come valore d'uso questo sia superiore o inferiore, non è il valore di scambio a deciderlo. Accade spesso che le merci cadano al di sotto dei loro prezzi di produzione, pur mantenendo incontestabilmente un valore d'uso superiore a quello che avevano nel periodo anteriore alla produzione. Altrettanto vano è cercare scampo nella circolazione. Io produco a 100, ma vendo a 110. «Il profitto non è prodotto dallo scambio. Se non esisteva prima della transazione non avrebbe potuto esistere nemmeno dopo» (Ramsay IX, 88)50. Ciò significa voler spiegare l'aumento del valore in base alla circolazione semplice, mentre invece essa lo pone espressamente soltanto come equivalente.

Anche da un punto di vista empirico è evidente che se tutti vendono al 10% in più, è come se tutti vendessero ai costi di produzione. Il plusvalore sarebbe allora puramente nominale, fittizio, convenzionale, un modo di dire. E poiché il denaro stesso è una merce, un prodotto, anch'esso verrebbe venduto al 10% in più, ossia il venditore che ricevesse 110 talleri, ne riceverebbe in effetti soltanto 100. (Vedi Ricardo sul commercio estero, che egli intende come circolazione semplice, onde la sua affermazione che «il commercio estero non può mai accrescere i valori di scambio di un paese» (Ricardo, 39, 40). I motivi che egli adduce a tal proposito sono assolutamente gli stessi che «dimostrano» che lo scambio in quanto tale, la circolazione semplice, insomma il commercio in generale, finché viene inteso come tale, non può mai accrescere i valori di scambio, mai produrre il v alore di scambio).

La proposizione: il prezzo è = ai costi di produzione — dovrebbe altrimenti significare anche: il prezzo di una merce è sempre maggiore dei suoi costi di produzione. Nel processo di produzione, a parte la semplice divisione e addizione numerica, al valore si aggiunge ancora l'elemento formale onde i suoi elementi si presentano poi come costi di produzione; gli elementi del processo di produzione stesso cioè vengono fissati, appunto, non nella loro determinatezza materiale, bensì come valori, il cui modo di esistere, che li caratterizza prima del processo di produzione, viene distrutto.

D'altra parte è evidente che se l'atto di produzione consiste soltanto nella riproduzione del valore del capitale, con esso si avrebbe soltanto una sua modificazione materiale, non una modificazione economica, così come è evidente che questa semplice conservazione del suo valore contraddice al suo concetto. È ben vero che esso non rimarrebbe fuori dalla circolazione, come il denaro che se ne mantiene autonomo, ma assumerebbe la forma di diverse merci. Ma sarebbe inutile; sarebbe un processo senza scopo, giacché alla fine esso rappresenterebbe soltanto l'identica somma di denaro, avrebbe soltanto corso il rischio di uscire dall'atto di produzione con le ossa rotte — giacché questo può andare storto e in esso il denaro perde la sua forma inalterabile —. Orbene. Il processo di produzione è ormai al termine. Il prodotto si è di nuovo realizzato in denaro, ed ha riassunto la forma originaria dei 100 talleri. Ma il capitalista deve anche mangiare e bere; non può certo vivere di questo mutamento formale del denaro. Una parte dei 100 talleri dunque dovrebbe essere scambiata, non come capitale ma come moneta, con merci che abbiano valore d'uso, ed essere consumata in questa forma. I talleri allora da 100 diventerebbero 90, e poiché egli in fondo riproduce il capitale sempre nella forma di denaro, ossia della quantità di denaro con cui ha iniziato la produzione, alla fine lui si sarebbe mangiati i 100 talleri e il capitale sarebbe sparito.

Inoltre: il capitalista viene pagato per il lavoro di immettere i 100 talleri come capitale nel processo di produzione, invece di mangiarseli. Ma di che cosa dovrebbe essere pagato? E il suo lavoro non appare puramente inutile, visto che il capitale include il salario, e che gli operai potrebbero vivere semplicemente riproducendo i costi di produzione, mentre il capitalista non può farlo? Egli figurerebbe dunque tra i faux frais de production. Quale che possa essere il suo merito, la riproduzione sarebbe possibile senza di lui, giacché nel processo di produzione gli operai non fanno che trasferire il valore che ricavano e perciò non hanno affatto bisogno di tutto il rapporto del capitale per ricominciarlo da capo; e inoltre non ci sarebbe alcun fondo con cui pagare questo suo merito, giacché il prezzo della merce è = ai costi di produzione. Se invece il suo lavoro fosse inteso come lavoro particolare accanto e al di fuori di quello degli operai, poniamo come lavoro di soprintendenza51 ecc., allora egli riceverebbe come loro un determinato salario, cadrebbe dunque nella loro categoria e il suo non sarebbe affatto il rapporto tra un capitalista e il lavoro; né si arricchirebbe, bensì riceverebbe soltanto un valore di scambio che dovrebbe consumare nella circolazione. L'esistenza del capitale di fronte al lavoro esige che il capitale per sé stante, il capitalista, possa esistere e vivere come non-operaio.

D'altra parte è altrettanto evidente che, anche in base alle comuni categorie economiche, il capitale che potesse soltanto conservare il suo valore, non lo conserverebbe. I rischi della produzione devono essere compensati. Il capitale deve conservarsi attraverso le oscillazioni dei prezzi. La progressiva e incessante svalutazione del capitale, che si accompagna all'aumento della produttività, deve essere compensata ecc. Perciò anche gli economisti dicono chiaro e tondo che se non risultasse alcun profitto, ognuno si mangerebbe il suo denaro invece di gettarlo nella produzione e di adoperarlo come capitale. Insomma, presupposta questa non-valorizzazione, questa non-moltiplicazione del valore del capitale, si presuppone che esso non è un elemento reale della produzione, non è uno specifico rapporto di produzione; si presuppone cioè una situazione nella quale i costi di produzione non hanno la forma del capitale, e il capitale non è posto come condizione della produzione.

È facile capire in che modo il lavoro può accrescere il valore d'uso; la difficoltà sta nel capire in che modo esso può creare valori di scambio superiori a quelli presupposti.

Posto che il valore di scambio che il capitale paga all'operaio sia l'esatto equivalente del valore che il lavoro crea nel processo di produzione, in questo caso un aumento del valore di scambio del prodotto sarebbe impossibile. Ciò che nel processo di produzione il lavoro in quanto tale avesse introdotto in più del valore presupposto della materia prima e dello strumento di lavoro, verrebbe pagato all'operaio. Il valore del prodotto stesso, nella misura in cui è un surplus sul valore della materia prima e dello strumento, sarebbe devoluto all'operaio; con la differenza che il capitalista gli paga questo valore in salario, e lui glielo restituisce in prodotto.

[Il capitale entra nei costi di produzione come capitale. Capitale fruttifero. - Proudhon]

[[Che per costi di produzione non venga intesa la somma dei valori che entrano nella produzione — persino da parte degli economisti che lo sostengono — risulta evidente nella questione dell'interesse per un capitale prestato. Questo interesse, per il capitalista industriale, rientra direttamente nelle sue spese, nei suoi costi di produzione effettivi. Ma l'interesse stesso implica già che il capitale esca dalla produzione come plusvalore, giacché esso interesse non è che una delle forme di questo plusvalore. Dato che allora l'interesse dal punto di vista del prestatore entra già nei suoi costi di produzione diretti, è evidente che il capitale in quanto tale entra nei costi di produzione, ma che il capitale in quanto tale non consiste in una mera addizione dei suoi elementi di valore. Nell'interesse il capitale stesso si presenta di nuovo nella determinazione della merce, ma come una merce specificamente diversa da tutte le altre merci; il capitale come tale — non come una mera somma di valori di scambio — entra nella circolazione e diventa merce. Qui abbiamo il carattere della merce stessa come determinazione economica, specifica, che non è indifferente come nella circolazione semplice, né è direttamente riferita al lavoro quale antitesi, quale suo valore d'uso come nel capitale industriale, che è il capitale nelle sue determinazioni più immediate risultanti dalla produzione e dalla circolazione.

La merce come capitale o il capitale come merce non viene perciò scambiato nella circolazione con un equivalente; entrando in circolazione esso conserva il suo essere-per-sé; conserva insomma il suo originario rapporto col suo proprietario, anche se passa nelle mani di un altro possessore. Esso viene perciò soltanto prestato. Il suo valore d'uso in quanto tale per il suo proprietario consiste nella sua valorizzazione, nell'essere cioè denaro come denaro, non come mezzo di circolazione; nel suo valore d'uso come capitale. La pretesa avanzata dal sig. Proudhon, che il capitale non sia prestato e non dia un interesse, ma sia venduto come merce al suo equivalente come qualsiasi altra merce, equivale né più né meno che alla pretesa che il valore di scambio non diventi mai capitale, ma rimanga semplice valore di scambio; ossia, che il capitale, non esista come capitale.

Questa pretesa, che fa il paio con l'altra che il lavoro salariato rimanga la base generale della produzione, rivela un'allegra confusione sui concetti economici più elementari52. Donde la figura miserabile che egli fa nella polemica con Bastiat; — ma di ciò, in seguito. Tutto il bailamme sul giusto prezzo e sulle salvaguardie giuridiche non mira ad altro che ad applicare il rapporto di proprietà o rapporto giuridico corrispondente allo scambio semplice, come criterio del rapporto di proprietà e giuridico proprio di uno stadio superiore del valore di scambio. Donde poi Bastiat, inconsapevolmente, a sua volta finisce col cogliere nella circolazione semplice quei momenti che spingono in direzione del capitale. — Il capitale come merce è il denaro come capitale, o il capitale come denaro]].

[[Il terzo momento che occorre sviluppare nella formazione del concetto di capitale è l'accumulazione originaria di fronte al lavoro, e quindi il lavoro ancora privo di oggetto di fronte all'accumulazione. Nel primo momento si partiva dal valore in quanto risultava dalla e presupponeva la circolazione: era il concetto semplice di capitale; il denaro che veniva continuamente indotto a diventare immediatamente capitale. Nel secondo momento si partiva dal capitale come presupposto e risultato della produzione. Il terzo momento pone il capitale come unità determinata della circolazione e della produzione. (Il rapporto tra capitale e lavoro, tra capitalista e operaio diventa esso stesso un risultato del processo di produzione). È necessario distinguere tra questa accumulazione originaria e l'accumulazione dei capitali; questa presuppone capitali, ossia il rapporto del capitale come esistente, e presuppone dunque anche le sue relazioni col lavoro, con i prezzi (capitale fisso e capitale circolante), l'interesse e il profitto.

Ma il capitale per costituirsi presuppone una certa accumulazione, la quale è contenuta già nell'antitesi autonoma tra lavoro oggettivato e lavoro vivo, nel sussistere autonomo di questa antitesi. Questa accumulazione necessaria al costituirsi del capitale, e che dunque è già assunta come presupposto — come un momento — nel suo concetto, va distinta sostanzialmente dall'accumulazione del capitale costituitosi come capitale, in cui è necessario che già ci siano dei capitali]].

[[Noi abbiamo già visto finora che il capitale presuppone: 1) il processo di produzione in generale, proprio di tutte le situazioni sociali, quindi senza carattere storico, umano, if you please; 2) la circolazione, che già in ciascuno dei suoi momenti, e ancor più nella sua totalità, è un determinato prodotto storico; 3) il capitale come unità determinata di entrambi. In che misura poi il processo di produzione generale viene a sua volta storicamente modificato non appena si presenta ormai come elemento del capitale, ciò deve risultare attraverso lo sviluppo del processo di produzione stesso; così come è dalla semplice comprensione delle differenze specifiche del capitale che devono risultare in generale i suoi presupposti storici]].

[[Tutto il resto è chiacchiera oziosa. Soltanto a conclusione e come risultato dell'intero sviluppo si potrà sapere quali determinazioni vanno accolte nella prima sezione, che dovrà trattare Della produzione in generale, e nel primo capitolo della seconda sezione, che dovrà trattare Del valore di scambio in generale. P. es. abbiamo già visto che la distinzione fra valore d'uso e valore di scambio rientra già nell'economia, e che il valore d'uso non sta lì morto come un semplice presupposto, come accade in Ricardo. Il capitolo della produzione termina oggettivamente col prodotto come risultato; quello della circolazione comincia con la merce, che a sua volta è valore d'uso e valore di scambio e quindi anche valore diverso da entrambi). Dunque è circolazione come unità di entrambi — la quale è però soltanto formale e perciò si riduce alla merce, come mero oggetto di consumo in senso extraeconomico, e al valore di scambio come denaro divenuto autonomo]].

[Plusvalore. Tempo di lavoro supplementare. - Bastiat sul sistema salariale. Valore del lavoro. Come si determina? - Autovalorizzazione è autoconservazione del capitale. Il capitalista non può vivere semplicemente del proprio lavoro ecc. Condizioni per la autovalorizzazione del capitale. Tempo di lavoro supplementare ecc. Fino a quali limiti il capitale è produttivo (come creatore di pluslavoro ecc.), è solo un fatto storico-transitorio. - I liberi negri della Giamaica. - La ricchezza come entità autonoma richiede lavoro schiavistico o lavoro salariato (in entrambi i casi è lavoro coercitivo)]

Se il capitale al termine del processo di produzione si trova ad avere un plusvalore — un plusvalore che come maggior prezzo del prodotto viene realizzato soltanto nella circolazione, ma al modo di tutù i prezzi che, se in essa si realizzano, è perché sono già idealmente presupposti ad essa, sono cioè determinati già prima di entrarvi — ciò significa, conforme al concetto generale di valore di scambio, che il tempo di lavoro oggettivato nel prodotto o quantità di lavoro (nella sua espressione statica la grandezza del lavoro si presenta come quantità spaziale, mentre nella sua espressione dinamica è misurabile soltanto per mezzo del tempo) è maggiore di quella esistente negli elementi originari del capitale. Ora, ciò è possibile solo se il lavoro oggettivato nel prezzo del lavoro è inferiore al tempo di lavoro vivo che con esso è stato comprato.

Il tempo di lavoro oggettivato nel capitale si presenta, come abbiamo visto, come una somma costituita da tre parti: a) il tempo di lavoro oggettivato nella materia prima; b) il tempo di lavoro oggettivato nello strumento; c) il tempo di lavoro oggettivato nel prezzo di lavoro. Ma le parti a) e b) rimangono inalterate come parti costitutive del capitale; anche se nel processo esse modificano la loro struttura, la loro forma di esistenza materiale, come valori esse rimangono inalterate. È soltanto c) dunque che il capitale scambia con qualcosa di qualitativamente diverso; una data quantità di lavoro oggettivato si scambia con una quantità di lavoro vivo.

Se il tempo di lavoro vivo si limitasse a riprodurre soltanto il tempo di lavoro oggettivato nel prezzo di lavoro, anche questo sarebbe un fatto meramente formale, e, per quanto riguarda il valore, noi avremmo in generale soltanto uno scambio con lavoro vivo quale diverso modo d'essere del medesimo valore, così come in rapporto al valore della materia e dello strumento di lavoro abbiamo avuto soltanto un'alterazione della loro forma di esistenza materiale. Una volta che il capitalista abbia pagato all'operaio un prezzo uguale ad una giornata lavorativa, e che la giornata lavorativa dell'operaio abbia aggiunto alla materia prima e allo strumento soltanto una giornata lavorativa, il capitalista avrebbe scambiato semplicemente il valore di scambio in una forma con il valore di scambio in un'altra forma. Egli non avrebbe agito come capitale. D'altra parte l'operaio non sarebbe rimasto nel semplice processo di scambio; egli avrebbe in effetti ricevuto in pagamento il prodotto del suo lavoro, solo che il capitalista gli avrebbe fatto il piacere di pagargli in anticipo il prezzo del prodotto prima della sua realizzazione. Il capitalista gli avrebbe fatto credito, e gratis, pour le roi de Prusse. Voilà tout. Lo scambio tra capitale e lavoro, il cui risultato è il prezzo del lavoro, se da parte dell'operaio è uno scambio semplice, da parte del capitalista deve essere un non-cambio. Egli deve ricevere più valore di quanto ha dato.

Lo scambio, dal lato del capitale, deve essere soltanto apparente, appartenere cioè ad una determinazione economica formale diversa da quella dello scambio, o altrimenti il capitale come capitale e il lavoro come lavoro opposto al capitale sarebbero impossibili. Essi si scambierebbero soltanto come valori di scambio identici con una forma di esistenza materiale diversa.

— Per giustificare il capitale, Per farne l'apologia, gli economisti si rifugiano allora in questo processo semplice, spiegando appunto il capitale mediante un processo che ne rende impossibile l'esistenza. Per dimostrarlo, lo dimostrano prescindendo dalla sua esistenza. Tu mi paghi il mio lavoro, lo scambi col suo stesso prodotto e mi defalchi il valore della materia prima e del materiale che mi hai fornito. Ossia, nell'introdurre i diversi elementi nel processo di produzione e nello scambiarli al loro valore, noi siamo associés. Cosìcché il prodotto viene trasformato in denaro e il denaro viene ripartito in modo che tu capitalista ricevi il prezzo della tua materia prima e dello strumento, e io operaio ricevo il prezzo che il lavoro ha aggiunto loro. Il tuo utile sta nel fatto che tu ora possiedi materia prima e strumento in una forma consumabile (atta a circolare), e il mio, nel fatto che il mio lavoro si è valorizzato. Naturalmente a te capiterebbe presto dì mangiarti il tuo capitale nella forma di denaro, mentre io come operaio verrei in possesso di entrambi.

Ciò che l'operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro (nello scambio, la disponibilità su di esso); egli lo aliena. Ciò che riceve come prezzo, è il valore di questa alienazione. Egli scambia l'attività creatrice di valore con un valore predeterminato indipendentemente dal risultato della sua attività*. (* Uno dei prodigiosi parti della saggezza del sig. Bastiat è che il sistema salariale è una forma inessenziale, meramente formale, una forma di associazione, che come tale non ha nulla a che fare col rapporto economico tra lavoro e capitale. Sè, egli dice, gli operai fossero così ricchi, da poter aspettare fino a che il prodotto sia terminato e venduto, il sistema salariale, il lavoro salariato, non impedirebbe loro di stipulare col capitalista un contratto altrettanto vantaggioso di quello che il capitalista stipula con l'altro capitalista. Dunque il male non sta nella forma del sistema salariale, ma in condizioni indipendenti da esso. Che poi queste condizioni siano le stesse condizioni del sistema salariale, non gli passa naturalmente nemmeno per la testa. Se gli operai fossero nello stesso tempo capitalisti, il loro rapporto effettivo nei confronti del capitale che non lavora, non sarebbe quello di operai che lavorano, ma di capitalisti che lavorano — ossia la loro forma non sarebbe quella di operai salariati. Perciò per il signor Bastiat anche salario e profitto sono sostanzialmete la stessa cosa che profitto e interesse. Egli chiama armonia dei rapporti economici il fatto che esistono rapporti economici solo apparentemente, ma in realtà, esiste sostanzialmente un solo rapporto — quello dello scambio semplice. Le forme sostanziali gli appaiono perciò in se stesse come prive di contenuto, ossia come forme nient'affatto reali.)

Ma com'è determinato il suo valore? Dal lavoro oggettivato contenuto nella sua merce. Questa merce esiste nel suo organismo. Per ottenerla dall'oggi al domani — qui non abbiamo ancora a che fare con la classe operaia, e quindi con il risarcimento del suo uso e consumo affinché possa conservarsi come classe, giacché qui l'operaio si contrappone al capitale come operaio, e perciò come soggetto perenne presupposto, non ancora come individuo transeunte della specie operaia —, egli deve consumare una determinata quantità di mezzi di sussistenza, ricostituire il sangue consumato ecc. Egli riceve soltanto un equivalente. Quindi, domani, una volta compiuto lo scambio — e solo quando ha concluso formalmente lo scambio egli lo realizza nel processo di produzione — la sua capacità di lavoro esiste tal quale era prima: egli ha ricevuto un esatto equivalente, giacché il prezzo che ha ricevuto lo lascia in possesso del medesimo valore di scambio che egli aveva prima. La quantità di lavoro oggettivato che è contenuta nel suo organismo gli è stata pagata dal capitale. Una volta consumata, e poiché essa non esisteva in forma materiale ma come capacità di un essere vivente, l'operaio, in virtù della natura specifica della sua merce — della specifica natura del processo vitale — può rinnovare lo scambio.

Che poi oltre al tempo di lavoro oggettivato nel suo organismo — ossia al tempo di lavoro occorrente per pagare i prodotti necessari al mantenimento di questo suo organismo — sia oggettivato in tutto il suo essere immediato ancora altro lavoro, e cioè i valori che egli ha consumato per produrre una determinata capacità di lavoro, una particolare abilità, il cui valore si rivela nel problema dei costi di produzione ai quali è possibile produrre un'analoga determinata abilità lavorativa —, tutto ciò non ci riguarda ancora a questo punto. Qui non si tratta di un lavoro particolarmente qualificato, ma del lavoro in generale, del lavoro semplice.

Se per mantenere in vita un operaio per una giornata lavorativa occorresse una giornata lavorativa, il capitale non esisterebbe, giacché la giornata lavorativa si scambierebbe con il suo stesso prodotto, e ciò renderebbe impossibile la valorizzazione e la stessa conservazione del capitale in quanto capitale. L'autoconservazione del capitale coincide con la sua autovalorizzazione. Se il capitale, per vivere, dovesse anche lavorare, si conserverebbe non come capitale, ma come lavoro. La proprietà di materie prime e strumenti di lavoro sarebbe soltanto nominale; dal punto di vista economico essi apparterrebbero all'operaio allo stesso titolo per cui apparterrebbero al capitalista, dal momento che gli creerebbero un valore solo nella misura in cui egli stesso fosse operaio. Egli perciò non si riferirebbe ad essi in quanto sono capitale, ma in quanto sono materia e strumento di lavoro, così come fa l'operaio nel processo di produzione.

Se invece occorre, per esempio, soltanto mezza giornata lavorativa per mantenere in vita un operaio per un'intera giornata lavorativa, allora il plusvalore del prodotto risulta automaticamente, perché il capitalista ha pagato soltanto il prezzo di mezza giornata lavorativa, mentre ne ottiene una intera oggettivata nel prodotto; dunque, per la seconda metà della giornata lavorativa egli non ha scambiato nulla. Ciò che solo può fare di lui un capitalista non è dunque lo scambio, ma un processo in cui egli senza scambio riceve tempo di lavoro oggettivato, ossia valore. La mezza giornata lavorativa al capitale non costa nulla; esso dunque riceve un valore per il quale non ha dato nessun equivalente. E la moltiplicazione dei valori può aver luogo solo se si ottiene, e quindi si crea, un valore superiore all'equivalente.

Il plusvalore è in generale un valore superiore all'equivalente. L'equivalente, per sua definizione, non è altro che la identità del valore con se stesso. Dall'equivalente perciò non può mai scaturire il plusvalore; e quindi neanche originariamente dalla circolazione; esso deve scaturire dal processo di produzione del capitale stesso.

Si può esprimere la cosa anche in questi termini: se l'operaio ha bisogno soltanto di mezza giornata lavorativa per viverne una intera, allora, per condurre la sua esistenza di operaio, ha bisogno di lavorare soltanto mezza giornata. La seconda metà della giornata lavorativa è lavoro coercitivo; è pluslavoro. Ciò che dalla parte del capitale si presenta come plusvalore, dalla parte dell'operaio si presenta esattamente come plus- lavoro che oltrepassa il suo bisogno di operaio, oltrepassa cioè il suo immediato bisogno di conservare il suo organismo. Il grande ruolo storico del capitale è di creare questo pluslavoro, questo lavoro superfluo dal punto di vista del semplice valore d'uso, della pura sussistenza; e la sua funzione storica è compiuta quando, da un lato, i bisogni sono talmente sviluppati che il pluslavoro al di là del necessario diventa esso stesso un bisogno generale, scaturisce cioè dagli stessi bisogni individuali, — dall'altro la generale laboriosità, mediante la rigorosa disciplina del capitale attraverso cui sono passate le successive generazioni, è diventata un possesso generale della nuova generazione.

Infine la sua funzione storica è compiuta quando tale laboriosità — mediante lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, che il capitale, nella sua illimitata brama di arricchimento e nelle condizioni in cui esso solo può realizzarlo, sferza costantemente ad andare avanti, — è a tal punto matura che, da una parte, il possesso e la conservazione della ricchezza generale esigono un tempo di lavoro inferiore per l'intera società, e dall'altra la società lavoratrice affronta scientificamente il processo della sua progressiva e sempre più ricca riproduzione; e quindi cessa il lavoro in cui l'uomo fa ciò che può lasciar fare alle cose in vece sua. Sicché, a questo punto, si può dire che il capitale stia al lavoro come il denaro sta alla merce. Se l'uno è la forma generale della ricchezza, l'altro è soltanto la sostanza che ha per scopo il consumo immediato.

Ma nella sua incessante tensione verso la forma generale della ricchezza il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo. Il lavoro di questa individualità perciò non si presenta nemmeno più come lavoro, ma come sviluppo integrale dell'attività stessa, nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa, perché al bisogno naturale è subentrato un bisogno storicamente prodotto. Perciò il capitale è produttivo; ossia è un rapporto essenziale allo sviluppo delle forze produttive sociali. Esso cessa di essere tale solo quando lo sviluppo di queste forze produttive trova una barriera nel capitale stesso.

Il «Times» del novembre 1857 54 riporta una divertente invettiva di un piantatore delle Indie Occidentali. Con enorme sdegno morale, questo avvocato difensore del ripristino della schiavitù dei negri narra come qualmente i Quashees (i liberi negri della Giamaica) si appagano di produrre lo stretto necessario al loro consumo personale e considerano come vero e proprio articolo di lusso, accanto a questo «valore d'uso», la pigrizia stessa (indulgence and idleness); come qualmente essi se ne fregano altamente dello zucchero e del capitale fisso investito nelle piantagioni, e anzi con ironico cinismo sogghignano ai piantatori sull'orlo del fallimento, e arrivano persino a sfruttare il Cristianesimo a cui sono stati iniziati, come aureola per questa cinica disposizione all'indolenza. Essi hanno cessato di essere schiavi, per diventare non certo operai salariati, bensì campagnuoli autosufficienti che lavorano per il proprio consumo strettamente necessario. Per loro il capitale come capitale non esiste, perché la ricchezza in forma autonoma esiste soltanto o sotto forma di lavoro coatto immediato, o schiavitù, oppure sotto forma di lavoro coatto mediato, o lavoro salariato. Di fronte al lavoro coatto immediato sta la ricchezza non come capitale, ma come rapporto di signoria; sulla sua base quindi viene riprodotto soltanto il rapporto di signoria, per il quale la ricchezza stessa ha valore soltanto come godimento, non come ricchezza in sé, e che per ciò stesso non può mai creare la laboriosità generale. (Ma su questo rapporto schiavitù-lavoro salariato ritorneremo in seguito).

[Plusvalore. Ricardo. I Fisiocratici. A. Smith. Ricardo]

La difficoltà di comprendere la genesi del valore si rivela 1) negli economisti inglesi moderni, i quali rimproverano a Ricardo di non aver compreso il surplus, ossia il plusvalore (vedi Malthus on value, che per lo meno si sforza di procedere scientificamente). Eppure, di tutti gli economisti Ricardo è il solo che lo abbia compreso, come dimostra la sua polemica contro A. Smith, che confonde tra la determinazione del valore attraverso il salario e quella attraverso il tempo di lavoro oggettivato nella merce55. Gli economisti contemporanei non sono altro che babbei superficiali. Senza dubbio anche Ricardo fa spesso confusione. Se infatti egli comprende che la genesi del plusvalore è un presupposto del capitale, spesso però egli si confonde nel concepire su tale base l'aumento dei valori come dovuto esclusivamente al fatto che nel medesimo prodotto viene investito più tempo di lavoro oggettivato, o in altri termini al fatto che la produzione diventa più difficile56. Donde poi l'antitesi assoluta che egli pone tra valore e ricchezza57.

Donde l'unilateralità della sua teoria della rendita fondiaria58 e la sua erronea teoria del commercio internazionale, che secondo lui produrrebbe soltanto valore d'uso (che egli chiama ricchezza), e non valore di scambio59. L'unica via di uscita per aumentare i valori in quanto tali rimane, al di fuori della difficoltà crescente della produzione (teoria della rendita), l'incremento della popolazione (l'aumento naturale degli operai attraverso l'aumento del capitale), quantunque egli stesso non sia mai riuscito a cogliere in maniera semplice e sintetica questa relazione. Il suo errore fondamentale sta nel non aver egli mai indagato da dove mai scaturisca propriamente la differenza tra la determinazione del valore attraverso il salario e quella attraverso il tempo di lavoro oggettivato. Perciò nella sua economia il denaro e lo scambio stesso (la circolazione) appaiono come elementi puramente formali, e sebbene egli ritenga che nell'economia si abbia a che fare soltanto col valore di scambio, il profitto ecc. appare soltanto come quota di partecipazione al prodotto, e ha luogo anche sulla base della schiavitù. Egli insomma non ha mai analizzato la forma della mediazione.

2) I fisiocratici. Qui viene in luce in maniera addirittura tangibile la difficoltà di comprendere il capitale, l'autovalorizzazione del valore, e quindi il plusvalore che il capitale crea nell'atto della produzione. Né poteva essere altrimenti per i padri dell'economia moderna se così è stato per il suo ultimo classico punto d'approdo in Ricardo riguardo alla creazione del plusvalore, che egli concepisce nella forma della rendita. Quello che si pone alle soglie del sistema della società moderna è in fondo il problema del concetto di capitale e di lavoro salariato, ed è perciò il problema fondamentale. Il bullionismo aveva concepito l'autonomia del valore solo così come esso risulta dalla circolazione semplice — come denaro; e perciò i bullionisti facevano di questa forma astratta della ricchezza l'obbiettivo esclusivo delle nazioni, che andavano formandosi appunto nei periodi in cui l'arricchimento in quanto tale appariva l'unico scopo della società. Venne poi il mercantilismo, in coincidenza con l'epoca in cui il capitale industriale e quindi il lavoro salariato compare nella manifattura, e si sviluppa in opposizione e a spese della ricchezza non industriale, della proprietà fondiaria feudale.

I mercantilisti hanno già una vaga idea del denaro come capitale, ma a dire il vero di nuovo nella semplice forma di denaro, della circolazione del capitale mercantile, del capitale che si converte in denaro. Il capitale industriale, per i mercantilisti, ha un valore, anzi il massimo valore — come mezzo, non come la ricchezza stessa nel suo processo produttivo — perché crea il capitale mercantile e questo diventa denaro nella circolazione. [Essi riconoscevano il valore] del lavoro manifatturiero — ossia, in fondo, del lavoro industriale — mentre per loro il lavoro agricolo era ed appariva, al confronto, come quello che produce principalmente valore d'uso; il prodotto grezzo, una volta elaborato, ha più valore perché crea più denaro in una forma più pura, e anche più adatta alla circolazione e al commercio, ossia in forma mercantile (ed è qui l'ori1- gine della concezione storica della ricchezza dei popoli non agricoli, come l'Olanda specialmente, in antitesi ai popoli agricoli, feudali; l'agricoltura si presentava in generale non in una forma industriale, bensì in una forma feudale, ossia come fonte di ricchezza feudale, non di ricchezza borghese). Una forma di lavoro salariato, ossia il lavoro salariato industriale, e una forma di capitale, ossia del capitale industriale, erano dunque riconosciute come fonte di ricchezza, ma solo in quanto creavano denaro. Il valore di scambio stesso perciò non era ancora concepito nella forma di capitale. Ma veniamo ora ai fisiocratici.

Essi distinguono il capitale dal denaro, e ne colgono la forma generale di valore di scambio autonomizzato che si preserva nella produzione e si moltiplica attraverso la produzione. Essi perciò giungono a considerare il rapporto per se stesso, in quanto esso non è un momento della circolazione semplice, ma anzi è un suo presupposto che uscendo dalla circolazione stessa, si ristabilisce costantemente come suo presupposto. Essi sono dunque i padri dell'economia moderna. Essi comprendono anche che la creazione del plusvalore attraverso il lavoro salariato è l'autovalorizzazione, ossia la realizzazione del capitale. Ma in che modo attraverso un capitale, ossia attraverso dati valori, viene creato un plusvalore mediante il lavoro? A questo punto essi lasciano del tutto cadere la forma e si limitano a considerare il semplice processo di produzione. E allora può essere produttivo soltanto il lavoro che si esplica in quel campo in cui materialmente la forza naturale dello strumento di lavoro permette all'operaio di produrre più valori di quanti ne consuma. Il plusvalore perciò non deriva dal lavoro in quanto tale ma dalla forza naturale utilizzata e guidata dal lavoro — cioè dall'agricoltura. È questo dunque l'unico lavoro produttivo; essi giungono persino a dire che soltanto il lavoro che crea un plusvalore è produttivo (ancora in A. Smith capita di trovare la rozza concezione che il plusvalore debba esprimersi in un prodotto materiale60.

Gli attori sono lavoratori produttivi non in quanto producono spettacolo, ma perché incrementano la ricchezza del loro datore di lavoro. Ma che genere di lavoro sia, ossia in che forma esso si materializzi, ciò è assolutamente indifferente ai fini di questo rapporto, pur non essendolo dai punti di vista che svilupperemo in seguito); ma questo plusvalore si trasforma sotto mano in una maggiore quantità del valore d'uso che risulta dalla produzione, superiore cioè a quella che è stata consumata durante la produzione. Soltanto nel rapporto tra la semenza naturale e il suo prodotto appare materialmente questa moltiplicazione dei valori d'uso, questa eccedenza del prodotto su quella parte di esso che deve servire ad una nuova produzione — mentre un'altra parte può essere consumata in forma improduttiva. Soltanto una parte del raccolto ha bisogno di essere restituita alla terra direttamente sotto forma di semenza; a contatto con i prodotti già esistenti in forma naturale, con gli elementi come l'aria, l'acqua, la terra, la luce, e con le sostanze aggiunte sotto forma di letame o di altro che sia, le sementi riproducono poi di nuovo, in quantità moltiplicata, grano ecc. In breve, il lavoro umano non ha che da guidare il ricambio chimico (in agricoltura) o la riproduzione animale (allevamento del bestiame), favorendoli in parte anche meccanicamente, per ottenere il surplus, ossia per converTlre le stesse sostanze naturali da una forma priva di valore d'uso, in una forma che ha valore d'uso. Di conseguenza, la vera forma della ricchezza generale è data dall'eccedenza dei prodotti della terra (grano, bestiame, materie prime). Dal punto di vista economico perciò solo la rendita è una forma di ricchezza.

Così accade che i primi profeti del capitale finiscono col concepire, come rappresentanti della ricchezza borghese, il non-capitalista, il proprietario fondiario feudale. La conseguenza di ciò — lo scaricarsi di tutte le imposte sulla rendita — va tuttavia a completo vantaggio del capitale borghese. I borghesi onorano il feudalesimo sul piano dei principi — e ciò ha tratto in inganno certi suoi difensori, come Mirabeau padre — soltanto per rovinarlo sul piano pratico. Tutti gli altri valori rappresentano soltanto materia prima + lavoro; il lavoro stesso rappresenta il grano o altri prodotti della terra che il lavoro consuma; per cui l'operaio di fabbrica ecc. non aggiunge alla materia prima più di quanto ne abbia consumato. Tanto il suo lavoro quanto il suo datore di lavoro dunque non aggiungono nulla alla ricchezza — la quale è il surplus oltre le merci consumate nella produzione —, bensì le conferiscono soltanto delle attraenti e utili forme di consumo. A quel tempo non si erano ancora sviluppate né l'utilizzazione industriale delle forze naturali, né la divisione del lavoro ecc., che aumenta la capacità naturale del lavoro stesso.

Ciò era già avvenuto invece al tempo di A. Smith. Ecco perché per lui il lavoro è in generale fonte dei valori e della ricchezza; ma in verità esso crea plusvalore solo in quanto nella divisione del lavoro il surplus è un dono naturale, una forza naturale della società, allo stesso modo in cui per i fisiocratici è un dono della terra. Di qui, l'importanza che A. Smith attribuisce alla divisione del lavoro. D'altra parte egli intende, si, il lavoro come creatore di valore, ma concepisce il lavoro stesso come valore d'uso, come produttività per sé stante, capacità naturale umana in generale (il che lo differenzia dai fisiocratici), non come lavoro salariato, non cioè nella sua determinazione formale specifica opposta al capitale. Di conseguenza il capitale, così come egli ce lo presenta, non è il capitale che fin dall'origine contiene in sé antiteticamente il momento del lavoro salariato, ma è il capitale quale risulta dalla circolazione, il capitale come denaro, che perciò nasce dalla circolazione attraverso il risparmio. Il capitale quindi originariamente non valorizza se stesso — appunto perché l'appropriazione di lavoro altrui non è assunta nel suo concetto stesso. Soltanto a posteriori, dopo che è già stato presupposto come capitale, esso si presenterà — con un evidente circolo vizioso — come comando su lavoro altrui.

Il lavoro dunque, secondo A. Smith, dovrebbe avere propriamente come salario il suo stesso prodotto, e il salario essere = al prodotto, ossia il lavoro non essere lavoro salariato e il capitale non essere capitale. Sicché, per introdurre il profitto e la rendita come elementi originari dei costi di produzione, per far scaturire cioè un plusvalore dal processo di produzione del capitale, egli è costretto a presupporre in maniera estremamente brusca sia il profitto sia la rendita. Il capitalista non vuole cedere gratuitamente l'uso del suo capitale, né il proprietario fondiario vuol destinare gratuitamente la sua terra alla produzione. Essi esigono qualcosa in cambio. In tal modo essi vengono assunti con le loro pretese come fatti storici, non spiegati. Il solo ad avere una giustificazion e economica è propriamente il salario, perché è elemento necessario dei costi di produzione. Profitto e rendita sono soltanto detrazioni dal salario, arbitrariamente estorte nel processo storico del capitale e della proprietà fondiaria e legalmente, non economicamente giustificate.

Ma poiché d'altra parte egli contrappone di nuovo al lavoro, sotto forma di proprietà fondiaria e capitale, i mezzi e i materiali di produzione come forme autonome, sostanzialmente lo ha posto come lavoro salariato. Di qui, una serie di contraddizioni. Di qui le sue incertezze nella determinazione del valore; il suo porre sullo stesso piano profitto e rendita fondiaria: le sue erronee opinioni a proposito dell'influsso dei salari sui prezzi ecc.

E passiamo a Ricardo. Anch'egli intende di nuovo il lavoro salariato e il capitale non come una determinata forma storica della società, ma come una sua forma naturale, destinata alla produzione della ricchezza in quanto valore d'uso; vale a dire che la loro forma in quanto tale, appunto perché naturale, è indifferente, e non viene colta nella sua relazione determinata con la forma della ricchezza, così come la ricchezza stessa, nella sua forma di valore di scambio, si presenta come mediazione puramente formale della sua esistenza materiale; se perciò Ricardo non comprende il carattere determinato della ricchezza borghese, ciò è dovuto appunto al fatto che essa si presenta in generale come forma adeguata della ricchezza. E perciò, anche dal punto di vista economico, sebbene egli assuma come punto di partenza il valore di scambio, le stesse forme economiche determinate dello scambio non assolvono alcuna funzione nella sua economia. Egli si limita a parlare sempre di distribuzione del prodotto globale del lavoro e della terra tra le tre classi, come se l'unico problema della ricchezza fondata sul valore di scambio fosse il valore d'uso, e il valore di scambio fosse soltanto una forma cerimoniale, che del resto in Ricardo scompare completamente così come il denaro come mezzo di circolazione scompare nello scambio. Pur di far valere le vere leggi dell'economia egli preferisce perciò riferirsi a questo rapporto puramente formale del denaro. Donde poi la sua debolezza nella stessa teoria del denaro vera e propria.

La necessità di sviluppare esattamente il concetto di capitale è data dal fatto che esso è il concetto fondamentale dell'economia moderna, così come il capitale stesso, la cui controfigura astratta costituisce il suo concetto, è il fondamento della società borghese. Dalla rigorosa comprensione del presupposto fondamentale del rapporto devono risultare tutte le contraddizioni della produzione borghese, e insieme, il punto limite in cui il rapporto costringe ad andare oltre se stesso.

[È importante notare che la ricchezza in quanto tale, ossia la ricchezza borghese, è sempre espressa alla massima potenza nel valore di scambio, ove essa è posta come mediatore, come mediazione degli estremi rappresentati dal valore di scambio e dal valore d'uso. Questo termine medio si presenta sempre come rapporto economico completo, perché abbraccia gli opposti, e si presenta infine sempre come una potenza unilaterale superiore di fronte agli estremi stessi; perché il movimento o il rapporto di mediazione tra gli estremi che compare all' origine, prosegue dialetticamente in questa direzione necessaria: che esso si presenta come mediazione con se stesso, come il soggetto i cui momenti sono soltanto gli estremi, di cui esso nega la posizione autonoma iniziale per porsi, attraverso questa loro negazione stessa, come unico soggetto autonomo. Così nella sfera religiosa Cristo, il mediatore tra Dio e l'uomo — mero strumento di circolazione tra i due —, diventa la loro unità, uomo-Dio, e come tale diventa più importante di Dio; i santi diventano più importanti di Cristo; i pretonzoli più importanti dei santi.

L'espressione economica totale, sebbene unilaterale rispetto agli estremi, è sempre il valore di scambio, ove esso è posto come termine medio; p. es. il denaro nella circolazione semplice; il capitale stesso come mediatore tra produzione e circolazione. All'interno del capitale stesso, una sua forma assume a sua volta il ruolo di valore d'uso rispetto all'altra che è valore di scambio. Così p. es. il capitale industriale figura come produttore di fronte al commerciante che figura come circolazione. In tal modo il primo rappresenta il lato materiale, l'altro il lato formale, ossia la ricchezza in quanto ricchezza. Nello stesso tempo il capitale mercantile è a sua volta mediatore tra la produzione (capitale industriale) e la circolazione (il pubblico dei consumatori), o tra il valore di scambio e il valore d'uso, ove i due lati si scambiano alternativamente il loro ruolo, ossia la produzione è posta come denaro, la circolazione come valore d'uso (il pubblico dei consumatori), oppure la prima come valore d'uso (prodotto), la seconda come valore di scambio (denaro). Altrettanto accade nell'ambito del commercio stesso: il commerciante all'ingrosso quale intermediario tra fabbricante e dettagliante, o tra il fabbricante e l'agricoltore, o tra diversi fabbricanti, funge da identico elemento medio superiore. E tale è anche il sensale rispetto al commerciante all'ingrosso, il banchiere rispetto agli industriali e ai commercianti, la società per azioni rispetto alla produzione semplice; e, alla sommità, il finanziere, quale mediatore tra lo Stato e la società borghese.

La ricchezza in quanto tale assume una veste tanto più distinta e ostentata quanto più si allontana dalla produzione immediata e a sua volta funge da mediatrice tra parti che, considerate ciascuna per sé, hanno già la forma di relazioni economiche. Il denaro allora da mezzo diventa scopo, e dappertutto la forma superiore della mediazione assume la funzione del capitale, che pone a sua volta quella inferiore come lavoro, come semplice fonte del plusvalore. P. es.: l'agente di cambio, il banchiere ecc. rispetto ai fabbricanti e agli agricoltori, i quali rispetto a lui sono relativamente posti nella determinazione del lavoro (del valore d'uso), mentre egli si pone rispetto a loro come capitale, come creazione di plusvalore; e così via, fino ad arrivare alla figura più paradossale di tutte, quella del finanziere]].

Il capitale è l'unità immediata del prodotto e del denaro, o meglio della circolazione e della produzione. In tal modo esso stesso è a sua volta un immediato, e il suo sviluppo consiste nel porre e superare se stesso come siffatta unità — che è posta come rapporto determinato e perciò semplice. L'unità si presenta dapprima nel capitale come qualcosa di semplice.

[Il ragionamento di Ricardo è semplicemente questo: i prodotti si scambiano — ossia capitale con capitale — secondo le quantità di lavoro oggettivato in essi contenuto. Una giornata lavorativa si scambia sempre con una giornata lavorativa. Questa la premessa. Lo scambio stesso può dunque essere totalmente lasciato da parte. Il prodotto — il capitale posto come prodotto — è in sé valore di scambio, a cui lo scambio aggiunge soltanto una forma, che in lui è una forma formale. L'unico problema quindi è di sapere in quali quote questo prodotto si ripartisce. Che queste quote siano considerate come determinate quote del valore di scambio presupposto oppure del suo contenuto, della ricchezza materiale, fa lo stesso. Anzi, visto che lo scambio è mera circolazione — denaro come circolazione —, tanto vale astrarne totalmente, e considerare semplicemente le quote di ricchezza materiale che sono state distribuite tra i diversi agenti nell'ambito del processo di produzione o al termine di esso. Nella forma dello scambio ogni valore ecc. è soltanto nominale; reale esso è soltanto sotto forma di quota. L'intero scambio, in quanto non crea una maggiore varietà materiale, è nominale.

Poiché si scambia sempre un'intera giornata di lavoro con una intera giornata di lavoro, la somma dei valori rimane identica — l'aumento delle forze produttive agisce soltanto sul contenuto della ricchezza, non sulla forma. Un aumento dei valori può dunque nascere soltanto da un'accresciuta difficoltà di produzione nell'agricoltura — e questa può aversi soltanto quando la natura non fornisce più un'uguale quantità di energia e uguali quantità di lavoro umano, quando cioè la fertilità degli elementi naturali decresce. La caduta dei profitti viene perciò causata dalla rendita. La prima falsa premessa è che in tutte le condizioni della società si lavora sempre un' intera giornata lavorativa; ecc. ecc.].

[Plusvalore e produttività. Rapporto tra il loro aumento. - Risultato. - Produttività del lavoro è produttività del capitale. - Quanto più il lavoro necessario è già diminuito, tanto più difficile diventa la valorizzazione del capitale]

Abbiamo visto: l'operaio ha bisogno di lavorare soltanto mezza giornata lavorativa, p. es., per vivere un giorno intero, e perciò poter ricominciare il giorno dopo il medesimo processo. Nella sua capacità di lavoro — quella che esiste in lui come essere vivente o come strumento di lavoro vivente, — è oggettivata soltanto mezza giornata di lavoro. L'intero giorno di vita dell'operaio è il risultato statico, l'oggettivazione di una mezza giornata di lavoro. Il capitalista, attraverso lo scambio col lavoro oggettivato nell'operaio — ossia con una mezza giornata di lavoro —, si appropria dell'intera giornata lavorativa; questa intera giornata lavorativa egli poi la consuma, nel processo di produzione, mettendola a contatto con gli elementi materiali in cui consiste il suo capitale, e crea così il plusvalore del suo capitale — nel caso supposto: una mezza giornata di lavoro oggettivato.

Poniamo ora che la produttività del lavoro si raddoppi, che cioè un medesimo lavoro fornisca in un tempo medesimo un doppio valore d'uso. (Nel rapporto che stiamo analizzando, stabiliamo una volta per tutte che valore d'uso è soltanto ciò che l'operaio consuma per mantenersi in vita come operaio; ossia la quantità di mezzi di sussistenza con i quali, mediante il denaro, egli scambia il lavoro oggettivato nella sua capacità di lavoro viva). L'operaio avrebbe bisogno allora di lavorare soltanto 1/4 di giornata per viverne una intera; e il capitalista ha bisogno di dare in cambio all'operaio soltanto 1/4 di giornata di lavoro oggettivato per aumentare, mediante il processo di produzione, il suo plusvalore da 1/2 a 3/4; egli infatti guadagnerebbe, invece di 1/2 giornata di lavoro oggettivato, 3/4 di giornata di lavoro oggettivato. Il valore del capitale che risulta dal processo di produzione sarebbe aumentato di 3/4 invece che di 2/4. Il capitalista dunque avrebbe bisogno ormai di far lavorare soltanto 3/4 di giornate per aggiungere lo stesso plusvalore — di 1/2 o 2/4 di lavoro oggettivato — al capitale.

Ma il capitale, rappresentando la forma generale della ricchezza — il denaro —, è l'impulso illimitato e smisurato ad oltrepassare i suoi ostacoli. Ogni limite è e deve essere per esso un ostacolo. Altrimenti esso cesserebbe di essere capitale, ossia denaro che produce se stesso. Non appena non sentisse più un determinato limite come ostacolo, ma lo sentisse come limite tollerabile, esso stesso decadrebbe da valore di scambio a valore d'uso, da forma generale della ricchezza a contenuto sostanziale determinato della ricchezza stessa. Il capitale in quanto tale crea un plusvalore limitato, perché non può crearne di colpo uno illimitato; ma esso è il movimento che tende perennemente a crearne di più. Il limite quantitativo del plusvalore appare ad esso soltanto come ostacolo naturale, come necessità che esso cerca perennemente di dominare e perennemente di scavalcare*. (* L'ostacolo si presenta come evento accidentale che va dominato. Ciò risulta chiaramente anche nella maniera più superficialmente intuitiva. Se il capitale cresce da 100 a 1000, è 1000 ora il punto di partenza da cui deve procedere l'aumento; la decuplicazione del 1000 % non conta affatto; profitto e interesse diventano a loro volta capitale. Ciò che figurava come plusvalore, figura ora come semplice presupposto ecc., assorbito nella semplice esistenza del capitale.)

Il capitalista dunque (a prescindere interamente dalle determinazioni che si aggiungono in seguito: concorrenza, prezzi ecc.) farà lavorare l'operaio non soltanto 3/4 di giornata, perché i 3/4 di giornata gli procurano lo stesso plusvalore che prima gli procurava l'intera giornata, ma lo farà lavorare l'intera giornata; e l'aumento della produttività, che rende l'operaio capace di vivere l'intera giornata con 1/4 di giornata lavorativa, si esprime ora semplicemente in questo: che egli ora deve lavorare per il capitale 3/4 di giornata, mentre prima lavorava per esso soltanto 2/4 di giornata. L'accresciuta produttività del suo lavoro, nella stessa misura in cui riduce il tempo per il risarcimento del lavoro in lui oggettivato (per il valore d'uso, la sussistenza), prolunga il suo tempo di lavoro per la valorizzazione del capitale (per il valore di scambio). Dal punto di vista dell'operaio ciò significa che egli deve fare ora un pluslavoro di 3/4 di giornata per viverne una intera, mentre prima doveva fare soltanto un pluslavoro di 2/4 di giornata. Attraverso l'aumento della produttività, attraverso il suo raddoppiamento, il suo pluslavoro è aumentato di 1/4 [di giornata]. Una cosa va qui notata: mentre la produttività si è raddoppiata, il pluslavoro dell'operaio non si è raddoppiato, ma è cresciuto soltanto di 1/4 [di giornata]; allo stesso modo il plusvalore del capitale non si è raddoppiato ma è cresciuto anch'esso di 1/4 [di giornata] solamente.

Noi vediamo dunque che il pluslavoro (dal punto di vista dell'operaio) o il plusvalore (dal punto di vista del capitale) non crescono nella stessa proporzione numerica in cui cresce la produttività. Da che deriva questo? Dal fatto che il raddoppiamento della produttività equivale alla riduzione del lavoro necessario dell'operaio di 1/4 [di giornata], e quindi anche la produzione del plusvalore [è aumentata] di 1/4, poiché la proporzione originaria era di 1/2. Se all'origine l'operaio avesse dovuto lavorare 2/3 di giornata per viverne una intera, il plusvalore sarebbe stato di 1/3, e così anche il pluslavoro. Il raddoppiamento della produttività del lavoro avrebbe dunque messo in grado l'operaio di limitare il suo lavoro necessario alla metà di 2/3 o 2/3X2, 2/6 o 1/3 di giornata, e il capitalista avrebbe guadagnato un valore pari ad 1/3 [di giornata]. Il pluslavoro complessivo però sarebbe diventato di 2/3 [di giornata].

Il raddoppiamento della produttività, che nel primo esempio dava come risultato 1/4 [di giornata] di plusvalore e di pluslavoro, ora darebbe 1/3 [di giornata] di plusvalore o di pluslavoro. Il moltiplicatore della produttività)— il numero per il quale essa viene moltiplicata — non coincide dunque col moltiplicatore del pluslavoro o del plusvalore. Noi abbiamo invece che, se la proporzione originaria del lavoro oggettivato nel prezzo del lavoro era di 1/2 del lavoro oggettivato in 1 giornata lavorativa, che è il limite normale*, il raddoppiamento è uguale alla divisione di 1/2 per 2 (per la proporzione originaria), o a 1/4. Se la proporzione originaria era di 2/3, allora essa è uguale al raddoppiamento, ossia alla divisione di 2/3 per 2 = 2/6 o 1/3.

(* Ma naturalmente i signori fabbricanti l'hanno prolungato fino alla notte: legge delle dieci ore. Vedi il rapporto di Leonard Horner. La giornata lavorativa non si limita affatto al giorno naturale; può essere prolungata fino a notte inoltrata; ciò rientra nel capitolo sul salario.)

Il moltiplicatore della produttività è perciò sempre non il moltiplicatore, ma il divisore della proporzione originaria; non il moltiplicatore del suo numeratore, ma del suo denominatore. Se fosse il primo allora alla moltiplicazione della produttività corrisponderebbe la moltiplicazione del plusvalore. Ma il plusvalore è sempre uguale ad una divisione del rapporto originario per il moltiplicatore della produttività. Se la proporzione originaria fosse 8/9, se cioè l'operaio avesse bisogno, per vivere, di 8/9 di giornata lavorativa e quindi il capitale nello scambio col lavoro vivo guadagnasse soltanto 1/9, ossia il plusvalore fosse =1/9, allora l'operaio potrebbe vivere con la metà di 8/9 di giornata lavorativa, cioè con 8/18 = 4/9 (sia che dividiamo il numeratore o moltiplichiamo il denominatore, fa lo stesso), e il capitalista, facendo lavorare un'intera giornata, avrebbe un plusvalore totale di 4/9 di giornata lavorativa; detratto il plusvalore originario di 1/9, rimane 3/9 o 1/3.

Il raddoppiamento della produzione risulta semplicemente dal fatto che il plusvalore è sempre uguale al rapporto tra l'intera giornata lavorativa e la parte di essa che occorre a mantenere in vita l'operaio. L'unità in base alla quale si calcola il plusvalore è sempre una frazione, ossia quella parte determinata di una giornata che rappresenta esattamente il prezzo di lavoro. Se questo è = 1/2, allora l'aumento della produttività è = alla riduzione del lavoro necessario a 1/4; se l'aumento è =1/3, allora la riduzione del lavoro necessario ammonta a 1/6; sicché nel primo caso il plusvalore totale è =3/4; nel secondo è =5/6; il plusvalore relativo, ossia quello attuale in rapporto al precedente, è nel primo caso =1/4, nel secondo = 2/6 o 1/3. Il valore del capitale dunque non cresce nella stessa proporzione in cui aumenta la produttività, bensì nella proporzione in cui l'aumento della produttività, il moltiplicatore della produttività, divide la frazione di giornata lavorativa che esprime la parte che spetta all'operaio. La misura in cui la produttività del lavoro aumenta il valore del capitale, dipende dunque dalla proporzione originaria tra la quota di lavoro oggettivato nell'operaio e il suo lavoro vivo. Questa quota si esprime sempre come una frazione dell'intera giornata lavorativa, 1/3, 2/3, ecc.

L'aumento della produttività, ossia la sua moltiplicazione per un certo numero, è uguale ad una divisione del numeratore o alla moltiplicazione del denominatore di questa frazione per il medesimo numero. La misura più o meno grande dell'aumento del valore dipende non soltanto dal numero che esprime la moltiplicazione della produttività, ma anche dal rapporto precedentemente dato, il quale costituisce la parte della giornata lavorativa che spetta al prezzo del lavoro. Se questo rapporto è di 1/3, allora il raddoppiamento della produttività della giornata lavorativa è = ad una riduzione di quest'ultima a 1/6; se il raddoppiamento della produttività è pari a 2/3, allora la riduzione della giornata lavorativa è pari a 2/6. Il lavoro oggettivato che è contenuto nel prezzo del lavoro è sempre uguale ad una frazione dell'intera giornata; è sempre, espresso aritmeticamente, una frazione; è sempre una proporzione numerica, mai un numero semplice.

Se la produttività si raddoppia, si moltiplica per 2, allora l'operaio ha bisogno di lavorare soltanto 1/2 del tempo precedente per ricavare il prezzo del lavoro; ma la quantità di tempo di lavoro che ancora gli occorre a tale scopo dipende dal primo rapporto dato, e cioè dal tempo che gli occorreva prima dell'aumento della produttività. Il moltiplicatore della produttività è il divisore di questa frazione originaria. Il valore o il pluslavoro non crescono dunque nella stessa proporzione numerica della produttività. Se la proporzione originaria è di 1/2 e la produttività è raddoppiata, il tempo di lavoro necessario (per l'operaio) si riduce ad 1/4 e il plusvalore cresce soltanto di 1/4.

Se la produttività è quadruplicata, la proporzione originaria diventa 1/8 e il valore cresce soltanto di 1/8. Il valore non può mai essere uguale all'intera giornata lavorativa; ossia una determinata parte della giornata lavorativa deve essere sempre scambiata col lavoro oggettivato nell'operaio. Il plusvalore è in generale soltanto un rapporto tra il lavoro vivo e il lavoro oggettivato nell'operaio; uno dei membri del rapporto deve dunque rimanere sempre. Già per il fatto che il rapporto è costante in quanto tale, quantunque mutino i suoi fattori, esiste un determinato rapporto tra aumento della produttività e aumento del valore. Da una parte noi vediamo perciò che il plusvalore relativo è esattamente uguale al pluslavoro relativo; se la giornata lavorativa è 1/2 e la produttività si raddoppia, la quota spettante all'operaio, il lavoro necessario, si riduce ad 1/4 e il nuovo valore che si aggiunge è anche esattamente 1/4; ma il valore totale è ora 3/4. Mentre il plusvalore è salito di 1/4, ossia nella proporzione di 1:4, il plusvalore totale è =3/4 = 3:4.

Se ora assumiamo che l'originaria giornata lavorativa necessaria sia stata 1/4, e che si sia avuto un raddoppiamento della produttività, allora il lavoro necessario si riduce ad 1/8 ed il pluslavoro o plusvalore è esattamente =1/8=1:8. Al contrario il plusvalore totale è =7:8. Nel primo esempio il plusvalore totale originario era = 1:2 (1/2) e poi salì a 3:4; nel secondo caso il plusvalore totale originario era 3/4 ed ora è salito a 7:8 (7/8). Nel primo caso è aumentato da 1/2 o 2/4 a [244] 3/4; nel secondo, da 3/4 o 6/8 a 7/8; nel primo caso di 1/4, nel secondo di 1/8; ossia nel primo caso è aumentato del doppio rispetto al secondo; ma nel primo caso il 30 plusvalore totale è soltanto 3/4 o 6/8, mentre nel secondo è 7/8, ossia 1/8, in più.

Posto che il lavoro necessario è 1/16, il plusvalore totale è =15/16; il plusvalore nella proporzione precedente era 5/8=10/16 [II lapsus è evidente: poc'anzi aveva scritto che il plusvalore totale era di 6/8. Sicché qui deve intendersi: 6/8=12/16; e il successivo 5/16 va corretto in 3/16]; quindi il plusvalore totale, quello presupposto, è superiore di 5/16 rispetto a quello del caso precedente. Posto ora che la produttività si raddoppi, allora il lavoro necessario è =1/32, e così anche il plusvalore. Se ora consideriamo il plusvalore totale, che era 15/16 o 30/32, esso è ora 31/32. Rispetto alla proporzione precedente (dove il lavoro necessario era 1/4 o 8/32), il plusvalore totale è ora 31/32, mentre precedentemente era soltanto 30/32, ossia era cresciuto di 1/32c. Ma da un punto di vista relativo esso nel primo caso è aumentato, in seguito al raddoppiamento della produzione, di 1/8 o 4/32, mentre ora è aumentato soltanto di 1/32, ossia di 3/32 in meno.

Se il lavoro necessario fosse già ridotto ad 1/1000, il plusvalore totale sarebbe =999/1000. Se poi la produttività aumentasse di 1000 volte, il lavoro necessario scenderebbe ad 1/1.000.000 di giornata lavorativa e il plusvalore totale ammonterebbe a 999.999/ /l.000.000 di una giornata lavorativa; mentre prima di questo aumento di produttività esso ammontava soltanto a 999/1000 o 999.000/1.000.000; esso sarebbe aumentato dunque di 999/1.000.000= 1/11 (più 1/11+1/999) [In realtà dovrebbe essere 999/1000000=1/1001 (più 1/1001+1/999)], ossia il surplus totale, con tutto l'aumento di 1000 volte della produttività, non sarebbe ancora aumentato nemmeno di 1/11, ossia nemmeno di 3/33, mentre nel precedente caso con un semplice raddoppiamento della produttività aumentava di 1/32. Se il lavoro necessario si riduce da 1/1000 a 1/1.000.000, esso si riduce esattamente di 999/1.000.000 (giacché 1/1000 è =1000/1.000.000), cioè per una cifra pari al plusvalore.

Riassumendo tutto ciò, abbiamo:

Primo: l'aumento della produttività del lavoro vivo aumenta il valore del capitale (o diminuisce il valore dell'operaio) non perché essa aumenti la quantità di prodotti o valori d'uso creati col medesimo lavoro — la forza produttiva del lavoro è la sua forza naturale —, ma perché riduce il lavoro necessario. Ossia, nella stessa proporzione in cui riduce quest'ultimo, essa crea pluslavoro o, che è lo stesso, plusvalore; poiché il plusvalore del capitale, il plusvalore che il capitale ottiene attraverso il processo di produzione, non è altro che l'eccedenza di pluslavoro sul lavoro necessario. L'aumento della produttività può aumentare il pluslavoro — o eccedenza del lavoro oggettivato nel capitale sotto forma di prodotto, sul lavoro oggettivato nel valore di scambio della giornata lavorativa — solo in quanto esso riduce il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro, e solo nella proporzione in cui esso riduce tale rapporto. Il plusvalore è esattamente uguale al pluslavoro; l'aumento dell'uno è esattamente misurato dalla riduzione del lavoro necessario.

Secondo: il plusvalore del capitale non aumenta in ragione del moltiplicatore della produttività, ossia del numero di volte in cui aumenta la produttività (posta come unità, come moltiplicando), bensì in ragione del surplus della frazione di giornata di lavoro vivo, che originariamente rappresenta il lavoro necessario, su questa frazione medesima, diviso per il moltiplicatore della produttività. Sicché, se il lavoro necessario è =1/4 della giornata lavorativa viva e la produttività si raddoppia, il valore del capitale aumenta non del doppio, ma di 1/8; ossia è uguale ad 1/4 o 2/8 (la frazione originaria di giornata lavorativa che rappresenta il lavoro necessario) meno 1/4 diviso per 2, ossia =2/8 — 1/8 = 1/8. (Il raddoppiamento del valore può anche essere espresso dicendo che esso si moltiplica per 4/2 o per 16/8. Se dunque nell'esempio precedente la produttività fosse aumentata di 16/8, il profitto aumenterebbe soltanto di 1/8. Il suo aumento starebbe a quello della produttività come 1:16. (That is it!). Se la frazione era 1/1000, e se la produttività aumenta di 1000 volte, il valore del capitale aumenta non di 1000 volte, bensì di 1/11 scarso; esso aumenta di 1/1000-1/1.000.000, ossia di 1000/1.000.000 -1/1.000.000 = 999/1.000.000).

Quindi la somma assoluta di cui il capitalista aumenta il suo valore attraverso un determinato aumento di produttività, dipende da una data frazione, ossia dalla parte aliquota di giornata lavorativa che rappresenta il lavoro necessario, e che quindi esprime la proporzione originaria tra il lavoro necessario e la giornata di lavoro vivo. L'aumento della produttività in una determinata proporzione può dunque aumentare il valore del capitale diversamente a seconda p. es. dei diversi paesi. Un aumento generale della produttività nella medesima proporzione può aumentare e aumenterà il valore del capitale diversamente nei diversi rami dell'industria, cioè a seconda della diversa proporzione esistente in questi rami tra lavoro necessario e giornata di lavoro vivo. In un sistema di libera concorrenza, tale proporzione sarebbe naturalmente identica in tutte le branche di attività economica se il lavoro fosse dappertutto lavoro semplice, se cioè il lavoro necessario fosse identico (se esprimesse la medesima quantità di lavoro oggettivato).

Terzo: quanto più grande è il plusvalore del capitale prima dell'aumento della produttività, quanto più grande cioè è la quantità di pluslavoro o di plusvalore del capitale presupposto, o, in altri termini, quanto più è già ridotta la frazione di giornata lavorativa che costituisce l'equivalente dell'operaio, che esprime cioè il lavoro necessario —, tanto più si riduce l'aumento del plusvalore che il capitale ottiene dall'aumento della produttività. Il suo plusvalore aumenta, ma in proporzione sempre più piccola rispetto allo sviluppo della produttività. Ossia, quanto più il capitale è già sviluppato, quanto più pluslavoro esso ha creato, tanto più drasticamente esso deve sviluppare la produttività per valorizzarsi, per aggiungere cioè plusvalore, in proporzione pur sempre bassa — perché il suo ostacolo rimane sempre la proporzione tra la frazione di giornata che esprime il lavoro necessario e l'intera giornata lavorativa. Esso può muoversi soltanto entro questi limiti.

Quanto più è già ridotta la frazione che incide sul lavoro necessario, ossia quanto maggiore è il pluslavoro, tanto meno un qualsiasi aumento della produttività può ridurre sensibilmente il lavoro necessario; giacché il denominatore è intanto aumentato enormemente. L'autovalorizzazione del capitale diventa più difficile nella misura in cui esso è già valorizzato. L'aumento delle forze produttive diventerebbe indifferente per il capitale, e lo diventerebbe anche la valorizzazione, perché le sue proporzioni si sono ridotte al minimo. In tal modo esso avrebbe cessato di essere capitale. Se il lavoro necessario fosse 1/1000 e la produttività si triplicasse, il lavoro necessario calerebbe soltanto a 1/3000, o il plusvalore sarebbe aumentato soltanto di 2/3000. Ma ciò accade non perché è cresciuto il salario o perché è cresciuta la partecipazione del lavoro al prodotto, ma perché il salario è già diminuito enormemente, se lo consideriamo in rapporto al prodotto del lavoro o alla giornata di lavoro vivo*. (* Il lavoro oggettivato nell'operaio si rivela qui esso stesso come una frazione della sua propria giornata di lavoro vivo; giacché il rapporto è identico a quello in cui il lavoro oggettivato, che egli riceve dal capitale sotto forma di salario, sta rispetto all'intera giornata lavorativa.)

(La validità di questi teoremi, in questa forma astratta, è limitata al livello attuale del rapporto. In seguito interverranno ulteriori relazioni che li modificheranno notevolmente. Tutto l'insieme, nella misura in cui si mantiene su un piano del tutto generale, rientra già in linea di principio nella teoria del profitto).

Riassumendo, noi abbiamo, in generale, questo primo risultato: lo sviluppo della produttività del lavoro — che solo crea il pluslavoro — è condizione necessaria dell'aumento del valore o della valorizzazione del capitale. Come impulso infinito all'arricchimento, il capitale tende dunque ad un infinito aumento delle capacità produttive del lavoro stimolandole incessantemente. Ma d'altra parte ogni aumento della produttività del lavoro — a prescindere dal fatto che essa aumenta i valori d'uso per il capitalista — è un aumento della produttività del capitale, e, dall'attuale punto di vista, è produttività del lavoro solo in quanto è produttività del capitale

[Sull'aumento del valore del capitale]

Si può accennare per lo meno anticipatamente a quanto è già chiaro fin da ora: che cioè l'aumento della produttività in sé e per sé non fa aumentare i prezzi. Prendiamo, per esempio, un bushel di frumento. Se in un bushel di frumento si è oggettivata una mezza giornata di lavoro, e se era questo il prezzo dell'operaio, allora il pluslavoro può produrre soltanto 2 bushels di frumento. 2 bushels di frumento sono dunque il valore di una giornata di lavoro, e se in denaro essi sono =26 sh., il valore della giornata di lavoro è = 26 sh. Un bushel è =13 sh. Se ora la produttività raddoppia, il bushel di frumento corrisponderà soltanto a 1/4 di giornata lavorativa; ossia sarà =6 1/2 sh. Il prezzo di questa parte frazionale della merce è diminuito a causa della produttività. Il prezzo complessivo invece è rimasto qual era; ma ora abbiamo un surplus di 3/4 di giornata lavorativa. Ogni quarto è =1 bushel di frumento = 6 e mezzo sh. Quindi il prodotto complessivo è = 26 sh. =4 bushel. Tanto quanto era prima. Il valore del capitale aumenta da 13 a 18 3/2sh. Il valore del lavoro diminuisce da 13 a 6 1/2 sh.; la produzione materiale è salita da 2 bushel a 4. Ora è =18 3/2 sh. Ma supponiamo che nel frattempo aumentasse anche la produttività nella produzione dell'oro, cosìcché se prima 13 sh. erano il prodotto di mezza giornata di lavoro, e mezza giornata di lavoro costituiva il lavoro necessario, ora lo sono di 1/4 di giornata di lavoro. In questo caso il prodotto è 52 sh., o 52 — 13, ossia 39 sh.c in più. 1 bushel di frumento ora è =13 sh.; abbiamo cioè lo stesso prezzo frazionale di prima; ma il prodotto complessivo è =52 sh.; prima era = soltanto 26 sh. D'altra parte 52 sh. comprerebbero ora 4 bushels, mentre i 26 sh. ne compravano prima soltanto 2.

Orbene. È chiaro anzitutto che se il capitale ha già fatto aumentare il plusvalore a tal punto che l'intera giornata di lavoro vivo viene consumata nel processo di produzione (e noi qui assumiamo la giornata lavorativa come la quantità naturale di tempo di lavoro che l'operaio può mettere a disposizione; egli infatti mette a disposizione la sua capacità di lavoro sempre per un tempo determinato solamente, ossia per un determinato tempo di lavoro), allora l'aumento della produttività non può aumentare il tempo di lavoro, e perciò non può aumentare nemmeno il tempo di lavoro oggettivato. Una giornata lavorativa è oggettivata nel prodotto tanto se il tempo di lavoro necessario è rappresentato da 6 ore quanto se lo è da 3 ore, da 1/2 o da 1/4 di giornata lavorativa. Il plusvalore del capitale è aumentato; è aumentato cioè il suo valore in rapporto all'operaio — giacché se prima esso era soltanto =2/4, ora è =3/4 di tempo di lavoro oggettivato; ma il suo valore è aumentato non perché sia aumentata la quantità di lavoro assoluta, ma perché è aumentata quella relativa; ossia non la quantità totale del lavoro è aumentata — giacché ora come prima si lavora una giornata, quindi non c'è stato un incremento assoluto di tempo supplementare (tempo di lavoro supplementare) —, bensì è diminuita la quantità di lavoro necessario, e per tale via è aumentato il pluslavoro relativo.

L'operaio in effetti lavorava prima l'intera giornata, ma soltanto 1/2 giornata era costituita da tempo supplementare; ora egli lavora come prima l'intera giornata, ma 3/4 della giornata lavorativa sono costituiti da tempo supplementare. Pertanto il prezzo (presupposto identico il valore dell'oro e dell'argento) o il valore di scambio del capitale non è aumentato in seguito al raddoppiamento della produttività. L'aumento riguarda dunque il saggio del profitto, non il prezzo del prodotto o il valore del capitale, che nel prodotto è ridiventato merce. Ma in realtà in questa maniera aumentano anche i valori assoluti, perché è aumentata la parte di ricchezza posta come capitale — come valore che si autovalorizza. (Accumulazione dei capitali). Riprendiamo il nostro esempio di prima. Poniamo che il capitale sia =100 talleri, e che nel processo di produzione esso si suddivida nelle seguenti parti: 50 talleri di cotone, 40 talleri di salario, 10 talleri di frumento.

Supponiamo nello stesso tempo, per semplificare il calcolo, che lo strumento di lavoro venga consumato tutto in un atto di produzione (anche se a questo punto ciò è ancora del tutto indifferente), e che quindi il suo valore ricompaia interamente sotto forma di prodotto. In questo caso poniamo che il lavoro, in cambio dei 40 talleri — i quali esprimono il tempo di lavoro oggettivato nella sua forza-lavoro viva, diciamo 4 ore — ceda al capitale 8 ore. Presupposti lo strumento e la materia prima, il prodotto complessivo ammonterebbe a 100 talleri se l'operaio lavorasse soltanto 4 ore, ossia se la materia prima e lo strumento gli appartenessero ed egli si limitasse a lavorare 4 ore. Egli allora aumenterebbe i 60 talleri di 40, che potrebbe consumare, giacché egli anzitutto ha risarcito i 60 talleri — la materia prima e lo strumento occorrenti alla produzione —, e poi vi ha aggiunto un plusvalore di 40 talleri a titolo di riproduzione della propria forza-lavoro viva o del tempo in essa oggettivato. Egli potrebbe ricominciare sempre di nuovo il lavoro, giacché nel processo di produzione egli avrebbe riprodotto sia il valore della materia prima, sia quello dello strumento, sia quello della forza-lavoro — e il valore di quest'ultima egli lo ha riprodotto aumentando costantemente di 4 ore di tempo di lavoro il valore dei primi. Tuttavia egli riceverebbe i 40 talleri di salario solo quando ha lavorato 8 ore, ossia quando ha aggiunto alla materia prima e allo strumento, che ora gli stanno di fronte come capitale, un plusvalore di 80 talleri; laddove il primo plusvalore di 40 talleri che vi aveva aggiunto corrispondeva soltanto esattamente al valore del suo lavoro. In tal modo egli verrebbe ad aggiungere un plusvalore esattamente = al pluslavoro o al tempo supplementare*. (* Per chiarire questo punto non è affatto necessario ipotizzare che, insieme al pluslavoro o tempo supplementare debbano aumentare anche il materiale e gli strumenti. Per il modo in cui il semplice pluslavoro aumenta la materia prima, vedi Babeage, p. es. sulla lavorazione del filo d'oro ecc.) Il valore del capitale sarebbe dunque aumentato da 100 a 140 talleri*. (* Se poi ipotizziamo che la materia prima si raddoppi e lo strumento di lavoro aumenti (per semplicità di calcolo) della metà, in tal caso le spese del capitale aumenterebbero a 100 talleri per il cotone e 20 talleri per lo strumento, ossia a 120 talleri, mentre per il lavoro, le spese sarebbero le stesse di prima, cioè 40 talleri; in tutto, 160. Se il pluslavoro di 4 ore fa aumentare 100 talleri del 40 %, 160 talleri li farà aumentare di 64 talleri. Il prodotto globale sarebbe allora =224 talleri. Qui si presuppone ancora che il saggio di profitto rimanga identico al volume del capitale, e gli stessi materia prima e strumento non sono già considerati come realizzazioni di pluslavoro, come capitalizzazione di pluslavoro; come abbiamo visto, quanto maggiore è il tempo supplementare già realizzato, ossia il volume del capitale in quanto tale, tanto più si presuppone che un aumento assoluto del tempo di lavoro è impossibile, e che l'aumento relativo decresce in proporzione geometrica all'aumento della produttività.)

Il capitale dunque, considerato come semplice valore di scambio, sarebbe aumentato in senso assoluto, 140 talleri invece di 100; ma in realtà si sarebbe avuta soltanto la creazione di un nuovo valore di 40 talleri, un valore che non è affatto necessario per risarcire i 60 talleri anticipati per il materiale e lo strumento di lavoro e i 40 talleri per il lavoro. I valori in circolazione sarebbero aumentati di 80 talleri, ossia di 40 talleri di tempo di lavoro oggettivato in più.

Assumiamo ora di nuovo come presupposto 100 talleri di capitale: 50 per cotone, 40 per lavoro, e 10 per strumento di produzione. Poniamo che il tempo di lavoro supplementare rimanga identico a quello del caso precedente, ossia 4 ore, e il tempo di lavoro complessivo sia 8 ore. In tal modo il prodotto è in tutti i casi =8 ore di tempo di lavoro =140 talleri. Poniamo ora che la produttività del lavoro si raddoppi; vale a dire che all'operaio siano sufficienti 2 ore per valorizzare la materia prima e lo strumento tanto quanto occorre a mantenere la sua forza-lavoro. Se per l'ipotesi 40 talleri rappresentavano un tempo di lavoro oggettivato di 4 ore su quello complessivo, 20 talleri rappresenterebbero il tempo di lavoro oggettivato di 2 ore. Questi 20 talleri esprimono ora il, medesimo valore d'uso che prima esprimevano i 40 talleri. Il valore di scambio della forza-lavoro si è ridotto della metà, perché la metà del tempo di lavoro originario crea il medesimo valore d'uso, ma il valore di scambio del valore d'uso è misurato puramente dal tempo di lavoro in esso oggettivato.

Il capitalista invece fa lavorare l'operaio 8 ore esattamente come prima, sicché il suo prodotto rappresenta, esattamente come prima, un tempo di lavoro di 8 ore =80 talleri di tempo di lavoro, mentre il valore della materia prima e dello strumento è rimasto identico ossia 60 talleri; il tutto, come prima, fa 140 talleri. (All'operaio, per vivere, sarebbe bastato aggiungere soltanto un valore di 20 talleri ai 60 di materia prima e strumento, creando così soltanto un valore di 80 talleri. Il valore complessivo del suo prodotto si sarebbe ridotto, per via del raddoppiamento della produzione, da 100 a 80, di 20 talleri, ossia di 1/5 di 100 = 20%). Ma il tempo supplementare o plusvalore del capitale è ora 6 ore invece che 4, o 60 talleri invece di 40. Il suo aumento è di 2 ore, di 20 talleri. Il capitalista farebbe ora questo conto: 50 per materia prima, 20 per lavoro, 10 per strumento; spese = 80 talleri. Profitto = 60 talleri. Egli venderebbe il prodotto lo stesso come prima a 140 talleri, ma ne trarrebbe ora un profitto di 60 talleri, invece dei 40 di prima. Per un verso dunque egli non fa che mettere in circolazione lo stesso valore di scambio di prima, cioè 140 talleri. Ma il plusvalore del suo capitale è ora aumento di 20 talleri. Di consequenza è aumentata soltanto la sua partecipazione ai 140 talleri, ossia il saggio del suo profitto.

L'operaio in realtà ha lavorato per lui 2 ore in più gratis, precisamente 6 ore invece di 4; sicché per lui è come se, entro il precedente rapporto, egli avesse lavorato 10 ore invece di 8, come se cioè avesse aumentato il suo tempo di lavoro assoluto. Ma in realtà è sorto anche un neovalore; ossia 20 talleri in più sono stati posti come valore autonomo, come lavoro oggettivato che è stato liberato, svincolato dal compito di servire soltanto per essere scambiato con la forza-lavoro precedente. Ciò può assumere due aspetti. O con i 20 talleri si mette in moto tanto lavoro in più che essi diventano capitale e creano un valore di scambio accresciuto: il lavoro oggettivato in più diventa allora il punto di partenza del nuovo processo di produzione; oppure il capitalista scambia i 20 talleri in denaro con qualsiasi tipo di merce, tranne quelle di cui, in quanto capitale industriale, egli ha bisogno nella sua produzione. Qualsiasi tipo di merce, esclusi il lavoro e il denaro, si scambiano dunque con i 20 talleri in più, ossia con 2 ore di tempo di lavoro oggettivato in più. Il loro valore di scambio pertanto è aumentato appunto di tale somma resasi libera. Effettivamente 140 talleri sono 140 talleri, come osserva «l'acutissimo» curatore francese dei fisiocratici polemizzando con Bois- guillebert. Ma è falso dire che questi 140 talleri non rappresentano altro che un valore d'uso; essi rappresentano per la maggior parte valore di scambio autonomo, denaro, capitale latente; e quindi ricchezza posta come ricchezza.

Ciò è ammesso dagli stessi economisti quando in seguito affermano che attraverso l'accumulazione dei capitali si accumula non soltanto la massa dei valori d'uso ma anche quella dei valori di scambio. Lo stesso Ricardo infatti ritiene che l'elemento dell'accumulazione dei capitali è creato in maniera altrettanto esauriente dal pluslavoro relativo — né può essere altrimenti — che da quello assoluto m. D'altra parte nella posizione perfettamente sviluppata dello stesso Ricardo 180 è già implicito che questi 20 talleri eccedenti, creati puramente dall'aumento della produttività, possano ridiventare capitale. Dei 140 talleri, soltanto 40 (se escludiamo provvisoriamente il consumo del capitale) potevano diventare, prima, nuovo capitale; 100 non diventano, bensì rimangono capitale; ora invece possono diventarlo 60 talleri, ossia esiste un capitale accresciuto di un valore di scambio di 20 talleri. I valori di scambio, la ricchezza in quanto tale è dunque aumentata, quantunque ora come prima non sia immediatamente aumentata la sua somma complessiva. Ma perché è aumentata?

Perché è aumentata quella parte della somma complessiva che non è semplicemente mezzo di circolazione ma denaro, o che non è semplicemente equivalente ma valore di scambio per sé stante. O i 20 talleri resisi liberi sono stati accumulati sotto forma di denaro, ossia sono stati aggiunti sotto la forma generale (astratta) del valore di scambio ai valori di scambio esistenti; oppure vengono messi tutti in circolazione, e in tal caso i prezzi delle merci comprate con essi aumentano; essi infatti rappresentano tutti più denaro, e poiché il costo di produzione dell'oro non è diminuito (ma anzi è aumentato in proporzione alla merce prodotta col capitale diventato più produttivo), rappresentano più lavoro oggettivato (il che comporta che l'eccedente che all'inizio figurava dalla parte del solo capitale produttivo, ora figuri dalla parte degli altri che producono le merci rincarate).

O ancora i 20 talleri vengono utilizzati direttamente come capitale da parte dello stesso capitale circolante originario. Così si crea un nuovo capitale di 20 talleri — una somma di ricchezza che si conserva e si valorizza. Il capitale è aumentato del valore di scambio di 20 talleri. (La circolazione, a dire il vero, ancora non ci interessa, giacché qui abbiamo a che fare col capitale in generale, mentre la circolazione può soltanto fare da mediatrice tra la forma di denaro del capitale e la sua forma di capitale. Il primo tipo di capitale può anche realizzare il denaro in quanto tale, ossia scambiarlo per ottenere più merci e consumarne più di prima; ma nelle mani del produttore di tali merci quel denaro diventa capitale. Esso cioè diventa capitale direttamente nelle mani del primo capitale, o indirettamente nelle mani di un altro capitale. Ma l'altro capitale è anch'esso capitale in quanto tale; e qui noi ci occupiamo appunto del capitale in quanto tale, del capitale dell'intera società. La diversità dei capitali ecc. non ci interessa ancora).

Questi 20 talleri possono assumere, in generale, soltanto due forme. Possono assumere la forma del denaro, e allora il capitale assume nuovamente la determinazione che aveva al punto di partenza, la determinazione del denaro non ancora diventato capitale, la forma astrattamente autonoma del valore di scambio o della ricchezza generale; oppure possono assumere di nuovo la forma del capitale, la forma del dominio del lavoro oggettivato sul lavoro vivo*. (* Nell'esempio daop la forza produttiva è raddoppiata, è aumentata del 100% e il valore del capitale è aumentato del 20%.)

(Ogni aumento della massa di capitale impiegato può aumentare la produttività non solo in proporzione aritmetica ma anche in proporzione geometrica; mentre appunto per questo — come moltiplicatore della produttività — esso poi non può aumentare il profitto che in proporzione molto inferiore. L'effetto dell'aumento del capitale sull'aumento della produttività è dunque infinitamente superiore all'effetto di quest'ultimo sul primo). I 20 talleri possono presentarsi cioè come ricchezza generale materializzata nella forma del denaro (della cosa pur sempre astratta) oppure in quella di nuovo lavoro vivo.

Dei 140 talleri, il capitalista ne consuma, poniamo, 20 sotto forma di valori d'uso personali adoperando il denaro come mezzo di circolazione. Così, se prima egli poteva iniziare il processo di autovalorizzazione soltanto con un maggior capitale o maggior valore di scambio di 120 talleri (rispetto a 100), in seguito al raddoppiamento della produttività egli può farlo con 140 talleri senza limitare il proprio consumo. Una parte maggiore di valori di scambio si consolida sotto forma di valore di scambio, (non importa se direttamente, o indirettamente attraverso la produzione) invece di sparire sotto forma di valori d'uso. Creare maggior capitale significa creare maggior valore di scambio, sebbene il valore di scambio, nella sua forma immediata di valore di scambio semplice, sia stato accresciuto non dall'aumento della produttività, ma lo sia stato nella sua forma potenziata di capitale. Questo maggior capitale di 140 talleri rappresenta in senso assoluto più lavoro oggettivato del precedente capitale di 120 talleri. Per questo stesso motivo esso mette in moto, 35 per lo meno relativamente, più lavoro vivo e perciò riproduce anche, alla fine, maggior valore di scambio semplice.

Il capitale di 120 talleri al 40% produceva un prodotto o un valore di scambio semplice di 60 talleri al 40%; il capitale di 140 talleri produce un valore di scambio semplice di 64 talleri. Qui allora l'aumento del valore di scambio nella forma di capitale è posto ancora immediatamente come aumento del valore di scambio nella sua forma semplice. Stabilire questo punto è della massima importanza. Non basta dire, come fa Ricardo 180 71, che non aumenta il valore di scambio, ossia l'astratta forma della ricchezza, ma soltanto il valore di scambio come capitale. Dicendo questo, egli ha in mente semplicemente il processo di produzione originario. Quando invece aumenta il pluslavoro relativo — e quindi il capitale aumenta in assoluto — aumenta necessariamente, all'interno della circolazione, anche il valore di scambio relativo in quanto tale, il denaro in quanto tale, e quindi, con la mediazione del processo di produzione, il valore di scambio assoluto.

In altri termini, di questa stessa quantità di valore di scambio, o di denaro — giacché è in questa forma semplice che si presenta il prodotto del processo di valorizzazione (il plusvalore è un prodotto soltanto relativamente al capitale, al valore quale esisteva prima del processo di produzione; considerato invece per se stesso, come esistenza autonoma, esso è semplicemente valore di scambio quantitativamente determinato) —, se ne è resa libera una parte che non è affatto un equivalente di valori di scambio esistenti o anche di un tempo di lavoro esistente. Se essa si scambia con questi ultimi, non dà affatto loro un equivalente, ma più di un equivalente, liberando così dal loro lato una parte del valore di scambio. Da un punto di vista statico, questo valore di scambio resosi libero, di cui la società si trova arricchita, può essere soltanto denaro, e allora è aumentata soltanto la forma astratta della ricchezza; da un punto di vista dinamico, esso può realizzarsi soltanto in nuovo lavoro vivo. Ciò si può fare in vari modi: si può mettere in movimento lavoro precedentemente latente; oppure, creare nuovi operai (accelerando il ritmo di aumento della popolazione); oppure, allargare la sfera dei valori di scambio che si trovano in circolazione mediante la produzione: il valore di scambio resosi libero apre un nuovo ramo di produzione, crea un nuovo oggetto di scambio, e il lavoro oggettivato si trasforma in un nuovo valore d'uso; oppure, si può raggiungere il medesimo risultato immettendo il lavoro oggettivato di un nuovo paese, attraverso l'ampliamento del commercio, nella sfera della circolazione. Comunque sia, è necessario creare questo nuovo lavoro vivo.

Ricardo cerca di chiarirsi il problema in una forma che non solo rimane molto oscura, ma che finisce col dire soltanto che egli introduce di colpo un determinato rapporto. Bastava invece dire semplicemente che, di una medesima somma di valori di scambio semplici, una parte minore si realizza nella forma di valore di scambio semplice (di equivalente), e una maggiore nella forma di denaro (del denaro come forma primitiva e antidiluviana da cui continuamente nasce il capitale; del denaro nella sua determinazione di denaro, non di moneta, ecc.); e che perciò la parte posta come valore di scambio per sé, come valore, ossia la ricchezza nella sua forma di ricchezza, aumenta (mentre egli giunge appunto alla falsa conclusione che quella parte aumenta soltanto nella forma della ricchezza materiale, cioè come valore d'uso). La genesi della ricchezza in quanto tale, nella misura in cui questa non scaturisce dalla rendita — ossia, secondo lui, non dall' aumento della produttività ma viceversa dalla sua diminuzione —, gli è perciò completamente incomprensibile e lo porta ad avvolgersi nelle più assurde contraddizioni. Assumiamo per un momento il problema nella forma in cui egli lo pone. Supponiamo che un capitale di 1000 Lst. metta in movimento 50 operai72 o 50 giornate di lavoro vivo; raddoppiando la produttività esso potrebbe mettere in movimento 100 giornate lavorative. Queste però non esistono nella premessa, ma vengono arbitrariamente introdotte perché altrimenti egli — se non entrano più giornate lavorative effettive — non si spiega l'aumento del valore di scambio attraverso l'aumento di produttività.

D'altra parte egli non sviluppa mai l'aumento della popolazione quale elemento dell'aumento dei valori di scambio; né lo enuncia mai in maniera chiaramente determinata. Data quella premessa: capitale 1000 e operai 50 — la conseguenza giusta che anche egli trae (vedi il mio quaderno) è questa: un capitale di 500 Lst. con 25 operai può produrre lo stesso valore d'uso di prima; le altre 500 Lst. con gli altri 25 operai fondano una nuova azienda e producono anch'essi valore di scambio di 500. Il profitto rimane identico, giacché esso non deriva dallo scambio tra le 500 e le 500, ma dalle quote in cui originariamente il profitto e il salario si dividono nelle 500 Lst., e lo scambio anzi è uno scambio di equivalenti, che non può aumentare il valore così come non può farlo nel commercio estero, cui Ricardo si riferisce espressamente nel corso della sua analisi. Giacché lo scambio di equivalenti non significa appunto altro che questo: che il valore che era nelle mani di A prima dello scambio con B, è ancora nelle sue mani dopo lo scambio con B. Il valore complessivo o la ricchezza complessiva sono rimasti gli stessi. Ma il valore d'uso o contenuto della ricchezza si è raddoppiato. Non esiste dunque assolutamente alcun motivo per cui debba aumentare la ricchezza in quanto tale, il valore di scambio in quanto tale — fintantoché si considera l'aumento delle forze produttive. Se le 36 forze produttive si raddoppiano di nuovo nei due rami allora il capitale a può scindersi di nuovo in 250 con 124 giornate lavorative e 250 con 124 giornate lavorative, e altrettanto può fare il capitale b. A questo punto esistono quattro capitali, col medesimo valore di scambio di 1000 Lst., i quali consumano esattamente come prima 50 giornate di lavoro vivo* complessivamente(* In fondo è sbagliato dire che il lavoro vico consuma il capitale: nel processo di produzione è il capitale - il lavoro materializzato - che consuma il lavoro vivo), e producono un valore d'uso quattro volte più grande di quello che era destinato al consumo prima del raddoppiamento della produttività.

Ricardo è troppo classico per commettere le sciocchezze dei suoi emendatori, i quali fanno nascere il maggior valore, in seguito all'aumento della produttività, dal fatto che nella circolazione una delle parti vende più caro. Ossia, invece di scambiare il capitale di 500 — non appena esso sia diventato merce o valore di scambio semplice — con 500, una delle parti lo scambia con 550 ( + 10%); senonché, in tal caso, l'altra parte riceve evidentemente, in valore di scambio, soltanto 450 invece di 500, per cui la somma totale rimane sempre 1000. Se è vero che ciò accade spesso nel commercio, esso spiega soltanto il profitto dell'un capitale a scapito dell'altro, ma non spiega i 1 profitto d e 1 capitale; e senza questo presupposto non esiste profitto né da una parte né dall'altra. Il processo quale lo intende Ricardo può dunque proseguire senza che esista altro limite che l'aumento della produttività (la quale è a sua volta materiale, ed è esterna al rapporto economico stesso) che può aversi con un capitale 1000 e operai 50. Si veda infatti il seguente passo: «Il capitale è la parte della ricchezza di un paese impiegata in vista di una produzione futura, e può essere aumentato allo stesso modo della ricchezza».

(Qui è chiaro che per ricchezza egli intende l'abbondanza di valori d'uso, sicché, dal punto di vista dello scambio semplice, un medesimo lavoro oggettivato può esprimersi in un illimitato di valori d'uso rimanendo sempre lo stesso valore di scambio finché rimane identico come quantità di lavoro oggettivato; giacché il suo equivalente è misurato non dalla massa dei valori d'uso in cui esso esiste, bensì dalla sua propria quantità). «Un capitale addizionale è egualmente efficace ai fini della formazione di ricchezza futura, tanto se sia stato ottenuto da miglioramenti della tecnica di lavoro o del macchinario, quanto se lo sia stato dall'impiego produttivo di una parte maggiore del reddito; poiché la ricchezza» (valore d'uso)* dipende sempre dalla quantità delle merci prodotte» (ma anche dalla loro varietà, sembra), «indipendentemente dalla facilità con cui possono essere stati prodotti gli strumenti impiegati nella produzione» (ossia, dal tempo di lavoro in essi oggettivato). «Una certa quantità di stoffe e di mezzi di sussistenza serve a mantenere e a dare impiego ad uno stesso numero di uomini; doppio ne è però il valore»(valore di scambio) «se per la sua produzione ne sono stati impiegati 200». Se, mediante un aumento della produttività, 100 uomini producono tanti valori di scambio quanti ne producevano prima 200, allora «metà dei 200 saranno lincenziati e i restanti 100 produrranno tanto quanto producevano prima i 200. Una metà del capitale può dunque essere riTlrata dalla branca di produzione; si è liberato tanto capitale quanto lavoro. E poiché una metà del capitale dà la stessa prestazione che prima dava l'intero capitale, si sono formati due capitali ecc.» (Cfr. 39, 40 ibidem, sul commercio nazionale, su cui dobbiamo ritornare) m.

Ricardo non parla qui della giornata lavorativa; non ne parla cioè nella forma per cui il capitalista, quando precedentemente scambiava mezza giornata di lavoro oggettivato con una intera giornata di lavoro vivo dell'operaio, in fondo guadagnava soltanto mezza giornata di lavoro vivo, perché l'altra metà egli la dà all'operaio in forma oggettivata e la riceve da lui in forma viva, ossia paga una metà della giornata di lavoro all'operaio; ma ne parla sotto forma di giornate lavorative simultanee, cioè di diversi operai. Il che non muta affatto la sostanza del problema, ma soltanto l'espressione. Anzi, in tal modo ciascuna di queste giornate di lavoro fornisce tempo supplementare. Se il capitalista prima aveva come limite 1 a giornata lavorativa, ora ha 50 t237! giornate lavorative ecc. Come si è detto, in questa forma l'aumento dei capitali attraverso la produttività non comporta aumento di valori di scambio, e secondo Ricardo perciò la popolazione potrebbe anche scendere, poniamo, da 10.000.000 a 10.000, senza che diminuisca il valore di scambio o la quantità dei valori d'uso (vedi la conclusione del suo libro)185.

Che il capitale racchiuda delle contraddizioni, siamo gli ultimi a negarlo. Il nostro scopo è anzi quello di svilpparle completamente. Ricardo invece non le sviluppa, bensì se ne libera, considerando il valore di scambio come indifferente alla formazione di ricchezza. Cioè egli sostiene che in una società basata sul valore di scambio, in cui la ricchezza deriva da tale valore, le contraddizioni a cui è portata questa forma di ricchezza con lo sviluppo delle forze produttive ecc. non esistono; che un incremento di valore non è necessario in tale società per assicurare l'incremento di ricchezza; e che di conseguenza il valore come forma della ricchezza non influisce affatto sulla ricchezza stessa e sul suo sviluppo. Il che vuol dire che egli considera il valore di scambio in maniera puramente formale. Ma poi gli riviene in mente 1) che per i capitalisti il vero problema è il valore; 2) che storicamente col progresso delle capacità produttive (ed egli avrebbe dovuto pensare anche a quello del commercio internazionale) la ricchezza in quanto tale, ossia la massa di valore aumenta. Come spiegare allora questo fatto? I capitali si accumulano più velocemente della popolazione; con ciò cresce il salario; quindi la popolazione; quindi il prezzo del grano; quindi la difficoltà di produzione e quindi i valori di scambio. A questi dunque ci si arriva, alla fine, per vie traverse.

Lasciamo completamente da parte, per ora, il momento della rendita, ove il problema non è quello di una maggiore difficoltà di produzione ma viceversa quello dell'aumento delle capacità produttive. Con l'accumulazione dei capitali il salario cresce, se contemporaneamente non aumenta la popolazione; l'operaio si sposa, dando quindi un incentivo alla produzione, oppure i suoi figli vivono meglio, non muoiono precocemente ecc. Insomma, la popolazione aumenta. Ma il suo aumento scatena la concorrenza tra gli operai, costringendo così il singolo operaio a vendere di nuovo al capitalista la propria forza-lavoro al suo valore o, momentaneamente, persino al di sotto di esso. A questo punto allora il capitale accumulato, che nel frattempo si è sviluppato più lentamente, si trova a disporre di nuovo, sotto forma di denaro da valorizzare come capitale nel lavoro vivo, di quel surplus che prima esso spendeva sotto forma di salario e quindi di moneta per comprare il valore d'uso del lavoro; e poiché ora dispone anche di una maggiore quantità di giornate lavorative, aumenta a sua volta il suo valore di scambio.

(Anche questo punto non è ben sviluppato in Ricardo, ma è confuso con la teoria della rendita; infatti l'aumento della popolazione sottrae ora al capitale sotto forma di rendita il surplus che prima il capitale perdeva sotto forma di salario). Ma persino l'aumento della popolazione non è ben comprensibile nella sua teoria. Egli non ha mai enucleato il rapporto immanente che si stabilisce tra l'intero lavoro oggettivato nel capitale e la giornata di lavoro vivo (e ai fini di tale rapporto fa lo stesso che quest'ultima sia rappresentata come giornata lavorativa di 50 X 12 ore o come lavoro di 12 ore di 50 operai); così come non ha mai compreso che questo rapporto immanente è appunto il rapporto tra la frazione di giornata di lavoro vivo o equivalente del lavoro oggettivato con cui viene pagato l'operaio, e l'intera giornata di lavoro vivo — ove l'intero giorno stesso e il rapporto immanente costituiscono il rapporto variabile (il giorno stesso è una grandezza costante) tra la frazione delle ore di lavoro necessarie e le ore di lavoro in più.

E proprio perché non ha enucleato questo rapporto, egli non è riuscito a comprendere nemmeno (cosa che finora non aveva per noi ancora alcun interesse, perché ci interessava il capitale in quanto tale, mentre lo sviluppo delle capacità produttive è stato introdotto soltanto come rapporto esterno) il fatto che, se lo sviluppo della produttività presuppone sia l'aumento del capitale sia le giornate lavorative simultanee, tuttavia entro i limiti oggettivi del capitale, che mette in moto una giornata lavorativa (sia pure una di 50 X 12 = 600 ore), rappresenta a sua volta l'ostacolo allo sviluppo della produttività del capitale. Il salario implica non solo l'operaio, ma anche la sua riproduzione; per cui se muore questo esemplare della classe operaia, un altro lo rimpiazza; e se muoiono i 50 operai, ce ne sono subito 50 pronti a sostituirli. I 50 operai stessi — come forza-lavoro viva — rappresentano non solo i costi della loro produzione, ma anche i costi che dovettero essere pagati ai loro genitori, oltre al loro salario in quanto individui, affinché si rimpiazzassero in 50 nuovi individui. Quindi la popolazione aumenta anche senza l'aumento del salario. Ma perché non aumenta abbastanza velocemente? e deve ricevere uno stimolo particolare?

Evidentemente solo perché al capitale non giova ottenere semplicemente più «ricchezza» nel senso ricardiano, ma perché vuol comandare più valore, più lavoro oggettivato. Secondo Ricardo però il capitale può comandare lavoro solo quando il salario diminuisce; quando cioè per un medesimo capitale vengono scambiate più giornate di lavoro vivo col lavoro oggettivato e perciò si crea un maggior valore. Per far diminuire il salario, egli presuppone l'aumento della popolazione. E per dimostrare questo aumento della popolazione egli presuppone l'aumento della domanda di giornate lavorative, o in altri termini la possibilità da parte del capitale di comprare più lavoro oggettivato (oggettivato nella forza-lavoro), ossia l'aumento del valore del capitale stesso. All'inizio invece egli partiva dalla premessa diametralmente opposta e procedeva per vie traverse solo perché era partito da essa. Se 1000 Lst. potevano comprare 500 giornate lavorative e la produttività aumenta, si può passare o ad adoperare le 500 giornate lavorative nella medesima branca di lavoro, oppure, dividendole, adoperarne 250 in una branca e 250 in un'altra, cosìcché anche il capitale si divide in 2 capitali di 500. Ma esso non può mai comandare più di 500 giornate lavorative, perché altrimenti secondo Ricardo avrebbero dovuto moltiplicarsi non solo i valori d'uso da esso prodotti, ma anche il suo valore di scambio, il tempo di lavoro oggettivato che esso comanda. Sulla base della sua premessa dunque non può esservi nessun aumento della domanda di lavoro. Se invece tale aumento si verifica, allora vuol dire che il valore di scambio del capitale è aumentato. Cfr. Malthus, on value, il quale avverte le contraddizioni, ma s'impasticcia quando egli stesso pretende di svilupparle.

[Il lavoro non riproduce il valore del materiale su cui lavora e dello strumento con cui lo lavora. Esso conserva il loro valore semplicemente per il fatto che nel processo lavorativo esso si riferisce loro come alle sue condizioni materiali. Questa forza vivificatrice e conservatrice non costa nulla al capitale; anzi si rivela come forza del capitale stesso ecc.]

Finora abbiamo parlato soltanto dei due elementi del capitale, delle due parti della giornata di lavoro vivo, delle quali l'una rappresenta il salario, l'altra il profitto, l'una il lavoro necessario, l'altra il pluslavoro. Che fine fanno allora le altre due parti del capitale, quelle realizzate nel materiale e nello strumento di lavoro? Per quanto riguarda il processo di produzione semplice, il lavoro presuppone l'esistenza di uno strumento che faciliti il lavoro, e di un materiale in cui esso si esprime dandogli una forma. Questa forma gli conferisce il valore d'uso. Nello scambio questo valore d'uso diventa valore di scambio nella misura in cui contiene lavoro oggettivato. Ma come elementi del capitale, sono essi dei valori che il lavoro deve riprodurre? (Di obiezioni di questo genere — di considerare cioè come elementi dei costi di produzione soltanto il profitto e il salario, e non le macchine e il materiale — ne sono state rivolte moltissime contro Ricardo).

Nell'esempio precedente, noi avevamo un capitale di 100, ripartito in 50 per cotone, 40 per salario e 10 per strumento. Se il salario di 40 talleri è = 4 ore di lavoro oggettivato e il capitale fa lavorare 8 ore, l'operaio deve riprodurre 40 talleri per il salario, 40 talleri di tempo supplementare (profitto), 10 talleri di strumento, 50 talleri di cotone, cioè un totale di 140 talleri. Sembra invece che ne riproduca, soltanto 80. Infatti 40 talleri costituiscono il prodotto di mezza giornata lavorativa, e 40 l'altra metà in più. Ma il valore delle altre due parti costitutive del capitale" è di 60 talleri. E se il prodotto reale dell'operaio è di 80 talleri, egli può riprodurne allora soltanto 80, non 140. Egli anzi avrebbe diminuito il valore dei 60, giacché, degli 80, 40 vanno a titolo di risarcimento per il suo salario, e i restanti 40 di pluslavoro sono appunto [di] 20 inferiori a 60. Invece di avere un profitto di 40, il capitalista avrebbe una perdita di 20 sulla sua parte di capitale costituita originariamente da strumento e materiale. Come fa l'operaio a creare, oltre agli 80, altri 60 talleri di valore, se metà della sua giornata lavorativa, come mostra il suo salario, crea soltanto 40 talleri con strumento e materiale; se l'altra metà ne crea anch'essa soltanto 40; e se egli dispone di unica giornata di lavoro, e in una giornata di lavoro non può lavorarne due? Poniamo che i 50 talleri di materiale siano = x libbre di filato di cotone e i 10 talleri di strumento = ad un fuso.

Per quanto riguarda anzitutto il valore d'uso , è evidente che l'operaio non potrebbe produrre un tessuto, ossia un valore d'uso superiore, se il cotone non avesse già la forma del filo e il legno e il ferro non avessero già quella del fuso. Per lui, nel processo di produzione, i 50 e i 10 talleri rappresentano soltanto filo e fuso, e non valori di scambio. Il suo lavoro ha conferito loro un valore d'uso superiore e vi ha aggiunto una quantità di lavoro oggettivato pari a 80 talleri, ossia 40 in cui egli riproduce il suo salario, e 40 di tempo supplementare. Il valore d'uso, il tessuto, contiene una giornata lavorativa in più, della quale però una metà rimpiazza soltanto quella parte del capitale con la quale è stata scambiata la disposizione sulla forza-lavoro. Il tempo di lavoro oggettivato che è contenuto nel filo e nel fuso, e che costituisce la parte del valore del profitto, non l'ha creato l'operaio; per lui erano e rimanevano un materiale a cui egli ha dato un'altra forma e in cui ha incorporato nuovo lavoro. L'unica condizione era che non li rovinasse — e non l'ha fatto, visto che il suo prodotto ha un valore d'uso, e un valore d'uso superiore a quello precedente. Esso contiene ora due parti di lavoro oggettivato — la sua giornata lavorativa, e il lavoro che, indipendentemente da lui e prima del suo lavoro era contenuto nel suo materiale, filo e fuso. Il lavoro precedentemente oggettivato era la condizione del suo lavoro; solo quel lavoro rendeva quest'ultimo, appunto, lavoro, senza costargliene alcuno.

Supponiamo che essi non siano già presupposti come parti costitutive del capitale, come valori, e che a lui non fossero costati nulla. In tal caso il valore del prodotto sarebbe 80, se egli avesse lavorato un'intera giornata, 40 se invece avesse lavorato mezza giornata. Esso sarebbe appunto = ad una giornata di lavoro oggettivato. A lui in effetti essi non costano nulla nella produzione; ma ciò non toglie il tempo di lavoro in essi oggettivato, il quale rimane, salvo a ricevere una forma diversa. Se l'operaio oltre al tessuto avesse dovuto creare nella medesima giornata lavorativa anche il filo e il fuso, il processo sarebbe stato di fatto impossibile. Il fatto dunque che essi non richiedono il suo lavoro né come valori d'uso nella loro forma originaria, né come valori di scambio, ma che essi esistono già, fa appunto sì che l'aggiunta di una giornata di lavoro da parte sua crei un prodotto di valore superiore ad una giornata di lavoro. Ma lo crea inquantoché tale eccedenza sulla giornata lavorativa egli non ha da crearla, bensì la trova già presupposta come materiale. Dire che egli riproduce questi valori, lo si può dunque solo nel senso che essi senza il lavoro marcirebbero, sarebbero inutili; e d'altra parte anche il lavoro sarebbe inutile senza di essi. Se l'operaio riproduce questi valori, ciò non accade perché egli conferisce loro un valore di scambio superiore, o perché avvia un qualsiasi processo col loro valore di scambio, ma perché egli li assoggetta al processo di produzione semplice, ossia, in generale, perché li lavora.

Ma ciò non gli costa affatto un tempo di lavoro in più accanto a quello di cui ha bisogno per la loro elaborazicne e superiore valorizzazione. È una condizione in cui il capitale lo ha posto a lavorare. Egli li riproduce solo in quanto dà loro un valore superiore, e questo dare-valore-superiore è = alla sua giornata lavorativa. Per il resto egli li lascia così come sono. Se il loro vecchio valore rimane conservato, ciò accade perché viene aggiunto loro, ossia creato un valore nuovo, e non perché venga riprodotto quello vecchio. Nella misura in cui essi sono il prodotto di un lavoro precedente, tale prodotto di un lavoro precedente o somma di lavoro precedentemente oggettivato rimane un elemento del suo prodotto e questo contiene, oltre al suo nuovo valore, anche quello vecchio. L'operaio dunque in effetti produce, in relazione a questo prodotto, soltanto la giornata lavorativa che egli vi aggiunge, mentre la conservazione del vecchio valore non gli costa assolutamente nulla, tranne ciò che gli costa ad aggiungere il nuovo. Per lui esso è soltanto un materiale, e tale rimane anche se la forma muta; è cioè qualcosa che esiste indipendentemente da lui. Che poi questo materiale, che tale rimane poiché riceve solo una diversa forma, contenga già un tempo di lavoro, è affare del capitale, non suo. Esso è indipendente dal suo lavoro, e continua ad esserlo dopo di questo, tanto quanto lo era prima del medesimo. Questa cosìddetta riproduzione non gli costa alcun tempo di lavoro, ma è la condizione del suo tempo di lavoro, giacché non fa altro che porre la materia esistente come materiale del suo lavoro e riferire il suo lavoro ad essa come materiale. Egli dunque risarcisce il vecchio tempo di lavoro mediante l'atto del lavorare stesso, non mediante l'aggiunzione di un apposito tempo di lavoro particolare. Egli lo risarcisce semplicemente aggiungendone uno nuovo, attraverso il quale quello vecchio rimane conservato nel prodotto e diventa elemento di un nuovo prodotto.

L'operaio dunque non risarcisce la materia prima e lo strumento — finché sono valori — con la sua giornata lavorativa. Questa conservazione del vecchio valore il capitalista la ottiene gratis quanto il plus-lavoro. Ma la ottiene gratis [non] perché essa non costa nulla all'operaio, ma perché è il risultato del fatto che il materiale e lo strumento di lavoro si trovano nelle sue mani già per presupposto. L'operaio perciò non può lavorare senza trasformare il lavoro che in forma oggettivata è già nelle mani del capitale, in materiale del suo lavoro, e per ciò stesso conservare il lavoro oggettivato in tale materiale. Il capitalista dunque non paga all'operaio nulla in cambio del fatto che il filo e il fuso — o meglio il loro valore — si ritrovano e quindi ci sono conservati, in termini di valore, nel tessuto. Questa conservazione avviene semplicemente per l'aggiunzione di nuovo lavoro che a sua volta aggiunge un valore superiore. Dall'originario rapporto tra capitale e lavoro scaturisce dunque che lo stesso servizio che il lavoro vivo rende riferendosi come lavoro vivo al lavoro oggettivato, non costa nulla né al capitale né all'operaio; esso esprime soltanto la relazione per cui il materiale e lo strumento di lavoro di fronte a lui sono capitale, ossia presupposti indipendenti da lui. La conservazione dell'antico valore non è un atto distinto dall'aggiunzione del nuovo, ma avviene automaticamente; si presenta cioè come risultato naturale. Ma che questa conservazione non costi nulla né al capitale né all'operaio, è già implicito nel rapporto tra capitale e lavoro, che in sé è già un rapporto tra il profitto dell'uno e il salario " dell'altro.

Il singolo capitalista può immaginare (senza che questo sposti il suo calcolo) che, se possiede un capitale di 100 talleri, suddiviso in 50 talleri di cotone, 40 talleri di mezzi di sostentamento per ottenere il lavoro e 10 talleri di strumento, e se calcola un profitto del 10% sui suoi costi di produzione, il lavoro debba risarcirgli 50 talleri sul cotone, 40 talleri sui mezzi di sostentamento, 10 talleri sullo strumento, e il 10% su 50, su 40 e su 10; cosìcché, nell'idea che egli si fa della cosa b, il lavoro gli crea 55 talleri di materia prima, 44 talleri di mezzi di sostentamento, 11 talleri di strumento, totale =110. Ma per qualsiasi economista questa è un'idea balzana, sebbene la si sia fatta valere [263] con grande pretensione, come un'innovazione, contro Ricardo. Se la giornata lavorativa dell'operaio è =10 ore, ed egli in 8 ore può creare 40 talleri, ossia il suo salario, oppure, che è lo stesso, conservare e risarcire la sua forza-lavoro, allora per risarcire al capitale il salario gli sono sufficienti 4/5 di giornata, e 1/5 di pluslavoro o 10 talleri glieli regala. Il capitale dunque riceve nello scambio, per i 40 talleri di salario, per 8 ore di lavoro oggettivato, 10 ore di lavoro vivo, e questa eccedenza costituisce tutto il suo profitto.

L'intero lavoro oggettivato che dunque l'operaio ha creato è 50 talleri, e, quali che possano essere i costi dello strumento e della materia prima, più di questo egli non può aggiungere, visto che la sua giornata non può oggettivarsi in una quantità maggiore di lavoro. Il fatto di aver conservato contemporaneamente il materiale e lo strumento aggiungendo ai 60 talleri di materia prima e strumento 50 talleri, ossia 10 ore di lavoro (di cui 8 soltanto a titolo risarcimento del salario) — e il materiale e lo strumento vengono conservati appunto perché entrano di nuovo in contatto col lavoro vivo e vengono usati come tali —, né gli costa alcun lavoro (e nemmeno avrebbe tempo eccedente per farlo), né gli viene pagato dal capitalista. Questa forza vivificatrice naturale del lavoro — che è tale che, mentre usa il materiale e lo strumento, nello stesso tempo li conserva in una forma o nell'altra, conservando anche il lavoro in essi oggettivato, ossia il loro valore di scambio — diventa, come ogni forza naturale o sociale del lavoro che non sia un prodotto di un precedente lavoro o non sia il prodotto di un precedente lavoro che debba essere ripetuto (per es. lo sviluppo storico dell'operaio ecc.), forza del capitale, non del lavoro. E perciò essa non è pagata dal capitale, così come non viene pagata all'operaio la sua possibilità di pensare ecc.

Noi abbiamo visto come, all'origine, il valore resosi autonomo rispetto alla circolazione — ossia quella merce per la quale la determinazione di valore di scambio non è una determinazione puramente formale ed evanescente, che le serve per scambiarsi con altri valori d'uso e, alla fine, scomparire come oggetto del consumo —, il denaro in quanto denaro, questo denaro sottratto alla circolazione e che si afferma negativamente di fronte ad essa, sia il presupposto dal quale nasce il capitale. D'altra parte il prodotto del capitale, finché questo non coincide con la sua mera autori- produzione (la quale è però soltanto formale, giacché delle tre parti dei suoi valori soltanto uno viene consumato e perciò riprodotto, cioè quello che risarcisce il salario; mentre il profitto non è una riproduzione, bensì un'aggiunta di valore, un plusvalore), ha a sua volta come risultato un valore. Questo valore, se non entra più in circolazione come equivalente, d'altra parte non è ancora a sua volta potenziato a capitale. Esso è perciò un valore che si rende autonomo negativamente rispetto alla circolazione — è denaro (nella sua terza forma, che è quella adeguata). Se prima il denaro si presentava come presupposto del capirle, come sua causa, ora si presenta come suo effetto.

Nel primo movimento il denaro scaturiva dalla circolazione semplice; nel secondo scaturisce dal processo di produzione del capitale. Nel primo esso trapassa in capitale; nel secondo si presenta come un presupposto del capitale posto dal capitale stesso; ed è perciò già posto, in sé, come capitale, ossia implica già in sé la relazione ideale al capitale. Esso non trapassa più semplicemente nel capitale, bensì, come denaro, esso implica già in sé la possibilità di essere trasformato in capitale.

[Tempo di lavoro supplementare, assoluto e relativo. - Non è la quantità del lavoro vivo, ma la sua qualità di essere lavoro, quella che conserva nello stesso tempo il tempo di lavoro già esistente nel materiale ecc. - La modificazione di forma e materia nel processo di produzione immediato. - Nel processo di produzione semplice è implicito che i precedenti livelli di produzione vengano conservati dai successivi ecc. - Conservazione del vecchio valore d'uso da parte del nuovo lavoro ecc. - Processo di produzione e processo di valorizzazione. La quantità di lavoro oggettivato viene conservata in quanto, a contatto col lavoro vivo, viene conservata la sua qualità di valore d'uso per un nuovo lavoro. - Nel processo di produzione reale la separazione del lavoro dalle sue condizioni di esistenza oggettive è soppressa. Ma in questo processo il lavoro è già incorporato nel capitale ecc.: si presenta come forza di autoconservazione del capitale. Perpetuazione del valore]

L'aumento dei valori è dunque il risultato della autovalorizzazione del capitale. E poco importa che questa autovalorizzazione sia poi il risultato di un tempo supplementare assoluto oppure di un tempo supplementare relativo, cioè di un aumento reale del tempo di lavoro assoluto oppure di un aumento del pluslavoro relativo — o, in altri termini, di una diminuzione della parte aliquota della giornata lavorativa destinata, come tempo di lavoro necessario, come lavoro necessario in generale, a conservare la forza-lavoro.

Il tempo di lavoro vivo non riproduce altro che la parte di tempo di lavoro oggettivato (di capitale) che rappresenta l'equivalente della disposizione sulla forza-lavoro viva, e che perciò, in quanto equivalente, deve risarcire il tempo di lavoro oggettivato in questa forza-lavoro, cioè i costi di produzione della forza-lavoro viva, o, in altri termini, deve mantenere in vita gli operai in quanto operai. Ciò che esso produce in più non è una riproduzione ma una nuova creazione, e cioè una nuova creazione di valore, poiché è un'oggettivazione di nuovo tempo di lavoro in un valore d'uso. Se contemporaneamente viene conservato anche il tempo di lavoro contenuto nella materia prima e nello strumento, ciò è un risultato non della quantità di lavoro, ma della sua qualità di lavoro in generale; e questa sua qualità generica, che non è nessuna sua qualificazione particolare — lavoro non specificamente determinato — ma significa soltanto che il lavoro come lavoro è lavoro, non viene pagata in particolare, giacché questa qualità il capitale l'ha comprata all'atto dello scambio con l'operaio.

Senonché l'equivalente di questa qualità (del valore d'uso specifico del lavoro) è misurato semplicemente dalla quantità di tempo di lavoro che l'ha prodotta. L'operaio, adoperando lo strumento in quanto tale e dando una forma alla materia prima, aggiunge anzitutto al loro valore una forma nuova che è quantitativamente pari al tempo di lavoro conservato nel proprio salario; ciò che egli vi aggiunge in più è tempo supplementare di lavoro, plusvalore. Ma in virtù del rapporto semplice per cui lo strumento viene adoperato come tale e la materia prima viene posta come materia prima del lavoro, attraverso il semplice processo onde essi vengono in contatto col lavoro e sono posti come mezzo e oggetto di esso, quindi come oggettivazione del lavoro vivo, come momenti del lavoro stesso — ciò che di essi viene conservata non è la loro forma ma la loro sostanza. E dal punto di vista economico, ciò che costituisce la loro sostanza è il tempo di lavoro oggettivato. Il tempo di lavoro oggettivato cessa di esistere come forma oggettiva unilaterale — e perciò di essere esposto a dissoluzione come una cosa qualsiasi, per processo chimico ecc. —, [per il fatto] di essere posto come modo di esistenza materiale del lavoro vivo, come mezzo e oggetto di esso.

Dal semplice tempo di lavoro oggettivato — nella cui esistenza materiale il lavoro è ormai soltanto una forma dileguata ed estrinseca della sua sostanza naturale, esterna a questa stessa sostanza (come per es. al legno la forma di tavolo, o al ferro la forma di rullo), in quanto esiste semplicemente nella forma esterna dell'elemento materiale — si sviluppa l'indifferenza della materia per la forma. Se esso la conserva, non è per una legge immanente alla produzione, così come l'albero conserva la sua forma di albero, (il legno si conserva come albero di una forma determinata, perché questa forma è una forma del legno; mentre la forma di tavolo è accidentale al legno, non è la forma immanente alla sua sostanza); esso esiste soltanto come forma esterna all'elemento materiale, ovvero esiste esso stesso soltanto come elemento materiale. La dissoluzione a cui dunque è esposta la sua materia, dissolve anch'esso come forma.

Ma, una volta posti come condizioni del lavoro vivo, strumento e materia prima vengono rianimati. Il lavoro oggettivato cessa di esistere nella materia come se fosse morto, come forma esterna e indifferente, quando esso stesso è posto a sua volta come momento del lavoro vivo, come relazione del lavoro vivo con se stesso in un materiale oggettivo, come oggettività del lavoro vivo (come mezzo e oggetto) (le condizioni oggettive del lavoro vivo). E poiché in tal modo il lavoro vivo, realizzandosi nel materiale, lo modifica — una modificazione che determina finalisticamente il lavoro e ne determina l'attività finalistica, (e che non consiste nel porre, come nell'oggetto morto, la forma come esterna al contenuto, come mera parvenza evanescente della sua esistenza) — il materiale viene conservato in una forma determinata, ossia il cambiamento di forma della materia viene subordinato allo scopo del lavoro.

Il lavoro è il fuoco che dà vita e forma; le cose sono transitorie, temporali, giacché subiscono l'attività formatrice del tempo vivente. Nel processo di produzione semplice — indipendentemente dal processo di valorizzazione — la forma transitoria delle cose viene utilizzata per creare la loro utilità. Nel processo attraverso cui il cotone diventa filo, il filo tessuto, il tessuto stoffa stampata o colorata, e questa diventa, poniamo, un vestito, avviene: 1) che la sostanza del cotone si è conservata attraverso tutte queste forme. (Nel processo chimico si è sempre avuto uno scambio di equivalenti (naturali) nel ricambio materiale regolato dal lavoro); 2) che in tutti questi processi consecutivi la materia ha ricevuto una forma più utile — perché è una forma che la rende più adatta al consumo —, fino a ricevere una forma definitiva nella quale può diventare direttamente oggetto del consumo, in cui cioè il consumo della materia e la distruzione della sua forma diventa godimento umano, la sua modificazione si traduce nel suo stesso uso. La materia del cotone si conserva in tutti questi processi; essa perde una delle forme del valore d'uso per far posto ad un'altra superiore, fino a che si ha l'oggetto come oggetto di consumo immediato. Ma in quanto il cotone diventa filo, esso è posto in una determinata relazione con un'ulteriore specie di lavoro.

Se questo lavoro non subentrasse, non solo la forma vi sarebbe stata posta inutilmente — ossia il lavoro precedente non sarebbe confermato da quello nuovo — ma si rovinerebbe anche la materia, giacché nella forma di filo essa ha valore d'uso solo nella misura in cui viene di nuovo elaborata. Essa infatti continua ad essere valore d'uso solo in rapporto all'uso che ne fa l'ulteriore lavoro; è valore d'uso nella misura in cui la sua forma di filo viene superata in quella di tessuto; mentre il cotone, nella sua esistenza di cotone, è suscettibile di infinite applicazioni pratiche. Senza il lavoro ulteriore dunque il valore d'uso del cotone e del filo, del materiale e della forma, sarebbe sciupato; lo si sarebbe distrutto, invece di produrlo. Tanto la materia quanto la forma vengono conservate dal lavoro ulteriore — conservate cioè come valori d'uso fino a che ricevono la forma di valore d'uso in quanto tale, il cui uso è il consumo. Caratteristica del processo di produzione semplice è dunque che i precedenti livelli della produzione vengono conservati da parte di quelli successivi, e che attraverso la creazione del valore d'uso superiore quello vecchio viene conservato o modificato solo in quanto viene accresciuto come valore d'uso.

È il lavoro vivo che conserva il valore d'uso del prodotto lavorativo incompleto riducendolo a materiale di un lavoro ulteriore. Ma lo conserva, ossia evita che diventi inutilizzabile e perisca, solo in quanto lo elabora secondo il suo scopo, e insomma lo riduce a oggetto di un nuovo lavoro vivo. Questa conservazione del vecchio valore d'uso non è un processo collaterale al suo accrescimento o al suo perfezionamento mediante nuovo lavoro, ma ha luogo attraverso questo stesso nuovo lavoro di accrescimento del valore d'uso. Il lavoro tessile, trasformando il filo in tessuto, trattandolo perciò come materia del tessere, che è una specie particolare di lavoro vivo {e il filo ha un valore d'uso solo in quanto viene tessuto), conserva il valore d'uso che il cotone aveva in quanto tale e che aveva specificatamente conservato nel filo. Esso conserva il prodotto del lavoro facendone il materiale di un nuovo lavoro; ma esso 1) non aggiunge nuovo lavoro, e 2) non conserva il valore d'uso della materia prima mediante un altro lavoro collaterale. Esso conserva l'utilità del cotone come filo tessendo il filo stesso.

(Tutto ciò rientra già nel primo capitolo sulla produzione in generale). La conserva tessendo. Questa conservazione del lavoro come prodotto o del valore d'uso del prodotto del lavoro, per cui esso viene ridotto a materia prima di un nuovo lavoro, ossia di nuovo a oggettività materiale del lavoro vivo in vista di uno scopo, avviene nel processo di produzione semplice. Nei riguardi del valore d'uso, il lavoro possiede la proprietà di conservare il valore d'uso esistente accrescendolo, e di accrescerlo facendone l'oggetto di un nuovo lavoro determinato da uno scopo ultimo, trasformandolo cioè di nuovo, da esistenza indifferente, a materiale oggettivo, a contenuto concreto del lavoro. Lo stesso vale per lo strumento. Un fuso si conserva come valore d'uso solo in quanto viene utilizzato per filare. Altrimenti, insieme con la forma determinata creata in questo caso per il ferro e il legno, andrebbero perduti nell'uso sia il lavoro che l'ha creata sia la materia per cui l'ha creata.

Solo in quanto il fuso viene ridotto a mezzo del lavoro vivo, a momento di esistenza oggettivo della sua vitalità, viene conservato il valore d'uso del ferro e dell'acciaio, insieme alla loro forma. Il suo destino di strumento di lavoro è di essere logorato, ma nel processo di filatura. La maggiore produttività che esso conferisce al lavoro crea più valori d'uso e in tal modo risarcisce il valore d'uso consumato nel consumo dello strumento. Ciò appare nella maniera più evidente nell'agricoltura, dove lo strumento, nella sua qualità immediata di mezzo di sussistenza e di valore d'uso, rivela nella maniera più facile, appunto perché più primitiva, la sua natura di valore d'uso distinto dal valore di scambio. Se la zappa procura al contadino una quantità di grano doppia di quella che potrebbe ottenere normalmente, egli ha bisogno di dedicare meno tempo alla produzione della zappa stessa, perché ha mezzi di sussistenza sufficienti per fare una nuova zappa.

Ora, nel processo di valorizzazione gli elementi che danno valore al capitale — dei quali uno esiste sotto forma di materiale, l'altro sotto quella di strumento —, si presentano, nei confronti dell'operaio, ossia del lavoro vivo (giacché solo in tale processo l'operaio esiste come lavoro vivo), non come valori ma come semplici momenti del processo di produzione, come valori d'uso per il lavoro, come condizioni oggettive o momenti oggettivi della sua efficienza. Che egli li conservi usando lo strumento come strumento e dando alla materia prima una forma superiore di valore d'uso — ciò è implicito nella natura del lavoro stesso. Ma i valori d'uso del lavoro così conservati, in quanto elementi del capitale, sono valori di scambio; e in quanto tali, essi sono determinati dai costi di produzione in essi contenuti, ossia dalla quantità di lavoro in essi oggettivato. (Per il valore d'uso si tratta soltanto della qualità del lavoro già oggettivata). La quantità di lavoro oggettivato viene conservata in quanto, a contatto col lavoro vivo, viene conservata la sua qualità di valore d'uso per un lavoro ulteriore. Il valore d'uso del cotone, al pari del suo valore d'uso come filo, viene conservato per il fatto che esso viene tessuto come filo e che esiste come uno dei momenti oggettivi (oltre al filatoio) del tessere. Per tale via dunque si conserva anche la quantità di tempo di lavoro che era contenuta nel cotone e nel filo.

Ciò che nel processo di produzione semplice si presenta come conservazione della qualità del lavoro trascorso — e per tale via anche del materiale in cui si è realizzata —, nel processo di valorizzazione si presenta invece come conservazione della quantità di lavoro già oggettivato. Per il capitale questa conservazione significa conservazione della quantità di lavoro oggettivato attraverso il processo di produzione; per il lavoro vivo stesso invece essa significa soltanto conservazione del valore d'uso già esistente per il lavoro. Il lavoro vivo aggiunge una nuova quantità di lavoro; ma esso conserva la quantità di lavoro già oggettivata non per questa aggiunzione quantitativa ma per la sua qualità di lavoro vivo, o per il fatto che esso si riferisce, come lavoro, ai valori d'uso in cui esiste il lavoro passato. Ma il lavoro vivo non viene affatto pagato per questa qualità che esso possiede in quanto lavoro vivo — e nemmeno verrebbe comprato se non fosse lavoro vivo —, bensì per la quantità di lavoro in esso stesso contenuta. Ciò che viene pagato, è soltanto il prezzo del suo valore d'uso, come quello di qualsiasi altra merce. La qualità specifica che esso possiede di aggiungere alla quantità di lavoro già oggettivato una quantità di lavoro nuova conservando contemporaneamente il lavoro oggettivato nella sua qualità di lavoro oggettivato —, questa sua qualità specifica non gli viene pagata e non costa nulla nemmeno all'operaio, giacché è la qualità naturale della sua forza-lavoro. Nel processo di produzione, la separazione del lavoro dai suoi momenti di esistenza oggettivi — strumento e materiale — è soppressa. Sulla separazione poggia l'esistenza del capitale e del lavoro salariato. La soppressione della separazione, che si verifica realmente nel processo di produzione — altrimenti non si potrebbe neanche lavorare — il capitale non la paga.

(La soppressione non ha luogo neanche attraverso lo scambio col lavoro — ma attraverso il lavoro stesso nel processo di produzione. In questa qualità di lavoro presente esso però è già incorporato nel capitale, è già un suo momento. Questa capacità conservatrice del lavoro si presenta dunque come capacità di autoconservazione del capitale. L'operaio ha soltanto aggiunto nuovo lavoro; il lavoro passato — il capitale esistente — ha come valore un'esistenza eterna, assolutamente indipendente dalla sua esistenz'a materiale. Così si presenta la cosa al capitale e all'operaio). Se dovesse pagare anche questo, esso cesserebbe di essere capitale. Ciò rientra puramente nel ruolo materiale che il lavoro per sua natura ha nel processo di produzione, cioè nel suo valore d'uso. Ma come valore d'uso il lavoro appartiene al capitalista; come semplice valore di scambio appartiene all'operaio. La qualità viva che esso possiede nel processo di produzione stesso, di conservare il tempo di lavoro oggettivato facendone il modo di esistenza oggettivo del lavoro vivo, non riguarda affatto l'operaio. Questa appropriazione, per la quale nel processo di produzione stesso il lavoro vivo rende lo strumento e il materiale corpo della sua anima risuscitandoli così dalla morte, in realtà è in antitesi col fatto che il lavoro è privo di oggetto o nell'operaio è reale soltanto come immediata vitalità, mentre il materiale e lo strumento di lavoro hanno una realtà per se stante nel capitale. (Ritornare su questo punto).

Il processo di valorizzazione del capitale ha luogo attraverso e nel processo di produzione semplice, per il fatto che il lavoro vivo viene posto nella sua relazione naturale con i suoi momenti di esistenza materiali. Ma se il lavoro entra in tale relazione, questa relazione stessa tuttavia non esiste per il lavoro stesso ma per il capitale; è già un momento del capitale.

[Il capitalista ottiene gratis il pluslavoro e la conservazione del valore del materiale e dello strumento. Il lavoro, aggiungendo nuovo valore a quello vecchio, nello stesso tempo conserva ed eternizza quest'ultimo. - La conservazione dei valori nel prodotto non costa nulla al capitale. - Attraverso l'appropriazione del lavoro presente, il capitalista possiede già una polizza sulla (e rispettiva alla) appropriazione di lavoro futuro]

È chiaro dunque che mediante il processo di scambio con l'operaio, il capitalista — il quale, mentre paga in effetti all'operaio un equivalente per i costi di produzione contenuti nella sua forza-lavoro, gli dà cioè i mezzi per conservare la sua forza-lavoro, si appropria però del lavoro vivo — ottiene gratis due cose: 1) il pluslavoro che aumenta il valore del suo capitale, e, 2) nello stesso tempo la qualità del lavoro vivo di conservare il lavoro passato materializzato negli elementi del capitale e quindi il valore già esistente del capitale. Questa conservazione non deriva tuttavia dal fatto che il lavoro vivo accresce la quantità di lavoro oggettivato, crea valore; ma semplicemente dal fatto che la sua esistenza di lavoro vivo consiste nell'aggiungere nuova quantità di lavoro, ossia nel rapporto immanente col materiale e con lo strumento di lavoro, che si stabilisce attraverso il processo di produzione insomma, dalla sua qualità di lavoro vivo. Ma come siffatta qualità esso è già un momento del processo di produzione semplice, e non costa al capitale esattamente come non gli costano in più, oltre al loro prezzo, il filo e il fuso per il fatto di essere anch'essi momenti del processo di produzione.

Se per esempio in periodi di ristagno degli affari ecc. le fabbriche si fermano, la macchina si arrugginisce e il cotone non solo diventa un carico inutile, ma marcisce non appena cessa di essere a contatto col lavoro vivo. Se il capitalista fa lavorare soltanto per creare plusvalore — ossia un valore futuro —, non appena egli smette di far lavorare, si svaluta anche il suo capitale presente. Questi sono altrettanti casi in cui si vede materialmente che il lavoro vivo non solo aggiunge nuovo valore, ma attraverso il vero e proprio atto di aggiunzione di un nuovo valore, conserva e eternizza quello vecchio. (Risulta evidente allora quanto sia insulsa l'obiezione rivolta a Ricardo di intendere come elementi necessari dei costi di produzione soltanto il salario e il profitto, e non anche la parte di capitale contenuta nella materia prima e nello strumento. La semplice conservazione del valore in essi contenuto non rappresenta affatto nuovi costi di produzione. Per quel che riguarda invece questi stessi valori presenti, essi si risolvono tutti di nuovo in lavoro oggettivato — lavoro necessario e pluslavoro — salario e profitto.

Il semplice materiale naturale, finché non vi è oggettivato nessun lavoro umano, finché è semplice materia ed esiste indipendentemente dal lavoro umano, non ha nessun valore, giacché valore è soltanto il lavoro oggettivato; o ha tanto poco valore quanto lo hanno gli elementi naturali in genere). La conservazione del capitale esistente da parte del lavoro che lo valorizza non costa dunque nulla al capitale e perciò non rientra nei costi di produzione; quantunque i valori esistenti siano conservati nel prodotto e debbano essere scambiati quindi, nello scambio, con equivalenti. Ma la conservazione di questi valori nel prodotto non costa nulla al capitale e può quindi anche non essere da esso calcolata tra i costi di produzione. Né essi vengono risarciti dal lavoro, giacché non vengono consumati se non nel loro modo di esistere, che è indifferente ed esterno al lavoro. Di essi, il lavoro consuma (sopprime) appunto il carattere transitorio. Realmente, viene consumato soltanto il salario.

Ritorniamo ancora una volta al nostro esempio dei 100 talleri di capitale, suddivisi in 50 talleri di materia prima, 40 di lavoro, 10 di. strumento di produzione. Supponiamo che l'operaio abbia bisogno di 4 ore per produrre i 40 talleri, ossia i mezzi necessari alla sua vita o la parte di produzione necessaria al suo mantenimento; e supponiamo che la sua giornata lavorativa sia di 8 ore. Il capitalista in tal modo ottiene gratis un surplus di 4 ore; il suo plusvalore è uguale a 4 ore oggettivate, ossia a 40 talleri; quindi il suo prodotto è =50 + 10 (valori conservati, non riprodotti; rimasti costanti, invariati come valori) + 40 talleri (salario, riprodotto perché consumato nella forma di salario) +40 talleri di plusvalore. Totale: 140 talleri. Di questi 140 talleri, 40 sono in eccedenza. Il capitalista ha dovuto vivere durante la produzione e prima di cominciare a produrre: e diciamo che gli siano occorsi 20 talleri. Questi li doveva possedere al di fuori del suo capitale di 100 talleri; quindi dovevano esservi in circolazione dei loro equivalenti (come siano venuti fuori, qui non ci interessa). Il capitale presuppone che la circolazione sia una grandezza costante. Questi equivalenti sono sempre disponibili. Del suo guadagno vengono dunque consumati 20 talleri, i quali entrano nella circolazione semplice. I 100 talleri entrano anch'essi nelja circolazione semplice, ma per essere a loro volta trasformati in condizioni di una nuova produzione, ossia 50 talleri di materia prima, 40 di mezzi di sussistenza per l'operaio, 10 di strumento.

Rimane un plusvalore di 20 talleri, che è aggiunto in quanto tale, ossia creato come plusvalore nuovo. Questo plusvalore è denaro, è un valore posto in forma autonoma negativa rispetto alla circolazione. Esso non può entrare in circolazione come mero equivalente per scambiare oggetti di puro consumo, giacché la circolazione è, per presupposto, costante. L'esistenza autonoma illusoria del denaro è invece negata, ed esso esiste ormai solo per valorizzarsi, ossia per diventare capitale. Ma per diventare tale esso dovrebbe di nuovo essere scambiato con i momenti del processo di produzione: mezzi di sussistenza per l'operaio, materia prima e strumento, i quali si risolvono tutti in lavoro oggettivato, e possono essere creati soltanto dal lavoro vivo. Il denaro, nella misura in cui ora esiste già in sé come capitale, è dunque semplicemente una polizza su lavoro futuro (nuovo). Oggettivamente esso esiste soltanto come denaro. Il plusvalore, l'aggiunta di lavoro oggettivato, per se stesso è denaro; ma il denaro è ora in sé già capitale, e come tale è una polizza su nuovo lavoro.

Qui il capitale entra già in rapporto non più col lavoro presente solamente, ma anche con quello futuro. Esso inoltre si presenta non più risolto nei suoi elementi semplici propri del processo di produzione, ma nell'elemento denaro; ma non più come denaro che è semplicemente la forma astratta della ricchezza generale, bensì come polizza sulla reale possibilità della ricchezza generale — sulla forza-lavoro, o meglio sulla forza-lavoro in atto. In questo suo aspetto di polizza, la sua esistenza materiale di denaro è indifferente e può essere sostituito da qualsiasi titolo. Al pari del credito pubblico, ciascun capitalista possiede, nel suo nuovo valore guadagnato, una polizza su lavoro futuro; appropriandosi del lavoro presente, si è simultaneamente già appropriato di quello futuro. Sviluppare in questo senso questo aspetto del capitale. Qui si rivela già la sua proprietà di sussistere come valore separato dalla sua sostanza. Qui è già implicita la base del credito. La sua accumulazione in forma di denaro perciò non è affatto un'accumulazione delle condizioni materiali del lavoro, bensì un'accumulazione dei titoli di proprietà sul lavoro. Significa porre il lavoro futuro come lavoro salariato, come valore d'uso del capitale. Per il nuovo valore creato non esiste nessun equivalente; la sua possibilità sta soltanto in un nuovo lavoro.

In questo esempio, dunque, mediante un tempo di lavoro supplementare assoluto — lavoro di 8 anziché di 4 ore — viene creato un nuovo valore di 20 talleri, e questo nuovo valore viene aggiunto ai vecchi valori, alla somma di ricchezza già esistente. Esso è denaro, ma denaro già riferito alla sua forma di capitale (già come possibilità posta del capitale, e non come prima, quando diventava tale cessando di essere denaro in quanto tale).

Se ora la produttività si raddoppia, di modo che l'operaio ha da fornire soltanto 2 ore di lavoro necessario invece che 4, e il capitalista lo fa lavorare conseguentemente sempre 8 ore, allora il calcolo diventa: 50 talleri di materiale, 20 di salario, 10 di strumento di lavoro, 60 di plusvalore (6 ore, mentre prima erano 4). Incremento del plusvalore assoluto: 2 ore o 20 talleri. Totale: 140 talleri (nel prodotto).

La somma cioè è 140 talleri come prima; di questi però 60 costituiscono plusvalore, dei quali 40, come prima, per aumento assoluto del tempo supplementare, e 20 per aumento relativo. Ma in termini di valore di scambio semplice si tratta sempre di 140 talleri. Sono quindi aumentati semplicemente i valori d'uso o è stato creato un nuovo valore? Poc'anzi il capitale ha dovuto ricominciare con 100 per accrescersi di nuovo del 40%. Che fine fanno i 20 di plusvalore? Precedentemente il capitale se ne è mangiati 20 e gliene rimanevano 20 di valore. Ora se ne mangia 20 e gliene rimangono 40. D'altra parte poc'anzi il capitale che iniziava a produrre rimaneva 100; ora è diventato 80. Il valore guadagnato in una delle determinazioni, lo si è perduto nell'altra determinazione. Il primo capitale ricomincia il processo di produzione; produce di nuovo 20 di plusvalore (detratto il suo consumo). Al termine di questa seconda operazione esiste un valore di nuova creazione senza un suo equivalente. 20 talleri insieme ai primi 40. Ma vediamo ora il secondo capitale.

Esso è suddiviso in 50 di materiale, 20 di salario ( = 2 ore), 10 di strumento di lavoro. Con le 2 ore però l'operaio produce un valore di 8, e cioè 80 talleri (dei quali 20 di costi di produzione). Ne rimangono 60, giacché 20 riproducono il salario (e quindi sono scomparsi come salario). 60 + 60=120. Al termine di questa seconda operazione 20 talleri sono destinati al consumo, e rimangono 20 di plusvalore. Sommati a quelli della prima [operazione], fanno 60. Alla terza operazione, si ha, col primo capitale, 60, col secondo 80; alla quarta [operazione] si ha, col primo capitale, 80, col secondo 100. Ossia, il valore di scambio del primo capitale è aumentato, come valore, della stessa somma di cui è diminuito come capitale produttivo

Supponiamo che i due capitali siano in grado di poter essere adoperati come capitale insieme al loro surplus, ossia di poter scambiare il surplus con nuovo lavoro vivo. Avremo allora questo conto (lasciando da parte il consumo): il primo capitale produce 40% in più; il secondo 60% in più. Il 40% di 140 fa 56; il 60% di 140 (ossia 80 di capitale e 60 di plusvalore) fa 84. Il prodotto totale nel primo caso è 140 + 56=196; nel secondo, 140 + 84 = 224. Nel secondo caso dunque il valore di scambio assoluto è aumentato di 28. Il primo capitale possiede 40 talleri per comprare nuovo tempo di lavoro; premesso che il valore dell'ora di lavoro era di 10 talleri, esso dunque compra con 40 talleri 4 nuove ore di lavoro, che gliene producono 80 (dei quali 40 vanno a titolo di risarcimento del salario, pari a 8 ore di lavoro). Al termine esso era 140 + 80 (140 rappresentano la riproduzione del primo capitale di 100, con un plusvalore di 40; i secondi 40, essendo spesi soltanto per comprare nuovo lavoro, e non risarcendo quindi semplicemente nessun valore — premessa impossibile del resto —, ne producono 80). 140 + 80 = 220. Il secondo capitale è di 140; 80 ne producono 40, ovvero 80 talleri si riproducono in 120; ma i restanti 60 (che essendo spesi puramente per comprare lavoro, e non risarcendo quindi semplicemente nessun valore si riproducono nettamente e creano il surplus), si riproducono in 180; quindi 120 + 120 = 240 (ossia 40 talleri prodotti in più del primo capitale, esattamente il tempo supplementare di 2 ore, giacché il primo è un tempo supplementare di 2 ore secondo quanto supposto nel primo capitale). Come risultato dunque abbiamo un valore di scambio maggiore, perché è stato oggettivato più lavoro; 2 ore in più di pluslavoro.

Qui c'è da notare ancora un'altra cosa: 140 talleri al 45 40% rendono 56; capitale e interesse insieme =140 + 56 = = 196; ma ne abbiamo ottenuti 220; sicché l'interesse di 140 sarebbe non 56 ma 84, che sarebbe il 60% di 140 ( 140:84= 100:x; x = ^J=60). Lo stesso accade nel secondo caso: 140 al 60% = 84; capitale e interesse =140 + 84 = = 224; ma ne abbiamo ottenuti 240; sicché l'interesse di 140 sarebbe non 84 ma 100; (140+100 = 240); ossia [il 7lf]% (140:100= 100:x; x = 8400/140 [=71 3/7]). Da dove proviene questo aumento? (Nel primo caso 60% invece di 40; nel secondo 70 1/7% invece di 60). Nel primo caso, dove risultava 60 invece di 40, è risultato dunque il 20% più del dovuto; nel secondo caso abbiamo avuto 70 1/7 invece di 60, ossia il 10 1/7% più del dovuto. Come si spiega anzitutto, la diversità in entrambi i casi, e in secondo luogo la differenza in ciascun caso?

Nel primo caso il capitale iniziale 100 è =60 (di materiale e strumento di lavoro) e 40 di lavoro; 2/5 di lavoro, 3/5 di materiale. I primi 3/5 non fruttano alcun interesse; gli ultimi 2/5 fruttano il 100%. Ma in rapporto al capitale complessivo c'è stato solo un aumento del 40%; 2/5 di 100 = 40. Ma il 100% sui 40 non rappresenta che il 40% sull'insieme dei 100, vale a dire un aumento dell'intero ammontare di 2/5. Se ora del nuovo capitale aggiunto di 40 aumentassero anche solo i 2/5 del 100%, si otterrebbe un aumento di 16 talleri sull'intero ammontare. 40 + 16 = 56. Questi, sommati ai 140, sono =196; il che è realmente il 40% su 156, sommati capitale e interesse. 40, aumentati del 100%, ossia raddoppiati, fanno 80; 2/5 di 40, aumentati del 100%, fanno 16. Degli 80, 40 riproducono il capitale e 40 costituiscono profitto.

Il calcolo allora è questo: 100 c + 40 i + 40 c + 40 i = = 220; ovvero un capitale di 140 con un interesse di 80; oppure avremmo potuto calcolare: 100 c + 40 i + 40 c+16 i = = 196, e avremmo avuto un capitale di 140 con un interesse di 56.

L'interesse calcolato è più del dovuto, ossia 24 su 40 di capitale; ma 24 = 3/5 di 40 (3 X 8 = 24); vale a dire che accanto al capitale soltanto 2/5 del capitale sono aumentati del 100%; l'intero capitale è aumentato perciò soltanto di 2/5, ossia del 16% Calcolare un interese del 24% su 40 è troppo (significa il 100% su 3/5 del capitale); 24 su 24 significa 100% su 3 X 8 (3/5 di 40). Ma sull'intera somma di 140 abbiamo il 60% invece che il 40%; ossia, su 40, calcolarne 24 (3/5) è più del dovuto, e 24 su 40 significa il 60%. Su un capitale di 40 quindi, calcolare il 60% è più del dovuto (60% = 3/5 di 100). Ma su 140, i 24 calcolati più del dovuto (e questa è la differenza di 220 rispetto a 196) significano soltanto 1/5 di 100 e 1/12 b di 100 calcolati in più; 1/5 di 100 = 20%; 1/12 di 100 fa 8n% o 8{%; ossia, in totale, 28j-% più del dovuto. Quindi sull'ammontare totale non abbiamo il 60%, come l'avevamo sul capitale 40, ma soltanto 284% più del dovuto; il che fa una differenza di 31|% c, a seconda che si calcolino 24 più del dovuto su 40 dei 140 di capitale. Lo stesso vale per l'altro esempio.

Nei primi 80, che producono 120, 50 + 10 erano risarciti semplicemente, ma 20 riproducevano il triplo: 60; (20 di riproduzione, 40 di surplus).

Ore di lavoro

Se 20 ne creano 60, ossia un valore triplicato, 60 creano 180.

[Confusione tra profitto e plusvalore. Falso calcolo di Carey. - Il capitalista, oltre a non pagare all'operaio la conservazione del vecchio valore, pretende addirittura una remunerazione per il permesso che gli dà di conservare il vecchio capitale. - Plusvalore e profitto ecc. - Differenza tra consumo dello strumento e consumo del salario. Il primo viene consumato nel processo di produzione, il secondo al di fuori di esso. - Aumento del plusvalore e diminuzione del saggio di profitto. (Bastiat)]

Non occorre soffermarsi più a lungo su questo noiosissimo calcolo. Il succo è semplicemente questo. Se, in base al nostro primo esempio, a 3/5 (60%) ammontano il materiale e lo strumento, e a 2/5 il salario (40%), e il capitale trae un profitto del 40%, alla fine esso è =140 (questi 40% di profitto corrispondono al fatto che il capitalista, su 6 ore di lavoro necessario, ne ha fatte lavorare 12, ossia ha guadagnato il 100 % sul tempo di lavoro necessario). Se ora i 40 talleri guadagnati lavorassero di nuovo come capitale sotto le medesime premesse — e al punto in cui siamo le premesse non sono ancora mutate —, dei 40 talleri bisognerebbe destinare di nuovo 3/5, ossia 24 talleri, a materiale e strumento, e 2/5 a lavoro; cosìcché, il salario di 16, anche raddoppiandosi solamente, diventa 32, di cui 16 a titolo di risarcimento, e 16 a titolo di pluslavoro. Totale, a produzione finita, 40+16 = 56 o 40%. Il capitale complessivo di 140 avrebbe prodotto dunque, nelle medesime circostanze, 196. Non è lecito perciò assumere, come fa la maggior parte degli economisti, che i 40 talleri siano spesi puramente in salario, nell'acquisto di lavoro vivo, e perciò a produzione finita forniscano 80 talleri.

[Quando si dice che un capitale di 100 apporta il 10% in un certo periodo, il 5% in un altro — nulla è più falso che dedurne, come fanno Carey e compagni, che nel primo caso la partecipazione del capitale alla produzione è stata di 1/10 e quella del lavoro di 9/10 solamente, e nel secondo caso quella del capitale è stata di 1/20 solamente e quella del lavoro di 19/20; e che quindi, mentre il saggio del profitto diminuisce, quello del lavoro aumenta. Naturalmente il capitale non ha affatto coscienza della natura del suo processo di valorizzazione e ha interesse ad averla soltanto in periodo di crisi. Dal suo punto di vista, dunque, esso ritiene che il profitto del 10% su un capitale di 100 talleri sia dovuto ad un aumento indifferenziato del 10% di tutti gli elementi di valore del suo capitale, cioè del materiale, dello strumento e del salario. L'aumento del 10% insomma riguarderebbe il capitale come somma del valore di 100 talleri, considerato cioè come tale quantità di una certa unità di valori.

Ma in realtà il problema è: 1) in che rapporto erano l'uno con l'altro gli elementi del capitale, e 2) quanto pluslavoro esso ha comprato col salario — ossia con le ore di lavoro oggettivate nel salario. Se io conosco la somma totale del capitale e il rapporto reciproco dei suoi elementi (in pratica io dovrei anche sapere quanta parte dello strumento di produzione si consuma nel processo, ossia quanta ve ne entra realmente), e se conosco il profitto, allora so anche quanto pluslavoro è stato creato.

Se il capitale consisteva di 3/5 di materiale (per il quale qui presupponiamo per comodità che esso diventi tutto materiale di produzione, che venga cioè tutto consumato produttivamente), ossia 60 talleri, e di 40 talleri di salario, e se il profitto su 100 talleri è 10, allora il lavoro comprato con 40 talleri di tempo di lavoro oggettivato ha creato, nel processo di produzione, 50 talleri di lavoro oggettivato, ossia ha lavorato un tempo supplementare o ha creato un plusvalore del 25% = 1/4 del tempo di lavoro necessario. Se dunque l'operaio lavora una giornata di 12 ore, egli ha lavorato 3 ore di tempo supplementare, mentre il suo tempo di lavoro necessario per mantenerlo in vita una giornata era di 9 ore lavorative. Il nuovo valore creato nella produzione è bensì soltanto 10 talleri, ma dal punto di vista del saggio reale questi 10 talleri vanno calcolati sui 40 e non sui 100 talleri. Non sono i 60 talleri di valore che hanno creato il valore; ma la giornata lavorativa. L'operaio dunque ha aumentato del 25%, e non del 10%, il capitale scambiato con la forza-lavoro. Il capitale complessivo ha avuto un incremento del 10%. 10 equivale al 25% su 40; è il 10% soltanto su 100.

Il saggio di profitto del capitale non esprime dunque per nulla il saggio di aumento del lavoro oggettivo da parte del lavoro vivo; giacché questo aumento è semplicemente = al surplus con cui l'operaio riproduce il suo salario, ossia è = al tempo che egli ha lavorato più di quanto avrebbe dovuto per produrre il suo salario. Se nell'esempio precedente l'operaio non fosse operaio del capitalista, e se il suo rapporto con i valori d'uso contenuti nei 100 talleri non fosse un rapporto col capitale, ma semplicemente con le condizioni oggettive del suo lavoro, allora egli possederebbe, prima di ricominciare da capo il processo di produzione, 40 talleri di mezzi di sussistenza da consumare durante la giornata lavorativa, e 60 talleri di strumento e materiale. Egli lavorerebbe soltanto 3/4 di giornata, ossia 9 ore, e al termine di essa il suo prodotto sarebbe non 110 talleri ma 100, che egli scambierebbe di nuovo nelle precedenti proporzioni ricominciando di nuovo il processo. Ma egli lavorerebbe anche 3 ore di meno; ossia risparmierebbe un 25% di pluslavoro = al 25% di plusvalore sullo scambio che egli avrebbe fatto tra i 40 talleri di mezzi di sussistenza e il suo tempo di lavoro.

E anche se una volta tanto volesse lavorare tre ore in più perché ha a disposizione il materiale e lo strumento, non per questo gli salterebbe in mente di dire di aver creato un nuovo profitto del 10%; direbbe di averne creato uno del 25%, perché egli potrebbe comprare un quarto di mezzi di sussistenza in più, ossia, per 50 invece che per 40 talleri, e per lui avrebbero valore soltanto i mezzi di sussistenza, giacché quel che gl'interessa è il valore d'uso. Sull'illusione che il nuovo profitto non viene creato attraverso lo scambio delle 9 ore lavorative oggettivate nei 40 talleri con le 12 ore di lavoro vivo, che quindi non è da questo lato che viene creato un plusvalore del 25%, ma è il capitale complessivo che è aumentato uniformemente del 10% — 10% su 60 è 6 e su 40 è 4 —, su questa illusione poggia il calcolo dell'interesse composto del famigerato dr. Price, il quale ha dato lo spunto al serafico Pitt a commettere quella idiozia che è il suo sinking fund [fondo di ammortamento].

Se profitto e tempo di lavoro supplementare — assoluto e relativo — vengono identificati, si pone un limite qualitativo all'accumulazione del capitale: la giornata lavorativa, cioè il tempo in cui la forza-lavoro dell'operaio può essere attiva nell'ambito delle 24 ore — il grado di sviluppo della produttività — e la popolazione, che esprime la quantità numerica delle giornate lavorative simultanee ecc. Se invece il profitto viene inteso soltanto come interesse — ossia come rapporto secondo cui il capitale si moltiplica in virtù di un qualsiasi immaginario slight of hand, allora il limite è soltanto quantitativo, e in tal caso non si vede assolutamente perché il capitale non debba aggiungersi interessi ogni santo giorno, creando così un interesse del suo interesse in progressione geometrica infinita. Dell' impossibilità di aumentare l'interesse secondo la ricetta del dr. Price, gli economisti se ne sono accorti dalla pratica; ma non hanno mai scoperto la balordaggine che essa contiene.

Dei 110 talleri che risultano a produzione finita, 60 (materiale e strumento) sono rimasti invariati in quanto valori. L'operaio non vi ha tolto né aggiunto nulla. Egli conserva gratis al capitale il lavoro oggettivato attraverso il fatto reale del suo lavoro che è lavoro vivo. Ma dal punto di vista del capitalista ciò assume naturalmente l'aspetto per cui è l'operaio a dovergli dare ancora il resto per il permesso che egli capitalista gli dà di entrare come lavoro nel rapporto adeguato con i momenti oggettivati — con le condizioni oggettive. Per quanto riguarda poi gli altri 50 talleri, 40 di essi non rappresentano una pura conservazione ma una reale riproduzione, giacché è sotto forma di salario che il capitale li ha alienati e l'operaio li ha consumati; 10 talleri rappresentano la produzione al di là della riproduzione, ossia 1/4 di pluslavoro (3 ore). Prodotto del processo di produzione sono soltanto questi 50 talleri.

Se perciò l'operaio, come erroneamente si sostiene, ripartisse col capitalista il prodotto in modo da ottenere i 9/10, egli dovrebbe ottenere non 40 talleri, che corrispondono agli 8/10 (giacché questi li ha avuti in anticipo, e per questo li riproduce; in effetti dunque egli li ha interamente restituiti al capitale, conservandogli per di più gratis il valore già esistente): dovrebbe ottenerne invece 45, il che ne lascerebbe al capitalista soltanto 5. Il capitalista dunque, alla fine, si troverebbe soltanto con 65 talleri di prodotto del processo di produzione che egli aveva iniziato con 100 talleri. Ma dei 40 talleri riprodotti l'operaio non riceve nulla, così come non riceve nulla dei 10 talleri di plusvalore. Se poi si ritiene che i 40 talleri riprodotti siano destinati a servire di nuovo come salario, e quindi a servire di nuovo al capitale per l'acquisto del lavoro vivo, allora, se di rapporto si deve parlare, si può dire soltanto che il lavoro oggettivato di 9 ore (40 talleri) acquista lavoro vivo di 12 ore (50 talleri), e crea perciò un plusvalore del 25% sul prodotto reale nel processo di valorizzazione (in parte riprodotto come fondo-salario, in parte nuovamente riprodotto come plusvalore).

Il capitale iniziale 100 era appunto costituito da:

[condizioni di lavoro]     [strumento]        [salario]

                50                -        20           -        40        Profitto prodotto:10 talleri (25 % di tempo)

                                                                                Totale: 110 talleri.

Supponiamo che fosse stato: 60 - 20 - 20. Il risultato sarebbe 110 talleri; e allora l'economista volgare, e l'ancor più volgare capitalista, affermano che il 10% sarebbe stato prodotto uniformemente da tutti gli elementi del capitale. In realtà il capitale di 80 talleri sarebbe stato soltanto conservato, senza subire nessuna variazione nel suo valore. Ma i 20 talleri si sarebbero scambiati con 30; quindi il plus-lavoro sarebbe aumentato del 50%, e non come prima del 25%.

Prendiamo un terzo caso.

         [condizioni di lavoro]          [strumento]           [salario]

100:            70                    -           20            -         10        —  Risultato: 110

In questo caso il valore invariato è 90. Il prodotto nuovo è 20; quindi il plusvalore o il tempo supplementare è del 100%. Abbiamo qui tre casi nei quali il profitto dell'intero capitale è sempre 10 Ma nel primo caso il nuovo valore creato sul lavoro oggettivato speso per l'acquisto del lavoro vivo è del 25%, nel secondo caso è del 50%, e nel terzo del 100%]]

Al diavolo questi maledetti calcoli falsi. Ma never mind. Commençons de nouveau.

Nel primo caso avevamo

valore invariato            salario                 plusvalore                totale

                60                40                          10                      110

Noi supponiamo sempre che la giornata lavorativa sia = 12 ore. (Potremmo anche ipotizzare che la giornata lavorativa aumenti — sicché per es. se prima era soltanto di x ore, ora invece sia di x + b ore —, e che la produttività rimanga costante; così come potremmo ipotizzare che entrambi i fattori siano variabili).

                                      ore                                      talleri

Se l'operaio produce in      12                                         50

ne produrrà in                   1                                           4 1/6

ne produrrà in                   9 3/5                                    40               {in dodici ore

ne produrrà in                   2 2/5                                    10                {50 Tlr.

Il lavoro necessario dell'operaio ammonta dunque a 9 2/6 ore (40 Tlr.); il pluslavoro perciò è di 2 2/5 ore (valore di 10 Tlr.). 2 2/5 ore è la 5a parte della giornata lavorativa. Il pi islavoro dell'operaio ammonta ad 1/5 di giornata, dunque è = al valore di 10 Tlr. Se ora consideriamo queste 2 2/5 ore come percentuale che il capitale ha guadagnato sul tempo di lavoro oggettivato di 9 3/5 ore scambiate col lavoro vivo, allora 2 2/5:9 3/5= 12/5:48/5, ossia 12:58=1:4. Ossia 1/4 del capitale = al 25% sul medesimo. Ugualmente 10 Tlr.: 40 Tlr.= 1:4 = 25%. Riassumiamo ora l'intero risultato:

N. I       

Capitale

iniziale  

Valore

invariato

Valore

riprodotto per salario

Plusvalore

della

produzione

Somma

totale

Tempo

supplementare

e plusvalore

% sul lavoro

oggettivato e scambiato

1100 tlr.
660 Tlr.
40 Tlr.
10 Tlr.
110 Tlr.

2 2/5 ore

o 10 Tlr.

25%

(Si potrebbe dire che lo strumento di lavoro, il suo valore, debba essere riprodotto, e non solamente risarcito, giacché in effetti esso viene logorato e consumato nella produzione. Ciò va tenuto presente quando si parlerà del capitale fisso. In effetti il valore dello strumento si converte in quello del materiale; nella misura in cui è lavoro oggettivato, esso modifica soltanto la forma. Se nell'esempio precedente il valore del materiale era 50 e quello dello strumento di lavoro 10, quando lo strumento è logorato e diminuisce il suo valore di 5, quello del materiale è 55 e quello dello strumento-5; se scompare del tutto, quello del materiale raggiunge 60. Esso è un elemento del processo di produzione semplice. Lo strumento non è stato consumato al di fuori del processo di produzione, come il salario).

Veniamo ora alla seconda premessa:

capitale

iniziale

Valore

invariato

Valore riprodotto per salario

Plusvalore

della produzione

Somma totale
100
80
20
10 Tlr.
110 Tlr.

Se l'operaio produce in 12 ore 30 Tlr., in 1 ora produce 2 2/4Tlr., e in 8 ore 20 Tlr.; quindi in 4 ore 10 Tlr. 10 Tlx. sono il 50 % su 20 Tlr.; ossia 4 ore su 8; il plusvalore è = 4 ore 1/3 di giornata lavorativa o 10. Tlr. di plusvalore. Quindi:

N. II

capitale

iniziale

Valore

invariato

Valore

riprodotto

per salario

Plusvalore

della

produzione

SSomma

totale

Tempo

supplementare e

plusvalore

ccapitale%
100
80

20

8 ore

10 Tlr.
110

4 ore

10 Tlr.

2 giornate lavorative

50%

Sia nel primo che nel secondo caso il profitto sul capitale complessivo di 100 è =10%, ma nel primo il plusvalore reale ottenuto dal capitale nel processo di produzione è del 25%, mentre nel secondo è del 50%.

Le premesse in n. II sono, a sé stanti, possibili quanto quelle in n. I. Ma paragonate reciprocamente, quelle in n. II appaiono assurde. Il materiale e lo strumento sono aumentati da 60 a 80 Tlr., la produttività del lavoro è diminuita da 4 1/6 Tlr. all'ora a 2 3/4 Tlr., e il plusvalore è aumentato del 100%. (Ma se supponiamo che la spesa in più per salario nel primo caso esprime più giornate lavorative, nel secondo caso meno, allora la premessa è esatta). Che il salario necessario, ossia il valore del lavoro espresso in talleri, sia diminuito, sarebbe in sé un fatto indifferente. Che il valore di un'ora di lavoro sia espresso in 2 oppure in 4 talleri, in entrambi i casi il prodotto di 12 ore lavorative si scambia (nella circolazione) con 12 ore lavorative e in entrambi i casi il pluslavoro si traduce in plusvalore.

L'assurdità della premessa deriva dal fatto che 1) abbiamo fissato il tempo di lavoro minimo a 12 ore, precludendoci così la possibilità di introdurre più o meno giornate lavorative; 2) quanto più facciamo aumentare il capitale da un lato, tanto più non solo facciamo diminuire il lavoro necessario, ma dobbiamo restringere il suo valore; laddove il valore è il medesimo. Nel secondo caso anzi il prezzo dovrebbe salire. Il fatto che l'operaio possa vivere con meno lavoro, che cioè produca di più nelle medesime ore, dovrebbe manifestarsi non nella diminuzione dei talleri 4 per ora lavorativa necessaria, ma nel numero delle ore lavorative necessarie.

Se per es., in base al primo esempio, egli riceve 4 1/6 Tlr., ma il valore d'uso di questo valore — che deve essere costante per esprimere valore (non prezzo) — si fosse moltiplicato, allora non si tratta più di 9 3/5 come nel primo caso, ma soltanto di 4 ore per la produzione della sua forza-lavoro viva, e ciò dovrebbe esprimersi nel surplus del valore. Ma, così come abbiamo posto la condizione, noi qui ci troviamo ad avere variabile «il valore invariato», e invariati i 10%, che qui sono costanti essendo una aggiunzione per il lavoro riproduttivo, quantunque ne esprimano percentuali diverse. Nel primo caso noi abbiamo che il valore invariato è più piccolo che nel secondo caso, e il prodotto complessivo del lavoro è più grande, dato che se un elemento di 100 è più piccolo, l'altro deve essere più grande. E dato che nello stesso tempo il tempo di lavoro assoluto è rimasto sempre fisso, e che inoltre il prodotto complessivo del lavoro diminuisce quanto «il valore invariato» aumenta, e aumenta quanto quello diminuisce, allora, per un medesimo tempo di lavoro, noi otteniamo un prodotto di lavoro diminuito (in senso assoluto) nella stessa proporzione in cui è aumentato il capitale impiegato. E ciò sarebbe del tutto esatto.

Infatti, se di una data somma 100 se ne spende di più in «valore invariato», se ne può spendere di meno in tempo di lavoro e perciò, relativamente al capitale sborsato, in generale può essere creato meno valore nuovo; ma in tal caso, perché sia possibile il profitto per il capitale, il tempo di lavoro non deve essere fisso come lo è qui, o, se è fisso, il valore dell'ora lavorativa non deve diventare più piccolo come lo diventa qui — il che del resto è impossibile se «il valore invariato» diventa più grande e più grande diventa il plusvalore. È la quantità numerica delle ore lavorative che dovrebbe diventare più piccola. Ma ciò è dato per presupposto nel nostro esempio. Noi supponiamo nel primo caso che in 12 ore di lavoro siano prodotti 50 talleri; nel secondo caso, che ne siano prodotti soltanto 30. Nel primo facciamo lavorare l'operaio 9 3/5 ore; nel secondo soltanto 6, quantunque in un'ora egli produca di meno. C'est absurde.

Ma non c'è qualcosa di esatto, da un altro punto di vista, in queste cifre? Non diminuisce forse il nuovo valore assoluto, quantunque quello relativo aumenti, non appena negli elementi del capitale entra, relativamente, più materiale e più strumento di lavoro?

Supponiamo che, per un dato capitale, venga impiegato relativamente meno lavoro vivo. Allora, sebbene aumenti l'eccedente che questo lavoro vivo produce sui suoi costi, e perciò aumenti appunto la percentuale in rapporto al salario, ossia in rapporto al capitale realmente consumato — non è vero forse che il nuovo valore assoluto diventa necessariamente più piccolo, relativamente, di quello di un capitale che adopera meno materiale e strumento di lavoro e più lavoro vivo (ed è proprio questo il punto fondamentale nella variazione del valore invariato, ossia invariato, come valore, attraverso il processo di produzione), appunto perché viene adoperato relativamente più lavoro vivo? All'aumento dello strumento di lavoro corrisponde allora l'aumento della produttività, giacché il suo plusvalore non sta, come nei precedenti modi di produzione, in alcun rapporto col suo valore d'uso, con la sua capacità produttiva, mentre il puro aumento della produttività crea plusvalore, anche se nient'affatto nella medesima proporzione numerica.

L'aumento della produttività che deve esprimersi nell'aumento del valore dello strumento — della dimensione che esso occupa nelle spese del capitale —, comporta necessariamente l'aumento del materiale, giacché occorre lavorare più materiale per poter produrre una maggior quantità di prodotto. (L'aumento della produttività si riferisce però anche alla qualità; o meglio, si riferisce soltanto alla quantità per un dato prodotto di una determinata qualità; e si riferisce alla qualità per una data quantità determinata; può cioè riferirsi all'una e all'altra). Ma sebbene relativamente al pluslavoro esista meno lavoro (necessario) di quanto ne occorra in generale, ossia esista in generale meno lavoro vivo in rapporto al capitale, non può il plusvalore del capitale aumentare, quantunque questo diminuisca in rapporto all'intero capitale, quantunque cioè diminuisca il cosiddetto saggio di profitto?

Prendiamo per es. un capitale di 100. Supponiamo che il materiale sia inizialmente 30, lo strumento 30 (in totale, 60 di valore invariato), e il salario 40 (4 giornate lavorative). Il profitto sia 10. Qui il profitto rappresenta il 25% di nuovo valore sul lavoro oggettivato nel salario e il 10% rispetto al capitale. Poniamo ora che il capitale diventi 40, e 40 lo strumento. Poniamo che la produttività si raddoppi, così da rendere necessarie ormai soltanto 2 giornate = 20. Poniamo ora che il profitto assoluto, ossia il profitto sul capitale complessivo, sia inferiore a 10. Non può, il profitto sul lavoro impiegato, aumentare a più del 25%, ossia nel caso dato a più della quarta parte di 20 solamente? Di fatto la terza parte di 20 è 6 2/3; dunque è meno di dieci, eppure è il 33 1/6% sul lavoro impiegato, mentre nel caso precedente era soltanto il 25%. Qui noi avremo alla fine soltanto 106 5/3 , mentre prima avevamo 110, e tuttavia con la medesima somma (100), il pluslavoro, il profitto, sarebbe maggiore, di prima in rapporto al lavoro impiegato. Ma poiché veniva impiegato in senso assoluto il 50% di lavoro in meno, mentre il maggior profitto sul lavoro impiegato ammonta soltanto a 8 in più che nel primo caso, il risultato assoluto deve essere minore, e quindi anche il profitto sul capitale totale. Infatti 20 X 33 1/3 è minore di 40 X 25.

Questo caso è completamente inverosimile e non può valere come esempio generale nell'economia; giacché qui si presuppone che aumenti lo strumento di lavoro e il materiale elaborato, quantunque sia diminuito non solo il numero di operai relativo ma anche quello assoluto. (Naturalmente se due fattori sono uguali ad un terzo, l'uno deve necessariamente diminuire se l'altro aumenta). Ma un aumento dello strumento di lavoro dal punto di vista del valore che esso assume nel capitale, e un aumento di valore del materiale accompagnati da una relativa diminuzione del lavoro, presuppongono in generale una divisione del lavoro, ossia un aumento per lo meno assoluto degli operai, anche se non proporzionato alla grandezza del capitale impiegato.

Nondimeno, facciamo l'esempio di una macchina litografica, che ognuno può usare da sé per tlrare litografie; supponiamo che il valore dello strumento appena scoperto sia maggiore di quello che prima impiegavano 4 operai, prima cioè che fossero scoperti questi arnesi a mano; e supponiamo che questa macchina abbia bisogno ormai di 2 operai solamente (qui, come per molte macchine utensili, non si può parlare di una ulteriore divisione del lavoro, ma piuttosto di scomparsa della divisione qualitativa), e che gli strumenti abbiano avuto inizialmente soltanto un valore di 30, mentre il lavoro necessario (necessario cioè al capitalista per trarre un profitto) sia stato di 4 giornate lavorative. (Esistono macchine come i termosifoni ad aria, dove il lavoro come tale scompare del tutto, tranne che nel punto in cui viene aperto il tubo; per trasmettere l'aria calda agli altri non occorrono altri operai. È questo in generale il caso dei conduttori di energia (vedi Babbage), mentre prima l'energia veniva trasportata materialmente da un luogo all'altro da altrettanti operai, i cosiddetti fuochisti, sicché il trasporto da un luogo all'altro, che oggi è diventato un processo fisico, aveva il carattere di un lavoro di un determinato numero di operai).

Se il litografo impiega questa macchina litografica come fonte di lucro, come capitale, e non come valore d'uso, allora il materiale aumenta necessariamente, giacché in un medesimo tempo egli può tirare più litografie, da cui appunto proviene il suo profitto. Supponiamo perciò che questo litografo adoperi uno strumento di 40, materiale di 40, giornate lavorative 2 (20), che gli fruttano un 33 4/3% ossia 6 2/3 su 20 di tempo di lavoro oggettivato. Se il suo capitale è 100 come quello del capitalista precedente, gli frutterà soltanto 6 2/3%, ma egli ci guadagna un 33 1/3 sul lavoro impiegato; l'altro guadagna 10 sul capitale, ma sul lavoro oggettivato soltanto un 25%. Anche se il valore ottenuto sul lavoro oggettivato è inferiore, maggiori sono però i profitti dell'intero capitale, se gli altri suoi elementi sono proporzionalmente inferiori. Tuttavia l'affare, con i 6 2/3 % sul capitale totale e il 33 1/3 % sul lavoro oggettivato, potrebbe essere più profittevole di quell'altro basato su 25% di profitto dal lavoro e 10% dal capitale totale.

Supponiamo per es. che il grano aumenti tanto da far salire il valore del mantenimento dell'operaio del 25%. Le 4 giornate lavorative costerebbero ora al primo litografo 50 invece di 40. I suoi strumenti e il materiale rimarrebbero gli stessi: 60 Tlr. Quindi egli dovrebbe sborsare un capitale di 110. Il suo profitto con un capitale di 110 sarebbe, su 50 Tlr., per 4 giornate lavorative, 12 (25%). Dunque 12 Tlr. su 110 (ossia 94% sul capitale totale di 110). Vediamo ora l'altro litografo: macchina 40, materiale 40; ma le 2 giornate lavorative, invece di 20, gli costeranno un 25% in più, ossia 25. Egli dovrebbe sborsare quindi 105, il suo plusvalore sul lavoro è 33 1/3% ossia 1/3, e quindi Su 105 perciò egli guadagnerebbe l'8 1/3; 13 1/8%. Supponiamo ora, in un ciclo di anni, 5 stagioni buone e 5 cattive, ferme restando le precedenti proporzioni medie. In tal caso il primo litografo guadagnerebbe rispetto al secondo, nei primi 5 anni, 50 Tlr. d'interesse; nei secondi, 45 5/6; totale 95 5/6 Tlr.; interesse medio sui 10 anni: 9 84/120 Tlr. L'altro capitalista avrebbe guadagnato, nei primi 5 anni, 31 1/2; nei secondi 5 anni, 65 5/8; totale: 96 23/24 Tlr.; interesse medio sui 10 anni: 9 84/120. Il N° II, elaborando più materiale allo stesso prezzo, lo vende più a buon mercato.

Si potrebbe dire al contrario che egli, consumando più strumento, lo vende più caro, specialmente perché il suo maggior bisogno di valore- macchinario è proporzionale al suo maggior consumo di materiale; solo che è praticamente falso dire che le macchine si consumano tanto più quanto più materiale lavorano, ovvero che il loro periodo di sostituzione sia proporzionale alla quantità di materiale elaborato. Ma tutto questo qui è fuori luogo. L'ipotesi è che il rapporto tra valore della macchina e valore del materiale sia costante in entrambi i casi.

L'esempio acquista rilievo solo se supponiamo, da una parte, un capitale minore che impiega più lavoro e meno materiale e macchinario, ma guadagna una percentuale maggiore sul capitale totale; dall'altra, un capitale maggiore che impiega più macchinario e più materiale, e relativamente meno ma in assoluto" altrettante giornate lavorative, e [guadagna] una percentuale minore sul capitale totale, perché guadagna meno sul lavoro, che è più produttivo, con l'impiego della divisione del lavoro ecc. Nello stesso tempo bisogna supporre (mentre prima non era stato fatto) che il valore d'uso della macchina è sensibilmente maggiore del suo valore, ossia che il suo deprezzamento al servizio della produzione non è proporzionale all'aumento di produzione cui essa dà luogo.

Riprendiamo allora l'esempio precedente della macchina tipografica (supponendo che la prima volta funzioni a mano, la seconda volta automaticamente).

Supponiamo che il capitale I di 100 impieghi 30 per materiale; 30 per la macchina a mano; 4 giornate lavorative = 40 Tlr.; profitto 10%; quindi 25% sul lavoro vivo (1/4 di tempo supplementare).

Supponiamo invece che il capitale II di 200 impieghi 100 per materiale, 60 per la macchina automatica, 4 giornate lavorative (40 Tlr.); profitto sulle 4 giornate lavorative: 13 1/8 Tlr. = 1 giornata lavorativa e 1/3, mentre nel primo caso si trattava di 1 giornata lavorativa soltanto; somma totale: 213 1/3. Ossia 6 2/3%, mentre nel primo caso si trattava del 10%. Tuttavia in questo secondo caso il plusvalore sul lavoro impiegato è di 13 1/3, mentre nel primo caso era soltanto 10; nel primo, 4 giornate creano in 4 giornate 1 giornata di surplus; nel secondo 4 [giornate] ne creano 1 1/3. Il saggio di profitto sul capitale totale è però inferiore di un terzo o 33 1/3% rispetto al primo caso; la somma totale del profitto è maggiore di 1/3. Supponiamo ora che 30 e 100 di materiale siano costituiti da fogli a stampa; e che lo strumento si logori nel medesimo tempo, in 10 anni o di 1/10 all'anno. In tal modo il N° I deve reintegrare 1/10 di 30 in materiale, ossia 3; il N° II 1/10 di 60, ossia 6. Più di tanto materiale non entra, dalle due parti, nella produzione annua prima considerata (le 4 giornate possono valere come giornate di 3 mesi).

Il capitale I vende 30 fogli a 30 di materiale + 3 di strumento + 50 (di tempo di lavoro oggettivato) (tempo di produzione) = 83.

Il capitale II vende 100 fogli a 100 di materiale + 6 di strumento + 53j [(di tempo di lavoro oggettivato) (tempo di produzione)] = 195 1/3.

Il capitale I vende 30 fogli a 83 Tlr.; 1 foglio a 83/30 Tlr. = 2 Tlr. e 23 grossi d'argento.

Il capitale II vende 100 fogli a 159 Tlr. e 10 grossi d'argento grossi d’argento/100; ossia ad 1 Tlr. e 90 grossi d'argento e 10 Pfennig.

È chiaro dunque che il capitale I lo prende in culo perché vende infinitamente più caro. Ora, sebbene nel primo caso il profitto sul capitale totale fosse del 10% e nel secondo del 6 2/3 % 4 soltanto, tuttavia il primo capitale ha guadagnato soltanto il 25% sul tempo di lavoro, mentre il secondo guadagna il 33 1/3. Nel capitale I la proporzione tra lavoro necessario e capitale totale impiegato è più elevata, e perciò il pluslavoro, per quanto in assoluto sia minore che nel capitale II, appare come saggio di profitto maggiore sul capitale totale minore. 4 giornate lavorative su 60 sono più che 4 su 160; nel primo caso abbiamo 1 giornata lavorativa sul capitale esistente di 15; nel secondo caso abbiamo 1 giornata lavorativa su 40.

Ma nel secondo capitale il lavoro è più produttivo (il che è dovuto sia alla maggior consistenza del macchinario e quindi anche alla maggiore dimensione che esso occupa tra i valori del capitale; sia al maggior materiale in cui si esprime la giornata lavorativa, che lavora più tempo supplementare e perciò logora più materiale in uno stesso tempo). Il secondo capitale crea più tempo supplementare (relativo, ossia condizionato dallo sviluppo della produttività). Nel primo caso il tempo supplementare è 1/4, nel secondo, 1/3. Esso perciò crea, in un medesimo tempo, sia più valori d'uso, sia un maggior valore di scambio; ma quest'ultimo non nella stessa proporzione dei primi, poiché, come abbiamo visto, il valore di scambio non aumenta nella stessa proporzione numerica in cui aumenta la produttività del lavoro. Il prezzo frazionale è perciò minore del prezzo totale della produzione — voglio dire che è maggiore il prezzo frazionale moltiplicato per la quantità dei prezzi frazionali prodotti.

Ma se avessimo ipotizzato che la somma totale delle giornate lavorative fosse maggiore in senso assoluto, benché essa sia relativamente minore che nel N° I, allora la cosa sarebbe ben più sorprendente. Il profitto del capitale maggiore che lavora con maggior macchinario risulta dunque minore di quello del capitale minore che utilizza relativamente o assolutamente più lavoro vivo. E ciò appunto perché il maggior profitto sul lavoro vivo, ripartito su quel capitale totale la cui proporzione di lavoro vivo impiegato è inferiore rispetto al capitale totale, risulta in realtà più basso di quel profitto sul lavoro vivo che è, sì, minore, ma la cui proporzione rispetto al minore capitale totale è maggiore.

Ma che il rapporto nel N° II sia tale che si possa elaborare più materiale e che una maggiore parte del valore sia investita in strumento di lavoro — ciò non è altro che una espressione della produttività del lavoro.

In ciò consiste dunque la celebre facezia dell'infelice Bastiat, che aveva fermamente replicato — senza che il sig. Proudhon sapesse rispondergli — che giacché minore risulta il saggio di profitto sul capitale maggiore e più produttivo, maggiore è diventata la quota dell'operaio. Mentre ; è esattamente il contrario: è il suo pluslavoro che è aumentato 190.

Nemmeno Ricardo sembra aver capito il problema, altrimenti egli non si sarebbe spiegato la caduta periodica del profitto semplicemente in base all'aumento dei salari causato dall'aumento dei prezzi del grano (e quindi della rendita).

La realtà è che il plusvalore — nella misura in cui è, sì, la base del profitto, ma ancora distinto dal comunemente detto profitto, — non è stato mai analizzato a fondo.

L'infelice Bastiat avrebbe detto, nel caso precedente, che siccome nel primo esempio il profitto è 10% (ossia 1/10), e nel secondo è solo 3 1/3ossia 1/33 (eliminando la percentuale), l'operaio riceve nel primo caso 9/10, nel secondo 32/33. Senonché non è esatto né il rapporto in uno qualsiasi dei due casi, né il rapporto reciproco tra i due casi.

Per quanto riguarda poi l'ulteriore rapporto del nuovo valore del capitale col capitale come valore complessivo indifferente (così ci si è presentato in generale il capitale prima di passare al processo di produzione, e così deve ripresentarsi alla fine di esso), ciò va sviluppato in parte sotto la rubrica del profitto — dove il nuovo valore acquista una nuova determinazione —, in parte sotto la rubrica accumulazione. Qui ci interessa anzitutto analizzare la natura del plusvalore quale equivalente del tempo di lavoro, assoluto o relativo, che il capitale realizza oltre al tempo di lavoro necessario.

Il motivo per cui quando nell'atto di produzione si consuma quell'elemento di valore che è lo strumento, non si possa distinguere lo strumento di produzione dal materiale — almeno finché si tratta di spiegare semplicemente la creazione del plusvalore, ossia l'autovalorizzazione —, deriva semplicemente dal fatto che tale consumo rientra nel processo di produzione semplice, e che quindi già in questo — affinché possa ricominciare daccapo spontaneamente — deve ritrovarsi nel valore (valore di scambio) o nel valore d'uso del prodotto il valore dello strumento consumato (si tratti del semplice valore d'uso, oppure del valore di scambio nel caso che la produzione sia già passata alla divisione del lavoro e venga scambiato per lo meno il surplus). Lo strumento perde il suo valore d'uso nella stessa misura in cui contribuisce ad elevare il valore di scambio della materia prima e serve come mezzo di lavoro. Questo punto in realtà va approfondito, perché la distinzione tra il valore invariato come parte del capitale che rimane conservato, quell'altro che viene riprodotto (riprodotto per il capitale; prodotto dal punto di vista della produzione reale del lavoro) e quello che viene prodotto ex novo, è di sostanziale importanza.

[Aumento delle giornate lavorative simultanee. (Accumulazione del capitale). Macchinario. - L'aumento della parte costante del capitale in rapporto alla parte variabile investita in salario è uguale all'aumento della produttività del lavoro. - Rapporto in cui deve aumentare il capitale, in presenza di un aumento della produttività, per occupare lo stesso numero di operai]

È ormai tempo di chiudere la questione del valore risultante dall'incremento delle forze produttive. Abbiamo visto che, quando c'è questo incremento, viene creato un plusvalore (non solamente un maggior valore di scambio) come quando c'è un incremento assoluto del pluslavoro. Se esiste un determinato limite al pluslavoro che l'operaio fornisce con una data quantità di lavoro, se cioè si è raggiunto il limite naturale, al punto che per es. all'operaio occorre soltanto mezza giornata per produrre mezzi di sussistenza che gli bastino per un' intera giornata, — allora un aumento del tempo di lavoro assoluto è possibile solo se si impiegano simultaneamente più operai, se cioè la giornata lavorativa reale si moltiplica simultaneamente invece di essere soltanto prolungata (presupponendo che il singolo operaio possa lavorare soltanto 12 ore; per raggiungere il tempo supplementare di 24 ore devono lavorarvi 2 operai). In questo caso il capitale, prima di passare al processo di autovalorizzazione, deve comprare, all'atto dello scambio con l'operaio, 6 ore lavorative in più, ossia rimetterci di più di tasca propria; e d'altra parte deve spendere di più, in media, in materiale da lavorare (a prescindere dal fatto che deve esserci un'eccedenza di operai, che cioè deve essere aumentata la popolazione lavoratrice). Quindi la possibilità dell'ulteriore processo di valorizzazione dipende qui da una precedente accumulazione del capitale (dal punto di vista della consistenza materiale).

Se al contrario aumenta la produttività e perciò il tempo supplementare relativo — dall'attuale punto di vista il capitale può essere considerato pur sempre come produttore diretto di mezzi di sussistenza, materia prima ecc. —, allora le spese per il salario diminuiscono e l'aumento del materiale è dato dallo stesso processo di valorizzazione. Ma questo problema si riferisce piuttosto all'accumulazione dei capitali.

Veniamo ora al punto in cui ultimamente ci siamo interrotti. L'aumento di produttività aumenta il plusvalore quantunque non aumenti la somma dei valori di scambio. Essa aumenta i valori perché crea un nuovo valore in quanto tale, ossia un valore che non deve essere semplicemente scambiato come equivalente, ma deve conservarsi; in una parola, più denaro. Il problema è: essa aumenta, infine, anche la somma dei valori di scambio? In fondo ciò viene ammesso, visto che anche Ricardo ammette che con l'accumulazione dei capitali aumentano i risparmi e quindi i valori di scambio prodotti. L'aumento dei risparmi non significa altro che un aumento di valori autonomi — di denaro. Ma la dimostrazione di Ricardo contraddice a questa sua asserzione.

Riprendiamo il nostro vecchio esempio. 100 Tlr.; 60 Tlr. di valore invariato; 40 di salario, che ne produca 80; quindi, prodotto = 140*. (* Qui si vede di nuovo che il plusvalore sulla totalità del capitale è = alla metà del nuovo valore prodotto, l'altra metà essendo = al valore necessario. Il rapporto di questo plusvalore, che è sempre uguale al tempo supplementare, ossia = all'intero prodotto dell'operaio, meno la parte che costituisce il suo salario, dipende 1) dal rapporto tra la parte invariata del capitale e quella produttiva; 2) dal rapporto tra il tempo di lavoro necessario e il tempo supplementare. Nel caso precedente il rapporto del tempo supplementare rispetto al tempo necessario è di 100%; il che fa il 40 % sul capitale di 100; e perciò 3) non solo dal rapporto dato in 2), ma anche dalla grandezza assoluta del tempo di lavoro necessario. Se la parte invariata del capitale di 100 fosse di 80, allora quella scambiata col lavoro necessario sarebbe =20, e se questa crea il 100 % di tempo supplementare, il profitto del capitale è del 20 %. Ma se il capitale =200 con lo stesso rapporto fra parte costante e parte variabile (ossia di 3/5 e 2/5), allora il totale sarebbe 280, il che fa 40 su 100. In questo caso la quantità assoluta del profitto aumenterebbe da 40 a 80, ma il rapporto rimarrebbe del 40%. Se invece nei 200 l'elemento costante fosse a sua volta poniamo 120, e la quantità di lavoro necessario 80, ma quest'ultimo aumentasse soltanto del 10% ossia di 8, allora la somma totale sarebbe =208, e quindi il profitto sarebbe del 4%; se aumentasse solo di 5, la somma totale sarebbe 205, e [il profitto] 2 1/2%.) Questi 40 di plusvalore siano costituiti da tempo di lavoro assoluto.

Supponiamo ora che la produttività si raddoppi: che l'operaio quindi, se 40 [di salario] forniscono 8 ore di lavoro necessario, possa produrre in 4 ore un'intera giornata di lavoro vivo. In tal caso il tempo supplementare aumenterebbe di 1/3 (prima occorrevano 2/3 di giornata per produrne una intera; ora, 1/3). Del prodotto della giornata lavorativa, 2/3 sarebbero costituiti da plusvalore, e se l'ora di lavoro necessario è = 5 Tlr. (5 X 8 = 40), egli ora avrebbe bisogno soltanto di 5 X 4 = 20 Tlr. Il capitale dunque otterrebbe un sovraprofitto di 20, ossia 60 invece di 40. Alla fine avremmo 140, dei quali 60 = valore costante, 20 = salario, e 60 = sovraprofitto; totale 140. Con 80 Tlr. di capitale il capitalista può ora ricominciare da capo a produrre.

Supponiamo che il capitalista A, rimanendo al medesimo livello della vecchia produzione, impieghi il suo capitale di 140 in una nuova produzione. Secondo il rapporto originario egli ha bisogno di 3/5 della parte invariabile del capitale, ossia 3 X 140/5 = 3 X 28 = 84; rimane, per lavoro necessario, 56 . Prima egli impiegava 40 per lavoro, ora 56; cioè 2/5 in più. Alla fine dunque il suo capitale è =84 + 56 + 56=196.

Il capitalista B al livello di produzione superiore impiegherebbe altresì i 140 Tlr. in una nuova produzione. Se con un capitale di 80 gli occorrono 60 come valore invariabile e soltanto 20 per lavoro, con un capitale di 60 gli occorrono 45 per valore invariabile e 15 per lavoro; la somma quindi sarebbe nel primo caso 60 + 20 + 20=100, e nel secondo 45+15+15 = 75. Quindi il suo prodotto globale è 175, mentre quello del primo capitalista è = 196. L'aumento della produttività del lavoro non significa altro che un medesimo capitale crea un medesimo valore con meno lavoro, oppure che minor lavoro crea un medesimo prodotto con un capitale maggiore. Meno lavoro necessario produce più pluslavoro. Dire che il lavoro necessario» è minore in rapporto al capitale, equivale a dire evidentemente, in vista del suo processo di valorizzazione, che il capitale è relativamente maggiore rispetto al lavoro necessario che esso mette in movimento; giacché il medesimo capitale mette in movimento una maggiore quantità di pluslavoro, e quindi meno lavoro necessario*. (* Se si presuppone, come nel nostro caso, che il capitale resta uguale, ossia che entrambi ricominciano con 140 Tlr., allora in quello più produttivo la parte maggiore deve incidere sul capitale (ossia sulla sua parte invariabile), mentre in quello improduttivo la parte maggiore deve incidere sul lavoro. Il primo capitale di 140 mette perciò in movimento un lavoro necessario di 56, e questo lavoro necessario implica, per il suo processo, una parte invariabile di 84. Il secondo capitale mette in movimento lavoro di 20+15=35, e un capitale invariabile di 60+45=105 (e dallo svolgimento precedente segue anche che l'aumento della produttività non aumenta il valore nella stessa misura in cui aumenta se stessa). — Nel primo caso, come abbiamo mostrato prima, il nuovo valore assoluto è maggiore che nel secondo, perché la massa di lavoro impiegato è maggiore in rapporto al (valore) invariabile; mentre nel secondo caso essa è minore appunto perché il lavoro è più produttivo. Solo che 1) la differenza per cui il nuovo valore nel primo caso era soltanto 40, e nel secondo 60, esclude che il primo possa ricominciare la produzione col medesimo capitale, come accade nel secondo; giacché una parte del nuovo valore, da entrambi i lati, deve entrare in circolazione come equivalente per permettere al capitalista di vivere, di vivere cioè di capitale. Se entrambi consumano 20 Tlr., il primo inizia il nuovo lavoro con 120 di capitale, l'altro anche con 120 ecc. Vedi sopra. Ritornare ancora una volta su tutta questa questione; ma il problema del rapporto tra il nuovo valore creato dalla maggiore produttività e il nuovo valore creato dall'aumento assoluto del lavoro, rientra nel capitolo sull' accumulazione e sul profitto.)

È per questa ragione che si dice che le macchine risparmiano lavoro ma il mero risparmio di lavoro, come ha giustamente osservato Lauderdale, non costituisce il fatto caratteristico; giacché con l'aiuto delle macchine il lavoro umano fa e crea cose che senza di esse non potrebbe assolutamente creare. Ma questo riguarda il valore d'uso delle macchine. Il fatto caratteristico è il risparmio del lavoro necessario e la creazione del pluslavoro. La maggiore produttività del lavoro si esprime nel fatto che il capitale deve comprare meno lavoro necessario per creare il medesimo valore e una maggiore quantità di valori d'uso, oppure che minor lavoro necessario crea il medesimo valore di scambio, valorizza più materiale e crea una maggiore massa di valori d'uso. L'aumento della produttività, se il valore complessivo del capitale rimane identico, implica dunque che la sua parte costante (consistente in materiale e macchine) aumenti in rapporto alla parte variabile, ossia a quella sua parte che si scambia con il lavoro vivo e che costituisce il fondo salari. La cosa assume al tempo stesso questo aspetto: che una minor quantità di lavoro mette in movimento una maggior quantità di capitale.

Se aumenta il valore complessivo del capitale che entra nel processo di produzione, allora il fondo salari (questa parte variabile del capitale) deve relativamente diminuire, in confronto cioè al rapporto che si sarebbe avuto se la produttività del lavoro, ossia il rapporto tra il lavoro necessario e il pluslavoro, fosse rimasta la stessa.

Supponiamo che nel caso precedente il capitale 100 sia stato un capitale agricolo, costituito da 40 Tlr. di semenze, concimi ecc., 20 Tlr. di strumento di lavoro, e 40 Tlr. di salario, al vecchio livello di produzione. (Supponiamo che questi 40 Tlr. siano = 4 giornate di lavoro necessario). Queste creano una somma di 140, al vecchio livello di produzione. Poniamo che la fertilità aumenti del doppio, in virtù del miglioramento dello strumento o di migliori concimi ecc. In questo caso il prodotto deve essere di 140 Tlr. (supposto che lo strumento si logori completamente). Poniamo che la fertilità si raddoppi in modo da far diminuire della metà il prezzo della giornata di lavoro necessario; oppure che occorrano 4 mezze giornate di lavoro necessario (ossia 2 intere) per produrne 8. Dire che 2 giornate lavorative ne producono 8 è lo stesso che dire che su una singola giornata lavorativa 1/4 (3 ore) è destinato al lavoro necessario. Invece di 40 Tlr., ora il fittavolo ha da spenderne ormai soltanto 20 per il lavoro. Al termine del processo dunque gli elementi del capitale sono mutati: dagli originari 40 per semenze ecc., che ora possiedono un valore d'uso raddoppiato, ai 20 di strumento di lavoro e ai 20 di lavoro (2 giornate lavorative intere). Precedentemente la proporzione tra parte costante e parte variabile del capitale era 60 : 40 = 3 : 2; ora è 80 : 20 = = 4 : 1.

Se consideriamo il capitale totale, la proporzione del lavoro necessario era = 2/5; ora è = 1/5. Se ora il fittavolo vuole continuare ad impiegare il lavoro nella proporzione precedente, di quanto dovrebbe aumentare il suo capitale? Oppure, — per evitare la maligna premessa che egli abbia continuato a lavorare con 60 di capitale costante e 40 di fondo-lavoro anche dopo che è intervenuto il raddoppiamento della produttività, che ha alterato i rapporti* (* Sebbene ciò sia del tutto esatto per es. per il fittavolo, quando per motivi stagionali si raddoppia la fertilità, o per qualsiasi industriale quando si raddoppia la produttività non nella sua branca ma in quella che egli utilizza; allora per es. la lana grezza costerebbe il 50% in meno, e così anche il frumento (e perciò il salario), e infine lo strumento; in tal caso egli continuerebbe come prima a spendere 40 Tlr. in lana grezza, ma in quantità raddoppiata, 20 in macchinario, 40 in lavoro) — noi supponiamo che malgrado il raddoppiamento della produttività il capitale abbia continuato a lavorare con i medesimi elementi, ad impiegare la medesima quantità di lavoro necessario, senza spendere di più per materia prima e strumento di lavoro* (* Poniamo che solo il cotone raddoppi la sua forza produttiva, che la macchina sia rimasta la stessa, allora - ciò va ulteriormente sviluppato); ossia che la produttività aumenti nel senso che, se egli prima doveva spendere 40 Tlr. per lavoro, ora ne abbia bisogno di 20 soltanto.

(Se per ipotesi occorreranno 4 intere giornate lavorative, ciascuna = 10 Tlr., per creargli un surplus di 4 intere giornate lavorative, e questo surplus gli viene creato trasformando i 40 Tlr. di cotone in filo, allora attualmente egli ha bisogno soltanto di 2 intere giornate lavorative per creare il medesimo valore — vale a dire 8 io giornate lavorative; il valore del filo esprimeva prima un tempo supplementare di 4 giornate lavorative, ora ne esprime uno di 6 giornate lavorative. Oppure, ciascun operaio aveva bisogno prima di 6 ore di tempo di lavoro necessario per crearne 12; ora gliene occorrono 3. In ciascuna di queste giornate il tempo supplementare è = 1/2 giornata (6 ore). Il tempo di lavoro necessario ammonta ora soltanto a 12 X 2 = 24 [ore] o 2 giornate; 3 ore [al giorno]. Per ricavare il plusvalore, ognuno dei 4 operai doveva lavorare 6X2 ore, ossia una giornata; ora ha bisogno di lavorare soltanto 3X2 ore, ossia 1/2 giornata. Che 4 lavorino 1/2 giornata o 2 un'intera giornata, è la stessa cosa. Il capitalista potrebbe licenziare 2 operai. Anzi dovrebbe farlo, giacché da una determinata quantità di cotone egli può ricavare soltanto una determinata quantità di filo; ossia non può più far lavorare 4 giornate intere, ma soltanto 4 mezze giornate. Ma se l'operaio deve lavorare 12 ore per ottenerne 3, cioè il suo salario necessario, lavorando 6 ore egli otterrà soltanto lf ore di valore di scambio. Ma se con 3 ore di lavoro necessario può viverne 12, con può viverne soltanto 6. Ognuno dei 4 operai dunque, se fossero impiegati tutti e 4, potrebbe vivere soltanto mezza giornata, ossia non tutti e 4 possono essere mantenuti in vita dal medesimo capitale come operai, ma soltanto 2. Il capitalista potrebbe pagarne 4 utilizzando il vecchio fondo destinato a 4 mezze giornate lavorative; in questo caso allora egli pagherebbe 2 in più regalando agli operai la produttività, giacché egli può impiegare soltanto 4 mezze giornate di lavoro vivo. Ma queste «possibilità» nella pratica non si verificano, e tanto meno se ne può parlare in questa sede ove si tratta del rapporto capitalistico in quanto tale). Su 100 Tlr. di capitale, dunque, 20 non sono attualmente impiegati direttamente nella produzione. Il capitalista impiega come prima 40 Tlr. per materia prima, e 20 per strumento, ossia 60, ma soltanto 20 Tlr. per lavoro (2 giornate lavorative).

Dell'intero capitale di 80 egli impiega 3/4 (60) per la parte costante e soltanto 1/4 per lavoro. Se impiega i restanti 20 allo stesso modo, ossia 3/4 per capitale costante e 1/4 per lavoro, allora andranno 15 al primo e 5 al secondo. E poiché, per ipotesi, una giornata lavorativa = 10 Tlr., 5 sarebbe = 6 ore = 1/2 giornata lavorativa soltanto. Col nuovo valore di 20, guadagnato grazie alla produttività, il capitale potrebbe comprare soltanto mezza giornata lavorativa per valorizzarsi nella stessa proporzione. Esso dovrebbe aumentare di 3 volte (ossia 60) (che sommati con i 20 fanno 80), per poter impiegare interamente i 2 operai licenziati o le 2 giornate lavorative impiegate precedentemente. In base al nuovo rapporto il capitale impiega 3/4 di capitale costante per impiegare 1/4 di fondo-lavoro.

Con 20 di capitale totale, egli adopererà 3/4, ossia 15 di capitale costante, e 1/4, ossia 5 di lavoro = 1/2 giornata lavorativa.

Con 4X20 di capitale totale, egli adopererà 4X15 = 60 di capitale costante, e 4X5 di salario = 4/2 giornate lavorative = 2 giornate lavorative.

Se dunque la produttività del lavoro si raddoppia, cosicché un capitale di 60 Tlr. di cotone grezzo e strumento ha bisogno soltanto di 20 Tlr. di lavoro (2 giornate lavorative) per valorizzarsi — mentre prima aveva bisogno di 100 Tlr. [di capitale totale] —, allora il capitale totale di 100 dovrebbe aumentare a 160, oppure l'attuale capitale, che ammonta a 80, dovrebbe raddoppiarsi per conservare l'intero lavoro extra creato. Ma col raddoppiamento della produttività si forma un nuovo capitale di 20 Tlr. = 1/2 del tempo di lavoro precedentemente impiegato; e questo è sufficiente ad impiegare soltanto 1/2 giornata lavorativa in più. Il capitale che prima del raddoppiamento della produttività era 100 e impiegava 4 giornate lavorative (premesso che 2/5 = 40 erano costituiti dal fondo-lavoro), ora che il fondo-lavoro è sceso a 1/5 di 100, ossia a 20 = 2 giornate lavorative (ma ad 1/4 di 80, cioè del capitale che inizia nuovamente il processo di valorizzazione), dovrebbe aumentare a 160, ossia del 60% per poter impiegare le vecchie 4 giornate lavorative in più. Con i 20 Tlr. sottratti al fondo-lavoro in seguito all'aumento della produttività, esso può ora impiegare inizialmente soltanto 1/2 giornata lavorativa, se intende continuare a lavorare con tutto il vecchio capitale. Con un capitale di 100 esso impiegava 16/4 di giornate lavorative (4 giornate); ora potrebbe impiegarne soltanto 5/4.

Se dunque la produttività si raddoppia, il capitale non ha bisogno di raddoppiarsi per mettere in movimento il medesimo lavoro necessario, ovvero 4 giornate lavorative; non ha bisogno di aumentare a 200; gli basta soltanto aumentare dell'intero, meno la parte sottratta al fondo-lavoro, (100— [2%] 20 = 80) X 2=160. (Al contrario il primo capitale, che prima dell'aumento della produttività spendeva, con 100 talleri, 60 di capitale costante e 40 di salario (4 giornate lavorative), aveva bisogno, per impiegare 2 giornate in più, di aumentare soltanto da 100 a 150, ossia di spendere 3/5 di capitale costante (30) e 2/5 di fondo-lavoro (20). Mentre, ipotizzando che in entrambi i casi si raddoppi la giornata lavorativa, il secondo " capitale ammonterebbe alla fine a 250, e il primo soltanto a 160). Di quella parte di il capitale sottratta al fondo-lavoro in seguito all'aumento della produttività, una parte deve essere a sua volta trasformata in materia prima e strumento, un'altra essere scambiata con lavoro vivo; quanto alle proporzioni tra le diverse parti, esse possono essere date soltanto dalla nuova produttività. La vecchia proporzione non può più valere, perché il fondo-lavoro è proporzionalmente diminuito rispetto al fondo costante.

Se il capitale di 100 impiegava 2/5 per fondo-lavoro (40), e in seguito al raddoppiamento della produttività ne impiega ormai soltanto 1/5 (20), allora 1/5 del capitale (20 Tlr.) si è liberato; la parte occupata di 80 impiega ormai soltanto 1/4 come fondo-lavoro. Quindi anche i 20 impiegano soltanto 5 Tlr. (1/2 giornata lavorativa). Il capitale totale di 100 dunque impiega ora 2 1/2 giornate lavorative; oppure dovrebbe aumentare a 160 per reimpiegarne 4.

Se il capitale originario fosse stato di 1.000 e fosse stato ripartito allo stesso modo in 3/5 di capitale costante e 2/5 di fondo-lavoro, avremmo avuto 600 + 400 (poniamo 400 = 40 giornate lavorative; 1 giornata lavorativa =10 Tlr.). Orbene, se la produttività del lavoro si raddoppia, di modo che si richiedono 20 giornate lavorative per il medesimo prodotto (= 200 Tlr.), il capitale richiesto per ricominciare da capo la produzione sarebbe = 800, ossia 600 + 200. Il che vuol dire che si sarebbero liberati 200 Tlr., i quali, impiegati nella medesima proporzione, danno 3/4 di capitale costante = 150, e 1/4 di fondo-lavoro = 50. Se perciò i 1.000 Tlr. vengono impiegati interamente, 750 lo sono in capitale costante e 250 in fondo-lavoro (= 1.000 Tlr.). Ma 250 di fondo-lavoro sarebbero = 25 giornate lavorative (vale a dire, il nuovo fondo può impiegare il tempo di lavoro soltanto nella nuova proporzione, ossia per 1/4; per impiegare tutto il vecchio tempo di lavoro esso dovrebbe quadruplicarsi).

Il capitale di 200 liberatosi impiegava un fondo-lavoro di 50 = 5 giornate lavorative, ossia 1/4 del tempo di lavoro liberatosi. (La parte di fondo-lavoro liberata dal capitale è essa stessa impiegata come capitale soltanto per 1/4 del fondo-lavoro; ossia appunto nella proporzione in cui la parte del capitale nuovo costituita dal fondo-lavoro sta rispetto alla somma totale del capitale). Per impiegare dunque 20 giornate lavorative (4X5 giornate lavorative), questo fondo dovrebbe aumentare da 50 a 4 X 50 = 200; la parte liberatasi dovrebbe insomma aumentare da 200 a 600, cioè triplicarsi, di modo che l'intero capitale nuovo ammonti a 800. Il capitale totale sarebbe allora 1.600, del quale 1.200 rappresenta la parte costante e 400 il fondo-lavoro.

Se quindi il capitale 100 conteneva originariamente un fondo- lavoro di 400 (40 giornate lavorative), e ormai in seguito al raddoppiamento della produttività ha bisogno di impiegare soltanto un fondo-lavoro di 200 per acquistare il lavoro necessario, ossia soltanto 1/2 del precedente lavoro, allora il capitale dovrebbe aumentare di 600 per impiegare la totalità del precedente lavoro (per guadagnare il medesimo tempo supplementare). Esso dovrebbe poter impiegare un fondo-lavoro doppio, ossia 2 X 200 = 400; ma poiché il rapporto tra fondo-lavoro e capitale totale è ora = 1/4, occorre un capitale totale di 4 X 400 = 1.600*. (* Il capitale totale che occorrerebbe per impiegare il vecchio tempo di lavoro è dunque = al vecchio fondo-lavoro moltiplicato per il denominatore della frazione che esprime il rapporto tra fondo-lavoro e nuovo capitale totale. Se il raddoppiamento della produttività ha ridotto questo rapporto ad 1/4, bisogna moltiplicare per 4; se lo ha ridotto ad 1/3, bisogna moltiplicare per 3. A produttività raddoppiata, il lavoro necessario e quindi il fondo-lavoro si riduce ad 1/2 del suo precedente valore; ma ad 1/4 in rapporto al nuovo capitale totale di 800 e ad 1/5 in rapporto al vecchio capitale totale di 1000. Ovvero il nuovo capitale totale è = 2, moltiplicato per il vecchio capitale, meno la parte di fondo-lavoro liberatasi; (1000—200) x 2 = 800 x 2=1600. Il nuovo capitale totale esprime appunto la somma totale del capitale costante e variabile che occorre per impiegare la metà del vecchio tempo di lavoro (1/3, 1/4, ... 1/x, a seconda che la produttività sia aumentata x3, x4, xx); sicché per impiegare tutto il vecchio tempo di lavoro occorre moltiplicare il capitale x2 (o x3, x4, xx ecc. a seconda della proporzione in cui è cresciuta la produttività). Qui deve essere sempre dato il rapporto (tecnologico) originario tra le parti del capitale; da ciò dipende per es. in quale frazione la moltiplicazione della produttività si esprime come divisione del lavoro necessario.)

Oppure, che è lo stesso, esso è = 2 x il nuovo capitale che, in seguito alla nuova produttività, rimpiazza nella produzione quello vecchio (800 x 2). (E quindi, se la produttività si fosse quadruplicata, quintuplicata ecc., essa sarebbe = 4 x, 5 x il nuovo capitale ecc. Dal momento che la produttività si è raddoppiata, il lavoro necessario si è ridotto a 1/2; e così anche il fondo- lavoro. Se perciò nel caso precedente del vecchio capitale 1.000 esso ammontava a 400, ossia a 2/5 del capitale totale, ora ammonta a 1/5 o 200. Questa proporzione di cui esso si è ridotto, costituisce la parte di fondo-lavoro liberatasi, che è = 1/5 del vecchio capitale, ossia = 200. 1/5 del vecchio capitale = 1/4 del nuovo. Il nuovo capitale è = al vecchio + 3/5 di esso. Ma su queste delicatezze ritorneremo più dettagliatamente in seguito).

Se presupponiamo gli stessi rapporti originari fra le parti del capitale e lo stesso aumento della produttività, è del tutto irrilevante, ai fini dei teoremi generali, che il capitale sia piccolo o grande. Tutt'altra questione è se i rapporti rimangono gli stessi mentre il capitale si ingrandisce (ma ciò riguarda l'accumulazione). Ma, presupposto questo, vediamo in che modo l'aumento della produttività alteri i rapporti tra gli elementi del capitale. Il raddoppiamento della produttività agisce allo stesso modo sia per un capitale di 100 che per uno di 1.000, se in entrambi i casi all'origine c'erano 3/5 di capitale costante e 2/5 di fondo-lavoro. (L'espressione fondo-lavoro viene usata qui solamente per comodità; noi non abbiamo ancora sviluppato il capitale in questa determinazione. Finora ne abbiamo considerato due parti, l'una scambiata con merci (materiale e strumento), l'altra con la forza-lavoro). (Il nuovo capitale — ossia la parte del vecchio capitale che ne fa la funzione, è = al vecchio meno la parte di fondo-lavoro liberatasi; ma questa parte liberatasi è = alla frazione che esprimeva il lavoro necessario (o, che è lo stesso, il fondo-lavoro) diviso per il moltiplicatore della produttività.

Quindi se il vecchio capitale è 1.000, la frazione che esprime il lavoro necessario o fondo-lavoro è = 2/5; e se la produttività si raddoppia, allora il nuovo capitale che fa la funzione del vecchio è = 800, vale a dire 2/5 del vecchio capitale = 400; questi, divisi per 2, ossia per il moltiplicatore della produttività, sono =2/10=1/5 = 200. Dunque il nuovo capitale è = 800 e la parte di fondo-lavoro liberatasi è = 200).

Noi abbiamo visto che entro questi rapporti un capitale di 100 Tlr. deve aumentare a 160, e uno di 1.000 aumentare a 1.600 per mantenere in attività lo stesso tempo di lavoro (rispettivamente di 4 o 40 giornate lavorative) ecc.; entrambi devono aumentare del 60%, ossia di 3/5 di se stessi (del vecchio capitale) per poter impiegare di nuovo l'1/5 (nel primo caso 20 Tlr., nel secondo 200) di fondo- lavoro reso libero.

[La percentuale sul capitale totale può esprimere rapporti differenti. Il capitale (come la proprietà) si basa sulla produttività del lavoro]

[[Notabene. Prima avevamo visto come la medesima percentuale sul capitale totale possa esprimere delle proporzioni molto differenti in cui il capitale crea il suo plusvalore creando pluslavoro, relativo o assoluto. Se la proporzione tra la parte di valore costante del capitale e quella variabile (scambiata con il lavoro) fosse tale che quest'ultima è = 1/2 del capitale totale (sicché un capitale 100 è = 50 (costante) + 50 (variato)), allora la parte scambiata col lavoro avrebbe bisogno di aumentare soltanto del 50% per dare 25% sul capitale; vale a dire 50 + 50 ( +25)= 125, mentre nell'esempio precedente avevamo 75 + 25 (+25)= 125; quindi la parte scambiata col lavoro vivo aumenta del 100% per dare 25 sul capitale. Qui noi vediamo come, ferme restando le proporzioni, identica rimane la percentuale sul capitale totale, grande o piccolo che sia; o per meglio dire: se la proporzione tra fondo- lavoro e capitale totale rimane identica, cioè, come sopra, 1/4. Ovverosia: 100 dà 125, 80 dà 100, 1.000 dà 1.250, 800 dà 1.000, 1.600 dà 2.000- ecc.; sempre il 25%. Se dei capitali che mostrano differenti proporzioni tra i loro elementi e una differente produttività rispettiva, danno la stessa percentuale sull'intero capitale, allora il plusvalore reale deve essere molto differente nei differenti rami]].

[L'esempio allora è esatto, a patto che si confronti la produttività, entro i medesimi rapporti, con un medesimo capitale prima che aumenti la produttività stessa. Supponiamo che un capitale di 100 impieghi 50 in valore costante e 50 in fondo-lavoro. Se il fondo aumenta del 50%, ossia di 1/2, il prodotto totale sarà = 125. Supponiamo che il fondo-lavoro di 50 Tlr. impieghi 10 giornate lavorative pagando 5 Tlr. a giornata. Poiché il nuovo valore è 1/2, il tempo supplementare deve essere = 5 giornate lavorative; ossia l'operaio che aveva bisogno di lavorare soltanto 10 giornate per viverne 15, deve lavorarne 15 per il capitalista per viverne 15; e il suo pluslavoro di 5 giornate costituisce il plusvalore del capitale.

Oppure, esprimendo la cosa in termini di ore: se la giornata lavorativa = 12 ore, il pluslavoro = 6 ore a giornata. In tal modo in 10 giornate o 120 ore, egli lavora 60 ore in più, pari a 5 giornate. Ma raddoppiando la produttività, la proporzione dei 100 Tlr. sarebbe 75 e 25, ossia il medesimo capitale ha bisogno ormai di impiegare soltanto 5 operai per creare il medesimo valore di 125. Così dunque le 5 giornate lavorative sono = 10, cioè il doppio. Il che vuol dire che vengono pagate 5 giornate, e ne vengono prodotte 10. L'operaio aveva bisogno di lavorare soltanto 5 giornate per viverne 10 (prima dell'aumento della produttività egli doveva lavorarne 10 per viverne 15, sicché, lavorandone 5, poteva viverne solo 7 1/2); ma egli deve lavorarne per il capitalista 10 per viverne 10. Questi ricava dunque un profitto di 5 giornate, cioè 1 giornata a giornata.

Ovvero, esprimendo la cosa in termini di una singola giornata, prima egli doveva lavorarne 1/2 per viverne (ossia 6 ore per viverne 12); attualmente avrebbe bisogno di lavorarne soltanto 1/4 per viverne 1 (ossia 3 ore). Lavorando un'intera giornata potrebbe viverne 2; lavorando cioè 12 ore, potrebbe viverne 24; lavorando 6 ore, 12. Ora invece egli deve lavorare 12 ore per viverne 12. Egli aveva bisogno di lavorarne 1/2 per viverne 1; invece deve lavorarne 2 X 1/2=1 per viverne 1. Al livello della vecchia produttività egli doveva lavorare 10 giornate per viverne 15, o 12 ore per viverne 18; o 1 ora per viverne 14, oppure 8 ore per viverne 12, vale a dire 2/3 di giornata per viverne 3/3. Invece deve lavorarne 3/3 per viverne 2/3, ossia 1/3" in più. Il raddoppiamento della produttività fa salire la proporzione del tempo supplementare da 1 : (ossia 50%) a 1 : 2 (ossia 100%). Quanto alla proporzione del precedente tempo di lavoro, egli aveva bisogno di 8 [ore] per viverne 12, ossia 2/3 del tempo necessario dell'intera giornata lavorativa; attualmente egli ha bisogno soltanto di 1/2, ossia di 6, per viverne 12. È per questa ragione che il capitale impiega ora 5 operai invece di 10. Se prima i 10 operai (che costavano 50) producevano 75, ora i [5 che costano] 25 [producono] 50; vale a dire i primi soltanto il 50%, i secondi il 100% Gli operai lavorano sempre 12 ore; ma nel primo caso il capitale comprava 10 giornate lavorative, ora ne compra soltanto 5.

Essendo raddoppiata la produttività, 5 giornate lavorative producono 5 giornate di pluslavoro. Se nel primo caso 10 giornate lavorative davano soltanto 5 giornate di pluslavoro, ora che la produttività è raddoppiata, ossia è salita dal 50 al 100%, 5 [giornate lavorative danno] 5 [giornate di pluslavoro]. Nel primo caso 120 ore lavorative (= 10 giornate lavorative) ne producono 180, nel secondo, 60 [ore lavorative] ne producono 60; ossia nel primo caso il tempo supplementare sull'intera giornata ammonta a 1/3 (50% sul tempo di lavoro necessario), ossia, su 12 ore, a 4 ore, mentre il tempo necessario è 8 ore; nel secondo caso il tempo supplementare ammonta a 1/2 dell'intera giornata (100% sul tempo di lavoro necessario), ossia a 6 ore su 12, mentre il tempo necessario è 6 ore. Perciò le 10 giornate nel primo caso davano 5 giornate di tempo supplementare (o di pluslavoro), e nel secondo le 5 ne danno 5. Il tempo supplementare relativo è dunque raddoppiato; in rapporto alla prima proporzione esso è cresciuto soltanto di 1/2 rispetto ad 1/3; ossia di 1/6, cioè di 16 4/6]].

                   costante                                variabile

100                 60                  +                   40                         (proporzione originaria)

100                 75                  +                   25                         (+25)=125 (25%)

160                120                 +                   40                          (+40)=200 (25%)

Poiché il pluslavoro o tempo supplementare è il presupposto del capitale, questo si basa dunque sulla premessa fondamentale dell'esistenza di un surplus oltre il tempo di lavoro necessario alla conservazione e riproduzione dell'individuo; sulla premessa cioè che, per es , l'individuo abbia bisogno di lavorare soltanto 6 ore per vivere 1 giornata, o 1 giornata per viverne 2 ecc. Con lo sviluppo delle capacità produttive diminuisce il tempo di lavoro necessario e aumenta quindi il tempo supplementare. O anche, [il capitale si basa sulla premessa] che un individuo possa lavorare per 2 ecc.

(«La ricchezza non è altro che tempo disponibile [p. 6] ... Se l'intero lavoro di un paese bastasse a mantenere l'intera popolazione, non esisterebbe pluslavoro e quindi nulla che si possa accumulare come capitale [p. 4] ... Una nazione è veramente ricca quando non esiste alcun interesse, o quando non si lavora che 6 ore invece di 12 [p. 6] ... Quale che sia la quantità dovuta al capitalista, egli non può che ricevere il pluslavoro dell'operaio; giacché l'operaio deve vivere» (The Source and Remedy of the National Difficulties) (p. 27, 28),87.

«Proprietà. Sua origine dalla produttività del lavoro. Se uno può produrre soltanto per uno, ognuno è un lavoratore; non può esserci proprietà. Se invece il lavoro di un uomo può mantenerne cinque vi saranno quattro oziosi per ogni uomo impiegato nella produzione; la proprietà aumenta col perfezionamento del modo di produzione ... L'aumento della proprietà, questa maggiore capacità di mantenere degli oziosi e un'industria improduttiva = capitale ... Lo stesso macchinario può essere raramente impiegato con successo per ridurre il lavoro di un individuo: si perderebbe più tempo a costruirlo di quanto ne potrebbe essere risparmiato ad applicarlo. Esso è realmente utile quando agisce su vasta scala, quando una singola macchina può aiutare il lavoro di migliaia di individui. Conseguentemente è nei paesi più popolati, dove esistono più oziosi, che le macchine sono sempre più abbondanti. Esse non vengono introdotte in ragione della scarsità di uomini, ma in ragione della loro abbondanza... Nemmeno 1/4 della popolazione inglese provvede al consumo di tutta la nazione. Sotto Guglielmo il Conquistatore per es. coloro che partecipavano direttamente alla produzione erano molto più numerosi degli oziosi» (Ravenstone, IX, 32) 88.

Se da una parte il capitale crea il pluslavoro, il pluslavoro è a sua volta un presupposto dell'esistenza del capitale. Tutto lo sviluppo della ricchezza si basa sulla creazione di tempo disponibile. Il rapporto tra tempo di lavoro necessario e superfluo (giacché tale esso è in realtà dal punto di vista del lavoro) muta ai diversi livelli dello sviluppo delle capacità produttive. Ai livelli più produttivi dello scambio gli uomini non scambiano che il loro tempo di lavoro superfluo; questo è la misura del loro scambio, che per ciò stesso si estende soltanto a prodotti superflui. Nella produzione basata sul capitale l'esistenza del tempo di lavoro necessario è condizionata dalla creazione di tempo di lavoro superfluo. Ai livelli più bassi della produzione, in primo luogo, essendo ancora pochi i bisogni umani prodotti, sono pochi anche quelli da soddisfare. Il tempo di lavoro necessario è perciò limitato non perché il lavoro è produttivo, ma perché è poco necessario. In secondo luogo, esiste a tutti i livelli della produzione una certa socialità del lavoro, un carattere sociale di esso ecc. In seguito si sviluppa la produttività sociale ecc. (Ritornare su questo punto).

[Aumento del tempo di lavoro supplementare. Aumento delle giornate lavorative simultanee (popolazione). (La popolazione può essere aumentata nella misura in cui diminuisce relativamente il tempo di lavoro necessario o il tempo richiesto per la produzione della forza-lavoro viva). Pluscapitale e sovrappopolazione. Creazione di tempo libero per la società]

Il tempo supplementare esiste come eccedenza della giornata lavorativa sulla parte di essa che noi chiamiamo tempo di lavoro necessario; e, in secondo luogo, come aumento delle giornate lavorative simultanee, ossia della popolazione lavoratrice. (Esso può anche essere prodotto — e qui ci limitiamo a questo accenno, giacché l'argomento rientra nel capitolo sul lavoro salariato — da un prolungamento forzoso della giornata lavorativa oltre i suoi limiti naturali e dall'aggiunzione di donne e bambini alla popolazione lavoratrice).

Il primo rapporto tra tempo supplementare della giornata e suo tempo necessario può essere ed è modificato dallo sviluppo delle capacità produttive, cosicché il lavoro necessario viene limitato ad una parte aliquota sempre più piccola. Lo stesso vale poi per la popolazione, in senso relativo. Una popolazione lavoratrice di 6 milioni per es. può essere considerata come un'unica giornata lavorativa di 6 X 12, ossia di 72 milioni di ore: sicché qui si può applicare la medesima legge.

È legge del capitale, come abbiamo visto, creare pluslavoro, ossia tempo disponibile; e ciò esso può fare solo in quanto mette in movimento lavoro necessario — in quanto cioè contrae uno scambio con l'operaio. La sua tendenza perciò è tanto quella di creare il più lavoro possibile, quanto quella di ridurre ad un minimo il lavoro necessario. Il capitale perciò tende sia ad aumentare la popolazione lavoratrice, sia a porre incessantemente una parte di essa come sovrappopolazione — popolazione inutile fino al momento in cui il capitale può valorizzarla. (Donde la verità della teoria della sovrappopolazione e del pluscapitale).

Il capitale tende sia a rendere il lavoro umano (relativamente) superfluo, sia a spingerlo a limiti smisurati. Il valore non è che lavoro oggettivato, e il plusvalore (valorizzazione del capitale) non è che l'eccedente sulla parte di lavoro oggettivato necessaria alla riproduzione della forza-lavoro. Ma il lavoro in generale è e rimane il presupposto, mentre il pluslavoro esiste soltanto in rapporto al lavoro necessario, e perciò solo nella misura in cui questo esiste.

Il capitale deve perciò creare incessantemente lavoro necessario per creare pluslavoro; deve moltiplicarlo (ed ecco le giornate lavorative simultanee) per poter moltiplicare il surplus, ma deve altresì sopprimerlo come necessario per poterlo porre come pluslavoro.

Dal punto di vista della singola giornata lavorativa il processo naturalmente è semplice: [si tratta] 1) di prolungarla fino ai limiti delle possibilità naturali; 2) di accorciare sempre più la parte necessaria di essa (ossia di aumentare smisuratamente le capacità produttive). Ma se si considera la giornata lavorativa dal punto di vista spaziale — se si considera cioè il tempo stesso spazialmente —, essa è una giustapposizione di molte giornate lavorative. Più numerose sono le giornate lavorative con cui il capitale può procedere allo scambio di lavoro oggettivato con lavoro vivo, tanto maggiore è la sua valorizzazione simultanea. Esso può superare il limite naturale costituito dalla giornata di lavoro vivo di un individuo, ad un dato livello di sviluppo delle capacità produttive, (e non cambia nulla il fatto che questi livelli siano mutevoli), solo in quanto esso, accanto ad una giornata lavorativa, ne crea simultaneamente un' altra — ossia attraverso l'aggiunzione spaziale di più giornate lavorative simultanee. Io posso spingere per es. il pluslavoro di A soltanto fino a 3 ore; ma se aggiungo le giornate di B, C, D, ecc., diventano 12 ore. Invece di un tempo supplementare di 3 ore, ne ho creato uno di 12.

È per questo che il capitalista sollecita l'aumento della popolazione, ed è il vero e proprio processo di riduzione del lavoro necessario che rende possibile mettere in azione nuovo lavoro necessario (e quindi pluslavoro). (Insomma la produzione di operai diventa più a buon mercato; in un medesimo tempo è possibile produrre più operai, nella stessa misura in cui diminuisce relativamente il tempo di lavoro necessario o si riduce relativamente il tempo richiesto per la produzione della forza-lavoro viva. Queste sono proposizioni identiche).

(Tutto questo, senza considerare ancora che l'aumento della popolazione aumenta la produttività del lavoro in quanto rende possibile una maggiore divisione e una maggiore combinazione del lavoro ecc. L'aumento della popolazione è una forza naturale del lavoro che non viene pagata. Forza naturale noi chiamiamo, a questo livello, la forza sociale. Tutte le forze naturali del lavoro sociale sono esse stesse prodotti storici).

D'altra parte il capitale — così come faceva prima per la singola giornata lavorativa — tende a ridurre ad un minimo anche le molte giornate lavorative necessarie simultanee (le quali, limitatamente al loro valore, possono essere considerate come un'unica giornata lavorativa); esso cioè tende a porne quante più può come non necessarie.

E come prima trattandosi della singola giornata lavorativa tendeva a ridurre le ore di lavoro necessario, così ora tende a ridurre le giornate lavorative necessarie in rapporto al tempo di lavoro oggettivato globale. (Se occorrono 6 giornate lavorative necessarie per produrre 12 ore lavorative superflue, allora il capitale fa in modo che ne occorrano soltanto 4. Oppure le 6 giornate lavorative possono essere considerate come un'unica giornata lavorativa di 72 ore; se esso riesce a restringere il tempo di lavoro necessario di 24 ore, si eliminano 2 giornate lavorative necessarie — ossia 2 operai). D'altra parte il nuovo capitale eccedente creato può essere valorizzato in quanto tale solo scambiandolo di nuovo col lavoro vivo. Donde la tendenza del capitale, sia ad aumentare la popolazione operaia, sia a diminuire incessantemente la parte necessaria di essa (ossia a porne incessantemente una parte come riserva). L'aumento della popolazione è così anche il mezzo principale per la sua diminuzione. In fondo si tratta soltanto di un'applicazione del rapporto con la singola giornata lavorativa. Qui sono già presenti tutte le contraddizioni che la moderna teoria della popolazione ha enunciato come tali, pur senza comprenderne la natura. Il capitale come posizione del pluslavoro è altresì e nello stesso momento un porre e non-porre il lavoro necessario; esso è solo in quanto questo è e nello stesso tempo non è*. (* Sebbene non rientri in questa sede, si può tuttavia già qui ricordare come alla creazione di pluslavoro dà un lato, corrisponda una creazione di minus-lavoro, relativamente inutile (o nel caso migliore, non produttivo) dall'altro. Ciò è evidente anzitutto riguardo al capitale stesso, ma poi anche riguardo alle classi con le quali esso si associa, poveri, servi, galoppini ecc. che vivono del prodotto eccedente, insomma all'intero seguito sociale, a quella parte della classe servile che non vive di capitale ma di reddito. C'è una differenza sostanziale tra questa classe servile e la classe operaia. In rapporto all'intera società la creazione di tempo disponibile è d'altra parte anche una creazione di tempo per la produzione della scienza, dell'arte ecc. Il meccanismo di sviluppo della società non dipende dal fatto che, poiché un singolo individuo ha soddisfatto i suoi bisogni, esso poi crea il suo eccedente; bensì dal fatto che, poiché un singolo individuo o una classe di individui sono costretti a lavorare più di quanto sia necessario alla soddisfazione dei loro bisogni — ossia, poiché c'è un pluslavoro da una parte —, viene creato un non-lavoro e una ricchezza eccedente dall'altra. Dal punto di vista della realtà lo sviluppo della ricchezza si svolge soltanto tra queste antitesi: dal punto di vista della possibilità proprio il suo sviluppo costituisce la possibilità della soppressione di queste antitesi. Oppure [la ragione del meccanismo di sviluppo della società sta nel fatto] che un individuo può soddisfare i suoi bisogni personali solo in quanto contemporaneamente soddisfa i bisogni di un altro individuo e ciò che eccede tali bisogni. Aspetto brutale di questo fenomeno nella schiavitù. Soltanto sotto la condizione del lavoro salariato ciò conduce all'industria, al lavoro industriale. — Perciò Malthus è assolutamente coerente quando, accanto al pluslavoro e al pluscapitale, pone l'esigenza di una eccedenza di oziosi che consumano senza produrre, ovvero la necessità dello spreco, del lusso, dello sperpero ecc.)

Se la proporzione tra le giornate lavorative necessarie e il totale delle giornate lavorative oggettivate era = 9 : 12 (e quindi il pluslavoro = 1/4), la tendenza del capitale è quella di ridurre tale proporzione a 6 : 9 (ossia 2/3, quindi il pluslavoro = 1/3). Tutto ciò va in seguito sviluppato più dettagliatamente; tuttavia i lineamenti fondamentali sono qui, dove si tratta del concetto generale del capitale.