3.5. IL CAPITALE FRUTTIFERO. TRASPORM AZIONE DEL PLUSVALORE IN PROFITTO
3.5.Saggio del profitto. Caduta del saggio del profitto. Saggio del profitto. Massa del profitto. Atkinson, A. Smith. Ramsay. Ricardo. Il plusvalore in quanto profitto esprime una proporzione decrescente. Wakefield. Carey. Bastiat
3.5.Capitale e reddito (profitto). Produzione e distribuzione. Sismondi. Costi di produzione dal punto di vista del capitale. Profitto, idem [dal punto di vista del capitale]. Disuguaglianza dei profitti. Livellamento e saggio di profitto generale. Trasformazione del plusvalore in profitto. Leggi.
3.5.Plusvalore = proporzione del pluslavoro rispetto al lavoro necessario.
3.5.Valore del capitale fisso e sua produttività. Durabilità del capitale fisso, idem [sua produttività] - Le forze sociali, la divisione del lavoro ecc. non costano nulla al capitale. Differenza della macchina da tutto questo (economia del capitalista nell'impiego di macchine). Profitto e plusvalore.
3.5.Macchine e pluslavoro. Ricapitolazione della teoria del plusvalore in generale.
3.5.Proporzione tra le condizioni oggettive della produzione. Mutamento nella proporzione degli elementi del capitale.
3.5.Denaro e capitale fisso: suppone una certa quantità di ricchezza. (Economist). Rapporto tra capitale fisso e capitale circolante. Filandiere. (Economist)
3.5.Schiavitù e lavoro salariato (Steuart). Profitto da alienazione. Steuart.
3.5.Industria della lana in Inghilterra a partire da Elisabetta (Tuckett). Industria della seta (idem). Idem, acciaio, cotone
3.5.Origine del lavoro salariato libero. Vagabondaggio, Tuckett.
3.5.Blake sull'accumulazione e il saggio di profitto (Fa vedere che i prezzi ecc, non sono indifferenti, perché una classe di meri consumatori non consuma e riproduce al tempo stesso). Capitale inattivo.
3.5.Agricoltura domestica all'inizio del XVI secolo. Tuckett.
3.5.Profitto. Interesse. Influsso delle macchine sul fondo di lavoro. Westminster Review.
3.5.Denaro come misura dei valori e criterio dei prezzi. Critica delle teorie dell'unità di misura del denaro.
3.5.Per la critica delle teorie del mezzo di circolazione e del denaro. Trasformazione del mezzo di circolazione in denaro. Tesaurizzazione. Mezzo di pagamento. Prezzi delle merci e quantità di denaro circolante. Valore del denaro.
3.5.II capitale, non il lavoro, determina il valore delle merci. Torrens.
3.5.Minimo del salario.
3.5.1826. Cotone, macchine e operai. Hodgskin.
3.5.Come le macchine creano la materia prima. Industria del lino. Stoppa filata. Economist.
3.5.Macchine e pluslavoro.
3.5.Capitale e profitto. Il valore costituisce il prodotto. Rapporto dell'operaio con le condizioni del lavoro nella produzione capitalistica. Tutte le parti del capitale danno un profitto. Rapporto tra capitale fisso e capitale circolante nelle fabbriche del cotone. Il pluslavoro e il profitto secondo Senior. Tendenza delle macchine a prolungare il lavoro. Influenza del trasporto sulla circolazione ecc. Il trasporto elimina gradualmente l'accumulo. Pluslavoro assoluto e macchine. Senior.
3.5.Fabbriche di cotone in Inghilterra. Esempio per il problema: macchine e pluslavoro. Esempio di Symons. Glasgow. Fabbrica con telai meccanici ecc. (Questi esempi valgono per il problema del saggio del profitto). Modi diversi con cui le macchine diminuiscono il lavoro necessario. Gaskell. Lavoro come mercato diretto per il capitale.
3.5.Alienazione delle condizioni di lavoro del lavoro con lo sviluppo del capitale. (Inversione), L'inversione è alla base del modo capitalistico di produzione, non solo della sua distribuzione.
3.5.Merivale. Necessità di sostituire la dipendenza naturale dell'operaio nelle colonie con restrizioni artificiali.
3.5.Come la macchina ecc. risparmia materiale. Pane. Dureau de la Malie.
3.5.Consumo produttivo. Newman. Trasformazioni di capitale. Ciclo economico. (Newman)
3.5.II Dr. Price. Potere innato del capitale.
3.5.Proudhon. Capitale e scambio semplice. Surplus. Necessità della mancanza di proprietà dell'operaio. Townsend. Galiani. L'infinito in processo. Galiani.
3.5.Anticipi. Storch. Teoria del risparmio. Storch. MacCulloch. Surplus. Profitto. Distruzione periodica di capitale. Fullarton. Arnd. Interesse naturale -
3.5.Interesse e profitto. Carey. Il prestito su pegni in Inghilterra.
3.5.Come il commerciante subentra al maestro artigiano.
3.5.Patrimonio mercantile .
3.5.Con gli equivalenti, il commercio è impossibile. Opdyke
3.5.Capitale e interesse
3.5.Due nazioni possono scambiare in base alla legge del profitto in modo da ottenere entrambe un profitto, ma una viene sempre avvantaggiata.
3.5 IL CAPITALE FRUTTIFERO. TRASFORMAZIONE DEL PLUSVALORE IN PROFITTO
Il capitale fruttifero. Interesse. Profitto. (Costi di produzione ecc.)
3.5.1 - [Saggio del profitto. Caduta dei saggio del profitto. Saggio del profitto. Massa del profitto. Atkinson - A. Smith - Ramsay - Ricardo- Il plusvalore in quanto profitto esprime una proporzione decrescente. - Wakefield - Carey - Bastiat]
Il capitale è posto ora come unità della produzione e della circolazione, e il plusvalore che esso crea in un determinato periodo di tempo, per esempio, un anno, è
PT: (p+c) = PT : R
P.[T:p-T:p.(c:(c+p))]
Il capitale è ora realizzato non solo come valore che si riproduce e quindi si perpetua, ma anche come valore che crea valore. Mediante l'assorbimento in sé del tempo di lavoro vivo da un lato, e il movimento di circolazione che gli è proprio (ove il movimento di scambio viene posto come suo proprio movimento, come processo immanente del lavoro oggettivato), esso si riferisce a se stesso come creatore di un nuovo valore, come produttore di valore.
Esso si riferisce al plusvalore come il fondamento a ciò che da esso è fondato. Il suo movimento consiste nel fatto che, mentre esso si produce, si riferisce contemporaneamente, come fondamento di sé in quanto fondato, come valore presupposto, a sé medesimo in quanto plusvalore o al plusvalore in quanto posto da esso. In un determinato periodo di tempo, che è posto come misura unitaria delle sue rotazioni in quanto misura naturale della sua riproduzione in agricoltura, il capitale produce un determinato plusvalore, determinato non soltanto dal plusvalore che esso crea in un solo processo di produzione, ma anche dal numero di ripetizioni del processo di produzione o delle sue riproduzioni in un determinato periodo di tempo. Attraverso l'assunzione, entro il suo processo di riproduzione, della circolazione, ossia del suo movimento al di fuori del processo di produzione immediato, il plusvalore si presenta come posto non più dal suo
semplice e immediato riferimento al lavoro vivo; questo rapporto si presenta anzi soltanto come un momento del suo movimento complessivo. Il capitale, muovendo da sé quale soggetto attivo, soggetto del processo — e nella rotazione il processo di produzione immediato si presenta in realtà come determinato dal suo movimento di capitale indipendentemente dal suo rapporto col lavoro — si riferisce a sé come al valore moltiplicantesi, ossia si riferisce al plusvalore come a ciò che esso ha creato e fondato; come fonte di produzione, a se stesso come prodotto; come valore che produce, a se stesso come valore prodotto. Esso perciò misura il valore nuovo prodotto non più attraverso la sua misura reale, ossia attraverso il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario, bensì su se stesso come suo presupposto. Un capitale di un determinato valore produce, in un determinato periodo di tempo, un determinato plusvalore. Siffatto plusvalore misurato sul valore del capitale presupposto, siffatto capitale posto come valore valorizzantesi — è il profitto considerato sotto questa specie non aeterni bensì capitalis, il plusvalore è profitto; sicché il capitale, al suo interno, distingue sé come capitale o valore che produce e riproduce, da sé come profitto o valore nuovo prodotto. Il prodotto del capitale è il profitto. La grandezza "plusvalore" viene dunque misurata sulla grandezza di valore del capitale, e il saggio del profitto viene dunque determinato dalla proporzione tra il suo valore ed il valore del capitale. Una notevolissima parte di argomenti che riguardano questo punto è stata sviluppata precedentemente. Ma ciò che si è anticipato va inserito qui. Nella misura in cui il valore nuovo creato, che è della medesima natura del capitale, viene a sua volta assunto nel processo di produzione, e si conserva a sua volta come capitale, il capitale stesso si trova ad essere accresciuto agendo quindi come capitale di maggior valore. Dopo aver distinto il profitto quale valore nuovo prodotto da sé medesimo quale valore valorizzantesi presupposto, ed aver posto il profitto come misura della sua valorizzazione, esso sopprime nuovamente la separazione e pone il profitto nella sua identità con sé in quanto capitale che ora, accresciuto del profitto, ricomincia il medesimo processo in più vaste dimensioni. Descrivendo il suo circolo esso si allarga come soggetto del circolo stesso, e così descrive un circolo che si espande, una spirale.
Le leggi generali precedentemente sviluppate vanno brevemente riassunte così: il plusvalore reale è determinato dal rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario, o dal rapporto tra la porzione di capitale — ovvero porzione di lavoro oggettivato — che si scambia col lavoro vivo e la porzione di lavoro oggettivato mediante la quale esso viene reintegrato. Ma il plusvalore nella forma di profitto viene misurato sul valore totale del capitale presupposto al processo di produzione. Il saggio del profitto dipende quindi — presupposto il medesimo plusvalore, ossia il medesimo pluslavoro in rapporto al lavoro necessario —dal rapporto tra la parte di capitale che viene scambiata col lavoro vivo, e la parte che esiste sotto forma di materia prima e mezzo di produzione. Quanto più si restringe dunque la porzione scambiata col lavoro vivo, tanto più basso diventa il saggio del profitto. Sicché, nel medesimo rapporto in cui nel processo di produzione il capitale in quanto capitale acquista uno spazio maggiore in proporzione al lavoro immediato, quanto più cioè cresce il plusvalore relativo — ossia la forza creatrice di valore del capitale —, tanto più cade il saggio del profitto. Noi abbiamo visto che la grandezza del capitale già presupposto, presupposto alla riproduzione, si esprime specificamente nell'aumento del capitale fisso in quanto produttività prodotta, in quanto lavoro oggettivato dotato di una vita apparente. Il totale del valore del — capitale impegnato nella produzione si esprimerà, in ogni sua porzione, come diminuita proporzione del capitale scambiato con lavoro vivo rispetto alla parte di capitale che esiste come valore costante. Prendiamo per esempio l'industria manifatturiera. Nella medesima proporzione in cui cresce il capitale fisso, il macchinario ecc., deve qui crescere la parte di capitale che esiste sotto forma di materie prime, mentre diminuisce la parte scambiata col
lavoro vivo. In rapporto alla grandezza di valore del capitale presupposto alla produzione — e della parte di capitale che nella produzione agisce come capitale — il saggio del profitto, dunque, cade. Più ampia è l'esistenza già acquisita dal capitale, tanto più ristretto è il rapporto del valore di nuova creazione rispetto al valore presupposto (valore riprodotto). Presupposto un identico plusvalore, ossia un identico rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario, il profitto può perciò essere disuguale, e deve esserlo in rapporto alla grandezza dei capitali. Il saggio di profitto può cadere, anche se sale il plusvalore reale. Il saggio di profitto può salire, anche se il plusvalore reale cade. Può accadere in effetti che il capitale aumenti e aumenti nella stessa proporzione il saggio del profitto, se il rapporto tra la parte di capitale presupposto come valore, quella cioè che esiste sotto forma di materie prime e capitale fisso, aumenta proporzionalmente alla parte di capitale scambiato con lavoro vivo. Ma questa simmetria presuppone un aumento del capitale senza aumento e sviluppo della produttività del lavoro. L'un presupposto toglie l'altro. Ciò contraddice alla legge di sviluppo del capitale e specialmente allo sviluppo del capitale fisso. Un progresso di tal genere può verificarsi solamente a livelli in cui il modo di produzione del capitale non gli è ancora adeguato, oppure in sfere di produzione tali, in cui esso si è arrogato un dominio ancora solamente formale, per esempio nell'agricoltura. Qui la fertilità naturale del terreno può fare le funzioni dell'aumento del capitale fisso — il tempo di lavoro supplementare relativo può cioè crescere —, senza che si restringa la quantità di lavoro necessario. (Per esempio negli Stati Uniti). Il profitto lordo, ossia il plusvalore, considerato al di fuori della sua relazione formale, non come proporzione, ma come semplice grandezza di valore senza relazione con un'altra, crescerà, in media, non in ragione del saggio del profitto, ma in ragione della grandezza del capitale. Se dunque il saggio del profitto è inversamente proporzionale al valore del capitale, la massa del profitto sarà direttamente proporzionale ad esso. Se nonché anche questa proposizione è vera soltanto per un limitato grado di sviluppo della produttività del capitale o del lavoro. Un capitale di 100 con un profitto del 10% dà una massa di profitto inferiore rispetto ad un capitale di 1000 con un profitto del 2%. Nel primo caso la somma è 10, nel secondo 20, ossia il profitto lordo del capitale più grande è due volte quello del capitale 10 volte più piccolo, sebbene il saggio di profitto del più piccolo sia 5 volte più grande di quello del più grande. Ma se il profitto del capitale più grande fosse soltanto 1%, allora la massa dei profitto sarebbe 10, come per il capitale 10 volte più piccolo, perché il saggio di profitto è diminuito nella medesima proporzione della sua grandezza. Se il saggio di profitto, per il capitale di 1000, fosse soltanto 1/2%, allora la massa del profitto sarebbe soltanto la metà di quella del capitale più piccolo, soltanto 5, perché il saggio di profitto è 20 volte più piccolo.
In termini generali, dunque: se il saggio di profitto per il capitale più grande diminuisce, ma non proporzionalmente alla sua grandezza, aumenta il profitto lordo, quantunque diminuisca il saggio del profitto. Se il saggio di profitto diminuisce proporzionalmente alla sua grandezza, allora il profitto lordo rimane lo stesso, come quello del capitale più piccolo; rimane stazionario. Se il saggio di profitto diminuisce in proporzione superiore all'aumento della sua grandezza, allora il profitto lordo del capitale più grande, paragonato col più piccolo, diminuisce in misura uguale alla diminuzione del saggio di profitto.
Questa è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. È una legge, che ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente. Se è vero che questa diminuzione del saggio del profitto è sinonimo: 1) della produttività già prodotta e della base materiale che essa forma per la nuova produzione; il che presuppone contemporaneamente un
enorme sviluppo del potenziale scientifico; 2) della diminuzione della parte di capitale già prodotto che deve essere scambiata con lavoro immediato, vale a dire della diminuzione del lavoro immediato richiesto per la riproduzione di un valore immenso, il quale si esprime in una maggiore massa di prodotti, una maggiore massa di prodotti a prezzi bassi, giacché la somma globale dei prezzi è = al capitale riprodotto + il profitto; 3) della, dimensione del capitale in generale, anche della porzione di esso che non è capitale fisso; e quindi di un grandioso sviluppo commerciale, di una grande massa di operazioni di scambio, di vastità del mercato e universalità del lavoro simultaneo; di mezzi di comunicazione ecc., di disponibilità dei fondi di consumo necessari ad intraprendere questo processo grandioso (gli operai mangiano, hanno una casa ecc.): se è vero questo, allora si vede che la produttività già materialmente esistente, già elaborata ed esistente sotto forma di capitale fisso, e il potenziale scientifico, e la popolazione ecc., insomma tutte le condizioni della ricchezza, cioè le condizioni massime per la riproduzione della ricchezza, vale a dire lo sviluppo ricco dell'individuo sociale —, si vede, dicevamo, che lo sviluppo delle forze produttive che il capitale stesso arreca nel suo sviluppo storico, giunto ad un certo punto, sopprime l'autovalorizzazione del capitale invece di crearla. Al di là. di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto del capitale diventa un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro. Giunto a questo punto, il capitale, ossia il lavoro salariato, si pone, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e poiché rappresenta una catena, viene necessariamente eliminato. L'ultimo aspetto servile che l'attività umana assume, quella del lavoro salariato da una parte, del capitale dall'altra, subisce con ciò una muta radicale, e questa stessa muta radicale è il risultato del modo di produzione corrispondente al capitale; le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale, che a loro volta sono già la negazione di precedenti forme di produzione sociale non libera, sono esse stesse risultati del processo di produzione del capitale. Nelle contraddizioni, nelle crisi, nelle convulsioni acute, si esprime la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La violenta distruzione di capitale, non per circostanze esterne ad esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più incisiva in cui gli si notifica il suo fallimento e la necessità di far posto ad una superiore condizione di produzione sociale. Né si tratta solamente dello sviluppo del potenziale scientifico, ma della misura in cui esso è già posto come capitale fisso, dell'entità e dell'estensione in cui è realizzato e si è impadronito della totalità della produzione. E si tratta anche dello sviluppo della popolazione ecc., insomma, di tutti i momenti della produzione; giacché la produttività del lavoro, al pari dell'impiego delle macchine, è in rapporto alla popolazione, il cui sviluppo in sé e per sé è già al tempo stesso premessa e risultato dell'aumento dei valori d'uso che devono essere riprodotti, e quindi anche consumati. Poiché questa diminuzione del profitto è sinonimo di diminuzione proporzionale del lavoro immediato rispetto alla grandezza del lavoro oggettivato, che esso riproduce e crea nuovamente, il capitale farà tutti i tentativi per arrestare la diminuzione del livello del rapporto tra lavoro vivo e grandezza del capitale, in generale, e quindi anche tra plusvalore, quando è espresso come profitto, e capitale presupposto, riducendo la parte assegnata al lavoro necessario ed espandendo ancor più la quantità di pluslavoro rispetto all'intero lavoro impiegato. Di qui, il massimo sviluppo della produttività insieme alla massima espansione della ricchezza esistente, coinciderà con il deprezzamento del capitale, la degradazione del lavoratore, e il più esplicito esaurimento della sua forza vitale. Queste contraddizioni conducono, naturalmente, a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione di ogni lavoro e la distruzione di una gran parte di capitale, lo riportano violentemente al punto in
cui esso può continuare ad andare avanti impiegando pienamente le sue capacità produttive senza suicidarsi. Inoltre, queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su più larga scala, e infine al crollo violento del capitale. Nel movimento sviluppato del capitale esistono momenti che arrestano questo movimento non con le crisi ma in modo diverso; così, per esempio, la continua svalutazione di una parte del capitale esistente: la trasformazione di una rilevante parte di capitale in capitale fisso che non funge da agente diretto della produzione; lo sperpero improduttivo di una notevole parte del capitale ecc. (Il capitale, impiegato in maniera produttiva, viene sempre duplicemente reintegrato; e infatti abbiamo visto che la valorizzazione del capitale produttivo presuppone un equivalente. Il consumo improduttivo del capitale lo reintegra da un lato e lo distrugge dall'altro*. Che inoltre la caduta del saggio del profitto possa essere arrestata eliminando le detrazioni sul profitto, per esempio attraverso la riduzione delle imposte, la diminuzione della rendita fondiaria ecc., — questa circostanza esula dall'attuale contesto malgrado la sua importanza pratica, giacché si tratta ugualmente di porzioni di profitto sotto altro nome e fatte proprie da persone diverse dai capitalisti stessi*. La caduta viene anche arrestata mediante la creazione di nuove branche di produzione nelle quali, in proporzione, occorre più lavoro immediato che capitale, o in cui la produttività del lavoro, ossia la produttività del capitale, non è ancora sviluppata). (Ed anche attraverso i monopoli). «Profitto è un termine che denota l'incremento di capitale o di ricchezza; sicché l'incapacità di scoprire le leggi che regolano il saggio di profitto equivale all'incapacità di scoprire le leggi di formazione del capitale» (William Atkinson. Principles of Politicai Economy ecc. London. 1840, p 55). A. Smith ha spiegato la caduta del saggio di profitto con l'aumento del capitale dovuto alla concorrenza reciproca dei capitali1. A ciò gli è stato opposto, da parte di Ricardo, che la concorrenza, se può ridurre i profitti ad un livello medio nelle diverse branche d'industria, livellandone il saggio, non può però abbassare questo stesso saggio medio2. La tesi di A. Smith intanto è esatta, in quanto è nella concorrenza che le leggi immanenti al capitale, le sue tendenze, giungono a realizzarsi — ossia nell'azione di un capitale su un capitale. Ma è falsa nel senso in cui egli la intende, come se cioè la concorrenza imponesse al capitale leggi esterne, introdotte dall'esterno, che non sono sue leggi intrinseche. La concorrenza può abbassare permanentemente il saggio di profitto in tutte le branche dell'industria, e cioè il saggio medio di profitto, solo se e solo in quanto è possibile pensare ad una caduta generale e permanente, che agisca come legge, del saggio di profitto prima della concorrenza e senza riguardo alla concorrenza. La concorrenza esegue le leggi interne del capitale; le rende leggi coercitive per il singolo capitale, ma non le
*La medesima legge si esprime semplicemente — ma questa espressione va considerata più avanti a proposito della teoria della popolazione — come rapporto tra aumento della popolazione — e specialmente della sua parte che lavora — e capitale già presupposto.
*Come questa stessa legge si esprima in altro modo, nel rapporto reciproco di una molteplicità di capitali, ossia nella concorrenza — anche questa circostanza rientra in un'altra sezione. Può essere anche enunciata come legge dell'accumulazione dei capitali; come fa per esempio Fullarton. Ma ne parleremo nella prossima sezione. È importante richiamare l'attenzione sul fatto che, riguardo a questa legge, non si tratta
semplicemente dello sviluppo della capacità produttiva [n.d.r.: qui il testo di Marx riporta una parola in
greco, che in questo testo non è riproducibile] bensì al tempo stesso dell'ambito in cui questa capacità produttiva agisce come capitale, realizzandosi da un lato, e anzitutto, in termini di capitale fisso, dall'altro in termini di popolazione.
1 Cfr. A. SMITH, Recherches ecc., cit., t. I, p. 193 [Ricchezza delle nazioni, p. 81]; cfr. MEGA I/3, pp. 467-
468.
2 Cfr. D. Ricardo, On the principles ecc. C338-339 [Principi, pp 213-214], e quaderno Vili, Grundrisse p.832;
cfr. MEGA I/3 pp. 509-511
escogita. Le realizza. Volerle perciò spiegare semplicemente in base alla concorrenza significa ammettere di non capirle. Ricardo da parte sua dice: «Nessuna accumulazione di capitali può abbassare permanentemente i profitti, se una causa ugualmente permanente non innalza i salari» (p. 92, t. Il, Paris 1835, traduzione Constando)3. Questa causa egli la trova nella crescente, relativamente crescente, improduttività dell'agricoltura, «nella crescente difficoltà di aumentare la quantità dei mezzi di sussistenza»4, ossia nell'aumento proporzionale del salario, ma tale che il lavoro non riceve realmente di più, mentre il prodotto riceve maggior lavoro; in una parola: si richiede una maggiore quota di lavoro necessario per la produzione di prodotti agricoli. La caduta tendenziale del saggio di profitto corrisponde perciò, per lui, ad un aumento nominale del salario e ad un aumento reale della rendita fondiaria. Il suo procedimento logico unilaterale, che coglie soltanto un singolo caso — nella fattispecie, che il saggio di profitto può cadere perché sale momentaneamente il salario ecc. —, e che eleva a legge generale una situazione storica tipica di un periodo di 50 anni, la quale nei successivi 50 anni si inverte, e in generale si basa sullo squilibrio storico tra lo sviluppo dell'industria e quello dell'agricoltura (in sé e per sé era abbastanza comico che Ricardo, Malthus ecc., in un'epoca in cui la chimica applicata alla fisiologia quasi non esisteva ancora, mettessero in piedi leggi generali ed eterne su di essa), questo procedimento logico di Ricardo, dicevamo, è stato perciò attaccato da ogni lato più per istinto che perché sia falso e insoddisfacente; il più delle volte, però, più dal suo lato vero che da quello falso.
«A. Smith riteneva che l'accumulazione o l'incremento di capitale in generale abbassasse il saggio generale di profitto, in base al medesimo principio per cui l'incremento di capitale in una particolare branca d'industria abbassa i profitti di quella branca. Ma tale incremento di capitale in una particolare branca d'industria significa un incremento in proporzione, cioè relativo, piuttosto che un incremento simultaneo del capitale in altre branche» (p. 9, An Inquiry intho those Principles respecting the Nature of Demand and the Necessity of Consumption, lately advocated by Mr. Malthus. London 1821 )5. «La concorrenza tra i capitalisti industriali può livellare i profitti particolarmente emergenti al di sopra del livello ma non abbassa questo livello abituale ( Ramsay, IX, 88)6 . (Ramsay ed altri economisti pongono giustamente una differenza tra l'aumento della produttività che si verifica nelle branche industriali che sviluppano il capitale [ fisso, e naturalmente i salari, e quello che si verifica in altre industrie, per esempio nelle industrie che producono articoli di lusso. Queste ultime non possono ridurre il tempo di lavoro necessario. Ma possono farlo mediante lo scambio con i prodotti agricoli di paesi esteri, e allora è come se la produttività fosse aumentata nell'ambito dell'agricoltura. Donde l'importanza del libero commercio del grano per i capitalisti industriali). Ricardo (edizione inglese di On the Principles of Politicai Economy and Taxation. Ili edition. London 1821) afferma: «L'agricoltore e il manifatturiere non possono vivere senza profitti più che il lavoratore senza salari» (p. 123 La). «È una tendenza naturale dei profitti, quella di cadere, perché col progredire della società e della ricchezza il nutrimento in più richiede sempre più lavoro. Questa tendenza, questa gravitazione dei profitti viene arrestata, ad intervalli ricorrenti, attraverso perfezionamenti delle macchine che hanno attinenza con la produzione degli oggetti di prima necessità, e così pure dalle scoperte scientifiche nel campo dell'agricoltura, che riducono i costi di
3 Cfr. MEGA I/3, p. 509 [Principi p. 213]
4 cfr. ibidem, p. 509 [ibidem p. 213].
5 Cfr. An Enquiry into those Principles respecting the Natura o/ Demand and the Necessity of Consumption,
Lately Advocated by Mr. Malthus, London 1821, p. 59. [Opera anonima; estratti, nel quaderno londinese XII,
alla cui pagina si riferisce l'indicazione «9»].
6 G. RAMSAY, An Essayecc, cit,. 179-180; « IX, 88» si riferisce al quaderno di estratti.
produzione» (le. p. 121)7. Ricardo mescola subito, immediatamente, il profitto col plusvalore, senza realizzare, in generale, la dovuta differenza. Mentre invece [il saggio] del plusvalore è determinato dal rapporto tra il pluslavoro impiegato dal capitale e il lavoro necessario, il saggio del profitto non è altro che il rapporto tra il plusvalore e il valore totale del capitale presupposto alla produzione. La sua proporzione decresce e aumenta quindi a seconda del rapporto tra la parte del capitale scambiato con il lavoro vivo e quella che esiste sotto forma di materiale e di capitale fisso. In tutte le circostanze il plusvalore considerato come profitto deve esprimere una proporzione del profitto inferiore alla proporzione reale del plusvalore. In tutte le circostanze, infatti, esso viene misurato sul
I
capitale totale, che è sempre maggiore di quello impiegato in salari e scambiato con lavoro vivo. Siccome Ricardo confonde con tanta semplicità il plusvalore col profitto, e plusvalore può diminuire costantemente, ossia tendenzialmente, solo se diminuisce rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario, il lavoro cioè richiesto per la riproduzione della forza lavoro — e però ciò è possibile solo se diminuisce la produttività del lavoro — lo stesso Ricardo allora suppone che la produttività del lavoro, mentre nell'industria aumenta con l'accumulazione del capitale, diminuisce nell'agricoltura. Dall'economia, si rifugia nella chimica organica. Noi abbiamo dimostrato la necessità di questa tendenza senza alcun riguardo alla rendita fondiaria, così come non dovevamo prendere in considerazione per esempio la domanda crescente di lavoro ecc. La connessione tra rendita fondiaria e profitto va discussa solo in sede di considerazione della rendita fondiaria stessa, mentre non rientra nell'attuale contesto. Che poi il postulato fisiologico di Ricardo, espresso come legge generale, sia falso, lo ha dimostrato la chimica moderna8. Ecco perché i seguaci di Ricardo, quando non si limitano a ripeterlo pappagallescamente, hanno tranquillamente lasciato cadere, come in generale tutta l'economia contemporanea, quel che sembrava loro inaccettabile dei principi del maestro. Il loro metodo generale di risolvere il problema è di lasciarlo cadere. Altri economisti, come per esempio Wakefield, si rifugiano nella considerazione del campo di impiego per il capitale crescente. Ciò rientra nella considerazione della concorrenza, e rappresenta piuttosto la difficoltà del capitale di realizzare un profitto crescente; quindi, negazione della tendenza immanente alla caduta del saggio di profitto. Ma la necessità che il capitale ha di cercare un campo di impiego sempre più esteso è essa stessa, a sua volta, una conseguenza. Non si possono annoverare Wakefield e altri come lui tra coloro che hanno posto il problema stesso (che in una certa misura è una riproduzione della teoria di A. Smith). Infine, tra gli economisti più moderni, teorici dell'armonia, capeggiati dall'americano Carey, e di cui il più petulante galoppino è stato il francese Bastiat (detto per inciso, è una magnifica ironia della storia che i libero scambisti del continente ripetano pappagallescamente il signor Bastiat il quale da parte sua attinge la sua scienza dal protezionista Carey), prendono atto della tendenza del saggio di profitto a cadere proporzionalmente all'aumento del capitale produttivo, ma la spiegano con santa semplicità in base all'aumento del valore della quota spettante al lavoro, cioè della proporzione che l'operaio riceve sul prodotto lordo, mentre il capitale verrebbe compensato dall'aumento dei profitti lordi. Gli spiacevoli contrasti, gli antagonismi, in cui si muove l'economia classica, e che Ricardo sottolinea con spietatezza scientifica, vengono così diluiti in serene armonie. Lo svolgimento di Carey ha ancora qualche elemento specioso, come in fondo egli stesso pensa. Tale svolgimento riguarda una legge che dovremo considerare solo in occasione della teoria della concorrenza, dove
7 Cfr. Principi, p. 79.
8 Cfr. JUSTUS V. LIEBIG, Die organische Chemie in ihrer Anwendung auf Agrikultur und Physiologie, 4.
Auflage, Braunschweig 1842. J. F W. JOHNSTON, Lectures on Agricultural Chemistry and Geology, 2 ed.,
London 1847. J. F. W. JOHNSTON, Catechism of Agricultural Chemistry and Geology, 23 ed., Edinburgh
1849. [Estratti da tutte e tre le opere, nei quaderni londinesi XII, XIII, XIV]
regoleremo i conti con essa. Invece con l'insulsaggine di Bastiat, con i suoi paradossali e levigati luoghi comuni e la sua suprema povertà mentale nascosta sotto una logica formale, possiamo sbrigaircela subito*. Nella Gratuite du Crédit. Discussion entre M. Pr. Bastiat et M. Proudhon. Paris 1850 (Proudhon sia detto per inciso, fa una ben ridicola figura in questa polemica, dove egli nasconde la sua impotenza dialettica sotto una arroganza retorica) si dice, nella lettera Vili del Bastiat (nella quale, anche questo sia detto per inciso, con santa semplicità l'illustre trasforma con la sua dialettica delle armonie il profitto che in base alla divisione del lavoro spetta al costruttore della strada tanto quanto al suo utente, in un profitto spettante alla «strada» stessa, (ossia al capitale))9; «A misura che i capitali aumentano (e con essi i prodotti), aumenta la parte assoluta che spetta al capitale e diminuisce la sua parte proporzionale. A misura che i capitali aumentano (e con essi i prodotti), la parte proporzionale e la parte assoluta spettante al lavoro
aumentano Poiché il capitale vede ingrandire la sua parte assoluta pur non prelevando
successivamente che 1/2, 1/3, 1/4, 1/5 del prodotto totale, Il lavoro, a cui tocca successivamente 1/2 2/3, 3/4, 4/5, evidentemente entra nella ripartizione per una parte progressiva, sia in senso proporzionale che in senso assoluto». Come illustrazione egli adduce (pp. 130, 131):
Periodo Prodotto totale Parte del capitale Parte del lavoro
I 1.000 1/2 o 500 1/2 o 500
II 1.800 Vz o 600 % o 1.200
III 2.800 % o 700 3/4o2.100
IV 4.000 1/5 o 800 4/5 o 3.200
La stessa storiella è ripetuta a p. 288 in questa versione: aumento del profitto assoluto e contemporanea diminuzione del saggio di profitto, ma aumento della quantità dei prodotti, venduti a prezzi più bassi; per l'occasione si parla con molta gravità della «legge di una decrescenza indefinita che non giunge mai a zero, legge ben nota ai matematici», (p. 288). «Qui vediamo» (ciarlatano) «un moltiplicatore decrescere incessantemente perché il moltiplicando si accresce continuamente» (p. 288, Le).
Ricardo aveva presentito il suo Bastiat. Ponendo in risalto l'aumento della massa del profitto insieme all'aumento del capitale e malgrado la diminuzione del saggio del profitto — anticipando quindi tutta la scienza bastiatiana, egli non manca di osservare che questa progressione «vale soltanto per un determinato periodo». Egli dice testualmente: «Per quanto notevole possa essere la diminuzione del saggio dei profitti del capitale provocata dall'accumulazione del capitale nella terra e da un aumento del salario» (per il quale, nota bene, Ricardo intende un aumento dei costi di produzione dei prodotti della terra indispensabili al mantenimento della forza-lavoro), «non di meno deve aumentare l'importo complessivo dei profitti.
Posto ad esempio che ripetute accumulazioni di 100.000 I. facciano cadere il saggio del profitto dal 20 al 19, 18, 17%, possiamo aspettarci che l'importo complessivo dei profitti percepiti dai successivi possessori del capitale progredirà costantemente; che esso diventerà maggiore quando il capitale è di 200.000 I. che non quando è di 100.000; ancora maggiore quando è di 300.000; e che andrà via via crescendo ad ogni aumento di capitale, sebbene ad un saggio decrescente. Questa progressione però vale soltanto per un certo periodo: così il 19% su 200.000 I. è più del 20% su 100.000; il 18% su 300.000 è
* A questo punto si può inserire qualcosa del quaderno I sui contrasto Carey-Bastiat ( Cfr. in questa edizione dei Grundrisse l'Appendice I, « Bastiat e Carey»).
9 Cfr. op. cit., p. 122,
più del 19% su 200.000; ma dopo che il capitale accumulato ha raggiunto un importo considerevole e i profitti sono diminuiti, l'accumulazione ulteriore riduce la massa dei profitti. Così, se supponiamo che vi sia una accumulazione di 1.000.000 e i profitti siano del 7%, l'importo complessivo dei profitti sarà 70.000 I.; se ora si aggiungono 100.000 I. al milione, e i profitti diminuiscono al 6%, i possessori del capitale percepiscono 66.000 I., ovvero 4.000 I. in meno, sebbene l'importo del capitale sia aumentato da 1.000.000 a 1.100.000» (l.c. p. 124, 125)10. Naturalmente questo impedisce tanto poco al sig. Bastiat di intraprendere l'operazione da scolaretto consistente nel far crescere il moltiplicando in modo tale che, decrescendo nel frattempo il moltiplicatore, il primo rappresenti un prodotto crescente, quanto le leggi della produzione hanno impedito al Dr. Price l'istituzione del suo calcolo dell'interesse composto. Se il saggio del profitto decresce, decresce rispetto al salario, che di conseguenza deve crescere in proporzione e in assoluto. Questa la conclusione di Bastiat (Ricardo vide questa tendenza alla caduta del saggio di profitto parallelamente all'aumento del capitale; e poiché egli scambia il profitto col plusvalore, dovette far aumentare il salario perché il profitto diminuisse, Ma poiché nello stesso tempo vide che il salario, realmente, diminuiva più che aumentare, egli fece aumentare il suo valore, ossia la quantità di lavoro necessario, senza far aumentare il suo valore d'uso. In realtà quindi non fece altro che far aumentare la rendita fondiaria. Senonché l'armonico Bastiat scopre che con l'accumulazione dei capitali il salario cresce in proporzione e in assoluto). Egli prima presuppone quel che va dimostrato, e cioè che la diminuzione del saggio di profitto si identifica con l'aumento del saggio del salario, e poi «illustra» il suo presupposto con un esempio aritmetico che sembra averlo tanto divertito3. Che la diminuzione del saggio di profitto non esprima altro che la diminuzione del rapporto in cui il capitale complessivo ha bisogno del lavoro vivo per la sua riproduzione — questa è cosa diversa. Il sig. Bastiat trascura la piccola circostanza che, nel suo presupposto, sebbene il saggio di profitto del capitale diminuisca, aumenta però il capitale, il capitale presupposto alla produzione. Che il valore del capitale non possa aumentare senza che questo si appropri di pluslavoro — di ciò avrebbe potuto avere qualche sentore persino il sig. Bastiat. Che il semplice aumento di prodotti non aumenti il valore — questo glielo potrebbero indicare le monotone lamentazioni sui raccolti eccedenti nella storia di Francia. Il problema allora verterebbe semplicemente attorno alla ricerca: se la caduta del saggio di profitto è sinonimo di aumento del saggio di pluslavoro in rapporto al lavoro necessario, o non piuttosto di caduta del saggio complessivo di lavoro vivo impiegato, in rapporto al capitale riprodotto. Il sig. Bastiat perciò suddivide anche il prodotto semplicemente tra il capitalista e l'operaio, invece di suddividerlo in materia prima, strumento di produzione e lavoro, e domandarsi in quali parti aliquote il suo valore venga impiegato nello scambio con queste diverse porzioni. La parte di prodotto scambiata con materia prima e strumento di produzione non riguarda evidentemente gli operai. Quel che essi dividono col capitale, come salario e profitto, non è altro che lo stesso nuovo lavoro vivo aggiunto. Ma il problema che specialmente affligge Bastiat è chi diavolo può accaparrarsi il prodotto aumentato. Se il capitalista se ne accaparra una parte relativamente modesta, l'operaio non se ne accaparra necessariamente una parte relativamente grande? In Francia specialmente, la cui produzione globale dà da mangiare molto tutt'al più nella fantasia di Bastiat, costui poteva convincersi che attorno al capitale vegeta una massa di corpi parassitari che a questo o quel titolo succhia dalla produzione globale tanto da "non far crescere all'operaio gli alberi oltre la testa". Che del resto con la produzione su vasta scala la massa totale del lavoro impiegato possa aumentare anche se diminuisce la proporzione
10 Cfr. quaderno Vili, Grundrisse, p. 827 [Principi p. 81).
a Cancellato nel ms. «Certamente, se il saggio del profitto diminuisce, esso deve diminuire in rapporto a qualcosa, e questo qualcosa è il capitale stesso ».
del lavoro impiegato rispetto al capitale, è cosa evidente, come è evidente che con questo nulla osta a che, aumentando il capitale, una popolazione lavoratrice in aumento abbia bisogno di una maggior quantità di prodotti. Del resto il sig. Bastiat, nel cui armonico cervello tutte le vacche sono nere (vedi sopra: salario)11, scambia la diminuzione dell'interesse con l'aumento del salario, mentre piuttosto si tratta di un aumento del profitto industriale che non riguarda l'operaio ma soltanto il rapporto in cui varie species di capitalisti si spartiscono il profitto totale.
3.5.2 - [Capitale e reddito (profitto). Produzione e distribuzione. Sismondi. - Costi di produzione dal punto di vista del capitale. - Profitto, idem [dal punto di vista del capitale]. - Disuguaglianza dei profitti. - Livellamento e saggio di profitto generale. -Trasformazione del plusvalore in profitto. - Leggi]
Ritorniamo in argomento . Il prodotto del capitale è dunque il profitto. Il capitale, riferendosi a se stesso come profitto, si riferisce a se stesso come fonte di produzione del valore, e il saggio del profitto esprime la proporzione in cui esso ha moltiplicato il proprio valore. Ma il capitalista non è solamente capitale. Egli deve vivere, e siccome non vive di lavoro, deve vivere di profitto, ossia del lavoro altrui di cui si è appropriato. Il capitale si pone, quindi, come fonte della ricchezza. Il capitale — avendo incorporato in sé la produttività come qualità immanente — si riferisce al profitto come reddito. Può consumarne una parte (apparentemente, tutto, ma si vedrà che è falso) senza cessare di essere capitale. Dopo aver consumato questo frutto, può ricominciare a dar frutti. Può rappresentare la ricchezza gaudente, senza cessare di rappresentare la forma generale della ricchezza, il che era impossibile al denaro nella circolazione semplice. Esso doveva "astenersi", per rimanere forma generale della ricchezza; oppure cessare di essere forma generale della ricchezza per sperperarsi in ricchezza reale, in godimenti. Il profitto si presenta così come forma di distribuzione, al pari del salario. Ma poiché il capitale può crescere soltanto mediante la ritrasformazione del profitto in capitale — il pluscapitale — il profitto è altresì forma di produzione per il capitale; proprio come il salario dal punto di vista del capitale è un semplice rapporto di produzione, dal punto di vista dell'operaio un rapporto di distribuzione. Qui si vede come i rapporti di distribuzione stessi sono prodotti da rapporti di produzione e li rappresentano da un altro punto di vista. Si vede inoltre come il rapporto tra produzione e consumo è posto dalla produzione stessa. L'insulsaggine di tutti gli economisti borghesi, per esempio anche di J. St. Mill, che ritiene eterni i rapporti borghesi di produzione ma storiche le loro forme di distribuzione, rivela che egli non capisce né gli uni né le altre. Riguardo allo scambio semplice osserva giustamente Sismondi: «Uno scambio presuppone sempre due valori; ciascuno può avere un destino diverso; ma la qualità di 'capitale' e 'reddito' non deriva dall'oggetto scambiato; essa si unisce alla persona che ne è proprietaria» (Sismondi, VI)12. Perciò il reddito non è spiegabile in base ai semplici rapporti di scambio. La qualità che un valore mantenuto nello scambio ha di rappresentare capitale o reddito è determinata da rapporti che trascendono il semplice scambio. È sciocco perciò voler ridurre queste forme più complesse a quei semplici rapporti di scambio come fanno gli armonici liberoscambisti.
11 Cfr. nell'Appendice I, «Bastiat e Carey», il frammento Dei salari.
12 Cfr. J.-C.-L. S. DE SISMONDI, Nouveaux Principes ecc, cit., t. I, p. 90 (Nuovi principii, p. 484].
Dal punto di vista del semplice scambio, e considerando l'accumulazione come semplice accumulazione di denaro (valore di scambio), il profitto e il reddito del capitale sono impossibili. «Se i ricchi spendono la ricchezza accumulata in prodotti di lusso — e possono ottenere merci soltanto attraverso lo scambio — il loro fondo si esaurisce ben presto ... ma nell'ordine sociale la ricchezza ha acquisito la qualità di riprodursi attraverso il lavoro altrui. La ricchezza, come il lavoro e mediante il lavoro, dà un frutto annuale che può essere distrutto ogni anno senza che il ricco diventi per questo più povero. Il frutto è il reddito, che corrisponde al capitale» (Sismondi, IV)13 . Se quindi il profitto si presenta come risultato del capitale, d'altra parte esso è il presupposto della formazione del capitale. E così è posto di nuovo il movimento ciclico in cui il risultato si presenta come presupposto. «In tal modo una parte del reddito fu trasformata in capitale, in un valore permanente che si moltiplica, che non perisce mai; questo valore si staccò dalla merce che lo aveva creato; essa rimase al modo di una qualità metafisica, non sostanziale, sempre in possesso del medesimo cultivateur» (il capitalista) «per il quale assumeva diverse forme» (Sismondi, VI)14.
Nella misura in cui il capitale è posto come creatore di profitto, come fonte della ricchezza indipendentemente dal lavoro, si suppone che ogni parte del capitale sia uniformemente produttiva. Come il plusvalore in termini di profitto viene misurato sul valore totale del capitale, così esso è prodotto uniformemente dalle sue diverse componenti. La sua parte circolante quindi (la parte costituita da materie prime e sussistenza) non dà più profitto di quanto ne dia la componente che costituisce capitale fisso; il profitto cioè si riferisce uniformemente a queste componenti secondo la loro grandezza.
Poiché il profitto del capitale si realizza soltanto nel prezzo pagato per esso, cioè per il valore d'uso che esso crea, il profitto viene ad essere determinato dall'eccedenza del prezzo ottenuto sul prezzo che copre le spese. E poiché inoltre questa realizzazione avviene solo nello scambio, per il singolo capitale il profitto non viene necessariamente limitato dal suo plusvalore, ossia dal pluslavoro contenuto in esso; bensì è proporzionale all'eccedenza del prezzo da esso ottenuto nello scambio. Esso può scambiare più del suo equivalente, e allora il profitto è maggiore del suo plusvalore. Questo caso può verificarsi soltanto se l'altro soggetto dello scambio non ottiene un equivalente. Il plusvalore assoluto, al pari del profitto assoluto, che non è altro se non il plusvalore stesso calcolato diversamente, non può mai, attraverso questa operazione, né aumentare né diminuire; non è esso, ma soltanto la sua distribuzione tra i diversi capitali ad esserne modificata . Tuttavia questa considerazione rientra in quella della molteplicità di capitali; non ancora in questo contesto. Rispetto al profitto, il valore del capitale presupposto nella produzione si presenta sotto forma di anticipi — costi di produzione che devono essere risarciti col prodotto. Una volta detratta la parte del prezzo che risarcisce i costi di produzione, la differenza in più forma il profitto. Dal momento che il pluslavoro — ossia profitto e interesse, entrambi non essendo altro che porzioni di esso — non costa nulla al capitale, non rientrando sotto il valore da esso anticipato — ossia sotto il valore che esso possedeva prima del processo di produzione e di valorizzazione del prodotto —, tale pluslavoro, che è racchiuso nei costi di produzione del prodotto e costituisce la fonte del plusvalore, e quindi anche del profitto — non figura tra i costi di produzione del capitale. Questi corrispondono soltanto ai valori che esso ha realmente anticipato, e non al plusvalore di cui si appropria nella produzione e che realizza nella circolazione. / costi di produzione, dal punto di vista del capitale, non sono perciò i costi di produzione reali,
13 Cfr. ibidem, p. 81 (ibidem, p. 481).
14 II riferimento «VI» si riferisce al quaderno di estratti
appunto perché, a lui, il pluslavoro non costa nulla. La differenza in più del prezzo del prodotto sul prezzo dei costi di produzione, gli dà un profitto. Per il capitale dunque può esserci profitto senza che siano realizzati i suoi costi di produzione reali — ossia l'intero pluslavoro che esso ha messo in opera. Il profitto — la differenza in più sugli anticipi fatti dal capitale — può essere inferiore al plusvalore — il surplus di lavoro vivo scambiato dal capitale oltre al lavoro oggettivato che esso ha scambiato con la forza-lavoro. Tuttavia, attraverso la separazione tra interesse e profitto — cosa che vedremo subito — anche una parte del plusvalore diventa costo di produzione per il capitale produttivo. La confusione tra i costi di produzione dal punto di vista del capitale e la quantità di lavoro, pluslavoro incluso, oggettivata nel prodotto del capitale, ha indotto qualcuno a dire che «il profitto non è incluso nel prezzo naturale»15, e che è «assurdo chiamare l'eccedenza o profitto parte della spesa» (Torrens, IX, 30)16. Ciò porta poi ad una gran confusione, e cioè o a non fare realizzare il profitto nello scambio, bensì a farvelo scaturire (cosa che può capitare solo relativamente, se uno dei soggetti dello scambio non ottiene il suo equivalente), oppure ad attribuire al capitale .un potere magico di creare qualcosa dal nulla. Poiché il valore creato nel processo di produzione realizza il suo prezzo nello scambio, il prezzo del prodotto si presenta determinato in realtà dalla somma di denaro che esprime l'equivalente della quantità complessiva di lavoro contenuta nella materia prima, nel macchinario, nei salari e nel pluslavoro non pagato. Qui dunque il prezzo si presenta ancora soltanto come modificazione formale del valore; valore espresso in denaro; ma la grandezza di questo prezzo è presupposta nel processo di produzione del capitale. Quindi il capitale qui determina il prezzo, sì che il prezzo è determinato dagli anticipi fatti dal capitale + il pluslavoro da esso realizzato nel prodotto. Noi vedremo in seguito come viceversa il prezzo determinerà il profitto. E se qui i costi di produzione complessivi reali si presentano come costi che determinano il prezzo, in seguito il prezzo determinerà i costi di produzione. La concorrenza, per imporre al capitale le sue stesse leggi immanenti come una necessità esterna, apparentemente le sconvolge tutte. Le inverte.
Per ripetere ancora una volta: il profitto del capitale non dipende dalla grandezza del capitale stesso; bensì, a pari grandezza, dalla proporzione dei suoi elementi (parte costante e variabile); inoltre dalla produttività del lavoro (la quale però si palesa in quella prima proporzione, giacché, a produttività inferiore, un medesimo capitale non potrebbe elaborare in un medesimo tempo, con la medesima porzione di lavoro vivo, il medesimo materiale); dal tempo di rotazione; il quale è determinato da diverse prò porzioni tra capitale fisso e circolante, dalla diversa durabilità del capitale fisso, ecc. ecc. (vedi sopra). La disuguaglianza del profitto in diverse branche di industria per capitali di uguale grandezza, vale a dire la disuguaglianza del saggio di profitto, è condizione e presupposto delle perequazioni della concorrenza.
Nella misura in cui il capitale ottiene attraverso lo scambio, cioè compera, la materia prima, lo strumento, e il lavoro, i suoi elementi stessi hanno già la forma di prezzi; sono già posti come prezzi; sono un suo presupposto. Confrontare il prezzo di mercato del suo prodotto ai prezzi dei suoi elementi diventa allora per esso una questione decisiva. Ma ciò appartiene soltanto al capitolo sulla concorrenza.
Quindi il plusvalore, che il capitale crea in un dato tempo di rotazione, acquista la forma del profitto nella misura in cui viene misurato sul valore totale del capitale presupposto alla produzione. Mentre invece il plusvalore è misurato direttamente
15 Cfr. R. TORRENS, An Essay ecc., cit., p. 51 [Saggio p. 23].
16 Cfr. ibidem, p. 52 [. ibidem p. 24]. «IX, 30» si riferisce al quaderno di estratti.
mediante il tempo di lavoro supplementare che il capitale guadagna nello scambio col lavoro vivo. Il profitto non è altro che una diversa e più sviluppata — nel senso del capitale —, forma di plusvalore. Il plusvalore qui non è più considerato se non in quanto è scambiato col capitale stesso nel processo di produzione, e non col lavoro. Il capitale in quanto capitale si presenta perciò come valore presupposto che con la mediazione del suo stesso processo si riferisce in quanto valore creato, prodotto, a se medesimo, e il valore che esso crea si chiama profitto.
Le due leggi immediate che ci risultano in questa metamorfosi del plusvalore in profitto, sono queste:
)Il plusvalore espresso come profitto si esprime sempre in una proporzione inferiore all'ammontare reale del plusvalore nella sua realtà immediata. Essa infatti, invece di essere misurata su di una parte del capitale, quella scambiata con lavoro vivo (una proporzione che coincide con quella tra lavoro necessario e pluslavoro), viene misurata sull'insieme. Qualunque sia il plusvalore che un capitale a crea, e qualunque la proporzione, in a, di e e v, ossia della parte costante e della parte variabile del capitale, il plusvalore p deve risultare inferiore, se misurato su e- che non se è misurato sulla sua misura reale v. Il profitto, ovvero — se considerato non in quanto massa assoluta bensì, com'è il più delle volte, in quanto proporzione (il saggio di profitto è il profitto espresso in termini di proporzione in cui il capitale ha creato plusvalore) — ovvero il saggio di profitto non esprime mai il reale saggio di sfruttamento del lavoro da parte del capitale, ma sempre una proporzione inferiore, e quanto più falsa è la proporzione che esso esprime, tanto maggiore è il capitale. Il saggio di profitto potrebbe esprimere il saggio reale del plusvalore solo quando l'intero capitale fosse semplicemente trasformato in salario; se cioè il capitale fosse scambiato interamente con lavoro vivo, se esistesse quindi solo sotto forma di sussistenza, e non solo non esistesse sotto forma di materia prima già prodotta (il che è avvenuto nell'industria estrattiva), vale a dire, non solo la materia prima fosse = 0, ma fossero = 0 anche i mezzi di produzione, sia sotto forma di strumenti che di capitale fisso sviluppato. Questo ultimo caso non può verificarsi sulla base del modo di produzione corrispondente al capitale. Se a = e + v, quale che sia l'entità di p, avremo p/(c+v) < p/v
)La seconda legge fondamentale è che, nella misura in cui il capitale si è già appropriato del lavoro vivo sotto forma di lavoro oggettivato, nella misura in cui cioè il lavoro è già capitalizzato e perciò anche nel processo di produzione agisce in misura crescente sotto forma di capitale fisso, ovvero nella misura in cui la produttività del lavoro aumenta, diminuisce il saggio di profitto. L'aumento della produttività del lavoro è sinonimo di a) aumento del plusvalore relativo o del tempo di lavoro supplementare relativo che l'operaio cede al capitale; b) diminuzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro; e) diminuzione della parte del capitale che in generale si scambia col lavoro vivo, rispetto alle parti di esso che partecipano al processo di produzione sotto forma di lavoro oggettivato e valore presupposto. Il saggio di profitto è perciò inversamente proporzionale all'aumento del plusvalore relativo o del pluslavoro relativo, allo sviluppo delle capacità produttive, e alla grandezza del capitale impiegato nella produzione sotto forma di capitale [costante]. In altri termini, la seconda legge esprime la tendenza del saggio di profitto a cadere parallelamente allo sviluppo del capitale, tanto della sua capacità produttiva quanto del volume in cui esso si è già posto come valore oggettivato; ossia del volume in cui sia il lavoro che la produttività sono diventati capitale.
Altre cause che possono eventualmente agire sul saggio del profitto abbassandolo per periodi più o meno lunghi, non rientrano ancora in questo contesto. È del tutto esatto che, considerato il processo di produzione nella sua totalità, il capitale che agisce come
materiale e capitale fisso non è soltanto lavoro oggettivato bensì deve essere riprodotto, e costantemente riprodotto ex novo mediante il lavoro. La sua consistenza — il volume che esso ha raggiunto — presuppone quindi un certo volume di popolazione lavoratrice, una grande popolazione, che in sé e per sé è la condizione di ogni capacità produttiva, ma questa riproduzione ha luogo in generale sotto il presupposto di un'azione del capitale fisso e della materia prima e del potenziale scientifico, sia come tali che come elementi appropriati alla produzione e già realizzati in essa. Ma questo punto va meglio sviluppato in sede di considerazione della accumulazione.
È inoltre evidente che, sebbene la parte del capitale che si scambia col lavoro vivo, considerata rispetto al capitale totale diminuisca, la massa totale del lavoro vivo impiegato può aumentare o rimanere la stessa, se il capitale aumenta nella medesima o in maggior proporzione. La popolazione può perciò continuamente aumentare in proporzione alla diminuzione del lavoro necessario.
Se il capitale a spende 1/2 in e e 1/2 in v, mentre il capitale a' spende 3/4 in e e 1/4 in v, il capitale a' potrebbe applicare, a 6/4 e, 2/4 v. Ma se all'origine era = 3/4 c+ 1/4 v, ora è = 6/4 c+2/4v, ovvero è aumentato di 4/4; si è cioè raddoppiato. Tuttavia questo rapporto va Indagato più da vicino in sede di teoria dell'accumulazione e della popolazione. Importante soprattutto è di non farci confondere dalle conseguenze che derivano dalle leggi, e dalle continue perplessità che esse suscitano.
Il saggio di profitto, dunque, è determinato non solo dalla proporzione del pluslavoro rispetto al lavoro necessario, ossia dalla proporzione in cui il lavoro oggettivato si scambia con quello vivo, ma anche dalla proporzione generale del lavoro vivo impiegato rispetto al lavoro oggettivato; ossia dal rapporto tra la porzione di capitale che in generale si scambia con lavoro vivo e la parte che partecipa al processo di produzione in qualità di lavoro oggettivato. Ma questa porzione diminuisce nella stessa proporzione in cui il pluslavoro aumenta rispetto al lavoro necessario.
3.5.3 - [Plusvalore = proporzione del pluslavoro rispetto al lavoro necessario]
(Poiché l'operaio deve riprodurre la parte di capitale che viene scambiata con la sua forza-lavoro, né più né meno che le altre parti del capitale, ecco che la proporzione del profitto che il capitalista ricava nello scambio con la forza-lavoro si presenta come determinata dalla proporzione del pluslavoro rispetto al lavoro necessario. All'inizio la cosa assume l'aspetto per cui il lavoro necessario gli, risarcisce soltanto le spese. Ma siccome egli non investe altro che il lavoro stesso — come appare chiaro nella riproduzione —, la proporzione del plusvalore può essere semplicemente espressa come proporzione del pluslavoro rispetto al lavoro necessario).
3.5.4 - [Valore del capitale fisso e sua produttività. Durabilità del capitale fisso, idem (sua produttività]. - Le forze sociali, la divisione del lavoro ecc, non costano nulla al capitale. - Differenza della macchina da tutto questo (economia del capitalista nell'impiego di macchine). - Profitto e plusvalore]
[[Riguardo al capitale fisso — e alla durabilità come sua condizione non estrinseca, va ancora osservato questo: nella misura in cui lo strumento di produzione è esso stesso un valore, un lavoro oggettivato, esso non dà alcun apporto in termini di produttività. Se una macchina la cui costruzione costa 100 giornate lavorative, non facesse altro che risarcire le 100 giornate lavorative, essa non aumenterebbe in alcun modo la produttività del lavoro e non diminuirebbe in alcun modo il costo del prodotto. Quanto più la macchina è durevole, tanto più spesso si può creare con essa la medesima quantità di prodotto, o tanto più spesso il capitale circolante può essere rinnovato, la sua riproduzione ripetuta, e tanto minore è la quota di valore (necessaria a compensare l'uso e consumo della macchina); ossia, tanto più viene ridotto il prezzo del prodotto e, ogni volta, il suo costo di produzione. Ma non possiamo ancora introdurre nell'analisi il rapporto del prezzo. L'abbassamento del prezzo quale condizione per la conquista del mercato è una questione che rientra nella trattazione della concorrenza. Dobbiamo allora sviluppare la questione in altro modo. Se il capitale potesse ottenere lo strumento di produzione senza costi, per 0, quale sarebbe la conseguenza? La stessa che se i costi di circolazione fossero = 0. Ossia, verrebbe ridotto il lavoro necessario a mantenere in efficienza la forza-lavoro e aumentato][ quindi il pluslavoro, vale a dire il plusvalore, senza il benché minimo costo da parte del capitale. Un tale aumento della produttività, equivalente ad un macchinario che non gli costa nulla, è rappresentato dalla divisione del lavoro e dalla combinazione del lavoro nell'ambito del processo di produzione. Ma esso presuppone lavori su larga scala, ossia lo sviluppo del capitale e del lavoro salariato. Un'altra forza produttiva che non gli costa nulla è il potenziale scientifico. (Che poi debba pagare certi contributi per preti, professori, uomini di cultura, piccolo o grande che sia il loro contributo al potenziale scientifico, va da sé). Ma quest'ultima esso può appropriarsela soltanto mediante l'impiego delle macchine. (Anche nel processo chimico, in parte). L'aumento della popolazione è una di tali forze produttive che non gli costano nulla. In breve, tutte le forze sociali che si sviluppano con l'aumento della popolazione e lo sviluppo storico della società, non costano nulla al capitale. Ma finché esse, per poter essere impiegate nel processo di produzione immediato, hanno a loro volta bisogno di un sostrato prodotto dal lavoro, esistente sotto forma di lavoro oggettivato, finché cioè sono esse stesse dei valori, il capitale può appropriarsele soltanto mediante equivalenti. Orbene. Un capitale fisso, il cui impiego costasse più dell'impiego di lavoro vivo, che cioè richiedesse per produrlo o mantenerlo in efficienza più lavoro vivo di quanto ne sostituisca, si risolverebbe in un danno. Laddove un macchinario che non costasse nulla, ma avesse solo bisogno di essere appropriato da parte del capitalista, possederebbe il massimo valore per il capitale. Dal semplice principio che se il valore del macchinario è = 0, questo ha il massimo valore per il capitale, consegue che ogni riduzione del suo costo si risolve in un profitto per il capitalista. Se per un verso la tendenza del capitale è quella di aumentare il valore totale del capitale fisso, al tempo stesso è sua tendenza quella di ridurre il valore di ciascuna parte aliquota di esso. Il capitale fisso, in quanto entra in circolazione come valore, perde la funzione di valore d'uso nel processo di produzione. Il suo valore d'uso è appunto
l'aumento della produttività del lavoro, la riduzione del lavoro necessario, l'aumento del plusvalore relativo, e quindi del plusvalore. In quanto entra in circolazione, il suo valore viene soltanto reintegrato, non aumentato. Al contrario il prodotto, il capitale circolante, è il supporto del plusvalore, che viene realizzato solo quando, uscito dal processo di produzione, entra nella circolazione. Se la macchina durasse eternamente, se non fosse fatta di materiale labile che deve essere riprodotto (prescindendo completamente dalla scoperta di macchine più perfezionare che le tolgano il carattere di macchina), se fosse un perpetuum mobile, corrisponderebbe nella maniera più perfetta al suo concetto. Il suo valore non avrebbe bisogno di essere reintegrato, perchè perdurerebbe in una indistruttibile materialità. Poiché il capitale fisso viene impiegato solo in quanto, come valore, vale meno che come creatore di valore, il plusvalore realizzato nel capitale circolante, anche se il capitale fisso non entrasse mai in circolazione come valore, tuttavia risarcirebbe presto gli anticipi, e in tal modo il capitale fisso agirebbe come creatore di valore, una volta che i suoi costi per il capitalista fossero = 0, al pari di quelli del pluslavoro di cui egli si appropria. Contemporaneamente esso continuerebbe ad agire come capacità produttiva del lavoro e sarebbe denaro nel terzo significato, quello di valore costante per sé stante. Prendiamo un capitale di 1.000 I. Supponiamo che 1/4 di esso sia costituito da macchinario e il plusvalore, in totale, sia = 50. Il valore del macchinario è dunque = 200. Dopo 4 rotazioni il macchinario sarebbe pagato. E oltre al fatto che il capitale continuerebbe a possedere il lavoro oggettivato nel macchinario per il valore di 200, a partire dalla quinta rotazione sarebbe come realizzare 50 con un capitale che gli costa soltanto 800; ossia il 6,5% invece del 5%. Non appena il capitale fisso entra in circolazione come valore, il suo valore d'uso non ha più alcuna funzione ai fini del processo di valorizzazione del capitale; oppure, esso entra in circolazione solo quando tale processo di valorizzazione cessa. Perciò, quanto più è durevole, quanto meno ha bisogno di riparazioni, dell'intera o parziale riproduzione, quanto più lungo è il suo tempo di circolazione, tanto più esso agisce come capacità produttiva del lavoro, come capitale; vale a dire, come lavoro oggettivato che crea pluslavoro vivo. La durata del capitale fisso, che si identifica con la lunghezza del tempo di circolazione del suo valore o del tempo richiesto per la sua riproduzione, scaturisce, come suo momento di valore, dal suo concetto stesso. (Che tale durata, in sé e per sé, da un punto di vista puramente materiale, sia implicita nel concetto di mezzo di produzione — non ha bisogno di spiegazione). Il saggio del plusvalore è determinato semplicemente dalla proporzione del pluslavoro rispetto al lavoro necessario [pv/v]; il saggio del profitto è determinato dalla proporzione, non del pluslavoro rispetto al lavoro necessario, bensì della parte del capitale scambiato con lavoro vivo, rispetto al capitale totale che entra nella produzione [pv/ (c+v)]].
Il profitto quale lo consideriamo ancora in questa sede, cioè come profitto del capitale, non di un singolo capitale a spese di un altro, ma come profitto della classe dei capitalisti — in termini concreti non può mai essere superiore alla massa del plusvalore. Come massa, esso è la massa del plusvalore, ma questa stessa massa di valore in quanto proporzione rispetto al valore totale del capitale, invece che alla parte di esso il cui valore aumenta realmente; quella cioè che viene scambiata con lavoro vivo. Nella sua forma immediata il profitto non è altro che la massa del plusvalore espressa come proporzione rispetto al valore totale del capitale.
3.5.5 - [Macchine e pluslavoro. Ricapitolazione della teoria del plusvalore in generale]
La trasformazione del plusvalore in profitto, questa specie di calcolo del plusvalore attraverso il capitale, per quanto poggi su di una illusione circa la natura del plusvalore, o piuttosto avvolga quest'ultima in un velo, è necessaria dal punto di vista del capitale*.
La riduzione del lavoro necessario rispetto al pluslavoro si esprime — se consideriamo la giornata di un singolo operaio — nella appropriazione da parte del capitale di una porzione maggiore della giornata lavorativa. Il lavoro vivo impiegato rimane qui identico. Poniamo che, in seguito ad un aumento della produttività, dovuto per esempio all'impiego di macchine, 3 su 6 operai, ciascuno dei quali lavora 6 giorni alla settimana, si rendano superflui. Se i 6 operai stessi fossero in possesso delle macchine, lavorerebbero ognuno non più di mezza giornata. Ora invece sono in 3 a continuare a lavorare un'intera giornata ogni giorno della settimana. Se il capitale continuasse ad impiegarne 6, lavorerebbero ognuno mezza giornata, ma senza effettuare pluslavoro. Posto che il lavoro necessario ammontasse prima a 10 ore, e il pluslavoro quotidiano a 2, l'intero pluslavoro dei 6 operai sarebbe ammontato quotidianamente a 2 x 6, pari cioè ad una giornata e, nella settimana, a 6 giornate = 72 ore. Ciascun operaio lavorerebbe una giornata alla settimana gratis. Ovvero sarebbe come se il 6° operaio avesse lavorato gratuitamente per l'intera settimana. I 5 operai rappresentano il lavoro necessario, e se potessero essere ridotti a 4, e 1 operaio lavorasse come prima gratuitamente — allora il plusvalore relativo aumenterebbe. Prima il suo rapporto era di 1: 6; ora sarebbe 1:5.
La legge precedente: aumentare il numero delle ore lavorative riceve quindi ora la forma: ridurre il numero degli operai necessari. Se fosse possibile per il medesimo capitale impiegare i 6 operai a questa nuova quota, il plusvalore aumenterebbe non solo in senso relativo ma anche in senso assoluto. Il tempo di lavoro supplementare ammonterebbe a 14,4 ore. 2,4 ore su 6 operai fa naturalmente più che 2,4 su 5.
Se consideriamo il plusvalore assoluto, vediamo che esso è determinato dal prolungamento assoluto della giornata lavorativa al di là del tempo di lavoro necessario. E tempo di lavoro necessario è lavoro per il semplice valore d'uso, per la sussistenza. La giornata lavorativa supplementare è lavoro per il valore di scambio, per la ricchezza. È il primo momento del lavoro industriale. Il limite naturale — presupposto che esistano le condizioni del lavoro, ossia la materia prima e lo strumento di lavoro, o una delle due, secondo che il lavoro sia puramente estrattivo oppure formativo, isoli cioè semplicemente il valore d'uso dal corpo terrestre, oppure gli dia una forma — il limite naturale è dato dal numero delle giornate lavorative simultanee o delle forze di lavoro vive, ossia dalla popolazione lavoratrice. A questo livello la differenza tra la produzione del capitale e i precedenti livelli di produzione è ancora semplicemente formale. La razzia di uomini, la schiavitù, il commercio di schiavi e il lavoro coatto di questi, la moltiplicazione di queste macchine lavoratrici, il plusprodotto delle macchine che producono sono attuati qui direttamente con la violenza, mentre nel capitale sono mediati dallo scambio.
* Ci si può ben figurare che la macchina in quanto tale, poiché agisce come produttività del lavoro, crei valore. Ma se la macchina non avesse bisogno di lavoro, potrebbe aumentare il valore di uso; se nonché il valore di scambio che essa creerebbe non sarebbe mai superiore ai suoi stessi costi di produzione, al suo stesso valore, ossia al lavoro in essa oggettivato. Essa non crea valore perché sostituisce lavoro, ma solo in quanto è un mezzo per aumentare il pluslavoro; giacché solo quest'ultimo è tanto la misura quanto la sostanza del plusvalore creato con l'aiuto della macchina; e quindi, in generale, del lavoro.
I valori d'uso crescono qui nella stessa proporzione semplice dei valori di scambio, e perciò tale forma di pluslavoro compare nei modi di produzione propri della schiavitù, della servitù della gleba ecc., dove il problema principale e prevalente è il valore d'uso, così come si presenta nel modo di produzione capitalistico indirizzato direttamente al valore di scambio e solo indirettamente al valore d'uso. Questo valore d'uso, come è il caso per esempio della costruzione delle piramidi egiziane, e in breve dei lavori di lusso per fini religiosi, a cui veniva costretta la massa della nazione in Egitto, in India ecc., può essere indirizzato a scopi puramente fantastici oppure, come è il caso degli antichi etruschi per esempio, all'utilità immediata.
Nella seconda forma del plusvalore invece, in quanto plusvalore relativo, che si presenta come sviluppo della produttività degli operai, in rapporto alla giornata lavorativa come diminuzione del tempo di lavoro necessario e in rapporto alla popolazione come diminuzione della popolazione lavoratrice necessaria (questa è la forma antitetica), in questa forma, dicevamo, compare immediatamente il carattere industriale e storicamente distintivo del modo di produzione basato sul capitale.
Alla prima forma corrisponde la violenta trasformazione della maggior parte della popolazione in operai salariati, e la disciplina che trasforma la loro esistenza in quella di meri operai. Per 150 anni, per esempio, a partire da Enrico VII, gli annali della legislazione inglese contengono in pagine grondanti di sangue una serie di misure coercitive, che furono applicate per trasformare la massa della popolazione privata della proprietà e diventata libera, in liberi operai salariati. La soppressione del comitatus, la confisca dei beni ecclesiastici, la soppressione delle gilde e la confisca della loro proprietà, la violenta espulsione della popolazione dalla campagna per la trasformazione del terreno arativo in pascolo, la recinzione delle terre comuni ecc., avevano ridotto i lavoratori a mera forza-lavoro. Ma essi naturalmente preferirono il vagabondaggio, l'accattonaggio ecc., al lavoro salariato, e dovettero esservi abituati solo con la forza. Ciò si ripete analogamente con l'introduzione della grande industria, delle fabbriche meccanizzate. Cfr. Owen .
Soltanto ad un certo livello dello sviluppo del capitale lo scambio tra capitale e lavoro diventa di fatto formalmente libero. Si può dire che formalmente il lavoro salariato viene realizzato pienamente in Inghilterra solo alla fine del XVIII secolo con la soppressione della law of apprenticeship.
La tendenza del capitale è, naturalmente, di collegare il plusvalore assoluto con quello relativo; ossia: massima estensione della giornata lavorativa col massimo numero di giornate lavorative simultanee, simultaneamente con la riduzione al minimo, da una parte, del tempo di lavoro necessario, dall'altra, del numero di operai necessari. Questa esigenza contraddittoria, il cui sviluppo si mostrerà in varie forme di sovrapproduzione, sovrappopolazione ecc., si fa valere sotto forma di un processo in cui le determinazioni contraddittorie si redimono nel tempo. Una conseguenza necessaria di tale esigenza è la massima moltiplicazione possibile del valore d'uso del lavoro — ovvero delle branche di produzione — talché la produzione del capitale, se per un verso produce costantemente e necessariamente lo sviluppo della intensità della forza produttiva del lavoro, per l'altro verso produce costantemente e necessariamente l'illimitata molteplicità delle branche di lavoro, vale a dire la ricchezza universale, di contenuto e di forma, della produzione, sottomettendo ad essa tutti gli aspetti della natura.
L'aumento della produttività, quale scaturisce spontaneamente, nella produzione su vasta scala, dalla divisione e combinazione del lavoro, dall'economia realizzata in certe spese — condizioni del processo lavorativo — che rimangono le stesse o diminuiscono col lavorocomune, come riscaldamento ecc., fabbricati ecc., non costa nulla al capitale; esso ottiene questo aumento di produttività del lavoro gratis. Se la produttività aumentasse simultaneamente nella produzione delle diverse condizioni di produzione, cioè della materia prima, dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza, e nelle [branche di produzione da questi] determinate, il suo aumento non porterebbe ad alcuna modificazione nel rapporto reciproco tra i diversi elementi del capitale. Se la produttività del lavoro aumenta simultaneamente per esempio nella produzione del lino, dei telai e nella stessa tessitura (mediante la divisione del lavoro), allora alla maggior quantità che verrebbe tessuta in una giornata corrisponderebbe una maggior quantità di materia prima ecc. Nel lavoro estrattivo, per esempio nell'industria mineraria, non occorre, perché il lavoro sia più produttivo, che aumenti la materia prima, giacché non ne viene elaborata alcuna. Nemmeno per rendere più produttiva la vendemmia occorre che aumentino numericamente gli strumenti, bensì soltanto che essi siano concentrati e che il lavoro che prima veniva fatto in maniera frammentata da cento persone, sia fatto in comune. Ma quel che occorre per tutte le forme di pluslavoro è l'aumento della popolazione; della popolazione lavoratrice per la prima forma; della popolazione in generale per la seconda, giacché essa esige uno sviluppo della scienza ecc. Ma la popolazione figura qui come la fonte principale della ricchezza.
3.5.6 - [Proporzione tra le condizioni oggettive della produzione. Mutamento nella proporzione degli elementi del capitale]
Ma se consideriamo il capitale alla sua origine, vediamo la materia prima e lo strumento derivare dalla circolazione, e non essere prodotti dal capitale stesso; come poi anche nella realtà il singolo capitale riceve le condizioni della sua produzione dalla circolazione, quantunque esse a loro volta siano prodotte da un capitale, ma da un altro capitale. Da ciò deriva da una parte la tendenza necessaria del capitale ad impadronirsi della produzione da tutti i lati; la sua tendenza a porre la produzione sia delle materie di lavoro e delle materie prime che degli strumenti, anch'essa come questione che riguarda il capitale, seppure un altro capitale; la tendenza del capitale alla propagazione. In secondo luogo però è chiaro che se le condizioni obiettive della produzione che esso riceve dalla circolazione rimangono identiche quanto al valore, ossia nella medesima quantità di valore d'uso si oggettiva una medesima quantità di lavoro, una minore parte di capitale può essere investita in lavoro vivo, ovvero la proporzione degli elementi del capitale muta.
Se per esempio il capitale ammonta a 100, la materia prima a 2/5 lo strumento a 1/5, il lavoro a 2/5, e se, raddoppiando la produttività (divisione del lavoro), il medesimo lavoro potesse, col medesimo strumento, elaborare una quantità doppia di materia prima, allora il capitale dovrebbe aumentare di 40;
materia prima strumento lavoro Capitale v/C
cm = 2/5 C cs = 1/5 C v = 2/5 C C = cm+cs+v
40 20 40 100 40/100
Raddoppio produttività con lavorazione doppia di materia prima
materia prima strumento lavoro Capitale v/C
cm = 4/7 C cs = 1/7 C v = 2/7 C C = cm+cs+v
80 20 40 140 40/140
dovrebbe lavorare cioè un capitale di 140; di cui 80 costituiscono materia prima, 20 strumento, 40 lavoro. Il lavoro sarebbe allora nel rapporto di 40:140 (mentre prima = 40:100); il lavoro era, prima, nel rapporto di 4:10, ora soltanto di 4:14.
In altri termini nel medesimo capitale di 100 ora 3/5 andrebbero alla materia prima, 1/5 allo strumento, e 1/5 al lavoro. Il profitto sarebbe 20 come prima. Ma il pluslavoro, mentre prima era del 50, ora sarebbe del 60%,.
Il capitale ora ha bisogno soltanto di 20 di lavoro su 60 di materia prima e 20 di strumento.
materia prima strumento lavoro Capitale
cm = 3/5 C cs = 1/5C v=1/5C cm+cs+v
60 20 20 100
Un capitale di 80 gli dà un profitto di 20.
Se ora il capitale impiegasse l'intero lavoro a questo livello di produzione, dovrebbe aumentare a 160; ossia 80 di materia prima, 40 di strumento e 40 di lavoro.
materia prima strumento lavoro Capitale
cm cs V C
80 40 40 160
Il che darebbe un plusvalore di 40.
Al livello precedente, in cui il capitale di 100 dà un plusvalore di 20 solamente, un capitale di 160 darebbe soltanto un plusvalore di 32, ossia 8 in meno, e il capitale dovrebbe aumentare a 200 per produrre lo stesso plusvalore di 40.
È necessario fare queste distinzioni:
1) l'aumento del lavoro (o l'intensità, la velocità del lavoro) non richiede affatto un maggior anticipo in materiale o strumenti di lavoro. Per esempio i medesimi 100 operai con strumenti del medesimo valore, prendono più pesce o coltivano meglio il campo, o estraggono più minerale dalle miniere e più carbone dai giacimenti o ricavano più foglie dalla medesima quantità di oro, mediante una maggiore velocità, una migliore combinazione e divisione del lavoro ecc., ovvero sciupano meno materia prima, riescono a far di più con una materia prima del medesimo valore quantitativo. In questo caso dunque, supponendo che i loro prodotti stessi passino nel loro consumo, diminuisce il loro tempo di lavoro necessario; con i medesimi costi di mantenimento essi eseguono un maggior lavoro. Oppure occorre una parte inferiore del loro lavoro alla riproduzione della forza-lavoro. La parte necessaria del tempo di lavoro si restringe in rapporto al tempo di lavoro supplementare e sebbene il valore del loro prodotto rimanga [pari a] 100 giornate lavorative, aumenta la quota spettante al capitale, il plusvalore. Se l'operaio collettivo supplementare era = 1/10, ossia = 10 giornate lavorative, e se ora non è più che 1/5, il tempo di lavoro supplementare è aumentato di 10 giornate. Gli operai lavorano. 80 giornate per sé e 20 per il capitalista, mentre nel primo caso ne lavorano 90 per sé e solo 10 per il capitalista.
(Questo calcolo per giornate lavorative, e il tempo di lavoro quale unica sostanza del valore, si mostrano apertamente in questo loro aspetto dove esistono rapporti di servitù. Al livello del capitale sono occultati dal denaro).
La maggiore porzione del nuovo valore creato spetta al capitale. Ma le proporzioni tra i vari elementi del capitale invariabile rimangono, in base al presupposto, le stesse. Vale a dire che, sebbene il capitalista impieghi una maggiore quantità di pluslavoro perché paga meno salario, egli non impiega maggior capitale in materie prime e strumenti. Egli scambia una parte minore di lavoro oggettivato con la medesima quantità di lavoro vivo o la
medesima quantità di lavoro oggettivato con una maggiore quantità di lavoro vivo. Ciò è possibile solamente nell'industria estrattiva; in quella manifatturiera, solo in quanto la materia prima viene maggiormente economizzata; e inoltre, là dove processi chimici moltiplicano la materia, in agricoltura; nell'industria dei trasporti.
2) La produttività aumenta simultaneamente non solo in una branca di produzione
determinata, ma anche nelle sue condizioni, cioè nel caso in cui, con l'intensità del lavoro,
con l'aumento simultaneo dei prodotti del lavoro, deve essere aumentata o la materia
prima o lo strumento, o entrambi. (La materia prima può non costare nulla, come è il caso
per esempio dei giunchi, del legname che non costa nulla ecc.). In tal caso la proporzione
del capitale rimarrebbe identica. Ossia il capitale non ha bisogno, con la crescente
produttività del lavoro, di investire un maggior valore in materia prima e strumento.
3) L'aumentata produttività del lavoro richiede l'investimento di una maggiore porzione di
capitale destinata a materia prima e strumento. Se la medesima quantità di operai è
diventata più produttiva soltanto in virtù della divisione del lavoro ecc., allora lo strumento
rimane lo stesso; solo la materia prima deve aumentare; giacché un medesimo tempo di
lavoro ne elabora simultaneamente una maggiore quantità; e in base al presupposto la
produttività è scaturita soltanto dalla maggiore abilità degli operai, dalla divisione e
combinazione del lavoro ecc. In questo caso la porzione di capitale scambiata col lavoro
vivo diminuisce (rimane identica se aumenta soltanto il tempo di lavoro assoluto;
diminuisce se aumenta quello relativo),non solo relativamente agli altri elementi del
capitale che rimangono identici, nella misura della propria diminuzione, ma anche nella
misura del loro aumento.
Se avevamo
Materia prima strumento lavoro pv pv
Giornate lavorative Giornate lavorative Giornate lavorative Giornate lavorative %
180 90 80 10 12,5 nel primo caso: sicché di 90 giornate lavorative, 10 giornate di pluslavoro;
411+3/7 90 70 20 28,57 Nel secondo caso il rapporto della materia prima è aumentato nella stessa proporzione in cui è aumentato il rapporto del pluslavoro, paragonato col primo caso (28,57/12,5).
Se in tutti i casi l'aumento del plusvalore presuppone l'aumento della popolazione, in questo caso presuppone altresì una accumulazione o un maggior capitale che entra nella produzione (Il che si risolve infine anche in un aumento della popolazione lavoratrice occupata nella produzione della materia prima). Nel primo caso la porzione totale di capitale impiegata in lavoro forma 1/4 del capitale complessivo; ed è nel rapporto di 1:3 rispetto alla parte costante del capitale; nel secondo caso è meno di 1/6 del capitale complessivo e la porzione totale di capitale impiegata in lavoro non raggiunge nemmeno il rapporto di 1:5 rispetto alla parte costante del capitale.
Sebbene perciò l'aumento della produttività dovuta alla divisione e combinazione del lavoro si basi sull'aumento assoluto della forza-lavoro impiegata, esso è necessariamente legato con la diminuzione della forza-lavoro in rapporto al capitale che la mette in movimento. E se nella prima forma, quella del pluslavoro assoluto, la massa di lavoro impiegata deve aumentare nella stessa proporzione del capitale impiegato, nel secondo caso essa aumenta in proporzione inferiore, e cioè in proporzione inversa all'aumento della produttività.
Se mediante quest'ultimo metodo, impiegato nel lavoro agricolo, la produttività del suolo si raddoppiasse, e la medesima quantità di lavoro desse 1 quarter 6\ frumento invece di 1/2, il lavoro necessario si ridurrebbe di 1/2, e il capitale potrebbe impiegarne una quantità doppia pagando il medesimo salario (espresso, questo, semplicemente in grano). Ma il capitalista non avrebbe bisogno di impiegare più operai per coltivare la sua terra. Egli impiegherà il medesimo lavoro con metà del salario di prima; ma parte del suo capitale, prima investito in denaro, si libera; il tempo di lavoro impiegato rimane il medesimo in rapporto al capitale impiegato, ma la parte supplementare di esso aumenta in rapporto a quella necessaria. Se prima il rapporto del lavoro necessario rispetto alla giornata di lavoro complessiva era = 3/4 della giornata lavorativa o 9 ore, ora sarà uguale a 3/8 o = 4,5 ore. Nel primo caso il plusvalore era di 3 ore, nel secondo è = 7,5
Il decorso del processo è questo: con una data popolazione lavoratrice e una data grandezza della giornata lavorativa, vale a dire grandezza della giornata lavorativa moltiplicata per il numero delle giornate lavorative simultanee, // pluslavoro non può essere aumentato relativamente se non attraverso una maggiore produttività, la cui possibilità è già posta nell'aumento presupposto della popolazione e dell'addestramento al lavoro (cui si aggiunge anche un determinato tempo libero per la popolazione che non lavora, che non lavora direttamente, e quindi lo sviluppo delle capacità scientifiche, ecc.; appropriazione scientifica della natura). Dato un certo livello di sviluppo delle forze produttive, il pluslavoro non può essere aumentato in assoluto se non mediante la trasformazione di una maggior parte della popolazione in operai, e l'aumento delle giornate lavorative simultanee. Il primo processo consiste in una diminuzione della popolazione lavoratrice relativa, quantunque la popolazione in assoluto rimanga identica; il secondo, in un aumento di essa. Entrambe le tendenze sono tendenze necessarie del capitale. L'unità di queste tendenze contraddittorie, e perciò la contraddizione vivente, compare soltanto con le macchine, delle quali presto parleremo. La prima forma permette evidentemente soltanto un basso rapporto tra la popolazione non lavoratrice e quella lavoratrice. La seconda, poiché con essa la quota di lavoro vivo aumenta più lentamente della quota di capitale impiegato, permette un rapporto più elevato tra la popolazione non lavoratrice e quella lavoratrice.
È vero che, ad una considerazione più attenta, la proporzione reciproca tra i diversi elementi del capitale, quali si presentano nel suo divenire, quando esso riceve la materia prima e lo strumento, ossia le condizioni del prodotto, dalla circolazione, e si riferisce ad esse come a presupposti dati, scompare, in quanto tutti i momenti si presentano come prodotti dal capitale, e in quanto, altrimenti, esso non avrebbe sottomesso a sé le condizioni complessive della sua produzione; ma per il singolo capitale essi rimangono sempre nella medesima proporzione. Una parte di esso perciò può essere sempre considerata come valore costante, mentre è solo la parte investita nel lavoro quella che varia. Questi elementi non si sviluppano uniformemente, ma la tendenza del capitale, come si vedrà nella concorrenza, è di ripartire uniformemente la produttività.
Poiché con la crescente produttività del lavoro il capitale troverebbe un ostacolo nella non crescente quantità della materia prima e del macchinario, il processo dello sviluppo industriale consiste nel fatto che, quanto più la produzione è produzione di materie prime per l'industria, di materia prima destinata sia al materiale da lavoro che allo strumento, quanto più il materiale da lavoro si avvicina alla pura materia prima, proprio in queste branche, comincia l'introduzione del lavoro su vasta scala e l'impiego delle macchine. Così è accaduto nella filatura prima della tessitura, nella tessitura prima della stampa ecc., e prima di tutto nella produzione dei metalli, che costituiscono la principale materia prima per gli strumenti di lavoro. Se il prodotto grezzo vero e proprio, quello che fornisce materia prima all'industria al livello più basso, non può essere esso stesso rapidamente aumentato
— allora si ricorre ad un sostituto rapidamente aumentabile (cotone al posto del lino, della lana, della seta). Lo stesso accade, per i generi alimentari, con la sostituzione delle patate al frumento. In quest'ultimo caso si ottiene una maggiore produttività mediante la produzione di un articolo più scadente, che contiene meno sostanze e emopoietiche e perciò meno costose condizioni organiche della sua riproduzione. Ma quest'ultimo problema rientra nella considerazione del salario. Nella discussione sul salario minimo non va dimenticato Rumford18.
Veniamo ora al terzo caso di pluslavoro relativo, nell'aspetto che questo assume nell'impiego delle macchine.
[[Nel corso della nostra esposizione si è visto come il valore, che si è presentato come una astrazione, è possibile come siffatta astrazione solo quando è posto il denaro; questa circolazione del denaro d'altra parte conduce al capitale, e può quindi essere sviluppata pienamente soltanto sulla base del capitale, così come in generale soltanto sulla sua base la circolazione può investire tutti i momenti della produzione. Nello sviluppo perciò si rivela non solo il carattere storico delle forme, come il capitale, che appartengono ad una determinata epoca storica; ma anche quelle determinazioni, come il valore, che si presentano come pure astrazioni, mostrano la base storica da cui sono astratte, e sulla quale solamente, perciò, possono presentarsi in questa astrazione; e tali determinazioni, che appartengono più o meno a tutte le epoche, come per esempio il denaro, mostrano la modificazione storica cui soggiacciono. Il concetto economico di valore non compare presso gli antichi. Il valore è distinto dal pretium soltanto giuridicamente contro la sopraffazione ecc. Il concetto di valore appartiene interamente alla più moderna economia, perché è la più astratta espressione del capitale stesso e della produzione che poggia su di esso. Nel concetto di valore si svela il suo segreto]].
Quel che distingue il plusvalore basato sulle macchine è il diminuire del tempo di lavoro necessario, che viene impiegato nella forma di un minor impiego di giornate lavorative simultanee, di meno operai. Il secondo momento, per cui l'aumento della produttività stessa deve essere pagato dal capitale, non è gratis. Il mezzo attraverso il quale questo aumento della produttività viene attuato è di nuovo tempo di lavoro immediato oggettivato, valore, per impadronirsi del quale il capitale deve scambiare con esso una parte del proprio valore. Sviluppare l'avvento delle macchine sulla base della concorrenza e della legge, che quella risolve, della riduzione dei costi di produzione, è facile. Si tratta qui di farlo sulla base del rapporto tra capitale e lavoro vivo, senza prendere in considerazione un altro capitale.
Se un capitalista impiegasse 100 operai nella filatura del cotone, i quali gli costano annualmente 2.400 Lst., e con una macchina del valore di 1.200 Lst. sostituisse 50 operai, ma in modo tale che anche la macchina si logorasse nell'anno e dovesse essere a sua volta sostituita all'inizio del secondo anno, evidentemente egli non avrebbe guadagnato nulla; e neanche potrebbe vendere i suoi prodotti più a buon mercato. I rimanenti 50 operai farebbero lo stesso lavoro dei 100 di prima; il tempo di lavoro supplementare di ciascun operaio singolo sarebbe aumentato in proporzione alla diminuzione del loro numero, e quindi sarebbe rimasto identico. Se prima esso era = 200 ore lavorative al giorno, ossia 2 ore su ognuna delle 100 giornate lavorative, ora esso sarebbe altrettanto = 200 ore lavorative, cioè = 4 su ognuna delle 50 giornate lavorative. In rapporto all'operaio, il suo pluslavoro sarebbe aumentato; per il capitale la cosa sarebbe la stessa, giacché esso dovrebbe scambiare ora 50 giornate lavorative (tempo necessario più tempo
18 B. Thompson, conte di Rumford, Essays, politicai, economical and philosophical. voi. I, London 1798. Marx ne farà menzione nel Capitale, libro I, VII, 22.
supplementare) con la macchina. Le 50 giornate lavorative oggettivate che esso scambia con la macchina gli darebbero semplicemente un equivalente — quindi non un tempo supplementare — come se avesse scambiato 50 giornate lavorative oggettivate con 50 vive. Ma ciò sarebbe rimpiazzato dal tempo di lavoro supplementare dei rimanenti 50 operai. La cosa, tolta la forma dello scambio, sarebbe la stessa che se il capitalista facesse lavorare 50 operai la cui intera giornata lavorativa fosse costituita di solo lavoro necessario, e per questo ne occupasse altri 50 la cui giornata lavorativa risarcisse questa «perdita». Ma posto che la macchina costi sol tanto 960 Lst., ossia solo 40 giornate lavorative e i rimanenti operai producano come prima ognuno 4 ore di tempo di lavoro supplementare, ossia 200 ore o 16 giornate e 4 ore (164 giornate), allora il capitalista avrebbe risparmiato, sulle spese, 240 Lst. Ma mentre prima su una spesa di 2.400 egli guadagnava soltanto 16 giornate e 4 ore, ora su una spesa di 960 guadagnerebbe sempre 200 ore lavorative. 200 : 2.400 = 1 : 12; al contrario 200 : 2.160 = 20 : 216 = 1 : 10+4/5. In termini di giornate lavorative egli guadagnerebbe nel primo caso, su 100 giornate lavorative, 16 giornate e 4 ore, nel secondo, su 90, lo stesso numero; nel primo, su 1.200 ore lavorative al giorno, 200; nel secondo, le stesse su 1.080.
200 : 1.200 =1:6; 200 : 1.080 = 1 : 5+2/3. Nel primo caso il tempo supplementare del singolo operaio = 1/6 di giornata lavorativa = 2 ore. Nel secondo esso su 1 operaio = 2+6/27 ore. A ciò inoltre si aggiunge il fatto che con l'impiego delle macchine la parte del capitale che prima era impiegata in strumenti, deve essere defalcata dal maggior costo causato dalle macchine.
3.5.7 - [Denaro e capitale fisso: suppone una certa quantità di ricchezza. {Economist) - Rapporto tra capitale fisso e capitale circolante. Filandiere. {Economist)]
[[«Il denaro che circola in un paese costituisce una data porzione del capitale di quel paese, completamente distolta da scopi produttivi, al fine di agevolare o incrementare la produttività di quello rimanente. Perciò, ai fini dell'adozione dell'oro come mezzo di circolazione, una certa quantità di ricchezza è necessaria così come lo è costruire una macchina al fine di agevolare qualsiasi altra produzione» Economist, voi. V, p. 519)]]19. [[Qual'è la prassi? Un fabbricante, il sabato, ottiene dal suo banchiere £. 500 in banconote, destinate ai salari: queste, egli le distribuisce tra i suoi operai. Nello stesso giorno la maggior parte di esse viene portata ai bottegai, e attraverso costoro ritorna ai loro vari banchieri» (Le. p. 575)]]20.
[[Un filandiere che, avendo un capitale di 100.000 Lst., ne sborsasse 95.000 per il suo fabbricato e il suo macchinario, troverebbe subito che gli mancano i mezzi per pagare il cotone e i salari. Il suo commercio sarebbe ostacolato e le sue finanze dissestate. E tuttora ci si aspetta che una nazione che ha incautamente investito la massa dei suoi
19 Cfr. «The Economista, voi. V, N. 193, May 22, 1847, p. 520 (e non 519) articolo Nature of Capital and
20 Cfr. «The Economista, voi. V, 14. 195, May 22, 1846, p. 575, articolo A Reply to Pur/bei' Remarks on the
notevoli mezzi in ferrovie, dovrebbe essere non meno capace di condurre le infinite operazioni della manifattura e del commercio » (l.c. p. 1271)]]21.
3.5.8 - [Schiavitù e lavoro salariato ( Steuart). profitto da alienazione. Steuart]
«Denaro ... un equivalente adeguato a qualsiasi cosa alienabile» (J. Steuart) (p. 13) (t. I. p. 32, ed. Dublino 1770)22.
[[Nell'antichità, costringere gli uomini a lavorare oltre i loro bisogni, indurre una parte di uno stato a lavorare per mantenere l'altra gratuitamente, era attuabile soltanto mediante la schiavitù .. Se gli uomini non fossero stati obbligati a lavorare, essi avrebbero lavorato soltanto per se stessi; e se avessero avuto pochi bisogni, ci sarebbe stato poco lavoro. Ma quando cominciano a formarsi gli stati e alle mani oziose si offre l'occasione di difenderli dalla violenza dei nemici, è necessario procurare cibo a qualsiasi prezzo per quelli che non lavorano; e poiché, per l'ipotesi, i bisogni dei lavoratori sono ristretti, occorre trovare un sistema per aumentare il loro lavoro oltre la misura dei loro bisogni. A tale scopo era intesa la schiavitù ....
Ecco un sistema violento per stimolare negli uomini la solerzia nel procurarsi la sussistenza; ... allora gli uomini furono costretti a lavorare perché erano schiavi di altri; ora sono costretti a lavorare perché sono schiavi dei loro propri bisogni » (Steuart, t. I, pp. 38-40). «L'infinita varietà dei bisogni e delle specie di merci necessarie al loro soddisfacimento, è la sola che rende la brama di ricchezza illimitata e insaziabile» (Wakefield, riguardo a Smith, p. 64, nota)]]23.
«lo considero le macchine come mezzi per aumentare (virtualmente) il numero delle persone laboriose, senza la spesa di nutrirne un numero supplementare» (Steuart, t. I, p. 123). (Quando gli industriali manifatturieri si associano, essi fanno affidamento non direttamente sui consumatori, ma sui mercanti». Steuart 11, p. 154). «L'agricoltura abusiva non è un commercio, perché non dà luogo ad alcuna alienazione, ma è semplicemente un mezzo di sussistenza») (l.c. p. 156). («Il commercio è un'operazione mediante la quale la ricchezza, o il lavoro, sia degli individui sia della società, possono essere scambiati, da una categoria di uomini chiamati commercianti, con un equivalente in grado di provvedere a qualsiasi bisogno, senza alcuna interruzione per l'industria o ostacolo per il consumo» (Steuart, I, p. 166). (Finché i bisogni sono semplici e scarsi, un operaio trova abbastanza tempo per distribuire tutto il suo lavoro; quando i bisogni cominciano a moltiplicarsi, bisogna lavorare più intensamente: il tempo diventa prezioso; di qui, l'introduzione del commercio. Il commerciante come mediatore tra operaio e consumatore») (l.c. p. 171). («Il denaro, prezzo comune di tutte le cose» (l.c. p. 177). «Il denaro è rappresentato dal commerciante. Per i consumatori il commerciante rappresenta la totalità degli industriali, per costoro rappresenta la totalità dei consumatori, e per ambedue le classi il suo credito sostituisce l'uso del denaro. Egli rappresenta di volta in volta i bisogni, gli industriali e il denaro» (l:c. p. 177, 178). ( Steuart, vedi t. I, p. 181-183, considera il profitto differente dal
21 Cfr. «The Economist», voi. V, N. 219, November6, 1847, p. 1271, articolo FixedandFloating Capital.
22 Cfr J. STEUART, An Inquiryecc, cit.; «(p. 13)» si riferisce .al quaderno di Marx.
23 Cfr. A. SMITH, An Inquiry... edited by Wakefield, cit, voi. I, p. 64.
valore reale, che egli definisce in maniera assai confusa (pensando ai costi di produzione) come quantità di lavoro oggettivato (quanto un operaio può eseguire in un giorno), spesa necessaria degli operai, prezzo della materia prima —, come profitto da alienazione, che oscilla a seconda della domanda). (In Steuart le categorie sono ancora molto instabili; non sono ancora ben definite come in Smith. Poco fa abbiamo visto che il valore reale si identifica con i costi di produzione, in quanto accanto al lavoro degli operai e al valore del materiale figurano ancora in modo confuso i salari come elemento particolare. Altrove egli intende per valore intrinseco di una merce il valore della sua materia prima o la materia prima stessa, mentre per valore utile intende il tempo di lavoro impiegato a produrlo. «Il primo è qualcosa di reale in se stesso; per esempio l'argento in un gioiello d'argento. Il valore intrinseco di un manufatto di seta, di lana o di lino è minore del valore primitivo impiegato, perché esso è reso quasi inservibile a qualsiasi altro uso che non sia quello a cui serve il manufatto; il valore utile al contrario deve essere valutato secondo il lavoro che è costato per produrlo. Il lavoro di trasformazione impiegato rappresenta una porzione del tempo dell'uomo, il quale, in virtù del suo impiego utile, ha dato una forma a delle sostanze che le ha rese utili, ornamentali; in breve, adatte all'uomo, mediatamente o immediatamente» (p. 361, 362, t. I, La).
(Il valore d'uso reale è la forma data alla sostanza. Ma questa forma stessa non è che lavoro morto). «Quando supponiamo una misura comune per il prezzo di qualche cosa, dobbiamo supporre che l'alienazione di questa sia frequente e familiare. Nei paesi dove regna la semplicità, ... è a mala pena possibile determinare una qualche misura per il prezzo degli articoli di prima necessità . in tali condizioni della società gli articoli riguardanti il nutrimento e il fabbisogno si trovano difficilmente in commercio: nessuno li compra; perché la principale occupazione di ognuno è di procurarseli da se stesso .... Solo la vendita può determinare i prezzi, e solo la vendita frequente può fissare una misura. Ora la vendita frequente di articoli di prima necessità è il segno di una distribuzione degli abitanti in lavoratori e libere braccia » ecc. (t. I, p. 394 ss. Le). (La teoria della determinazione dei prezzi attraverso la quantità del mezzo circolante è stata per la prima volta formulata da Locke, ripetuta nello «Spectator» del 19 ottobre 1711, sviluppata ed elegantemente formulata da Hume e Montesquieu, formalmente esasperata nel suo fondamento da Ricardo, e, con tutte le sue assurdità nell'applicazione pratica al sistema bancario, da Loyd, dal Colonnello Torrens ecc.). Steuart polemizza contro costoro, e in verità la sua analisi anticipa materialmente quasi tutto ciò che in seguito è stato sostenuto da Bosanquet, Tooke, Wilson, (quaderno, p. 26)24. (Egli dice tra l'altro, a guisa di illustrazione storica: « t un fatto che al tempo in cui Grecia e Roma abbondavano di ricchezza quando ogni rarità e il lavoro degli artisti più eccelsi era portato ad un prezzo eccessivo, si comprava un bue con un'inezia e il grano era più a buon mercato di quanto non sia mai stato in Scozia ... La domanda è proporzionata non al numero di coloro che consumano, ma al numero di coloro che comprano; ora quelli che consumano sono tutti gli abitanti, mentre quelli che comprano sono solo i pochi lavoratori che sono liberi ... In Grecia e Roma c'era la schiavitù: coloro che si nutrivano del lavoro dei propri schiavi, gli schiavi dello Stato, o col grano distribuito gratis al popolo, non avevano alcuna occasione di andare al mercato: non entravano in concorrenza con i compratori ... Le poche manifatture allora conosciute rendevano i bisogni in generale meno estesi; di conseguenza il numero dei lavoratori liberi era esiguo, ed essi erano le uniche persone che potevano avere occasione di acquistare i mezzi di sostentamento e i beni di prima necessità: di conseguenza la concorrenza tra i compratori deve essere stata, in proporzione, tenue, e i prezzi bassi; inoltre i mercati erano riforniti in parte dal surplus
24 Riferimento al quaderno londinese Vili, con estratti della Inquiry di Steuart, in part. voi. I, p. 399, in cui si citano i passi dell'articolo di Locke sullo «Spectator».
prodotto nelle terre dei grandi signori, lavorate dagli schiavi; ed essendo questi alimentati dalla terra, il surplus non costava in un certo senso nulla ai proprietari; e poiché il numero di coloro che avevano occasione di comprare era assai basso, questo surplus veniva venduto a buon mercato. Oltre a ciò il grano distribuito gratis al popolo doveva necessariamente mantenere basso il mercato. Invece per una triglia di qualità o per un artista ecc., grande concorrenza, e quindi prezzi straordinariamente in ascesa. Il lusso di quei tempi, sebbene eccessivo, era limitato a pochi, e siccome il denaro, in generale, non circolava che lentamente per le mani della moltitudine, esso stagnava costantemente in quelle dei ricchi, i quali non trovavano altra misura che il loro capriccio nel regolare i prezzi di ciò che desideravano possedere»). (26, 27, quaderno, Steuart)25. «Il denaro di conto non è altro che un'arbitraria scala di parti uguali, inventata per misurare il valore rispettivo delle cose vendibili. Il denaro di conto è del tutto diverso dal denaro-moneta, che è prezzo, e potrebbe esistere anche se non esistesse alcuna sostanza al mondo che fosse un equivalente proporzionale di tutte le merci» (t. Il; p. 102). «Il denaro di conto ha per il valore, per le cose, la stessa funzione dei minuti e dei secondi ecc. per gli angoli, o le scale per le carte geografiche ecc. In tutte queste invenzioni sempre qualche denominazione è presa per l'unità» (La). «Giacché l'utilità di tutte queste invenzioni è intesa esclusivamente ad indicare la proporzione. Proprio per questo l'unità in denaro non può avere una proporzione invariabile determinata rispetto ad alcuna parte del valore, ossia essa non può essere fissata per nessuna particolare quantità di oro, d'argento o di qualsiasi altra merce. Una volta fissata l'unità, noi possiamo, moltiplicandola, ascendere al valore massimo» ecc. (p. 103). «Così il denaro è una scala di misura del valore» (p. 102). «Poiché quindi il valore delle merci dipende da una generale combinazione di circostanze relative alle merci stesse e al capriccio degli uomini, il loro valore dovrebbe essere considerato come tale che muta soltanto rispetto alla loro connessione reciproca; di conseguenza qualsiasi cosa che impedisca o complichi l'accertamento di quelle variazioni di proporzione per mezzo di una scala generale, determinata e invariabile, è necessariamente nociva per il commercio e un ostacolo all'alienazione» (Le.)26. «Occorre assolutamente distinguere tra prezzo (ossia moneta) considerato come misura e prezzo considerato come equivalente del valore. I metalli non assolvono con la medesima efficacia ciascuna delle due funzioni... Il denaro è una scala ideale di parti uguali. Se ci si domandasse quale dovrebbe essere la misura di valore di una parte? lo rispondo ponendo un'altra domanda: qual'è la misura di lunghezza di un grado, di un minuto, di un secondo? Non ve n'ha alcuna — ma non appena una parte diventa, determinata, per la natura di una scala, tutto il resto deve derivare in proporzione» (p. 105). «Esempi di questo denaro ideale sono il denaro di banca di Amsterdam e il denaro dell'Angola sulle coste africane. Il denaro di banca si mantiene invariabile come una roccia dentro il mare. In conformità con questa ideale misura sono regolati i prezzi di tutte le cose» (p. 106, 107, ss.).
Nella Raccolta di Economisti Italiani del Custodi, Parte Antica, torno III: Montanari (Geminiano), Della Moneta27, scritto intorno al 1683, dice, a proposito della «invenzione» del denaro: «è così fattamente diffusa per tutto il globo terrestre la comunicazione de' popoli insieme, che può quasi dirsi essere il mondo tutto divenuto una sola città in cui si fa perpetua fiera d'ogni mercanzia, e dove ogni uomo di tutto ciò che la terra, gli animali e l'umana industria altrove producono, può mediante il denaro stando in sua casa provvedersi e godere. Maravigliosa invenzione!» (p. 40). «Ma perché egli è proprio ancora
25 Cfr. J. STEUART, An Inquiry ecc., cit., voi. I, pp. 403-405.
26 Cfr. ibidem, voi. Il, p. 104.
27 Cfr. G. MONTANARI, Della Moneta. Trattato mercantile, in Scrittori classici italiani di economia politica.
Parte antica, t. Ili, Milano 1804. [Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese Vili]
delle misure d'aver siffatta relazione colle cose misurate, che in certo modo la misurata divien misura della misurante, ond'è che siccome il moto è misura del tempo così il tempo sia misura del moto stesso; quindi avviene che non solo sono le monete misure de' nostri desideri, ma vicendevolmente ancora sono i desideri, misura delle monete stesse e del valore» (p. 41, 42). «è egli ben manifesto che quanto maggior numero di moneta correrà in commercio entro il recinto di quella provincia in proporzione delle cose vendibili che vi sono, tanto più care quelle saranno, se cara può dirsi una cosa perciocché vaglia molto oro in paese ove l'oro abbondi, e non piuttosto vile debba in quel caso chiamarsi l'oro medesimo, di cui tanta porzione sia stimata quanto un'altra cosa che altrove più vile viene considerata?» (p. 48).
«100 anni prima il principio dominante della politica commerciale delle nazioni consisteva nell' ammassare oro e argento, come se fossero la ricchezza per eccellenza», (p. 67) (Gouge Wm. A Short History of Paper Money and Banking in the United States. Philadelphia 1833)28. (Baratto negli Stati Uniti, vedi Gouge, quaderno Vili, p. 81 ss.): «In Pensilvania come nelle altre colonie un rilevante commercio si svolgeva sulla base del baratto ancora nel 1723 nel Maryland fu promulgato un Atto che istituiva il tabacco come moneta avente valore legale di un penny la libbra, e il grano indiano a venti pennies il bushel» (p. 5). (Parte II). Ma ben presto attraverso il loro commercio con le Indie Occidentali e un commercio clandestino con la Spagna l'argento divenne così abbondante che nel 1652 fu fondata una zecca nel New England per coniare scellini, mezzi scellini e pezzi da 3 pennies» (p. 5) (La). «La Virginia nel 1645 proibì le trattative basate sul baratto, e stabili il pezzo spagnolo di 8 a 6 scellini quale mezzo di circolazione standard della colonia (il dollaro spagnolo) ... Le altre colonie affibbiarono varie denominazioni al dollaro ... Il denaro di conto si identificava dappertutto nominalmente con quello inglese. La moneta del paese era specialmente spagnola e portoghese» ecc. (cfr. p. 81, quaderno Vili)29, (p. 630. Con l'Atto della regina Anna si tentò di por fine a tale confusione).
3.5.9 - [Industria della lana in Inghilterra a partire da Elisabetta (Tuckett). - Industria della seta (idem). Idem, acciaio, cotone]
Tuckett : A History af the Past and Present State of the Labouring Population ecc. 2 voi. London 1846.31
«Manifattura della lana: All'epoca di Elisabetta il mercante di stoffe occupava il posto del fabbricante o manifatturiere; egli era il capitalista che procurava la lana e la consegnava al tessitore, in porzioni di circa 12 libbre, perché fosse trasformata in tessuto. All'inizio la manifattura era limitata alle grandi città e ai comuni a carattere corporativo e sedi di mercato, in quanto gli abitanti dei villaggi facevano poco più di quanto bastava all'uso delle loro famiglie. In seguito si sviluppò nei comuni non corporati favoriti da locali vantaggi ed anche nelle località di campagna, grazie ai farmers, ai graziels e ai husbandmen, che
28 Cfr. di quest'opera, voi. I.
29 Cfr ibidem, Parte II p. 56.
30 Cfr ibidem, Parte II p. 6
31 Cfr. J. D. TUCKETT, op. cit. [Nel manoscritto, errata la data di ed. «1836»]. Estratti, nel quaderno londinese IX.
cominciarono a fare tessuti tanto per la vendita quanto per l'uso domestico»32. (Le specie più rozze). «Nel 1551 passò uno statuto che limitava il numero dei telai e degli apprendisti che potevano essere tessuti dai mercanti di stoffe e dai tessitori residenti fuori della città; e stabiliva che nessun tessitore di campagna avesse un Tucking mill, e nessun tucker avesse un telaio. In base alla legge dello stesso anno tutti i tessitori di panno dovevano compiere un apprendistato di 7 anni. Malgrado ciò, la manifattura di villaggio, come oggetto di profitto mercantile, prese salde radici. 5 e 6 Edoardo VI, e. 22, uno statuto che proibisce l'uso di macchine ... Perciò fiamminghi e olandesi spadroneggiarono in questa
manifattura fino alla fine del XVII secolo 33 Nel 1668 il telaio olandese fu importato
dall'Olanda», (p. 138 -141)34. «In seguito all'introduzione delle macchine una persona nel 1800 poteva fare il lavoro che 46 persone facevano nel 1785. Nel 1800 il capitale investito in fabbriche, macchinario ecc. adatto alla lavorazione della lana non era inferiore a 6 milioni di Lst. e il numero complessivo delle persone di ogni età occupate in Inghilterra in questa branca era di 1.500.000». (p. 142 -143). La produttività del lavoro dunque aumentò del 4600% Ma in primo luogo solamente per il capitale fisso questa cifra non raggiungeva che 1/6 circa; in rapporto al capitale complessivo (materia prima ecc.) forse solo 1/20. «Poche volte una manifattura ha tratto tale vantaggio dal progresso scientifico quanto l'arte di tingere il panno, mediante l'applicazione delle leggi della chimica» (Le. p. 144).
Manifattura della seta. Fino all'inizio del XVIII secolo «l'arte di torcere la seta aveva raggiunto la massima efficacia in Italia, dove si erano adottate macchine particolarmente adatte a tale scopo. Nel 1715 John Lombe, uno dei tre fratelli che avevano un'azienda per la fabbricazione e il commercio della seta, compì un viaggio in Italia e riuscì a procurarsene un modello in una delle fabbriche ... Un setificio dotato del macchinario più progredito fu impiantato a Derby da Lombe e dai suoi fratelli. Questa fabbrica conteneva 26.586 ruote, tutte azionate da una unica ruota ad acqua .. Il parlamento gli concesse 14.000 Lst. perché svelasse il segreto alla branca interessata. Questa fabbrica si avvicinava alla idea della fabbrica moderna più di tutti i precedenti stabilimenti del genere. La macchina aveva 97.746 ruote, parti mobili, e parti individuali che lavoravano giorno e notte, che ricevevano tutto il loro moto da un'unica grande ruota ad acqua ed erano controllate da un solo regolatore: e impiegava 300 persone addette al suo funzionamento». (133 - 134) . (Il commercio della seta in Inghilterra non mostrò alcuno spirito di inventiva; fu introdotto soltanto dai tessitori di Anversa, fuggiti in seguito al saccheggio della città da parte del Duca di Parma; in seguito, varie branche furono aperte dagli esuli francesi tra il 1685 e il 1692)35.
Nel 1740 furono prodotte 1.700 tonnellate di ferro da 59 altiforni; nel 1827: 690.000 da 284. Gli altiforni dunque aumentarono nel rapporto di 1 : 4e 48/59 neppure quintuplicati; le tonnellate, nel rapporto di 1 : 405 e 15/17. (Cfr., su questo rapporto in una serie di anni, l.c. quaderno p. 12)36.
Nella manifattura del vetro si vede chiaramente come il progresso della scienza dipenda dalla manifattura. D'altra parte per esempio l'invenzione dei quadranti era nata dalle esigenze della navigazione e il parlamento stabilì dei premi per le invenzioni37.
32 Cfr. ibidem, voi. I, pp. 136-137.
33 Cfr. ibidem, p. 138 e nota
34 Cfr. ibidem, p. 141.
35 Cfr. ibidem, p.132,135,136
36 Cfr. ibidem, p. 157
37 Cfr. ibidem, p. 171-179
8 macchine per la lavorazione del cotone, che nel 1825 costavano Lst. 5.000, nel 1833 si vendevano a 300 Lst. (Vedi, sulla filatura del cotone, l.c. p. 13, quaderno)38.
«Una filanda di prim'ordine non può essere costruita, dotata di macchinario, fornita di impianti a gas e macchine a vapore, per meno di 100.000 Lst. Una macchina a vapore di cento cavalli può azionare 50.000 fusi, che producono 62.500 miglia di filo di cotone fino al giorno. In una fabbrica del genere 1.000 persone possono filare una quantità di filo pari a quella che potrebbero filare 250.000 persone senza macchine. MacCulloch ne stimava il numero in Inghilterra a 130.000 » (p. 218. l.c).
3.5.10 - [Origine del lavoro salariato libero. Vagabondaggio. Tuckett]
«Dove non vi sono strade regolari, difficilmente si può dire che vi sia una comunità; gli uomini non potrebbero avere nulla in comune» (270. Tuckett l.c).
«Del prodotto della terra utile agli uomini, 99/100 è costituito dal prodotto degli uomini» (l.c. p. 348)39.
« Quando la schiavitù o l'apprendistato a vita fu abolito, il lavoratore divenne padrone di se
stesso e fu lasciato alle proprie risorse. Ma, se non hanno lavoro sufficiente ecc., gli
uomini non muoiono di fame se possono mendicare o rubare; di conseguenza il primo
carattere assunto dai poveri fu quello di ladro e di mendicante» (p. 637, nota, t. Il, l.c).
«Un carattere fortemente distintivo dello stato presente della società, a partire da
Elisabetta, è che il suo Atto sulla povertà fu particolarmente un atto che mirava al
rafforzamento dell'industria, a far fronte al vagabondaggio in massa derivato dalla
soppressione dei monasteri e dal passaggio dalla schiavitù al lavoro libero. Valga
l'esempio del V Atto di Elisabetta, che imponeva ai capifamiglia che coltivavano mezzo
aratro di terra, di ordinare a chiunque fosse disoccupato di diventare loro apprendista nel
l'agricoltura o in qualche arte o mestiere; e se si opponeva, di portarlo dinanzi alla
giustizia, che era quasi obbligata a metterlo in guardina fino a che non avesse
acconsentito ad impegnarsi. Sotto Elisabetta ne occorrevano circa 100 per produrre cibo
per 85. Attualmente, non una mancanza di industria, ma un impiego vantaggioso
La grande difficoltà allora era quella di debellare la tendenza all'ozio e al vagabondaggio, non quella di procurare loro un'occupazione remunerata. Durante questo regno parecchi atti legislativi miravano a forzare l'ozioso al lavoro» (p. 643, 644. t. II.l.c).
«Il capitale fisso, una volta formato, cessa di influenzare la domanda di lavoro, ma durante la sua formazione offre lavoro esattamente a tante braccia quante ne impiegherebbe una uguale somma di capitale circolante o di reddito» (John Barton: Observations on the circumstances which influence the condition of the labour ing classes of Society. London 1817, p. 56)40.
38 Cfr. ibidem, p. 204
39 Cfr. ibidem, voi. Il, p. 348.
40 Estratti, nel quaderno londinese IX.
3.5.11 - [Blake sull'accumulazione e il saggio di profitto. (Fa vedere che i prezzi ecc, non sono indifferenti, perché una classe di meri consumatori non consuma e riproduce al tempo stesso). Capitale inattivo]
La comunità è costituita di due classi di persone, l'una, che consuma e riproduce; l'altra, che consuma senza riprodurre. Se l'intera società fosse costituita di produttori, avrebbe scarsa conseguenza sapere a quale prezzo essi si scambierebbero le loro merci; ma coloro che sono soltanto consumatori formano una classe troppo numerosa per essere trascurata. La loro capacità di domanda deriva da beni immobili, ipoteche, rendite annuali, professioni e servizi di vario genere resi alla comunità. Più alto è il prezzo a cui la classe dei consumatori può essere costretta a comperare, maggiore sarà il profitto dei produttori sulla massa di merci che essi vendono. Tra queste classi puramente consumatrici lo Stato ha il posto preminente (W. Blake. Observations on the Effects produced by the Expenditure a Government during the Restriction of Cash Payments. London 1823. p. 42, 43)41. Blake, per mostrare che il capitale prestato allo Stato non è necessariamente quello che prima era impiegato a scopi produttivi, dice — e a noi qui interessa soltanto l'ammissione che una parte del capitale è sempre inattiva —: «L'errore sta nell'ipotesi, 1) che l'intero capitale della nazione è pienamente impiegato; 2) che è un impiego immediato delle successive accumulazioni di capitale derivante dal risparmio, lo credo che in tutti i tempi vi siano porzioni di capitale che danno rendimenti molto lenti e scarsi profitti, e alcune porzioni che giacciono completa- niente inattive sotto forma di merci per le quali non v'è una domanda sufficiente ... Ora, se queste porzioni inattive e questi risparmi potessero essere trasferiti nelle mani dello Stato in cambio delle sue annualità, essi diventerebbero fonti di una nuova domanda, senza usurpare i diritti del capitale esistente» (p. 54, 55 La). «Qualsiasi quantità di prodotto che è sottratta al mercato dalla domanda del capitalista che risparmia, viene di nuovo restituita, con aggiunta, nei beni che egli riproduce. Lo Stato invece sottrae per consumare senza riprodurre... Quando i risparmi provengono dal reddito, è evidente che la persona autorizzata a godere della quota risparmiata è soddisfatta senza consumarla. Ciò dimostra che l'industria del paese è capace di aumentare i prodotti al di là dei bisogni della comunità. Se la quantità risparmiata è impiegata come capitale per riprodurre un valore equivalente a se stessa, insieme ad un profitto, questa nuova creazione, se è aggiunta al fondo generale, può essere prelevata solamente dalla persona che ha risparmiato, cioè proprio da quella persona che ha già manifestato la sua scarsa inclinazione al consumo ... Se ognuno consuma ciò che ha il potere di consumare, ci deve essere necessariamente un mercato. Chiunque risparmia sul suo reddito, rinuncia a questo potere e la sua quota rimane non assegnata. Se questo spirito di economia fosse generale, il mercato sarebbe necessariamente sovrassaturo, e la possibilità di trovare nuovi impieghi come capitale dipenderebbe dal grado di accumulazione di questo surplus» (56, 57). (Cfr. in generale questo scritto per la sezione sull'accumulazione). (Cfr. quaderno p. 68 e p. 7042 dove si mostra che il saggio dei profitti e dei salari aumenta in seguito all'aumento dei prezzi, attraverso la domanda di guerra, senza alcun riguardo per «l'ultima quantità di terra ultimamente messa a cultura»)43. «Durante la guerra di rivoluzione il saggio d'interesse sul mercato sali al 7, 8, 9 e persino 10%, sebbene durante tutto il periodo fossero coltivate
41
Estratti, nel quaderno londinese IX.
42 Cfr. W. BLAKE, Observations ecc., cit., pp. 50-57, 62-67, 69, 72-75, 77, 80-82.
43 Cfr. ibidem, p. 65.
terre della peggiore qualità» (l.c. pp. 64-66)44. «L'aumento dell'interesse al 6, 8, 10 e persino 12% dimostra l'aumento del profitto. Il deprezzamento del denaro, ammesso che esista, non poteva affatto alterare il rapporto tra capitale e interesse. Se 200 I. valgono ormai solo 100 I., 10 I. di interesse valgono ormai soltanto 5 I.; ciò che ha influenzato il valore del capitale, influenzerebbe ugualmente il valore dei profitti. Ciò non potrebbe alterare la relazione tra i due» (p. 73). «Il ragionamento di Ricardo, per cui il prezzo dei salari non può far aumentare i prezzi delle merci, non si adatta ad una società in cui una vasta classe non è costituita da produttori»45(l.c.) «Una quota più che legittima è ottenuta dai produttori a spese di quella porzione che di diritto appartiene alla classe costituita di soli consumatori» (p. 74). Ciò naturalmente è importante, giacché il capitale si scambia non solo col capitale stesso, ma anche col reddito, e ogni capitale può essere consumato come reddito. Ma ciò non riguarda la determinazione del profitto in generale. Questo, nelle diverse forme di profitti, interesse, rendita, pensioni, imposte ecc., può essere distribuito (così come una parte del salario) tra diverse categorie e classi della popolazione. Esse non possono mai dividersi più del plusvalore complessivo o del sovrapprodotto complessivo. La proporzione in cui se lo dividono è naturalmente importante dal punto di vista economico; ma non cambia affatto il problema di cui ci stiamo occupando.
«Se la circolazione di merci del valore di 400 milioni richiedesse una quantità di moneta circolante pari a 40 milioni, e questa proporzione di 1/10 fosse il livello adeguato, allora, posto che il valore delle merci circolanti aumenti a 450 milioni, per cause naturali, la moneta circolante, per mantenersi al suo livello, dovrebbe aumentare a 45 milioni, oppure i 40 milioni dovrebbero esser fatti circolare con una velocità talmente accresciuta, mediante operazioni bancarie o altri incentivi, da svolgere le funzioni di 45 milioni. Tale aumento, o tale velocità, è la conseguenza e non la causa dell'aumento dei prezzi » (Blake, l.c. p. 80 sg., cfr. quaderno p. 70).
«Con la conquista dell'Asia le classi alte e medie di Roma guadagnarono una enorme ricchezza, ma non essendo ricchezza creata dal commercio o dall'industria, essa fu simile a quella che la Spagna ottenne dalle colonie americane» ( Mackinnon , History of Civilisation, London 1846, t. I, p. 66)46
3.5.12 - [Agricoltura domestica all'inizio del XVI secolo. Tuckett
«Harrison asserisce» (ma vedi anche Eden)47 «che nel XIV secolo i farmers difficilmente riuscivano a pagare il fitto senza vendere una mucca, o un cavallo, o una parte del loro prodotto, sebbene pagassero al massimo 4 I. per una fattoria ... A quell'epoca il farmer consumava la maggior parte dei prodotti che dovevano essere raccolti, poiché i suoi servi sedevano alla sua tavola .. Le materie prime per il vestiario non venivano acquistate, ma ricavate dall'industria domestica. Gli strumenti agricoli erano così semplici che molti di essi erano costruiti o per lo meno tenuti in buono stato dal farmer stesso. Ogni piccolo proprietario terriero [yeomen] doveva conoscere la tecnica per costruire gioghi o forche, e i
44 Cfr. ibidem, pp. 64-65.
45 Cfr. ibidem, p. 173.
46 Cfr. W. A. MACKINNON, op. cit. Estratti, nei quaderno londinese IX.
47 Cfr. EDEN, The State ofthe Poor, ecc., cit., voi. I, pp. 119-120
congegni dell'aratro; questo lavoro occupava le loro sere d'inverno» (p. 324, 325 l.c. Tuckett, t. II).
3.5.13 - [Profitto - Interesse. Influsso delle macchine sul fondo di lavoro. Westminster Review]
Interesse e profitto: «Quando un individuo impiega produttivamente i propri risparmi, la remunerazione per il suo tempo e per la sua abilità è agency for superintendence [lavoro di direzione] (inoltre il profitto include il rischio a cui il capitale può essere stato esposto nella sua branca particolare); mentre la remunerazione per l'impiego produttivo dei suoi risparmi è l'interesse. Il complesso di questa remunerazione è il profitto lordo; quando un individuo impiega i risparmi di un altro, riceve soltanto la remunerazione per il suo lavoro di direzione. Quando un individuo presta i suoi risparmi ad un altro, riceve soltanto l'interesse o il profitto netto» («Westminster Review», gennaio 1826, p. 107, 108)48. Insomma qui interesse = profitto netto = remunerazione per l'impiego produttivo di risparmi; il vero e proprio profitto è la remunerazione per il lavoro di direzione durante l'impiego produttivo che egli ne fa. Il medesimo filisteo dice: «Ogni perfezionamento delle tecniche produttive che non disturba la proporzione tra le parti del capitale destinate a pagare i salari e quelle che non lo sono, comporta un incremento di occupazione per le classi lavoratrici: ogni nuovo impiego di macchine e di forza motrice comporta un incremento del prodotto e quindi del capitale; comunque possa diminuire la proporzione tra la parte del capitale nazionale che forma il fondo-salari e la parte diversamente impiegata, essa tende non a diminuire ma ad aumentare l'ammontare assoluto di questo fondo e quindi ad accrescere quantitativamente l'occupazione» (l.c. p. 123).
3.5.14 - [Denaro come misura dei valori e criterio dei premi. Critica delle teorie dell'unità di misura del denaro]
Dalla definizione del denaro come misura, così come, in secondo luogo, dalla legge fondamentale in base alla quale la massa del mezzo circolante, presupposta una determinata velocità di circolazione, è determinata dai prezzi delle merci e dalla massa delle merci circolanti a determinati prezzi, o dal prezzo globale, dalla grandezza globale delle merci, la quale a sua volta è determinata da due circostanze:
)dal livello del prezzo delle merci;
)dalla massa delle merci che si trovano in circolazione a determinati prezzi; inoltre,
)dalla legge in base alla quale il denaro come mezzo di circolazione diventa in moneta, momento puramente evanescente, mero segno dei valori che scambia — derivano più
Estratti da questa rivista, voi. V, London 1826, nel quaderno IX.
precise determinazioni che noi svilupperemo solo là dove e nella misura in cui coincidono con rapporti economici più complessi, come la circolazione creditizia, il corso cambiario
ecc.49
È necessario evitare ogni dettaglio, e, se occorre introdurlo, occorre farlo solo là dove esso perde il suo carattere elementare.
Anzitutto la circolazione del denaro, come la forma più superficiale (nel senso di spinta alla superficie) e più astratta dell'intero processo di produzione, è in se stessa assolutamente priva di contenuto, tranne che non si voglia dire che le sue stesse differenze formali, quelle determinazioni semplici sviluppate già nella sezione II50, costituiscono il suo contenuto. È evidente che la circolazione semplice del denaro, considerata in sé, non è ripiegata su se stessa, ma consiste di un numero infinito di movimenti indifferenti e accidentalmente giustapposti. Si può considerare per esempio la moneta come punto di partenza della circolazione del denaro, ma non si verifica alcuna legge di riflusso verso la moneta tranne il deprezzamento per uso e consumo che rende necessaria la rifusione e una nuova emissione di moneta. Ciò riguarda soltanto l'aspetto materiale e non costituisce affatto un momento della circolazione stessa. Nell'ambito della circolazione il punto di ritorno può essere diverso dal punto di partenza; nella misura in cui ha luogo un ripiegamento, la circolazione del denaro si presenta come mero fenomeno di una circolazione che sta alle sue spalle e che la determina, come per esempio quando consideriamo la circolazione di denaro tra fabbricante, operaio, bottegaio e banchiere. Inoltre le cause che riguardano la massa delle merci messe in circolazione, l'aumento e la diminuzione dei prezzi, la velocità della circolazione, la quantità dei pagamenti simultanei ecc., sono tutte circostanze esterne alla circolazione semplice del denaro. Sono rapporti che si esprimono in essa; la quale dà loro, per così dire, i nomi; ma che non sono spiegabili in base alla sua differenziazione. Diversi metalli fungono da denaro e hanno, l'uno rispetto all'altro, un diverso e mutevole rapporto di valore. Così nasce il problema del doublé standard, che assume forme storico-mondiali. Ma, appunto, le assume soltanto, e il doublé standard interviene esso stesso solo in virtù del commercio estero, ossia presuppone, per essere proficuamente considerato, lo sviluppo di rapporti ben più elevati del semplice rapporto del denaro.
Il denaro come misura del valore non viene espresso in quote di metallo prezioso, bensì in moneta di conto, denominazioni arbitrarie che stanno a indicare parti aliquote di una determinata quantità della sostanza del denaro. Queste denominazioni possono essere cambiate, il rapporto tra moneta e sua sostanza metallica può essere alterato, pur restando identica la denominazione. È il caso delle falsificazioni, che giocano un ruolo importante nella storia degli stati; è il caso poi delle diverse specie di denaro nei diversi paesi. Questo problema ha un interesse soltanto riguardo al corso cambiario.
Il denaro è misura solo perché materializza tempo di lavoro in una determinata sostanza, e quindi è esso stesso valore, o meglio perché questa determinata materializzazione vale come sua materializzazione oggettiva-universale, come la materializzazione del tempo di lavoro in quanto tale a differenza delle incarnazioni soltanto particolari di esso; ossia, perché è un equivalente. Ma poiché nella sua funzione di misura il denaro è soltanto un criterio di comparazione ideale, e ha bisogno di esistere soltanto idealmente — si ha soltanto l'ideale traduzione delle merci nella loro generica esistenza di valori —, poiché inoltre con questa qualità di misuratore esso figura soltanto come moneta di conto, sicché
49 Sulle varie teorie del corso dei cambi Marx ha raccolto e criticamente vagliato una ricca massa di materiali
nell'abbozzo, inedito, Geldwesen, Kreditwesen, Krisen, redatto tra il 1854 e 1855.
50 Ossia nel capitolo « Il denaro », voi. I, di questa edizione per la rete internet..
io dico; una merce vale tanti scellini, franchi ecc., quando la traduco in denaro — tutto ciò ha dato adito alla confusa rappresentazione, sviluppata da Steuart e periodicamente, anzi proprio recentemente rimessa in auge in Inghilterra come profonda scoperta, di una misura ideale. Con la quale si intende che i nomi sterlina, scellino, ghinea, dollaro ecc., che valgono come unità di conto, non sono determinate denominazioni di determinate quantità di oro, di argento ecc., bensì meri criteri di comparazione arbitrari i quali non esprimono alcun valore e alcuna quantità determinata di tempo di lavoro oggettivato. Donde tutte le chiacchiere sulla fissazione del prezzo dell'oro e dell'argento — il prezzo, da intendere qui, del nome con cui vengono designate parti aliquote. Un'oncia d'oro attualmente viene suddivisa in 3 I., 17 sh. e 10 d. Ciò viene chiamato fissazione del prezzo; si tratta, come osserva giustamente Locke, soltanto della fissazione del nome di parti aliquote di oro e argento ecc. Espressi in se stessi, naturalmente, oro e argento sono identici a se stessi. Un'oncia è un'oncia, sia che io la chiami 3 sterline oppure 20 sterline. In breve, questa misura ideale nel senso di Steuart vuol dire questo: se io dico: la merce a vale 12 sterline, la merce b 6, la merce e 3, esse stanno come 12:6:3. I prezzi non esprimono altro che i rapporti in cui esse vengono scambiate. Si scambiano 2b per 1a e 1/2b per 3c. Ora, al posto della proporzione di a, b, e in denaro reale, che ha esso stesso un valore, che è un valore, io non potrei sostituire altrettanto validamente a £., che esprime una determinata quantità di oro, un qualsiasi nome arbitraria privo di contenuto (questo significa qui ideale), per esempio maccarello, e dire: a = 12 maccarelli; b = 6 m., e = 3 m. Questo termine m qui è soltanto un nome, senza alcun riferimento ad un contenuto ad esso pertinente. L'esempio, di Steuart del grado, della linea, del secondo non dimostra nulla; giacché sebbene il grado, la linea, il secondo abbiano grandezze mutevoli, essi non sono puri nomi, ma esprimono sempre la parte aliquota di una determinata grandezza spaziale o temporale. Essi hanno dunque effettivamente una sostanza. Qui si trasforma il fatto che il denaro determinato come misura funzioni semplicemente come, denaro ideale, nel fatto che esso sarebbe una rappresentazione arbitraria, un semplice nome, e cioè un nome che sta ad indicare il rapporto di valore numerico. Un nome per un semplice rapporto numerico. Giusto sarebbe allora non esprimere alcun nome, ma semplicemente un rapporto numerico, giacché tutto si riduce a dire: io ricavo 6b per 12a, 3c per 6b; questo rapporto può essere espresso anche così: a = 12x, b = 6x, c=3x; ove la x non è che un nome che sta per il rapporto di a : b e b : e. Il semplice rapporto numerico, senza una determinazione, non andrebbe bene giacché a:b=12:6 = 2:1,eb:c = 6:3 = 2:1. Quindi e = 1/2. Quindi b = 1/2, quindi b = e. Quindi a = 2 e b = 2; quindi a = b.
Prendiamo un qualsiasi listino dei prezzi correnti51, per esempio soda, 35 sh. al zentner, cacao, 60 scellini la libbra; ferro (verghe), 145 scellini la tonnellata ecc. Ora, per avere il rapporto reciproco di queste merci, io posso senz'altro dimenticare l'argento che è nello scellino; i numeri 35, 60, 145 ecc. bastano da soli a determinare i rapporti di valore reciproci della soda, del cacao e delle verghe di ferro. Bastano questi numeri privi di denominazione; e non solo io posso dare alla loro unità, all' 1, qualsiasi nome, senza riferimento a un valore qualsiasi; ma io non ho bisogno di darle alcun nome. Steuart52 insiste sul fatto che io debba dare un nome qualsiasi, ma che questo, come nome puramente arbitrario dell'unità, come indice di proporzione non può essere poi fissato per una qualsiasi quantità d'oro, d'argento o di un'altra merce.
51 Marx ha utilizzato uno de! numeri de\\'«.Economisb> tra il 6 febbraio e il 6 marzo 1858. Cfr., nella parte
Commercial Times, la rubrica Weekley Price Current.
52 Cfr. J. STEUART, An inquiry ecc. cit. voi I
In ogni misura, quando serva da criterio di paragone, quando cioè gli elementi diversi che devono essere paragonati sono posti nel rapporto di numero a misura come unità e vengono quindi riferiti l'uno all'altro, la natura della misura diventa indifferente e scompare nell'atto stesso della comparazione; l'unità di misura diventa semplice unità numerica; la qualità di questa unità, il fatto per esempio che si tratti di una misura di lunghezza o di una misura temporale o di un grado angolare, scompare. Ma è solo quando i diversi elementi sono già presupposti come elementi misurati, che l'unità di misura designa soltanto la loro proporzione reciproca, ossia per esempio, nel nostro caso, la proporzione dei loro valori. L'unità di conto non solo prende nomi diversi nei diversi paesi, ma è per esempio il nome che sta ad indicare le diverse parti aliquote di un'oncia di oro. Il corso cambiario però le riduce tutte a questa unità ponderale di oro o argento. Se dunque io suppongo le diverse grandezze delle merci, per esempio come sopra = 35 scellini, 60 scellini, 145 scellini allora ai fini della loro comparazione, poiché ora l'1 è stato presupposto come identico in tutte ed esse sono state rese commensurabili, diventa del tutto superflua l'osservazione che «scellino» è una determinata quantità d'argento, il nome che sta ad indicare una determinata quantità d'argento. Ma esse diventano reciprocamente commensurabili come semplici grandezze numeriche, come numero di una unità omonima a piacere, ed esprimono proporzioni reciproche, solo quando ogni singola merce è misurata con quella che funge da unità, da misura. Ma io posso misurarle reciprocamente, renderle cioè commensurabili, solo in quanto esse hanno una unità — e questa è il tempo di lavoro contenuto in entrambe. L'unità di misura deve essere una certa quantità di una merce, nella quale sia oggettivata una quantità di lavoro. E poiché la stessa quantità di lavoro non è sempre espressa nella stessa quantità di oro per esempio, ecco che il valore di questa unità di misura stessa è variabile. Ma se il denaro viene considerato soltanto come misura, questa variabilità non è un ostacolo. Nello stesso baratto, quando è sviluppato in una certa misura come tale, quando cioè è un'operazione reiterata normale e non solo un atto di scambio isolato, qualsiasi altra merce figura come unità di misura, per esempio in Omero il bestiame. Per il Papua selvaggio della costa, che per «ottenere un articolo straniero baratta 1 o 2 dei suoi figli, e se non li ha sottomano, se li fa prestare dal suo vicino, promettendo di dare in cambio i propri quando ci saranno (e questa richiesta raramente viene rifiutata)»53, non esiste alcuna misura per lo scambio. L'unico aspetto dello scambio che per lui esiste è questo: che solo alienando le cose che possiede egli può appropriarsi di quelle altrui. Questa alienazione stessa per lui non è regolata che dal suo capriccio da un lato, e dall'entità dei suoi beni mobili dall'altro. Neil'Economist del 13 marzo 1858 si può leggere, in una lettera al direttore, quanto segue: «Poiché in Francia la sostituzione dell'oro all'argento nel sistema monetario in uso (che è stata finora il mezzo principale per assorbire l'oro proveniente dai nuovi giacimenti scoperti) deve raggiungere il suo punto limite, per il motivo particolare che occorrerà meno moneta per un commercio in ristagno e prezzi in diminuzione, noi possiamo aspettarci a breve scadenza che il prezzo di 3 I. 17 sh. 10,5 d. all'oncia che abbiamo fissato attirerà l'oro»54.
Cosa significa questo «prezzo che abbiamo fissato per un'oncia» d'oro? Non significa altro se non che una certa parte aliquota di un'oncia si chiama penny, un certo multiplo di questo penny.weight d'oro si chiama shilling, e un certo multiplo di questo schilling-weight d'oro si chiama pound? Crede, questo signore, che in altri paesi il fiorino d'oro, il luigi d'oro, non indichino ugualmente una determinata quantità d'oro, cioè che una determinata quantità [d'oro] non abbia un nome fisso? e che ciò sia un privilegio dell'Inghilterra? o una
co
Fonte ignota.
54 Cfr. «The Economist», voi. XVI, N. 759, March 13, 1858, pag.290, articolo Will the law rate o interest last? To the Editor of the Economist
sua specialità? Crede che una moneta-denaro espressa in oro sia più moneta-denaro in Inghilterra e meno in altri paesi? Sarebbe curioso sapere che cosa intende, l'illustre, per corso cambiario.
Ciò che induce in errore Steuart è questo: i prezzi delle merci non esprimono altro che i rapporti in cui esse sono reciprocamente scambiabili, le proporzioni in cui esse si scambiano reciprocamente. Date queste proporzioni, io posso dare all'unità qualsiasi nome, perché basterebbe l'astratto numero, privo di denominazione, sicché invece di dire: questa merce = 6 oppure = 3 sedie, ecc. io potrei dire questa merce = 6 oppure = 3 di una unità; non avrei affatto bisogno di dare all'unità un nome.
Trattandosi soltanto di una proporzione numerica, io posso darle qualsiasi nome. Ma qui si è già presupposto che queste proporzioni sono date, che le merci sono previamente diventate grandezze commensurabili. Una volta poste come grandezze commensurabili, i loro rapporti diventano semplici proporzioni numeriche. Il denaro si presenta appunto come misura, e una determinata quantità di merce in cui esso si esprime si presenta come unità di misura per trovare le proporzioni, dire che le merci sono commensurabili, e scambiarle. Questa unità reale è il tempo di lavoro che vi è relativamente oggettivato. Ma è il tempo di lavoro stesso posto come generale. Il processo attraverso il quale i valori, nell'ambito del sistema del denaro, vengono determinati dal tempo di lavoro, non rientra nell'analisi del denaro stesso ed esula dalla circolazione; sta alle sue spalle come presupposto e causa efficiente. Il problema potrebbe essere soltanto questo: invece di dire, questa merce è = un'oncia d'oro, perché non si dice direttamente, essa è = x tempo di lavoro, oggettivato in un'oncia d'oro? Perché il tempo di lavoro, che è la sostanza e la misura del valore, non è al tempo stesso la misura dei prezzi, o in altri termini, perché prezzo e valore in generale sono diversi? La scuola di Proudhon crede di fare gran cosa quando chiede che questa identità sia istituita e che il prezzo delle merci venga espresso in tempo di lavoro. La coincidenza tra prezzo e valore suppone l'uguaglianza tra domanda e offerta, il puro scambio di equivalenti (e quindi non di capitale con lavoro) ecc.; in breve, formulato in termini economici, si vede subito che questo postulato è la negazione di tutto il fondamento dei rapporti di produzione basati sul valore di scambio. Ma se facciamo l'ipotesi che questa base sia soppressa, cade d'altra parte anche il problema che esiste solo su e con quella base. Dire che la merce, nella sua immediata esistenza di valore d'uso, non è valore, non è la forma adeguata del valore, equivale a dire che essa lo è in quanto qualcosa di materialmente diverso o in quanto equiparata ad un'altra cosa; ovvero, che il valore possiede la sua forma adeguata in una cosa specifica distinta dalle altre. Le merci sono lavoro oggettivato in quanto valori; il valore adeguato deve perciò presentarsi esso stesso nella forma di una cosa determinata, come forma determinata del lavoro oggettivato.
Le fantasticherie sull'unità di misura ideale vengono illustrate, in Steuart, mediante due esempi storici, dei quali l'uno, quello del denaro di banca di Amsterdam, dimostra esattamente il contrario, giacché li non si tratta di altro che della riduzione delle monete circolanti al loro contenuto aureo e argenteo (contenuto metallico); mentre il secondo è stato ripetuto da tutti gli economisti più recenti che seguono il suo stesso indirizzo. Urquhart per esempio fa l'esempio della Barberia, dove una ideale barra, una barra di ferro, una barra di ferro puramente simbolica, vale come unità di misura che non aumenta né diminuisce di valore. Se per esempio la barra di ferro reale diminuisce del 100%, la barra vale 2 barre di ferro, se aumenta di nuovo del 100%, ne vale una sola. Il sig. Urquhart nello stesso tempo ha notato addirittura che nella Barberia non esistono crisi, né commerciali, né industriali, e tanto meno crisi monetarie, e attribuisce il fatto ai magici
effetti di questa misura ideale del valore55. Questa misura simbolica, «ideale», non è altro che un valore reale simbolico, un simbolo che però, poiché il sistema monetario non ha sviluppato le sue ulteriori determinazioni — uno sviluppo che dipende da tutt'altri rapporti — non giunge ad avere nessuna realtà oggettiva. È come se nella mitologia si volesse attribuire una superiorità a quelle religioni le cui figure divine non sono elaborate in forma intuitiva, ma rimangono invece ferme alla rappresentazione, e quindi ricevono al massimo un'esistenza linguistica, ma non iconografica. La barra si basa su una barra di ferro reale, che in seguito è stata trasfigurata in un ente di fantasia e fissata come tale. Un'oncia d'oro, espressa in moneta di conto inglese, è = 3 I. 17 sh 10,5 d. Bene. Supponiamo che una libbra di seta abbia avuto esattamente questo prezzo, ma che questo sia successivamente diminuito, come accadde alla seta grezza di Milano, che il 12 mano '58 a Londra stava a 1 I. 8 sh.56. Si tratta della rappresentazione di una quantità di ferro, di una barra di ferro, che mantiene il medesimo valore 1) in rapporto a tutte le altre merci, 2) in rapporto al tempo di lavoro in essa contenuto. Questa barra di ferro naturalmente è puramente immaginaria, solo che non è così fissa e «ferma come uno scoglio nel mare» come Steuart e cento anni più tardi Urquhart ritengono. Tutto ciò che di fisso c'è nella barra è il nome; nell'un caso la barra di ferro reale ne contiene 2 ideali, nell'altro ne contiene soltanto 1. Ciò viene espresso dicendo che la medesima e immutabile barra, ideale una volta = 2, un'altra = 1 barra reale. Posto questo, è solo il rapporto delle barre di ferro reali che è mutato, non la barra ideale. Ma in effetti la barra di ferro ideale in un caso è lunga il doppiò che nell'altro caso, ed è soltanto il suo nome immutato. Una volta sono chiamate per esempio una barra 100 libbre di ferro, un'altra 200 libbre. Supponiamo che si emetta denaro che rappresenta tempo di lavoro, per esempio cedole-orario; questa cedola-orario potrebbe a sua volta ricevere un nome qualsiasi, chiamarsi per esempio una libbra, un ventesimo di ora chiamarsi 1 sh., 1/240 di ora 1 d. d'oro e d'argento, così come tutte le altre merci, a seconda del tempo di produzione che costano, esprimerebbero vari multipli o parti aliquote di libbre, scellini, pence, e un'oncia di oro potrebbe essere tanto = 8 I., 6 sh. 3 d. quanto =
3 I., 17 sh. ,10,5 d.
In questi numeri sarebbe sempre espressa la proporzione in cui una determinata quantità di lavoro è contenuta nell'oncia. Invece di dire che 3 I., 17 sh., 10,5 d. sono = un'oncia d'oro, costano ormai solo 1/2 libbra di seta, si può immaginare che l'oncia ora è = 7 I., 15 sh., 9 d. o che 3 I., 17 sh., 10,5 d. sono ormai uguali soltanto a mezza oncia, perché ormai hanno soltanto metà del loro valore. Se confrontiamo per esempio i prezzi del XV secolo in Inghilterra con quelli del XVIII, possiamo trovare che due merci per esempio avevano esattamente lo stesso valore monetario nominale, per esempio 1 Lst. In questo caso la Lst. è unità di misura, ma nel primo caso esprime un valore quadruplo o quintuplo rispetto al secondo caso, e noi potremmo dire che se il valore di questa merce nel XV secolo era = 1 oncia, nel XVIII esso è = 1/4 di oncia d'oro; perché nel XVIII secolo 1 oncia d'oro esprime il medesimo tempo di lavoro di 1/4 di oncia nel XV secolo. Si potrebbe dunque dire che la misura, la libbra, sia rimasta la stessa, ma nel primo caso equivale ad una quantità d'oro quattro volte maggiore che nell'altro. Questa è la misura ideale. Questo confronto che noi qui facciamo potevano farlo anche gli uomini del XV secolo se fossero vissuti fino al XVIII; e avessero potuto dire che 1 oncia d'oro, che attualmente vale 1 Lst., prima ne valeva soltanto 1/4.
4 libbre d'oro oggi non valgono più che 1 nel XV secolo per esempio. Se questa libbra
prima si chiamava livre, io posso presumere che una livre sia stata allora = 4 libbre d'oro e
attualmente sia ormai soltanto = 1; il valore dell'oro sarebbe mutato, mentre la misura del
55 Cfr. D. URQUHART, Familiar Words ecc,, cit., p. 112.
56 Cfr. «The Economist», voi. XVI, N. 759, March 13, 185 p. 300.
valore, la livre, sarebbe rimasta la stessa. In effetti, una livre originariamente equivaleva in Francia e in Inghilterra ad 1 libbra d'argento, e attualmente soltanto ad 1/x. Si può dire dunque che il nome livre, l'unità di misura, sia rimasta nominalmente sempre la stessa, mentre l'argento abbia mutato il suo valore. Un francese che fosse vissuto dall'epoca di Carlomagno fino ad oggi, potrebbe dire che la livre d'argento sia sempre rimasta unità di misura del valore, non sia mai mutata, ma sia valsa talvolta 1 libbra d'argento, e attraverso varie vicende alla fine soltanto 1/x di un Lof. Il braccio, Elle, è sempre lo stesso; ma la sua lunghezza è diversa nei diversi paesi. È come se, per esempio, il prodotto di una giornata lavorativa, l'oro, che può essere estratto in una giornata di lavoro, ricevesse il nome di livre; questa livre rimarrebbe sempre la stessa, anche se esprimerebbe quantità d'oro assai diverse in diversi periodi0.
Come facciamo, in realtà, quando confrontiamo 1 Lst. del XV secolo con 1 Lst. del XVIII? Entrambe rappresentano una medesima quantità di metallo (ciascuna = 20 sh.), ma hanno un diverso valore; giacché il metallo valeva allora 4 volte più di oggi. Noi quindi diciamo: rispetto ad oggi la livre era = 4 volte la quantità di metallo che oggi contiene. E si potrebbe presumere che la livre sia rimasta sempre la stessa, ma che allora sia stata = 4 \ivres d'oro effettive, oggi soltanto = 1. Il ragionamento sarebbe soltanto comparativamente esatto, non in relazione alla quantità di metallo, ma in relazione al suo valore; ma questo valore si esprime a sua volta quantitativamente in questo modo, che 1/4 di livre d'oro allora era = 1 livre d'oro di oggi. Bene; la livre è identica, ma allora era = 4 livres d'oro effettive (al valore odierno) = 1 soltanto di oggi. Se il valore dell'oro diminuisce, e la sua diminuzione o il suo aumento rispetto ad altri articoli si esprimono nei prezzi di questi ultimi, invece di dire che un oggetto che prima costava 1 I. d'oro, oggi ne costa 2, si potrebbe dire che esso costa pur sempre una libbra, ma oggi una libbra vale 2 livres d'oro effettive, ecc.; ossia 1 livre di 2 livres d'oro ecc. Invece di dire: io ho venduto questa merce ieri a 1 I., mentre oggi la vendo a 4 I., si potrebbe dire: io la vendo a 1 I., ma ieri ad 1 I. di 1 I effettiva, oggi ad 1 I. di 4 libbre effettive. Gli altri prezzi risultano tutti automaticamente non appena si fissa il rapporto della barra reale con quella immaginaria; ove però si tratta semplicemente di un confronto tra il valore passato della barra e il suo valore presente. Sarebbe come calcolare tutto in Lst. del XV secolo per esempio. Il berbero o il negro fanno la stessa cosa che deve fare lo storico il quale, seguendo le vicende secolari di un medesimo tipo di moneta, del titolo permanente di una moneta avente identico contenuto metallico, la calcola in denaro attuale: deve equipararla a più o meno oro a seconda del valore mutevole attraverso i vari secoli. Lo sforzo dei popoli semi civilizzati è inteso a mantenere fissa l'unità monetaria, la quantità di metallo che fa da misura, anche come valore; e a mantenere questo valore anche come misura fissa. Ma al tempo stesso sono abbastanza furbi per sapere che la barra ha mutato il suo valore reale. Data la scarsità di merci che il berbero deve misurare, e la forza della tradizione presso i popoli semi civilizzati, questo complicato sistema di calcolo non è poi tanto difficile come sembra a prima vista.
1 oncia = 3 Lst. 17 sh. 10,5 d., ossia = 4 Lst. scarse. Ma per comodità, supponiamo che sia esattamente = 4 I. Allora 1/4 di un'oncia d'oro riceve il nome di libbra e con questo nome serve da moneta di conto. Questa libbra però muta il suo valore, in parte relativamente, in rapporto al valore di altre merci che mutano il loro valore, in parte in quanto essa stessa è il prodotto di più o meno tempo di lavoro. L'unica cosa fissa in essa
a Equivalente a mezza oncia.
b Cancellato nel manoscritto: «Un'oncia d'oro nel 18° secolo ha ormai soltanto 1/4 del valore che aveva nel 15°; ossia 4 once d'oro, se guardiamo al loro valore, sono = 1 oncia di tre secoli prima. Se il nome "oncia" fosse mantenuto come unità di conto, si potrebbe dire che l'oncia nel 15° secolo valeva 4 once reali, mentre nel 18° ne valeva soltanto una»
è il nome, e la quantità, la parte aliquota dell'oncia, cioè la parte ponderale d'oro di cui essa è il nome, e che è contenuta in un pezzo di denaro chiamato una libbra.
Se il selvaggio vuole fissarla come valore immutabile, la quantità di metallo che essa contiene per lui si modifica. Se il valore dell'oro diminuisce del 100%, per lui la libbra continua ad essere misura del valore, ma diventa una Lst. di 2/4 di oncia d'oro. La libbra è per lui sempre uguale ad una quantità d'oro (ferro), che ha il medesimo valore. Ma poiché questo valore muta, essa sarà uguale ora ad una quantità maggiore di oro effettivo o di ferro, ora ad una quantità minore, secondo che se ne debbano dare più o meno in cambio di altre merci. Egli confronta il valore presente con quello passato che per lui fa da unità di misura e sopravvive soltanto nella sua immaginazione. Perciò, invece di calcolare in base a 1/4 di oncia d'oro il cui valore muta, egli calcola in base al valore che 1/4 di oncia d'oro aveva prima, ossia in base ad un ideale valore immutabile di 1/4 di oncia, il quale però si esprime in quantità mutevoli. Da una parte, lo sforzo di mantenere la misura di valore come valore fisso; dall'altra la furbizia di aggirarne indirettamente gli inconvenienti. Ma è del tutto assurdo considerare come una forma storico-organica o addirittura porre come qualcosa di superiore rispetto ai rapporti evoluti questa accidentale mossa di aggiramento con cui i semiselvaggi si sono assimilati la misurazione dei valori con denaro impostagli dall'esterno; giacché essi prima l'hanno fatta, e una volta fattala ci si sono adattati. Anche questi selvaggi prendono le mosse da una quantità, dalla barra di ferro; ma ne fissano il valore, che essa aveva tradizionalmente, come unità di misura ecc.
Nell'economia moderna tutta questa questione ha acquistato importanza attraverso due circostanze: 1) Si è sperimentato per vari periodi, in Inghilterra per esempio durante la guerra di rivoluzione, che il prezzo dell'oro grezzo superava il prezzo dell'oro monetato. Questo fenomeno storico sembrò dunque la manifestazione incontestabile del fatto che i nomi libbra, scellino, pence ecc. che. determinate parti ponderali aliquote dell'oro (metallo nobile) acquistano per un processo inesplicabile, mantengono una autonomia rispetto alla sostanza di cui sono i nomi. Se così non fosse, come potrebbe un'oncia d'oro valere di più della medesima oncia coniata in 31. 17 sh. 10,5 d.?
Oppure, come potrebbe un'oncia d'oro valere di più di 4 livres d'oro, se livre è soltanto un nome per 1/4 di oncia? Approfondendo l'indagine, si scoprì pertanto che nemmeno le monete che circolavano sotto il nome di libbre, avevano più, di fatto, il contenuto metallico normale, e che insomma, per esempio, 5 libbre circolanti pesavano di fatto soltanto un'oncia d'oro (della medesima finezza). Poiché una moneta che si presumeva rappresentasse (all'incirca) 1/4 di oncia d'oro, ne rappresentava ormai di fatto solo 1/5, era molto facile che l'oncia fosse = tale £. circolante; quindi il bullion price [prezzo di lingotto] superava il mint price [prezzo di zecca] in quanto di fatto quella che si chiamava libbra, che rappresentava ufficialmente denaro, non era più 1/4, ma soltanto ormai 1/5 di un'oncia d'oro; era ormai soltanto il nome di 1/5 di oncia. Lo stesso fenomeno si verificava quando, mentre il contenuto metallico delle monete circolanti non era sceso al di sotto della sua misura normale, esse però circolavano simultaneamente con la cartamoneta deprezzata, e ne era proibita la fusione e l'esportazione. In questo caso l'1/4 di oncia d'oro che circolava sotto forma di una I. contribuiva al deprezzamento dei biglietti; un destino da cui il denaro in lingotti era esentato (La coniatura può elevare anche all'interno di un paese il prezzo di zecca sul prezzo di lingotto.). Il fenomeno era sempre lo stesso; il nome di conto «libbra» non era più il nome di 1/4 di oncia, ma lo era di una quantità inferiore. L'oncia equivaleva dunque a 5 di queste libbre per esempio Ciò significava dunque che il prezzo di lingotto era salito al di sopra del prezzo di zecca. Questi o analoghi fenomeni storici, tutti altrettanto facilmente risolvibili e tutti appartenenti ad una medesima serie, dettero la prima spinta all'assunzione di una misura ideale , tale che il denaro come misura fosse soltanto
un parametro, non una determinata quantità. Centinaia di volumi sono stati scritti su questo caso in Inghilterra da 150 anni a questa parte.
Che un determinato tipo di moneta dovesse superare il suo contenuto metallico, non è in se stesso un fatto sorprendente, giacché alla moneta viene aggiunto (nella forma) nuovo lavoro. Ma a prescindere da questo, sta di fatto che il valore di un determinato tipo di moneta supera il suo contenuto metallico. È un fatto che non ha alcun interesse economico e che non ha suscitato nessuna analisi economica. Esso non vuol dire altro se non che, per determinati scopi, l'oro e l'argento erano richiesti proprio in quella forma, putacaso nella forma di sterline inglesi o di dollari spagnoli. I direttori di banca avevano naturalmente un interesse particolare a dimostrare che non era diminuito il valore dei biglietti, bensì era aumentato quello dell'oro. Ma per quanto riguarda quest'ultima questione, può essere trattata solo in seguito.
2) La teoria della misura ideale del valore invece fu avanzata per la prima volta agli inizi del XVIII secolo e tornò in auge nel secondo decennio del XIX, quando si affrontarono problemi in cui il denaro non figura come misura, e nemmeno come mezzo di scambio, ma come equivalente permanente, come valore per se stante (nella terza determinazione) e perciò, come materia generale dei contratti. Sia la prima che la seconda volta, si trattava di sapere se i debiti pubblici o di altra natura contratti in denaro deprezzato, dovessero essere riconosciuti e saldati in denaro a pieno valore oppure no. Era semplicemente un problema di rapporti tra creditori dello Stato e il resto della nazione, e come tale qui non ci interessa. Coloro i quali chiedevano una rivalutazione del credito da una parte, e delle obbligazioni dall'altra, ponendo il dilemma: modificare oppure no lo standard of money? [il titolo, o rapporto tra fino e lega del denaro] — si posero su un falso terreno. Fu proprio in tale occasione che furono avanzate tali rozze teorie sullo standard of money, sulla fissazione del prezzo dell'oro ecc. («Alterare lo standard significa alterare le misure o i pesi della nazione». Steuart57. È chiaro a prima vista che la quantità di frumento di una nazione non si modifica per il fatto che la misura di capacità di un moggio per esempio viene aumentata o diminuita del doppio. Ma la modificazione avrebbe molta importanza per quei fittavoli per esempio che dovessero pagare la rendita granaria in un determinato numero di moggi, se cioè essi, una volta raddoppiata la misura, dovessero pagare lo stesso numero di moggi stabiliti). In questo caso furono i creditori dello Stato che si attennero saldamente al nome «libbra», cioè alla «misura ideale», indipendentemente dalla parte aliquota ponderale d'oro che essa esprimeva — giacché tale misura ideale di fatto non è altro che il nome di conto della parte ponderale di metallo che serve da misura. Ma paradossalmente erano proprio i loro avversari che avanzavano questa teoria della «misura ideale», per poi combatterla. Invece di chiedere una semplice rivalutazione, o di chiedere che ai creditori dello Stato fosse retribuita in oro soltanto la quantità che avevano effettivamente anticipato, essi chiedevano che lo standard fosse abbassato in misura corrispondente al deprezzamento; sicché per esempio, se la Lst. era scesa a 1/5 di oncia d'oro, essi pretendevano che questo 1/5 di oncia portasse in futuro il nome di libbra, o che la libbra fosse coniata in 21 scellini, invece che in 20. Questo abbassamento dello standard equivaleva ad un rialzo del valore dell'oro; giacché l'oncia in quel momento era = 5 I., mentre prima era stata = 4. Perciò essi non dicevano che coloro i quali avevano anticipato per esempio una oncia d'oro in 5 libbre deprezzate, dovessero riottenere ora soltanto 4 libbre a pieno valore; dicevano invece che dovevano riottenere 5 libbre, ma in futuro la libbra avrebbe dovuto esprimere 1/20 d'oncia in meno di prima. Quando avanzarono questa richiesta in Inghilterra dopo il ripristino del cash-payment [pagamento in contanti], la moneta di conto aveva raggiunto di nuovo il suo vecchio valore metallico. In
57 Cfr. J. STEUART, An Inquiry ecc., cit., voi II p. 110.
tale occasione allora furono riproposte le vecchie rozze teorie sul denaro come misura del
valore e, col pretesto di confutare queste teorie la cui falsità era facile dimostrare, furono
contrabbandati gli interessi dei creditori dello Stato. La prima battaglia di questo genere fu
quella che si svolse tra Locke e Lowndes. Dal 1688 al 1695 i prestiti dello Stato furono
contratti in denaro deprezzato — deprezzato in seguito al fatto che tutto il denaro di buona
lega era stato rifuso e circolava solo quello di bassa lega. La ghinea era aumentata a 30
sh. Lowndes (direttore della zecca?) (secretary to the treasury) voleva che la Lst. fosse
ridotta del 20%; Locke insisteva per il vecchio standard di Elisabetta. Nel 1695 si
procedette ad una fusione e riconiazione generale. Locke aveva vinto. Debiti contratti a 10
e 14 sh. la ghinea, furono restituiti al tasso di 20 sh. Il che avvantaggiò ugualmente lo
Stato e i proprietari fondiar58. «Lo'wndes pose il problema su un terreno falso. Prima
sostenne che il suo progetto non comportava un abbassamento del vecchio standard. Poi
attribuì il rialzo del prezzo di lingotto al valore intrinseco dell'argento e non all'incostanza
della moneta con cui veniva acquistato. Egli partì sempre dalla premessa che il conio e
non la sostanza costituisce la moneta circolante ... Locke da parte sua si domandò
soltanto se il progetto di Lowndes implicasse uno svilimento oppure no, ma non indagò gli
interessi di coloro che sono legati da contratti permanenti. Il grande argomento del sig.
Lowndes a favore della riduzione dello standard consisteva nel fatto che il lingotto
d'argento era aumentato a 6 sh. 5 d. per oncia (cioè che lo si sarebbe potuto acquistare
con 77 pence di scellini rappresentanti 1/77 parte di una pound troy) e perciò era
dell'opinione che la pound troy avrebbe dovuto essere coniata in 77 sh., il che significava
una diminuzione del valore della Lst. del 20% o 1/5. Locke gli rispose che i 77 d. venivano
pagati in moneta tosata e che in peso non avrebbero superato le 62 pence di moneta
standard ... Ma un uomo che avesse preso a prestito 1000 Lst. in tale moneta tosata,
doveva essere obbligato a restituire 1000 I. di peso standard? Sia Locke che Lowndes
analizzarono solo del tutto superficialmente l'influsso della modificazione dello standard
sul rapporto tra debitori e creditori, ... allora il sistema creditizio era ancora poco sviluppato
in Inghilterra ... ci si preoccupava soltanto dell'interesse fondiario e di quello della Corona.
A quell'epoca il commercio era quasi del tutto fermo, ed era stato innalzato a guerra
piratesca
Restaurare lo standard era la soluzione più favorevole, sia per l'interesse fondiario che per quello della finanza pubblica; e fu ciò che si fece» (Steuart, l.c. t. Il, p. 178, 179). Steuart osserva ironicamente a proposito di tutta questa manovra: «Con il rialzo dello standard ci guadagnarono notevolmente il governo sulle imposte, e i creditori sui loro capitali e interessi; e la nazione, che era la principale sconfitta, fu completamente soddisfatta perché il suo standard (cioè la misura del suo valore) non era stato abbassato; e così tutt'e tre le parti in causa furono soddisfatte» (l.c. t. Il, p. 156). Confronta John Locke, Works 4 volumi, 7 ed. London 1768; sia il saggio Some Consideraiions on the Lowering of Interest and Raising the Value of Money (1691), come anche: Further Considerations conceming raising the value of Money, wherein Mr. Lownde's arguments for it, in his late Report conceming «An Eassay for the amendment of the Silver coins», are particularly examined, entrambi nel voi. II. Nel primo saggio si dice tra l'altro: «L'aumento del denaro, di cui oggi tanto si chiacchiera, significa o un aumento del valore del nostro denaro, e questo non potete farlo; oppure un aumento nominale della nostra moneta» (p. 53). «Chiamiamo per esempio una corona ciò che prima si chiamava 1/2 corona. Il valore rimane determinato dal contenuto metallico. Se si riduce di 1/20 la quantità d'argento di una moneta, senza che ciò ne diminuisca il valore, non se ne diminuirà il valore nemmeno se si riduce la quantità d'argento di una moneta di 19/20. Perciò secondo questa teoria il singolo pezzo di 3 pence o il singolo farthing, se fossero denominati una corona, comprerebbero altrettante
58 Cfr ibidem, pp. 155-156.
spezie o seta o qualsiasi altra merce che un pezzo di una corona che contenga una quantità d'argento 20 o 60 volte maggiore» (p. 54). «Aumentare il denaro non vuol dire altro dunque che dare ad una minore quantità d'argento il conio e la denominazione di una quantità maggiore» (le). «Il conio della moneta è garanzia per il pubblico, e deve contenere la quantità d'argento indicata dalla denominazione» (57). «È con l'argento e non con i nomi, che si pagano i debiti e si acquistano le merci» (p. 58). «Il marchio di zecca è sufficiente a garantire il peso e la finezza del pezzo di denaro, ma essa lascia al denaro aureo così coniato di trovare il suo tasso, al pari di tutte le altre merci» (p. 66). In generale, aumentando il denaro, non si può fare altro che «più moneta di conto», ma non più «moneta in peso e valore» (p. 73). «L'argento è una misura del tutto differente dalle altre. Il braccio e il quarto con cui in genere si misura, possono rimanere nelle mani del compratore, del venditore o di una terza persona: la cosa è indifferente. Ma l'argento non è soltanto misura delle transazioni; è l'oggetto della transazione, e passa dalle mani del compratore a quelle del venditore nella quantità equivalente all'oggetto venduto: e così esso non solo riassume il valore della merce cui è riferito, ma è dato in cambio di essa in misura pari al suo valore. Ma ciò è dovuto soltanto alla sua quantità, e nient'altro» (p. 92). «Ma poiché aumentare non significa altro che dare dei nomi qualsiasi a parti aliquote di un pezzo, vale a dire che oggi la sessantesima parte di un'oncia viene tuttora chiamata penny, si può effettuare qualsiasi aumento si voglia» (118). «Il privilegio che ha il lingotto di essere liberamente esportato, gli dà un leggero vantaggio, in termini di prezzo, rispetto alla moneta, comunque sia aumentata o diminuita la sua denominazione, quando c'è bisogno della sua esportazione; e l'esportazione della nostra moneta è proibita per legge» (119, 120).
La stessa posizione che Lowndes assunse rispetto a Locke, spiegando l'aumento del prezzo di lingotto con l'aumento del valore del lingotto stesso e la conseguente diminuzione del valore della moneta di conto (nel senso che, se il valore del lingotto aumenta, diminuisce il valore di una sua parte aliquota chiamata £.), questa stessa posizione assunsero i little shilling men — Attwood e gli altri della scuola di Birmingham, 1819 sgg. Cobbett aveva posto il problema sul terreno giusto: nessuna rivalutazione del debito pubblico, delle rendite ecc.; ma guastò tutto con la sua falsa teoria che rifiutava in linea di principio la cartamoneta (e a questa conseguenza giunse stranamente partendo, come Ricardo, che giunse alla conseguenza opposta, dalla stessa falsa premessa secondo la quale il prezzo è determinato dalla quantità del mezzo di circolazione))59. Tutta la loro sapienza è racchiusa in queste frasi «Sir R. Peel nella sua disputa con la Birmingham Chamber of Commerce chiede: che cosa rappresenta il vostro biglietto da una libbra?» (p. 266. The Currency Questions, The Gemini Letters, London 1844) ossia il biglietto di una libbra, se non è pagato in oro). «Cosa bisogna intendere per misura attuale del valore? .. £. 3, si 7, d. 10,5, significano un'oncia d'oro o il suo valore? Se significano l'oncia stessa, perché non chiamare le cose col loro nome e invece di dire pound, shilling, pence, dire ounces, pennyweights e grains? Allora ritorniamo al sistema del baratto diretto» (p. 269. Nient'affatto. Ma cosa ci avrebbe guadagnato il signor Attwood se si fosse detto oncia invece che 3 I. 17 sh. 10,5 d., e pennyweights invece che shilling? Che per comodità di calcolo le parti aliquote ricevano dei nomi — il che oltretutto denuncia il fatto che al metallo si dà qui una determinazione sociale che gli è estranea —, cosa testimonia
Cfr. W. CORBET, Paper against Gold; or the History and Mystery oj the Bank o/ England, af the Debt, of the Stocks, o/ the Sinking Fund, and of ali the other tricks and contrivances carried on by the means of Paper Money. London 1828, p. 2 e passim. [Estratti da quest'opera, in un quaderno redatto nel luglio 1845 a Manchester; cfr. MEGA I/6, pp, 603-604].
a favore o contro la teoria di Attwood?)60. «0 significano il valore ? Se un'oncia = £. 3, 17 sh. 10,5 d., perché in periodi diversi il denaro vale 5 I. 4 sh. e poi di nuovo 3, 17, 9 ?... l'espressione pound si riferisce al valore, ma non ad una misura fissa del valore ... Il lavoro è la matrice del costo e dà all'oro e al ferro il loro valore relativo» (E perciò di fatto cambia il valore di un'oncia e quello di £. 3, 17 si 10,5 d.). «Quale che sia la parola usata per denominare la giornata o la settimana di lavoro di un uomo, tali parole esprimono il costo della merce prodotta» (p. 270). La frase «una libbra è l'unità ideale», è importante perché mostra come questa teoria della «unità ideale» si riduce a rivendicare un denaro che rappresenti direttamente lavoro. In tal caso «libbra» sarebbe espressione di 12 giornate di lavoro. Ciò che si rivendica è che la determinazione del valore non conduca a quella del denaro come una determinazione diversa, ovvero che il lavoro come misura dei valori non spinga a fare del lavoro oggettivato in una determinata merce la misura degli altri valori. L'importante è che questa rivendicazione sia fatta qui dal punto di vista dell'economia borghese (ed è anche il caso di Gray, il quale a dire il vero porta all'estremo l'elaborazione di questo problema, e di cui parleremo presto), non dal punto di vista della negazione dell'economia borghese, come fa per esempio Bray. I proudhonisti (vedi per esempio il sig. Darimon) sono riusciti a porre la rivendicazione sia come una rivendicazione corrispondente agli attuali rapporti di produzione, sia come una rivendicazione e una grande innovazione che tali rapporti rivoluzionano totalmente, dal momento che, come crapauds, essi non hanno bisogno naturalmente di sapere nulla di quel che si è scritto o si è pensato al di là del canale. In ogni caso, già il semplice fatto che la rivendicazione sia stata avanzata da più di cinquant'anni in Inghilterra da parte di una frazione di economisti borghesi, mostra quanto i socialisti, che pretendono di aver prodotto con essa qualcosa di nuovo e di antiborghese, siano in un vicolo cieco. Sul merito della rivendicazione, vedi sopra. (Qui si possono allegare soltanto alcune cose tratte da Gray. Del resto si può entrare nei dettagli di questa questione solamente trattando del sistema bancario).
3.5.15 - [Per la critica delle teorie del mezzo di circolazione e del denaro. -Trasformazione del mezzo di circolazione in denaro. - Tesaurizzazione. - Mezzo di pagamento- - Prezzi delle merci e quantità di denaro circolante. - Valore del denaro]
Per ciò che concerne il denaro come equivalente stabile, cioè come valore in quanto tale, e perciò come materia di tutti i contratti, è chiaro che le modificazioni del valore del materiale in cui esso si esprime (direttamente, come nell'oro e nell'argento, oppure indirettamente nelle banconote come assegno su una determinata quantità d'oro, d'argento ecc.), debbono provocare delle grosse rivoluzioni nei rapporti tra le diverse classi di uno Stato. Ma questo è un tema che non può essere indagato in questa sede, giacché questi stessi rapporti presuppongono la conoscenza dei diversi rapporti economici. Quanto diremo, valga soltanto come documentazione. È noto che nel XVI e XVII secolo il deprezzamento dell'oro e dell'argento in seguito alla scoperta dell'America, provocò un deprezzamento della classe operaia e di quella dei proprietari terrieri, mentre elevò la classe dei capitalisti (specialmente dei capitalisti industriali). A Roma, durante il periodo della repubblica, l'aumento del prezzo del rame rese i plebei schiavi dei patrizi. «Poiché si era costretti a pagare le somme maggiori in rame, si dovette conservare questo
60 Dal quaderno londinese III contenente estratti dalle Gemini Letters, risulta che Marx presumeva che uno dei Gemini fosse lo stesso T. Attwood.
metallo in masse o frammenti informi, che venivano dati e ricevuti a peso. Il rame, in queste condizioni, è aes grave. La moneta metallica viene pesata. [[Il rame, presso i romani, prima non aveva conio; in seguito ebbe il conio delle monete straniere. Servius rex ovium boumque effigie primus aes signavit (Plin. Historia naturalis 1. 18, e. 3)]]. Dopo che i patrizi ebbero accumulato una massa di questo metallo scuro e rozzo, ... cercarono di liberarsene, sia acquistando dai plebei tutte le terre che costoro acconsentivano a vendere, sia facendo prestiti a lungo termine. Essi dovettero fare un buon affare con un valore che li metteva in imbarazzo e il cui acquisto non era loro costato nulla. La concorrenza di tutti coloro che desideravano ugualmente disfarsene, dovette portare in breve tempo ad uno svilimento considerevole del prezzo del rame a Roma. Agli inizi del 4° secolo post u.c., come traspare dalla Lex Menenia (302 a.u.c.) il rapporto tra rame e argento era = 1 : 960 ... Questo metallo così deprezzato a Roma era nello stesso tempo uno degli articoli commerciali più richiesti (giacché i Greci facevano le loro opere d'arte in bronzo ecc.)... I metalli nobili vennero scambiati a Roma col rame con enormi profitti, e un commercio così lucrativo stimolò continuamente nuove importazioni ... A poco a poco i patrizi sostituirono con lingotti d'oro e d'argento, aurum infectum, argentum infectum, questi mucchi di vecchio rame che possedevano e che era così scomodo da piazzare e così poco piacevole a vedersi. Dopo la disfatta di Pirro e specialmente dopo le conquiste in Asia ... l'aes grave era ormai del tutto scomparso, e le necessità della circolazione avevano reso necessario introdurre la Victoria greca, e il nome victoriatus, ... del peso di 1 scrupulum e 1/2 d'argento, come la dracma attica numeraria; nel 7° secolo a.u.c. la lex Clodia ne fece una moneta romana. Essa si scambiava abitualmente con la libbra di rame o asse di 12 once. Così il rapporto tra argento e rame era di 192 : 1, un rapporto cinque volte più debole di quello vigente all'epoca del massimo deprezzamento del rame, dovuto all'esportazione; tuttavia il rame a Roma era ancora più a buon mercato che in Grecia e in Asia. Questa grande rivoluzione nel valore di scambio della materia delle monete, a misura che si compiva, peggiorò terribilmente la sorte degli infelici plebei, i quali avevano ricevuto il rame deprezzato a titolo di prestito, e avendolo speso e impiegato secondo i corsi allora correnti, si trovarono ad essere debitori, in base alla lettera dei contratti stipulati, di una somma cinque volte superiore a quella effettivamente presa in prestito. Essi non avevano alcun mezzo per riscattarsi dalla servitù ... Chi aveva preso a prestito 3000 assi al tempo in cui questa somma equivaleva a 300 buoi o 900 scrupula d'argento, poteva ormai procurarseli soltanto per 4500 scrupula d'argento, quando l'asse venne rappresentato da 14 scrupula di questo metallo ... Quando il plebeo restituiva 1/5 del rame che aveva avuto, aveva realiter liquidato il suo debito, giacché 1/5 [aveva] ora lo stesso valore di 1 al tempo della stipula del contratto. Il rame anzi aveva aumentato di 5 volte il suo valore rispetto all'argento ... I plebei chiesero una revisione dei debiti, una nuova stima della somma dovuta, un mutamento del titolo della loro primitiva obbligazione ... I creditori in verità non pretendevano una restituzione del capitale, ma anche il pagamento degli interessi era insopportabile, perché l'interesse originariamente pattuito, che era del 12%, era diventato, in seguito al rincaro eccessivo della moneta, talmente oneroso da corrispondere al 60% del capitale. In seguito ad un accordo i debitori ottennero una legge che depennava dal capitale gli interessi accumulati ... I senatori resistettero alla prospettiva di farsi scappare di mano lo strumento con cui mantenevano il popolo nella dipendenza più abietta. Padroni di quasi tutta la proprietà terriera, armati di titoli giuridici che li autorizzavano a mettere ai ferri i loro debitori, a infliggere loro pene corporali, essi domarono la sedizione e infierirono sui più ostinati. L'abitazione di ciascun patrizio si trasformò in una prigione. Infine si fecero scoppiare delle guerre che procurarono al debitore una paga, con una sospensione della detenzione, e aprirono ai creditori nuove fonti di ricchezza e di potere. Questa la situazione interna di Roma all'epoca della importante vittoria sui sanniti, i lucani e altri popoli del Sud-Italia ecc. ... Nel 483 o 485 si
ha la prima moneta d'argento romana, la libella; si chiamava così a causa del suo scarso peso, pari ad una libbra di 12 once di rame» (Garnier, Germain. Histoire de la Monnaie ecc. 2 voli. Paris 1819, t. Il p. 15 ss.).
[[ Assegnati. «Proprietà nazionale. Assegnato di 100 franchi», moneta a valore legale ... Essi si distinguono da tutti gli altri biglietti di banca per il fatto che non pretendono di rappresentare qualcosa di specifico.
Le parole «proprietà nazionale» significavano che il loro valore poteva essere mantenuto acquistando con essi le proprietà confiscate nelle vendite all'asta permanenti. Ma non v'è alcun motivo per cui questo valore dovesse essere chiamato 100 franchi. Esso dipendeva dalla qualità relativa delle proprietà in tal modo acquistabili, e dal numero di assegnati emessi» (78, 79. Nassau W. Senior: Three lectures on the cost of obtaining money ecc London 1830).
« La livre de compte introdotta da Carlomagno, quasi mai rappresentata da un reale pezzo equivalente, ha conservato il suo nome, così come le sue divisioni in sous e deniers, fino alla fine del XVIII secolo, mentre le monete reali hanno mutato all'infinito nome, forma, taglio, valore, e non solo ad ogni mutamento di governo, ma persino durante uno stesso regno. È vero che il valore della livre de compte ha subito anch'esso delle enormi diminuzioni, ... ma ciò è accaduto sempre in regime di violenza» (p. 76, t. I, Garnier, La). Tutte le monete antiche originariamente erano dei pesi (La)61.
«Il denaro è anzitutto la merce universalmente negoziabile, o quella in cui ognuno commercia allo scopo di procurarsi altre merci» (Bailey : Money and its Vicissitudes ecc., London 1837, p.L). «Esso è la grande merce intermediaria» p. 2, le). È la merce generale dei contratti, o quella con la quale si effettua la maggior parte delle contrattazioni concernenti la proprietà, e che vanno perfezionate in futuro (p. 3). Infine, esso è la «misura del valore... Orbene, dal momento in cui tutti gli articoli si scambiano con denaro, i valori reciproci di A e B sono necessariamente rivelati dal loro valore in denaro o dai loro prezzi ... così come il peso comparativo di qualsiasi oggetto risulta dal suo peso in relazione all'acqua, o dal suo peso specifico» (p. 4). «Il primo requisito essenziale è che il denaro abbia qualità fisiche uniformi, cosicché uguali quantità di esso siano uguali al punto da non offrire alcun motivo per preferire Luna all'altra ». Per esempio il grano e il bestia me non sono adoperabili a tale scopo, già per il motivo che un'uguale quantità di grano e un numero uguale di capi di bestiame non presentano sempre nella stessa misura le qualità che li fanno preferire» (p. 5, 6). «La stabilità del valore è estremamente desiderabile nel denaro quale merce intermediaria e merce di contratto; ma gli è del tutto inessenziale nella sua funzione di misura del valore» (p. 9). «Il denaro può continuamente mutare di valore, ed essere tuttavia valido, in quanto misura del valore, come se fosse rimasto perfettamente stazionario. Supponiamo per esempio che esso sia diminuito di valore, e che la riduzione di valore implichi una riduzione di valore in relazione ad alcune o a più merci, per esempio in relazione al grano e al lavoro. Supponiamo che prima della riduzione, una ghinea abbia comprato tre bushels di grano, o sei giornate di lavoro; e che in seguito alla riduzione invece essa compri solamente due bushel di grano o quattro giornate di lavoro. In entrambi i casi, essendo dati i rapporti tra il grano e il lavoro da una parte e il denaro dall'altra, si possono inferire i rapporti reciproci tra grano e lavoro; in altri termini, possiamo accertare che un bushel di grano vale due giornate di lavoro. Questo, che è tutto ciò che il valore come misura implica, avviene senza difficoltà sia dopo che prima della diminuzione. L'eccellenza che fa di una cosa la misura del valore è del tutto indipendente dalla variabilità del suo valore ... Si confonde l'invariabilità del valore con
61 Cfr. G. GARNIER Histoire ecc., cit., t. I, p. 125.
l'invariabilità del pregio o del peso Poiché ciò che costituisce il valore è il potete di
disporre della quantità, come unità di misura del valore deve essere usata una quantità definita di una sostanza di qualche merce uniforme; ed è questa quantità definita di una sostanza di qualità uniforme che deve essere invariabile» (p. 11). In tutti i contratti pecuniari si tratta della quantità di oro e argento da prestare, non del valore (p. 103). «Se uno insiste perché il contratto riguardi un determinato valore, è tenuto a precisare in relazione a quale merce: in tal modo egli sosterrebbe che un contratto pecuniario non si riferisce alla quantità di denaro espressa nel testo del contratto stesso, ma ad una quantità di una certa merce di cui non si è fatta menzione» (p. 104). «Non è necessario restringere questa argomentazione ai contratti in cui si presta realmente denaro. Essa vale per qualsiasi stipulazione concernente futuri pagamenti di denaro, si tratti di articoli di qualsiasi genere venduti a credito, o di servizi; o di fitti di terreni o fabbricati; essi si trovano esattamente nella stessa condizione dei puri prestiti della merce intermediaria. Se A vende una tonnellata di ferro a B per dieci sterline, a credito di dodici mesi, in effetti ciò equivale esattamente a prestare dieci sterline per un anno, e gli interessi delle due parti contraenti saranno influenzati nella stessa maniera dai mutamenti nel valore della moneta» (p. 110, 111).
La confusione che nasce quando si scambia il fatto di dare un nome a determinate e immutabili parti aliquote della sostanza del denaro, ossia la loro denominazione, con la fissazione del prezzo del denaro, viene in luce, tra gli altri, anche nel più eminente romantico dell'economia politica, il sig. Adam Mùller. Egli dice tra l'altro: «Ognuno comprende quanto sia importante una esatta fissazione del prezzo di zecca, specialmente in un paese come l'Inghilterra dove il governo batte moneta gratuitamente con una straordinaria liberalità» (ossia a spese del paese e a profitto dei bulliondealers: della Banca d'Inghilterra), «dove esso non preleva alcun diritto di conio ecc., e perciò, se alzasse sensibilmente il prezzo di zecca rispetto al prezzo di mercato, se, invece di pagare un'oncia d'oro 3 I. 17 sh. 10,5 d. come fa attualmente, fissasse il prezzo di zecca di un'oncia d'oro a 3 l.,19 sh tutto l'oro affluirebbe alla zecca, l'argento là conservato sarebbe convertito sul mercato con l'oro qui più a buon mercato, e sarebbe così riportato di nuovo alla zecca, con conseguente disordine del sistema monetario» (Die Elemente der Staatskunst, Berlin 1809, t. Il, p. 280, 281). Il signor Mùller dunque non sa che pence e shilling sono qui soltanto dei nomi che indicano parti aliquote di un'oncia d'oro. Poiché i pezzi di argento e di rame — i quali, nota bene, non sono coniati tenendo conto del rapporto tra argento e rame, e oro, ma vengono emessi come semplici marche al posto delle omonime parti d'oro, e perciò debbono essere accettati in pagamento soltanto in quantità molto esigua — circolano col nome di shilling e di pence, egli immagina che un'oncia d'oro sia suddivisa in pezzi d'oro, d'argento e di rame (sicché ci sarebbe una triplice misura del valore). Due passi più avanti gli viene in mente di nuovo che in Inghilterra non esiste un doppio standard, e quindi tanto meno uno triplice. La confusione del signor Mùller circa i rapporti economici «comuni» è la base reale della sua «superiore» concezione.
Dalla legge generale in base alla quale, dato un determinato livello di velocità di circolazione, il prezzo complessivo delle merci in circolazione determina la quantità del mezzo circolante, deriva che ad un determinato livello di aumento dei valori messi in circolazione il metallo più nobile — il metallo che ha il maggior peso specifico, che cioè contiene in una quantità minore un maggior tempo di lavoro — sostituisce il metallo meno nobile nella funzione di mezzo di circolazione; nel caso quindi del rame, dell'argento, dell'oro, l'uno scaccia l'altro come mezzo di circolazione dominante. Per esempio, un medesimo aggregato di prezzi potrà essere fatto circolare con una quantità di monete d'oro 14 volte inferiore a quella di monete d'argento. Una moneta di rame o addirittura di
ferro come mezzo di circolazione dominante presuppone una circolazione debole. Esattamente come il mezzo di trasporto e di circolazione più potente, e dunque di valore superiore, sostituisce quello di valore inferiore nella misura in cui aumenta la massa delle merci in circolazione e della circolazione in generale.
D'altra parte è chiaro che il piccolo commercio al dettaglio quotidiano richiede un volume di scambi molto ridotto — tanto più quanto più povero è il paese e più debole la circolazione in generale. In questo commercio al dettaglio, in cui circolano poche quantità di merci, e quindi anche valori molto piccoli, è vero nel senso più proprio della parola che il denaro compare soltanto come mezzo di circolazione evanescente, senza giungere a fissarsi come prezzo realizzato. Per questo commercio allora interviene un mezzo di circolazione sussidiario, che è soltanto un simbolo delle parti aliquote del mezzo di circola rione dominante. Si tratta di marche di argento e di rame, le quali perciò non sono coniate tenendo conto del rapporto tra il valore della loro sostanza e il valore dell'oro, per esempio. Qui il denaro si presenta soltanto come segno, sebbene ancora in una sostanza che ha un suo valore relativo. L'oro per esempio dovrebbe essere diviso in frazioni troppo piccole perché corrisponda, come equivalente, alla divisione delle merci che questo commercio al dettaglio richiede.
Perciò questi mezzi di circolazione sussidiari devono essere legalmente accettati in pagamento soltanto in piccole quantità di modo che non possano mai giungere a fissarsi come realizzazione del prezzo. Per esempio il rame in Inghilterra è accettato fino all'ammontare di 6 d, l'argento fino a 20 sh. Quanto più sviluppata è la circolazione in generale, quanto più grande è la massa di prezzi delle merci che entrano in circolazione, tanto più il loro scambio all'ingrosso si separa dal loro scambio al dettaglio, e per circolare esse hanno bisogno di diversi tipi di moneta. La velocità di circolazione delle marche è inversamente proporzionale alla grandezza del loro valore.
«Nello stadio primitivo della società, quando le nazioni erano povere e il volume dei pagamenti era insignificante, si sa che il rame ha frequentemente soddisfatto tutti gli scopi del mezzo circolante ed è stato coniato in pezzi di taglio minimo per facilitare quei pochi scambi che allora si facevano. Ciò avvenne nel primo periodo della repubblica romana, e in Scozia» (p. 3). (David Buchanan, Observation on the subjects, treated of in Dr. Smith's Inquiry ecc. Edinburgh 1814f2. «La misura più sicura della ricchezza generale di un paese è data dalla natura dei suoi pagamenti e dalla condizione della sua moneta; e la netta prevalenza di un metallo vile nella sua circolazione, unita all'uso di monete di taglio minimo, è il segno di un livello di società rozzo», (p. 4). Più tardi «la circolazione si divide
in due settori; il compito di effettuare i pagamenti principali spetta ai metalli più
preziosi; i metalli inferiori invece vengono mantenuti per gli scambi più comuni, e quindi subordinati dalla moneta circolante principale. Tra la prima introduzione di un metallo nobile nella circolazione di un paese e il suo uso esclusivo per i pagamenti principali trascorre un lungo intervallo, e i pagamenti del commercio al dettaglio devono essere diventati nel frattempo talmente considerevoli, in seguito all'incremento della ricchezza, che in parte per lo meno avrebbero potuto essere convenientemente effettuati dalla moneta nuova e di maggior valore; da allora non può essere usata per i pagamenti principali nessuna moneta» (questo è falso, come dimostra l'uso dei biglietti) che non si adatti nello stesso tempo alle transazioni del commercio al dettaglio, giacché ogni commercio in fondo ottiene i proventi del suo capitale dal consumatore ... L'argento si è mantenuto dappertutto, sul continente, nei pagamenti principali .... In Inghilterra la quantità di argento in circolazione non eccede lo stretto necessario per i piccoli pagamenti ... in realtà pochi pagamenti per l'ammontate di 20 sh. sono fatti in argento ... Prima del regno
62 Estratti da quest'opera nel quaderno londinese IX
di Guglielmo III l'argento fu portato in grandi sacchi al tesoro per pagare il reddito nazionale. In questo periodo avvenne il grande mutamento ... L'introduzione esclusiva dell'oro nei pagamenti principali d'Inghilterra, fu una chiara prova che a quest'epoca i proventi del commercio al dettaglio venivano realizzati soprattutto in oro; ciò era possibile senza che un singolo pagamento eccedesse, mai o anche eguagliasse qualcuna delle monete auree; perché, data l'abbondanza generale dell'oro e la scarsità di argento, le monete d'oro naturalmente venivano offerte, per piccole somme, e in cambio si domandava un saldo in argento; per cui l'oro, aiutano il commercio al dettaglio e economizzando l'uso dell'argento, anche nei piccoli pagamenti, non potè essere accumulato dal piccolo commerciante ... Nello stesso periodo in cui in Inghilterra l'oro sostituiva l'argento» (1695) «per i pagamenti principali, in Svezia l'argento sostituiva il rame ... È chiaro che la moneta usata per i maggiori pagamenti può avere corso soltanto al suo valore intrinseco... Ma il valore intrinseco non è necessario per una moneta circolante sussidiaria... A Roma, finché il rame fu la moneta prevalente, esso ebbe corso solamente per il suo valore intrinseco ... 5 anni prima dell'inizio della prima guerra punica fu introdotto l'argento, che scacciò solo a poco a poco il rame nei pagamenti principali ... 62 anni dopo l'introduzione dell'argento fu introdotto l'oro, che però non sembra aver eliminato l'argento dai pagamenti principali ... In India il rame non è una moneta sussidiaria; e perciò ha corso per il suo valore intrinseco. La rupia, moneta d'argento da 2 sh. e 3 d., è la moneta di conto; il mobour, che è una moneta aurea, e il pice, che è una moneta di rame, possono trovare il loro valore sul mercato soltanto in relazione ad essa; il numero di pices correntemente scambiato con una rupia varia sempre col peso e col valore della moneta, mentre qui 24 half pence sono sempre = 1 sh senza riguardo al loro peso. In India il commerciante al dettaglio deve pur sempre accettare quantità considerevoli di rame per i suoi articoli e non può permettersi di accettano perciò se non per il suo valore intrinseco .. Nelle monete circolanti d'Europa il rame ha corso al valore su di esso fissato, senza riguardo per il suo peso e la sua finezza» (pp. 4-18). In Inghilterra «un eccesso di rame fu messo in circolazione nel 1798 da parte di commercianti privati; e sebbene il rame per legge potesse essere accettato in pagamento soltanto per l'ammontare di 6 d., esso trovò la sua strada (il surplus) per giungere ai dettaglianti; i quali cercarono di rimetterlo in circolazione, ma alla fine esso ritornò di nuovo a loro. Quando questa circolazione fu arrestata, il rame si accumulò nelle mani dei dettaglianti in somme di 20, 30 e persino 50 Lst., che alla fine dovettero essere vendute al loro valore intrinseco» (P-31).
Nella moneta sussidiaria il mezzo di circolazione in quanto tale, in quanto mezzo meramente evanescente, assume una esistenza particolare accanto al mezzo di circolazione che contemporaneamente funge da equivalente, realizza i prezzi e viene accumulato come valore autonomo. Perciò qui esso è un puro segno, e può quindi essere emesso nella quantità che è assolutamente richiesta per il piccolo commercio al dettaglio, attraverso il quale non può essere accumulato. La quantità deve essere determinata dalla massa dei prezzi che esso fa circolare, divisa per la sua velocità. Poiché la massa del mezzo circolante di un determinato valore, è determinata dai prezzi, ne deriva automaticamente che se in tale massa fosse artificiosamente immessa una quantità maggiore di quella che è richiesta dalla circolazione stessa, e tale quantità maggiore non potesse defluire (ma non è questo il caso, perché come mezzo di circolazione esso è al di sopra del suo valore intrinseco), il mezzo circolante si deprezzerebbe; e non perché la quantità determini i prezzi, ma perché i prezzi determinano la quantità, e quindi in circolazione può rimanere soltanto una determinata quantità ad un determinato valore. Se perciò non esistono degli sbocchi attraverso cui la circolazione possa espellere la quantità eccedente, e se il mezzo circolante non può trasformare la sua forma di mezzo di circolazione in quella di valore per se stante — allora il valore del mezzo di circolazione
deve diminuire. Ma ciò può accadere soltanto — al di fuori di impedimenti e proibizioni alla rifusione, all'esportazione ecc. — se il mezzo circolante è semplicemente un segno, se non possiede un proprio valore reale corrispondente al suo valore nominale, e perciò non può passare dalla forma di mezzo circolante a quella di merce in generale, e non può cancellare il suo conio; se cioè esso è saldamente legato alla sua esistenza di moneta. Ne deriva d'altra parte che il segno, il simbolo del denaro, può circolare al valore nominale dell'oro che esso rappresenta — senza possedere alcun valore proprio — nella misura in cui rappresenta il mezzo di circolazione esclusivamente nella quantità in cui esso stesso circolerebbe. Ma allora nello stesso tempo la condizione è che esso stesso poi, o esista soltanto in una quantità così limitata da circolare solamente nella forma sussidiaria, quindi non cessi nemmeno per un momento di essere mezzo di circolazione (ove esso serve sempre, in parte nello scambio di piccole quantità di merci, in parte per cambiare il mezzo di circolazione reale), quindi non possa mai essere accumulato; oppure che non debba possedere alcun valore, di modo che il suo valore nominale non possa mai essere confrontato ai suo valore intrinseco. In quest'ultimo caso esso è posto come puro segno , che attraverso se stesso rinvia al valore che esiste al di fuori di esso. Nell'altro caso evita che il suo valore intrinseco possa mai essere confrontato al suo valore nominale.
Perciò le falsificazioni del denaro si rivelano subito; mentre l'eliminazione totale del suo valore non ne compromette il valore nominale. Altrimenti potrebbe sembrare paradossale che il denaro possa essere sostituito da carta senza valore, mentre il minimo indebolimento del suo contenuto metallico lo deprezza.
In generale, la duplice determinazione che il denaro ha nella circolazione è contraddittoria: esso funge da semplice mezzo di circolazione, che è una forma in cui esso è una mediazione evanescente; e nello stesso tempo è realizzazione dei prezzi; che è una forma nella quale esso si accumula e si converte nella sua terza determinazione di denaro. Come mezzo di circolazione esso viene logorato; quindi non contiene il tenore metallico che ne fa un lavoro oggettivato in una quantità fissa. La sua corrispondenza al valore perciò è sempre più o meno illusoria.
Fare un esempio.
È importante già a questo punto introdurre nel capitolo sul denaro la determinazione della quantità, ma essa va dedotta in maniera esattamente rovesciata rispetto a quella della dottrina corrente. // denaro può essere sostituito perché la sua quantità è determinata dai prezzi che esso fa circolare. Finché esso stesso ha un valore — come quando è mezzo di circolazione sussidiario —, la sua quantità deve essere delimitata in modo che esso non possa mai essere accumulato come equivalente, e figuri in realtà sempre come semplice nota sussidiaria del mezzo di circolazione vero e proprio. Ma se deve sostituire quest'ultimo, esso non può avere alcun valore, ossia il suo valore deve esistere al di fuori di esso. Le variazioni nella circolazione sono determinate dall'ammontare e dal numero delle transazioni («Economist»). La circolazione può aumentare: per l'aumento della massa delle merci, fermi restando i loro prezzi; per l'aumento dei prezzi delle merci, ferma restando la loro massa; per l'aumento di entrambi.
Quando si dice che i prezzi regolano la quantità di moneta circolante e non la quantità di moneta circolante i prezzi, o in altri termini, che gli scambi regolano la moneta circolante (la quantità del mezzo di circolazione) e non la moneta circolante gli scambi, si suppone naturalmente, come la nostra analisi ha dimostrato, che il prezzo non sia altro che il valore traslato in un altro linguaggio. La premessa è sempre il valore, e il valore determinato dal tempo di lavoro. È chiaro perciò che una legge del genere non è uniformemente applicabile alla fluttuazione dei prezzi in tutte le epoche, per esempio nel mondo antico, in Roma per esempio, dove il mezzo
circolante non scaturisce dalla circolazione, dallo scambio, ma dalla rapina, dal saccheggio ecc.
«Nessun paese può conseguentemente avere più di uno standard per misurare il valore; giacché questo standard deve essere uniforme e immutabile. Nessun articolo ha un valore uniforme e immutabile rispetto ad un altro: lo ha solamente rispetto a se stesso. Un pezzo d'oro ha sempre lo stesso valore di un altro, che abbia esattamente la stessa finezza, lo stesso peso, e lo stesso valore su una medesima piazza; ma ciò che si può dire dell'oro non lo si può dire anche di qualsiasi altro articolo, per esempio l'argento» («Economista voi. I, p. 771 )63. «Pound non è altro che una denominazione di conto che si riferisce ad una quantità data e fissa di oro di qualità standard» (l.c). «Dire di fare un'oncia d'oro del valore di 5 I. invece che 3 I. 17 sh. 10,5 d., equivale semplicemente a dire che in futuro essa debba essere coniata in 5 sovrane anziché in 3 sovrane. Con ciò non modificheremmo il valore dell'oro, ma soltanto il peso e di conseguenza il valore della libbra o della sovrana. Un'oncia d'oro continuerebbe ad avere sempre lo stesso valore relativamente al grano e a tutte le altre merci, ma poiché una libbra, pur portando lo stesso nome di prima, rappresenterebbe una parte più piccola di un'oncia d'oro, analogamente rappresenterebbe una quantità inferiore di grano e di altre merci. È esattamente come se dicessimo che un quarterdì grano non debba essere più suddiviso in 8 bensì in 12 bushels; ciò facendo noi non potremmo modificare il valore del grano, ma diminuirne la quantità contenuta in un bushel e di conseguenza il suo valore» (p. 772 l.c). «Qualsiasi cambiamento, temporaneo o permanente, possa aver luogo, il suo prezzo sarà sempre espresso nella identica quantità di moneta; un'oncia d'oro sarà sempre 3 I. 17 sh. 10,5 d. della nostra moneta. Il mutamento del suo valore è rivelato dalla maggiore o minore quantità di merci che essa può comprare» (l.c. p. 890)64.
La barra ideale può essere paragonata per esempio alla milrea ideale di Buenos Ayres (o anche alla libbra inglese durante il deprezzamento dei biglietti ecc.). Ciò che qui è fisso è il nome milrea; ciò che oscilla è la quantità d'oro e d'argento che esso esprime. A Buenos Ayres la moneta circolante è una cartamoneta inconvertibile (dollaro cartaceo); questo dollaro originariamente equivaleva a 4 sh. 6 d.; ora circa 3 e 3/4 d. ed è sceso fino a 1,5 d. Un braccio di tessuto prima valeva 2 dollari, ora nominalmente 28 dollari in seguito al deprezzamento della cartamoneta65.
«In Scozia il mezzo di scambio, da non con fondere con la misura del valore, da 1 I. in su, si può dire che sia esclusivamente la cartamoneta, giacché l'oro non circola affatto; tuttavia l'oro è ugualmente la misura del valore come se fosse esso solo a circolare; perché la cartamoneta è convertibile nella stessa quantità fissa di quel metallo; ed essa circola solamente con la garanzia di essere così convertibile» (p. 1275)66.
«In tempi di sfiducia, le ghinee vengono tesaurizzate» (Thornton, p. 48)67. Il principio della tesaurizzazione, per cui il denaro funziona da valore autonomo, è un momento necessario, a prescindere dalle forme impressionanti in cui si presenta, nello cambio fondato sulla circolazione del denaro; giacché ognuno, come dice A. Smith, accanto alla propria merce,
63 Cfr. «The Economist», voi. I, n.37, May 11, 1844, p. 771. articolo The first step in the currency question. -
Sir Robert. Peel.
64 Cfr. ibidem, voi. I, n. 42, June 15, 1844, p. 890, articolo The action of Money on Prices.
ce
Cfr. ibidem, voi. I, n. 57, September28,1844, pp. 1251-1253, articolo Effect afan inconvertible currency on our foreign trade.
66 Cfr. ibidem, voi. I, n. 58, October5, 1844.
67 Cfr. H. THORNTON, An Inquiry info the Nature and Effects of the Paper Credit of Great Britain, London
1802, p. 48 [Estratti nel quaderno londinese VI]
ha bisogno di una determinata proporzione della «merce generale». «Chi è in commercio impegna del suo» (l.c. p. 21)]].
3.5.16 - [Il capitale, non il lavoro, determina il valore delle merci. Torrens]
«Capitali uguali, o in altri termini uguali quantità di lavoro accumulato, spesso mettono in movimento differenti quantità di lavoro immediato, ma ciò non modifica il principio» (p. 31. Torrens, An Essay on the Production of Wealth London 1821). «Nei primi periodi della società ... è la quantità totale di lavoro accumulato e immediato, speso nella produzione ... che determina il valore relativo delle merci. Ma non appena si è accumulato uno stock e un'unica classe di capitalisti si differenzia da un'altra di operai, se colui il quale si impegna in una branca dell'industria non esegue personalmente il lavoro ma anticipa mezzi di sussistenza e materiali ad altri, allora è l'ammontare del capitale, o la quantità di lavoro accumulato speso nella produzione, a determinare il potere di scambio delle merci» (p. 33, 34). «Finché due capitali sono uguali, ... i loro prodotti saranno di uguale valore, comunque noi variamo la quantità di lavoro immediato che essi mettono in movimento o che i loro prodotti possono richiedere. Se sono disuguali i loro prodotti saranno di valore ineguale, sebbene la quantità totale di lavoro speso per ciascuno di essi dovrebbe essere esattamente uguale» (p. 39). Quindi «dopo questa separazione tra capitalisti e operai, è l'ammontare del capitale, è la quantità di lavoro accumulato, e non, come accadeva prima di questa separazione, la somma di lavoro accumulato e immediato speso nella produzione, a determinare il valore di scambio » (l.c.)68. La confusione del sig. Torrens, se ha una sua verità di fronte alla astratta maniera dei ricardiani, è tuttavia in se stessa radicalmente falsa. Per prima cosa infatti la determinazione del valore mediante il puro tempo di lavoro ha luogo soltanto sulla base della produzione del capitale, e quindi della separazione delle due classi. L'equiparazione dei prezzi , in conseguenza di un uguale saggio medio di profitto — (ma questo sempre cum grano salis) — non ha nulla a che fare con la determinazione del valore, anzi lo presuppone. Il passo è importante per indicare la confusione dei ricardiani.
3.5.17 - [Minimo del salario]
Il saggio del plusvalore come profitto è determinato 1) dalla grandezza del plusvalore stesso; 2) dal rapporto tra lavoro vivo e lavoro accumulato (tra la quota di capitale speso in salario e il capitale impiegato come tale). Occorre indagare particolarmente entrambe le cause che determinano 1) e 2). La legge della rendita, per esempio rientra in 1). L'ipotesi provvisoria è il lavoro necessario in quanto tale; ossia che l'operaio riceve sempre solamente il minimo necessario del salario. Questa ipotesi naturalmente è necessaria per stabilire le leggi del profitto, nella misura in cui non sono determinate dall'aumento o dalla diminuzione del salario o influenzate dalla proprietà fondiaria. Le ipotesi fisse diventano
Cfr. Saggio, pp 17,18,20
tutte fluide man mano che procede l'analisi. Ma tale analisi è possibile, ed evita di confondere ogni cosa, solo perché si sono bene fissate le ipotesi all'inizio. Inoltre, è praticamente sicuro che, per esempio, comunque la misura del lavoro necessario possa differire in varie epoche e in vari paesi, o per quanto possa mutare la sua proporzione in conseguenza del cambiamento dei prezzi del prodotto grezzo, o possano mutare la sua quantità e la sua proporzione in conseguenza della domanda e offerta di lavoro, in ogni data epoca la misura deve essere considerata e manovrata dal capitale come unità fissa. Considerare quei cambiamenti stessi spetta interamente alla sezione sul lavoro salariato.
«Il valore di scambio è determinato non dal costo di produzione assoluto, ma da quello relativo. Se il costo di produzione dell'oro rimanesse lo stesso, mentre il costo di produzione di tutte le altre cose si raddoppiasse, l'oro avrebbe un potere d'acquisto di tutte le altre cose inferiore a quello precedente; e il suo valore di scambio si ridurrebbe della metà; e questa diminuzione nel suo valore di scambio in effetti è esattamente la stessa che si avrebbe se il costo di produzione di tutte le altre cose rimanesse inalterato, mentre fosse ridotto della metà il costo di produzione dell'oro» (p. 56, 57, Torrens, l.c.)69. Questo è importante per i prezzi. Per la determinazione del valore invece non lo è assolutamente; è una mera tautologia. Dire che il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro che essa contiene, significa che essa si scambia con la stessa quantità di lavoro in ogni altra forma di valore d'uso. È chiaro perciò che, se il tempo di lavoro necessario a produrre l'oggetto a si raddoppia, soltanto 0,5 di esso sarà = al suo precedente equivalente b. Poiché l'equivalenza è determinata dall'uguaglianza del tempo di lavoro o della quantità di lavoro, la differenza del valore è naturalmente determinata dalla disuguaglianza del tempo di lavoro, ovvero il tempo di lavoro è misura del valore.
3.5.18 - [1826. Cotone, macchine e operai. Hodgskin]
«Nel 1826 le varie macchine usate nella manifattura del cotone occupavano 1 uomo per eseguire il lavoro di 150. Supponendo che attualmente vi siano occupati 280.000 uomini, mezzo secolo prima avrebbero dovuto esservene 42.000.000» (p. 72). (Hodgskin)70. «Il valore relativo dei metalli preziosi rispetto alle altre merci determina la quantità che bisogna darne in cambio di altre merci; e il numero di vendite effettuabili in un determinato periodo determina, nella misura in cui il denaro è lo strumento per effettuare le vendite, la quantità di denaro richiesta» (l.c. 188).
«C'è motivo sufficiente per credere che l'uso di coniare monete abbia origine e sia stato praticato da singoli individui prima che se ne appropriassero e lo monopolizzassero i governi. Tale fu per lungo tempo la situazione in Russia» (Vedi Storch)71; (l.c. p. 195, nota)72, Hodgskin è di opinione diversa da quella del romantico Mùller «La zecca dà soltanto il marchio a ciò che i singoli individui le portano, rinunciando nel modo più assurdo
69 Cfr. TH HODSKIN, Popular Politica! Economy ecc., cit.
70 Cfr. TH. HODSKIN, Popular Politicai Economy ecc., cit.
71 Cfr. H. STORCH, Cours ecc., cit., t. Il, p. 128 e nota e [Corso, p. 282].
72 Cfr. TH. HODGSKIN, Popular Politicai Economy ecc.,
a far pagare loro qualcosa per la coniatura; e tassando la nazione a beneficio di coloro che commerciano in denaro» (p. 194. Popular Polii. Econ. ecc. London 1827).
3.5.19 - [Come le macchine creano la materia prima. Industria del lino. Stoppe filata. Economist]
Dopo tutte queste digressioni in tema di denaro — e all'occasione dovremo ancora riprenderlo prima di chiudere questo capitolo — ritorniamo al punto di partenza (vedi p. 25). Come esempio, si può fare quello che mostra come anche nell'industria manifatturiera il perfezionamento delle macchine e l'aumento di produttività che ne deriva crea la materia prima (relativamente) invece di richiederne un aumento assoluto. «Il sistema di fabbrica nell'industria del lino è recentissimo. Prima del 1828 la maggior parte del filo di lino veniva filato a mano in Irlanda e Inghilterra. Fu intorno a quel periodo che le macchine filatrici del lino furono talmente perfezionate, grazie particolarmente alla perseveranza di Mr. Peter Fairbairn di Leeds, che divennero di uso generale. Da allora in poi a Belfast e in altre parti dell'Irlanda del Nord, così come in varie parti dello Yorkshire, del Lancashire e della Scozia, furono impiantate intensivamente filande per la filatura del cotone fino, e in pochi
anni la filatura a mano scomparve Oggi si fabbrica stoppa filata con quello che 20 anni
fa si gettava via come cascame» («Economista, 31 agosto 1850)73.
3.5.20 - Macchine e pluslavoro
In ogni impiego di macchine — consideriamo anzi tutto il caso più semplice di un capitalista che investe una parte del suo capitale in macchina anziché in lavoro immediato — una parte del capitale viene sottratta alla sua parte variabile destinata a moltiplicarsi, ossia a quella parte che si scambia con lavoro vivo per aggiungersi alla parte costante, il cui valore viene soltanto riprodotto o conservato nel prodotto. Ma ciò avviene soltanto per rendere più produttiva la parte restante.
Primo caso il valore delle macchine è uguale al valore delle forze di lavoro che esse costituiscono. In questo caso il valore nuovo prodotto diminuirebbe, invece di aumentare, se il tempo di lavoro supplementare della parte restante di forza-lavoro non aumentasse in proporzione pari alla sua diminuzione numerica. Se su 100 operai 50 vengono licenziati e sostituiti da macchine, i 50 che restano devono effettuare un tempo di lavoro supplementare pari a quello precedentemente effettuato da 100 operai. Se questi, su 1200 ore lavorative, lavoravano 200 ore lavorative costituite di tempo di lavoro supplementare, ora i 50 operai devono effettuare altrettanto tempo di lavoro supplementare; ossia devono lavorare 4 ore al giorno dove quelli ne lavoravano 2 solamente. In questo caso il tempo di
73 Cfr. «The Economist», voi. Vili, n. 366, August 31, 1850, p. 954, articolo Can Flax Be Made A Substitute For Cotton? News facilities for flax-growing.
lavoro supplementare, 50 x 4 = 200, rimane uguale a quello di prima, 100 x 2 = 200, sebbene il tempo di lavoro assoluto sia diminuito.
n° operai Ore
giornaliere
di lavoro
prò capite Ore giornaliere lavorative
totali Ore giornaliere
di pluslavoro prò capite Ore giornaliere
totali di pluslavoro
Prima dell'introduzione delle macchine 100 12 1200 2 200
Dopo l'introduzione delle macchine 50 12 600 4 200
In questo caso la situazione per il capitale, a cui interessa soltanto la produzione di pluslavoro, rimane la stessa. In questo caso la materia prima lavorata rimarrebbe la stessa; e così anche la spesa ad essa relativa; mentre quella per lo strumento di lavoro sarebbe aumentata, e quella per il lavoro diminuita. Il valore del prodotto totale sarebbe lo stesso, perché sarebbe = alla medesima somma di tempo di lavoro oggettivato e supplementare. Un caso del genere non rappresenterebbe alcun incentivo per il capitale. Ciò che esso guadagnerebbe da una parte in termini di tempo di lavoro supplementare, lo perderebbe sulla parte di capitale che entrerebbe nella produzione sotto forma di lavoro oggettivato, cioè come valore invariabile. C'è però da riflettere sul fatto che le macchine subentrano a strumenti di produzione imperfetti che possedevano un determinato valore; ossia erano scambiati con una determinata somma di denaro. Se non il capitalista che è già impegnato nella produzione, certamente il capitalista che inizia a produrre ex novo, defalca dai costi delle macchine la parte di capitale che era impiegata ad un livello di produttività immaturo.
Se quindi, per esempio, l'introduzione di una macchina di 1200 Lst. (50 forze di lavoro) elimina immediatamente una spesa precedente, poniamo di 240 Lst. per strumenti di produzione, la spesa in più del capitale ammonta soltanto a 960 Lst..; il prezzo di 40 operai all'anno. In questo caso dunque, se i 50 operai restanti producessero tutti insieme esattamente lo stesso pluslavoro che i 100 precedenti, attualmente 200 ore lavorative supplementari verrebbero prodotte con 2160 di capitale; mentre prima lo erano con 2400. Il numero di operai è diminuito della metà, il pluslavoro assoluto è rimasto lo stesso di prima, 200 ore lavorative; il capitale speso in materiale da lavoro è anch'esso rimasto lo stesso; mentre il rapporto tra pluslavoro e parte invariabile del capitale è aumentato in senso assoluto. Complessivamente, 9240 Lst.. La questione si pone in questi termini:
Poiché il capitale speso in materia prima è rimasto lo stesso, mentre quello speso in macchine è aumentato, ma non nella stessa proporzione in cui è diminuito quello speso in lavoro, la spesa globale del capitale è diminuita ; il pluslavoro è rimasto lo stesso, ossia è cresciuto in rapporto al capitale, non solo nella proporzione in cui il tempo di lavoro supplementare deve aumentare per rimanere uguale con metà operai, ma in misura maggiore; più precisamente, in misura corrispondente alla proporzione in cui le [spese] per i vecchi mezzi di produzione si defalcano dai costi dei nuovi.
L'introduzione delle macchine o di un aumento generale della produttività tale che questa stessa produttività abbia come suo sostrato il lavoro materializzato, dunque costa; se quindi una parte della parte di capitale che prima veniva spesa per acquistare lavoro viene spesa come elemento della parte di capitale che entra nel processo di produzione come valore costante, [l'introduzione delle macchine] può avvenire solamente se la proporzione di tempo di lavoro supplementare non solo rimane la stessa, ossia cresce in rapporto al lavoro vivo impiegato, bensì cresce in proporzione maggiore del rapporto tra valore delle macchine e valore degli operai licenziati. Ciò può accadere, o perché deve essere
defalcata tutta la spesa che veniva fatta per il precedente strumento di produzione: e in questo caso diminuisce la somma complessiva di capitale speso, e sebbene sia diminuita la proporzione della somma complessiva di lavoro impiegato in rapporto alla parte costante del capitale, il pluslavoro è rimasto lo stesso, e quindi è aumentato non solo rispetto al capitale speso in lavoro, rispetto al tempo di lavoro necessario, ma rispetto al capitale complessivo; rispetto al valore complessivo del capitale [anticipato] dato che questo è diminuito. Oppure il valore destinato alle macchine può essere grande quanto quello precedentemente speso in lavoro vivo ora divenuto superfluo; ma la proporzione di pluslavoro della restante parte del capitale è aumentata, cosicché i 50 operai non forniscono più lo stesso pluslavoro che prima fornivano i 100, ma ne forniscono di più. Supponiamo per esempio che ciascuno, invece di 4 ore, ne fornisca 4,5. Ma in questo caso occorre una parte del capitale per materia prima ecc. più grande, insomma un capitale complessivo maggiore. Se un capitalista che prima occupava 100 operai annualmente, con una spesa annua di 2.400 Lst.., ne licenzia 50, e vi sostituisce una macchina del costo di 1.200 Lst.., questa macchina — sebbene a lui costi esattamente quanto 50 operai di prima — è il prodotto di meno operai, perché egli paga al capitalista da cui la compra non solo il lavoro necessario ma anche il pluslavoro. Oppure egli avrebbe impiegato una parte degli operai per eseguire soltanto lavoro necessario, se lui stesso si fosse fatto costruire la macchina. Nel caso delle macchine dunque si ha un aumento del pluslavoro con una diminuzione assoluta del tempo di lavoro necessario. Esso può essere accompagnato sia da una diminuzione assoluta del capitale impiegato, sia da un suo aumento.
3.5.21 - [Capitale e profitto. Il valore costituisce il prodotto. - Rapporto dell'operaio con le condizioni del lavoro nella produzione capitalistica. - Tutte le parti del capitale danno un profitto. - Rapporto tra capitale fisso e capitale circolante nelle fabbriche del cotone. Il pluslavoro e il profitto secondo Senior. Tendenza delle macchine a prolungare il lavoro. - Influenza del trasporto sulla circolazione ecc.- Il trasporto elimina gradualmente l'accumulo. Pluslavoro assoluto e macchine. Senior]
Il plusvalore in quanto è creato dal capitale stesso e misurato dal suo rapporto numerico col valore globale del capitale, è il profitto - Il lavoro vivo appropriato e assorbito dal capitale si presenta come forza vitale del capitale stesso; come sua forza autoriproduttiva, inoltre modificata dallo stesso movimento del capitale, la circolazione, e dal tempo connesso al suo movimento, il tempo di circolazione. Solo così il capitale è posto come valore che si rinnova perennemente e si moltiplica, in quanto si distingue, come valore presupposto, da se stesso come valore posto. Poiché il capitale entra interamente nella produzione, e come capitale le sue varie parti costitutive si distinguono soltanto formalmente l'una dall'altra, sono cioè tutte nella stessa misura somme di valore, la creazione del valore è immanente nella stessa misura ad esse tutte. Inoltre poiché la parte del capitale che si scambia con lavoro ha effetti produttivi solo unitamente alle altre parti del capitale — e il rapporto di questa produttività è determinato dalla grandezza del valore ecc., dalla diversa determinazione reciproca di queste parti (come capitale fisso ecc.) —, la creazione del plusvalore, del profitto, si presenta determinata nella stessa misura da tutte le parti del capitale. Poiché da una parte le condizioni del lavoro sono poste come elementi oggettivi del capitale, e dall'altra il lavoro stesso è posto come una attività in esso incorporata, l'intero processo lavorativo si presenta come processo proprio del capitale, e la creazione del plusvalore si presenta come un suo prodotto, la cui grandezza per ciò stesso non viene misurata mediante il pluslavoro che esso costringe l'operaio a fare, ma come produttività maggiorata che esso conferisce al lavoro. Il prodotto vero e proprio del capitale è il profitto. In questo senso il capitale è ora posto come fonte della ricchezza. Ma se crea valori d'uso, esso però crea valori d'uso determinati mediante il valore: «il valore costituisce il prodotto» (Say)74. Esso dunque produce per il consumo. Nella misura in cui si perpetua mediante il rinnovamento continuo del lavoro, esso si presenta come il valore permanente, presupposto della produzione, la quale dipende dalla sua conservazione. Finché si scambia sempre di nuovo con lavoro, esso si presenta come fondo di lavoro. L'operaio naturalmente non può produrre senza le condizioni oggettive del lavoro. Ora, queste esistono nel capitale e sono separate da lui, gli si contrappongono. Egli può riferirsi ad esse in quanto condizioni del lavoro solo nella misura in cui il suo lavoro stesso è stato previamente appropriato dal capitale. Dal punto di vista del capitale ciò che è necessario all'operaio non sono le condizioni oggettive del lavoro, ma il fatto che esse esistono autonomamente di fronte a lui — la sua separazione da esse, la loro proprietà da parte del capitalista, e il fatto che la soppressione di questa separazione ha luogo solo in quanto l'operaio cede la propria forza produttiva al capitale, e in cambio questo lo mantiene come astratta capacità lavorativa, ossia appunto come mera capacità di riprodurre la ricchezza come forza che le si contrappone e la domina sotto forma di capitale.
Tutte le parti del capitale dunque danno simultaneamente un profitto, tanto la parte circolante (spesa in salario e materia prima ecc.), quanto quella spesa in capitale fisso. Il capitale può quindi riprodursi o nella forma del capitale circolante oppure nella forma di capitale fisso. Poiché abbiamo visto precedentemente, quando abbiamo esaminato la circolazione, che il suo valore ritorna in forma diversa a seconda che sia presupposto in una di queste due forme, e poiché dal punto di vista del capitale che produce profitto non è il valore puro e semplice che ritorna, ma il valore del capitale e il profitto, ossia il valore come tale e come valore che si valorizza, in queste due forme il capitale darà un profitto in forma diversa. Il capitale circolante entra interamente nella circolazione col suo valore d'uso che è portatore del suo valore di scambio; e così si scambia con denaro. Esso cioè viene venduto, interamente, sebbene soltanto una parte di esso entri in circolazione. Ma dopo una sola rotazione esso è passato interamente, come prodotto, nel consumo (sia esso individuale o di nuovo produttivo), e si è completamente riprodotto come valore. Questo valore include il plusvalore, che ora si presenta come profitto. Il capitale circolante viene alienato come valore d'uso per essere realizzato come valore di scambio. Si tratta dunque di una vendita con profitto. Al contrario, abbiamo visto che il capitale fisso ritorna soltanto frazionatamente nel corso di più anni, di più cicli del capitale circolante, e cioè soltanto nella misura in cui è logorato (l'altra volta, nell'atto di produzione immediato) esso entra in circolazione come valore di scambio e come tale ritorna. Ma tanto l'entrata quanto il ritorno del valore di scambio sono ora posti come un entrare e un ritornare non solo del valore del capitale, ma nello stesso tempo del profitto, si che ad una parte aliquota di capitale corrisponde una parte aliquota di profitto.
«Il capitalista si aspetta un uguale profitto su tutte le parti del capitale che egli anticipa» (Malthus, Principles of Politicai Economy, 2 ed. London 1836, p. 267)75.
74 Cfr. J.-B. SAY, Cours Complet ecc., cit., t, I, p. 510 [Corso completo, p. 382].
75 Cfr. Principii, p. 308
«Il punto in cui la ricchezza e il valore sono strettamente connessi è nella necessità di quest'ultimo di produrre la prima» (La, p. 301 )76.
[[«Il capitale fisso» (nelle fabbriche di cotone) «è normalmente nel rapporto di 1: 4 rispetto al capitale circolante, cosicché se un fabbricante possiede 50.000 L, ne spende 40.000 per la costruzione del suo fabbricato e per dotarlo di macchine, e soltanto 10.000 per l'acquisto di materia prima (cotone, carbone ecc.) e per pagare i salari» (Nassau W. Senior, Letters on the Factory Act ecc., 1837, II, 12). e II capitale fisso va soggetto a deterioramento continuo, non soltanto per l'uso e il consumo, ma anche per l'incessante progresso tecnologico ... » (La). «Secondo le leggi attuali nessuna fabbrica in cui siano impiegate persone al di sotto dei 18 anni può essere tenuta in attività per più di 11,5 ore al giorno, ossia 12 ore per 5 giorni e 9 ore il sabato. Orbene, la seguente analisi dimostra che in una fabbrica così gestita l'intero profitto netto deriva dall'ultima ora. Supponiamo che un fabbricane investa 100.000 L, — 80.000 nel fabbricato e in macchine, e 20.000 in materia prima e salari. In termini di rendimento annuo della fabbrica, supponendo che il capitale compia una rotazione all'anno, e che i profitti lordi siano del 15%, i suoi beni devono valere 115,000 L, prodotte dalla continua conversione e riconversione, da denaro in beni e da beni in denaro, delle 20.000 I. di capitale circolante», (in realtà, dalla conversione e riconversione del pluslavoro, prima in merce e poi di nuovo in lavoro necessario ecc.) «in periodi di poco più di due mesi. Di queste 115.000 L, ognuna delle 23 mezze ore di lavoro ne produce 5/115 o 1/23. Delle 23/23 che costruiscono l'intera somma di 115.000, 20/23, ossia 100.000 delle 115.000 I. risarciscono soltanto il capitale; 1/23 (o 5.000 delle 115.000) risarciscono il deterioramento della fabbrica e del macchinario. Le restanti 2/23, ossia le ultime 2 delle 23 mezze ore di ciascuna giornata, producono il profitto netto del 10%. Se perciò (fermi restando i prezzi) si potesse mantenere in attività la fabbrica 13 ore al giorno invece di 11,5, con circa 2.600 I. di capitale circolante addizionale, il profitto netto sarebbe più che raddoppiato». (Ossia 2.600 verrebbero lavorate senza usare correlativamente maggior capitale fisso, e senza pagare affatto il lavoro. Il profitto lordo e netto corrisponderebbe al materiale che viene lavorato gratuitamente per il capitalista, e qui naturalmente un'ora in più = 100%, se il pluslavoro, secondo la falsa premessa del sig. Stronzo, è soltanto = 1/2 giornata o soltanto 2/23 come dice Senior): «D'altra parte, se le ore di lavoro vengono ogni giorno ridotte di 1 ora al giorno (fermi restando i prezzi), non ci sarebbe il profitto netto; se fossero ridotte di 1,5 non ci sarebbe neanche il profitto lordo. Il capitale circolante sarebbe rimpiazzato, ma non rimarrebbe alcun fondo per compensare il deterioramento progressivo del capitale fisso» (12, 13). I dati del sig. Senior sono tanto falsi quanto importante ne è l'illustrazione ai fini della nostra teoria). «Il rapporto tra capitale fisso e capitale circolante aumenta costantemente per due motivi 1) per la tendenza del progresso tecnologico a scaricare sempre più sulle macchine il lavoro di produzione, ... 2) per il progredire dei mezzi di trasporto e la conseguente diminuzione dello stock di materia prima che rimane nelle mani del fabbricante in attesa di essere usata. Prima, quando il carbone e il cotone erano trasportati via mare, l'incertezza e l'irregolarità del rifornimento lo costringeva a dilazionare il consumo per 2 o 3 mesi. Ora la ferrovia glielo porta settimana per settimana, o addirittura giorno per giorno, dal porto o dalla miniera. In tali circostanze, io posso prevedere esattamente che in pochissimi anni il capitale fisso, invece che nell'attuale rapporto, sarà nel rapporto di 6 o 7 o anche 10 : 1 rispetto al capitale circolante; e, conseguentemente, che le ragioni per prolungare l'orario di lavoro aumenteranno, essendo questo l'unico mezzo per rendere profittevole una larga porzione di capitale fisso. "Quando un lavoratore", mi disse il sig. Ashworth, «depone il badile, rende inutile per quel periodo, un capitale del valore di 18 d. Quando qualcuno abbandona la fabbrica, rende
76 Cfr. ibidem, p. 328.
inutile un capitale del costo di 100 I."» (13, 14)]]. [[È una stupenda dimostrazione del fatto che sotto il dominio del capitale l'impiego delle macchine non riduce il lavoro, bensì lo prolunga. Ciò che esso riduce è il lavoro necessario, non quello necessario per il capitalista. Poiché il capitale fisso si svaluta se non viene usato nella produzione, il suo aumento è connesso alla tendenza a perpetuare il lavoro. Quanto poi agli altri punti messi in luce da Senior, la diminuzione del capitale circolante in rapporto al capitale fisso avrebbe la dimensione che egli ipotizza, solo se i prezzi rimangono costanti. Ma se per esempio il cotone, secondo medie statistiche, cade al di sotto dei suoi prezzi medi, il fabbricante acquisterà scorte per il quantitativo che gli permette il suo capitale circolante e vice versa. L'osservazione di Senior è invece esatta per quanto riguarda il carbone, la cui produzione è uniforme e della cui domanda nessuna circostanza particolare lascia supporre un aumento straordinario. Noi abbiamo visto che il trasporto (e quindi i mezzi di comunicazione) non determinano la circolazione finché essi stessi riguardano il trasporto del prodotto sul mercato o la sua trasformazione in merce. Per questo verso infatti essi sono già inclusi nella fase della produzione. Ma essi determinano la circolazione se determinano 1) la rotazione; 2) la ritrasformazione del capitale dalla forma di denaro in quella di condizioni di produzione. Il capitalista ha bisogno di acquistare scorte di materiale e di materie strumentali tanto più esigue quanto più rapida e ininterrotta ne è l'offerta. Egli quindi può far ruotare o riprodurre tanto più frequentemente il medesimo capitale circolante in questa forma, invece di tenerselo come capitale inattivo. D'altra parte, come ha già notato Sismondi, ciò agisce anche a sua volta nel senso che il commerciante al dettaglio, lo shopkeeper, può rinnovare tanto più frequentemente le sue scorte, e quindi avere anche meno necessità di mantenere scorte di merci, perché può rinnovare ad ogni momento la fornitura. Tutto ciò mostra come con lo sviluppo della produzione diminuisce relativamente l'accumulazione nel senso di accumulo di scorte; essa aumenta soltanto nella forma di capitale fisso, mentre il lavoro continuativo simultaneo (produzione) aumenta nel senso della regolarità, dell'intensità e del volume. La velocità dei mezzi di trasporto, unita alla loro versatilità, trasforma sempre più (ad eccezione dell'agricoltura) la necessità di lavoro antecedente, nella misura in cui è implicato il capitale circolante, nella necessità di una produzione simultanea, interdipendente, differenziata. Questa osservazione acquista la sua importanza nella sezione sull'accumulazione]]. «Le nostre fabbriche di cotone, all'inizio, venivano tenute in funzione per tutte le 24 ore. La difficoltà di pulire e riparare le macchine, e la divisione di responsabilità derivante dalla necessità di impiegare un doppio corpo di sorveglianti, contabili ecc, ha quasi posto fine a questa pratica, ma prima che il Hobhouse's Act riducesse le ore a 69, le nostre fabbriche lavoravano in media dalle 70 alle 80 ore a settimana» (p. 15, La).
3.5.22 - [Fabbriche di cotone in Inghilterra. Esempio per il problema: macchine e pluslavoro. - Esempio di Symons. Glasgow. Fabbrica con telai meccanici ecc. (Questi esempi valgono per il problema del saggio di profitto). - Modi diversi con cui le macchine diminuiscono il lavoro necessario. Gaskell. - Lavoro come mercato diretto per il capitale]
«Secondo Baines una filanda di prim'ordine non può essere costruita, dotata di macchinario, e fornita di macchine a vapore e impianti a gas, per meno di 100.000 I. Una macchina a vapore di 100 cavalli può azionare 50.000 fusi, che possono produrre 62.500
miglia di filo di cotone fino al giorno. In una fabbrica del genere 1.000 persone possono filare una quantità di filo pari a quella che potrebbero filare 250.000 persone senza macchine» (S. Laing, National Distress ecc. London 1844, p. 75)77.
«Se i profitti diminuiscono, il capitale circolante tende a trasformarsi in una certa misura in capitale fisso. Se l'interesse è del 5%, il capitale non viene usato per costruire nuove strade, canali o ferrovie, fino a che tali opere non rendono una larga percentuale corrispondente; ma se l'interesse è soltanto del 4 o 3%, il capitale verrebbe anticipato per tali opere di miglioria anche se ottenesse una percentuale proporzionalmente inferiore. Le società per azioni create per intraprendere grandi opere di miglioria, sono il risultato naturale della diminuzione del saggio di profitto. Ciò dunque induce gli individui a fissare il loro capitale sotto forma di fabbricati e macchinari» (p. 232. Hopkins (Th.), Great Britain for the last 40 years ecc. London, 1834)78.
«McCulloch stima come segue il numero e i redditi degli addetti alla manifattura del cotone:
833.000 tessitori, filatori, tintori ecc. a 24 I. a testa per anno Lst. 20.000.000
111.000 falegnami, meccanici, costruttori di macchine ecc. a 30 I. a testa Lst. 3.330.000
Profitto, lavoro di sovrintendenza, carbone e materiali per le macchine Lst. 6.670.000
944.000 Lst 30.000.000
Dei QVz milioni, 2 milioni si suppone che siano destinati a carbone, ferro e altri materiali, macchine e altre spese, che darebbero impiego, a 30 Lst. l'anno a testa, a 66.666 persone, che portano il totale della popolazione occupata a 1.010.666 persone; alle quali va aggiunta 1/2 di tale cifra costituita di fanciulli, anziani ecc, a carico di coloro che lavorano, ossia un numero addizionale di persone pari a 505.330; per un totale cioè di 1.515.996 persone che gravano sui salari. A questo vanno aggiunti coloro i quali direttamente o indirettamente gravano sui A2A milioni di profitto ecc.» (Hopkins, l.c. 336, 337). Stando a questo calcolo insomma, 833.000 persone sono direttamente impegnate nella produzione; 176.666 nella produzione di macchine e di beni strumentali richiesti esclusivamente dall'impiego delle macchine stesse. Per costoro però il calcolo parla di 30 I. a testa; sicché per risolvere il loro numero in lavoro della stessa qualità di quello fatto dagli 833.000, andrebbero calcolate 24 I. a testa; si avrebbero allora 5.333.000 I. per circa 222.208 operai, ossia circa 1 addetto alla produzione di macchine e di beni strumentali su 31 addetti alla produzione di manufatti di cotone. Meno di 1 su 4, ma per comodità diciamo 1 su 4. Se attualmente i 4 restanti operai lavorassero soltanto quanto prima lavoravano 5 operai, ossia ciascuno 1/4 di tempo di lavoro supplementare in più, per il capitale non ci sarebbe profitto. I 4 restanti operai debbono fornire un pluslavoro maggiore di quello dei 5 precedenti; ovvero il numero di operai impiegato nella produzione di macchine deve essere inferiore al numero di operai espulsi dalle macchine. Le macchine sono profittevoli per il capitale soltanto nella misura in cui aumentano il tempo di lavoro supplementare degli operai occupati nella produzione di macchine (ossia non in quanto lo riducono; cioè, solo in quanto diminuiscono il rapporto tra tempo di lavoro supplementare e tempo di lavoro necessario, in modo che quest'ultimo diminuisca non solo relativamente, mentre rimane identico il numero delle giornate lavorative simultanee, ma diminuisca in assoluto).
77 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XI.
78 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XI
L'aumento del tempo di lavoro assoluto presuppone un identico oppure un crescente numero di giornate lavorative simultanee; e così anche l'aumento della produttività mediante la divisione del lavoro ecc. In entrambi i casi il tempo di lavoro aggregato rimane lo stesso oppure aumenta. Con l'impiego delle macchine il tempo di lavoro supplementare relativo aumenta non solo in rapporto al tempo di lavoro necessario e quindi relativamente al tempo di lavoro aggregato, bensì il rapporto con il tempo di lavoro necessario aumenta mentre diminuisce il lavoro aggregato o numero di giornate lavorative simultanee (in rapporto al tempo di lavoro supplementare). Un fabbricante di Glasgow ha fornito a Symons (J. C.) Arts and Artisans at Home and Abroad, Edinb. 183979, i seguenti dati: (noi ne diamo parecchi per avere esempi a disposizione da utilizzare nell'analisi del rapporto tra capitale fisso, capitale circolante e la parte di capitale spesa in salari ecc.).
Glasgow: «La spesa per impiantare una fabbrica meccanizzata dotata di 500 telai, in
grado di tessere una buona qualità di calicò o di tela da camicia quale si fabbrica
normalmente a Glasgow, ammonterebbe a circa Lst. 18.000
Prodotto annuo, poniamo 150.000 pezze di 24 yards, a 6 sh I costi sono cosi ripartiti (p. 233):
Lst. 45.000
Interessi sul capitale investito e per il deprezzamento del valore delle macchine 1.800
Forza motrice, olio, grasso ecc. per la manutenzione delle macchine, utensili ecc 2.000
Filati e lino 32.000
Salari agli operai 7.500
Profitto presunto 1.700
totale 45.000
Se supponiamo dunque un interesse del 5% sul macchinario, il profitto lordo è 1700+900=2600. Il capitale speso in salario ammonta invece soltanto a 7500. Quindi il rapporto tra profitto e salario = 26: 75=(5+1/5) : 15, ossia = 34 e 2/3%.
Spesa probabile per impiantare una fabbrica di cotone [filanda] con filatoi a mano, calcolata per prò durre un N. 40 di buona qualità media
Lst. 23.000
Se sono automatici, 2000 I. in più
Prodotto annuo ai prezzi attuali dei cotoni e ai probabili tassi di vendita dei filati
25.000
I costi sono così ripartiti: (p. 234).
Interessi sul capitale investito, quota per deprezzamento del valore delle macchine del 10% 2.300
Cotone 14.000
Forza motrice, olio, grasso, gas, e spese generali per manutenzione e riparazione utensili e macchine 1.800
Salari agli operai 5.400
Profitto 1.500
25.000
(Si suppone dunque che il capitale circolante sia 7000 I., dato che 1500 è il 5% di 30.000).
«Prodotto presunto della fabbrica, 10.000 libbre a settimana» (234 La).
Qui dunque il profitto = 1150+1500 = 2650; 2650 : 5400 (salario) = 1 : (2+2/53) = 49 + 8/108%
79
Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese IX
Costo di una filanda di 10.000 fusi, calcolata per produrre una buona qualità di N. 24
20.000
Considerando il valore attuale del prodotto, il prodotto globale annuo costerebbe
23.000
I costi sono così ripartiti: (p. 235).
Interessi sul capitale investito, deprezzamento del valore delle macchine del 10% 2.000
Cotone 13.000
Forza motrice, grasso, olio, gas, riparazione macchine 2.500
Salari agli operai 3.800
Profitto 1.400
23.000
Quindi il profitto lordo = 2400; i salari 3800;
2400 : 3800 = 24 : 38 = 12 : 19 = 63 e 3/19%.
Nel primo caso 34%%; nel secondo 49+8/108% e nell'ultimo caso 63+3/19%. Nel primo caso il salario rappresenta 1/6 del prezzo globale del prodotto, nel secondo oltre 1/4; nell'ultimo oltre 1/6. Ma nel primo caso il rapporto tra salario e valore del capitale = 1 : (4+8/15) nel secondo caso = 1 : (5+15/27); nel terzo = 1 : 7+2/19. Affinchè il saggio di profitto rimanga identico, il profitto sulla parte spesa in salario deve naturalmente aumentare nello stesso rapporto in cui la quota complessiva della parte di capitale spesa in salario diminuisce rispetto alla parte spesa in macchine e capitale circolante (che è complessivamente nel primo caso 34.000; nel secondo 30.000, nel terzo 28.000).
La diminuzione assoluta del lavoro aggregato, ossia della giornata lavorativa moltiplicata per il numero di giornate lavorative simultanee, in rapporto al pluslavoro, può assumere due aspetti: quello della prima forma che abbiamo già visto, per cui una parte degli operai finora occupati viene licenziata in seguito all'impiego di capitale fisso (macchine). Oppure, quello per cui l'introduzione delle macchine riduce l'aumento delle giornate lavorative impiegate, sebbene la produttività aumenti addirittura in proporzione maggiore (naturalmente) di quanto non diminuisca in conseguenza del «valore» delle nuove macchine introdotte. Nella misura in cui il capitale fisso ha un valore, esso non aumenta ma diminuisce la produttività del lavoro. «Il surplus di mano d'opera permetterebbe ai fabbricanti di ridurre il saggio dei salari; ma la certezza che qualsiasi aggiunzione3 di una certa entità sarebbe seguita da enormi perdite immediate dovute a scioperi, fermate prolungate e vari altri impedimenti che incontrerebbero sulla loro strada, li porta a preferire il processo più lento del miglioramento tecnologico, con il quale, pur potendo triplicare la produzione, non hanno bisogno di procedere a nuove assunzioni» (Gaskell. Artisan and Machinery, London 1836). (p. 314). «Se i miglioramenti tecnologici non sostituiscono interamente l'operaio, essi rendono uno solo di essi capace di produrre o piuttosto di sorvegliare la produzione di una quantità che attualmente richiede dieci o venti lavoratori» (315, La). «Sono state inventate macchine che permettono ad un solo operaio di produrre più filati di quanti ne avrebbero prodotti 250 o 300 operai 70 anni fa; macchine che permettono ad 1 operaio e ad 1 garzone di stampare la stessa quantità di tessuto che una volta avrebbero stampato 100 operai e 100 garzoni. I 150.000 operai delle filande producono una quantità di filato pari a quella che avrebbero potuto produrre 40 milioni di operai con vecchi fusi ad un filo» (316, Le). «Si può dire che il mercato immediato per il capitale, ovvero il suo campo d'impiego, sia il lavoro. La massa di capitale che può essere investita ad un dato momento, in un dato paese, o dappertutto, in modo da rendere non meno di un dato saggio di profitto, sembra dipendere principalmente dalla quantità di
«addition»; dovrebbe essere «reduction».
lavoro che si può far fare alla popolazione esistente, sborsando quel capitale» (An Inquiry Info tho those Principles respecting the nature of demandi ecc., London 1821, p 20). (Di un ricardiano in polemica con i Principles di Malthus ecc.).
3.5.23 - [Alienazione delle condizioni di lavoro del lavoro con lo sviluppo del capitale. (Inversione). L'inversione è alla base del modo capitalistico di produzione, non solo della sua distribuzione]
Il fatto che con lo sviluppo delle capacità produttive del lavoro le condizioni oggettive del lavoro, ossia il lavoro oggettivato debba aumentare in rapporto al lavoro vivo — una proposizione a rigore tautologica, giacché cos'altro vuol dire crescente produttività del lavoro se non che si richiede meno lavoro immediato per creare un prodotto maggiore, e che dunque la ricchezza sociale si esprime sempre di più nelle condizioni del lavoro create dal lavoro stesso —, questo fatto assume, dal punto di vista del capitale, questo aspetto: che non è uno dei momenti dell'attività sociale — ossia il lavoro oggettivato — che diventa corpo sempre più potente dell'altro momento, del lavoro vivo, soggettivo, bensì sono le condizioni oggettive del lavoro che assumono rispetto al lavoro vivo un'autonomia sempre più colossale che si manifesta attraverso la loro stessa estensione, e la ricchezza sociale si contrappone al lavoro in dimensioni sempre più imponenti come un potere dominante ed estraneo. L'accento cade non sul fatto che l'enorme potere oggettivo, che il lavoro sociale stesso si è contrapposto come uno dei suoi momenti, sia oggettivato, ma sul fatto che esso sia alienato, espropriato, estraneato, che appartenga non all'operaio, ma alle condizioni di produzione personificate, ossia al capitale. Finché, al livello del capitale e del lavoro salariato, la creazione di questo corpo oggettivo dell'attività avviene in antitesi alla forza-lavoro immediata — e questo processo di oggettivazione si presenta di fatto come processo di espropriazione dal punto di vista del lavoro o di appropriazione di lavoro altrui dal punto di vista del capitale —, finché ciò accade questa distorsione e inversione sono effettive, non sono una mera opinione, non esistono cioè soltanto nella rappresentazione degli operai e dei capitalisti. Ma evidentemente questo processo di inversione è una necessità meramente storica, è una necessità soltanto per lo sviluppo delle forze produttive da un determinato punto di partenza storico, o da una determinata base storica; non è quindi affatto una necessità assoluta della produzione; anzi è una necessità transitoria, e il risultato e lo scopo (immanente) di questo processo è di sopprimere questa base stessa così come questa forma del processo. Gli economisti borghesi sono a tal punto prigionieri degli schemi di un determinato livello di sviluppo storico della società, che la necessità della oggettivazione delle forze sociali del lavoro si presenta loro inscindibile dalla necessità della alienazione di queste stesse forze in opposizione al lavoro vivo. Ma con la soppressione del carattere immediato del lavoro vivo come lavoro solamente singolo, o solo interiormente, o solo esteriormente generale, con l'attribuzione all'attività degli individui di un carattere immediatamente generale o sociale, questa forma della alienazione viene cancellata dai momenti oggettivi della produzione; con ciò essi vengono posti come proprietà, come corpo organico sociale in cui gli individui si riproducono come singoli, ma come singoli sociali. Le condizioni di questo modo di riprodurre la loro vita, di questo tipo di processo vitale produttivo, sono state poste dallo stesso processo storico-economico; sia le condizioni oggettive, sia quelle soggettive, che sono soltanto le due distinte forme delle medesime condizioni.
La mancanza di proprietà dell'operaio e la proprietà del lavoro oggettivato su quello vivo, o l'appropriazione di lavoro altrui mediante il capitale — le due cose non esprimono che due poli opposti di un medesimo rapporto — sono condizioni fondamentali del modo d produzione borghese, non suoi accidenti indifferenti. Questi modi di distribuzione sono rapporti di produzione stessi, solamente sub specie distributionis. È perciò oltremodo assurdo quanto dice per esempio J. St. Mill (Principles of Politicai Economy, 2a ed. London 1849, t. I, p. 240)80. «Le leggi e le condizioni della produzione della ricchezza partecipano
del carattere delle verità fisiche Non così la distribuzione della ricchezza. Questa è
puramente materia delle istituzioni umane» (p. 239, 240). Le «leggi e condizioni» della produzione della ricchezza e le leggi della «distribuzione della ricchezza» sono le medesime leggi sotto diversa forma e sia le une che le altre mutano, soggiacciono al medesimo processo storico; non sono altro che momenti di un processo storico.
Non occorre un acume particolare per comprendere che, partendo per esempio dal lavoro libero, o lavoro salariato, scaturito dalla dissoluzione della servitù della gleba, le macchine possono nascere solamente in antitesi al lavoro vivo, in quanto proprietà altrui e potere ostile ad esso contrapposti; ossia che esse gli si .devono contrapporre come capitale. Ma è altrettanto facile capire che le macchine non cesseranno di essere agenti della produzione sociale quando per esempio diventeranno proprietà degli operai associati. Nel primo caso però la loro distribuzione, il fatto cioè che esse non appartengono all'operaio, è altresì una condizione del modo di produzione fondato sul lavoro salariato. Nel secondo caso una distribuzione modificata partirebbe da una base di produzione modificata, nuova, sorta soltanto dal processo storico.
3.5.24 - [Merivale - Necessità di sostituire la dipendenza naturale dell'operaio nelle colonie con restrizioni artificiali]
L'oro, nel linguaggio figurato dei peruviani, rappresenta «le lacrime piante dal sole» (Prescott)81. «Senza l'uso degli utensili o delle macchine che sono familiari agli Europei, ciascuno individualmente» (in Perù) «avrebbe potuto fare bene poco; ma agendo in masse estese e sotto una direzione comune, essi furono messi in grado di ottenere dei risultati grazie alla loro infaticabile perseveranza» (l.c.)82.
[[Il denaro che troviamo presso i messicani (ma prevale il baratto e la proprietà fondiaria di tipo orientale) «è un mezzo circolante regolato, che ha valori differenti. Esso consiste di cannucce trasparenti (penne d'oca) contenenti polvere d'oro; di pezzi di stagno fatti a forma di T; e di sacchi di cacao contenenti un numero specificato di grani. «0 felicem monetam» dice Pietro Martire (de Orbe novo) «quae suavem utilemque praebet bumano generi potum, et a tartarea peste avaritiae suos immunes servat possessores, quod suffodi aut diu servari nequeat» (Prescott)83. «Eschwege (1823) stima il valore totale dei diamanti lavorati in 80 anni ad una somma appena eccedente lo zucchero o il caffè
80 Cfr. Principi ecc., cit., pp. 195 -196.
81Cfr. W. il. PRESCOTT, History ecc., cit., voi. I, p. 92.
82 Cfr. ibidem, p. 127.
83 Cfr. W. il. PRESCOTT, History of the Conquest of Mexico ecc., voi. I, London 1850, p. 123. [Estratti da
quest'opera, nel quaderno XIV insieme a quelli dalla History ofthe Conquest ofPerù]
prodotti in Brasile in 18 mesi» (Merivale)84. «I primi coloni (inglesi, nel Nordamerica) «coltivavano in comune il terreno libero che circondava i loro villaggi ... questa usanza prevalse fino al 1619 in Virginia» ecc. (Merivale, t. I, p. 83)85. (Quaderno, p. 52). («Le cortes nel 1593 così si rivolgevano a Filippo II: "Le cortes di Valladolid dell'anno '48 supplicano V. M. di non permettere più l'ingresso nel reame di candelieri, bicchieri, gioielli, coltelli e altre cose simili, che vi vengono introdotte da fuori per scambiare questi articoli così inutili alla vita umana con l'oro, come se gli Spagnoli fossero degli Indiani"» (Sempéré))86 «Nelle colonie densamente popolate, il lavoratore, seibbene libero, è naturalmente dipendente dal capitalista; in quelle scarsamente popolate la mancanza di questa dipendenza naturale deve essere sostituita da restrizioni artificiali» (Merivale, Lectures on Colonisation ecc., London 1841, 1842, v. Il, p. 314]].
3.5.25 - [Come la macchina ecc, risparmia materiale. Pane. Dureau de la Malie]
87Denaro in Roma: aes grave, libbra di rame (emere per aes et libram). Questa è \'as* Nel 485 a.U.c. denari d'argento = 10 as (40 di questi denarii alla libbra: nel 510 [a.U.c] 75 denarii alla libbra; ogni denarius è ancora = 10 as, ma 10 as di 4 once). Nel 513 l'as è ridotto a 2 once; il denarius è ancora = 10 as, ma ormai questo è soltanto 1/84 di libbra d'argento. Quest'ultima cifra, 1/84, si mantenne fino alla fine della repubblica, ma nel 537 il denarius valeva 16 as di un'oncia e nel 665 ormai soltanto 16 as di mezza oncia .. Il denarius d'argento dell'anno 485 della repubblica = 1,63 franchi; nel 510 = 87 centesimi; nel 513-707 = 78 centesimi. Da Galba ad Antonino, 1 franco (Dureau de la Malie, t. I). All'epoca del primo denarius d'argento il rapporto tra libbra d'argento e libbra di rame = 400 1. All'inizio della seconda guerra punica = 112 : 1 (l.c. t. I, pp. 82-84). «Le colonie greche nel Sud dell'Italia importavano dalla Grecia e dall'Asia, direttamente o attraverso Tiro e Cartagine, l'argento con cui fabbricavano le monete a partire dal 6° e 5° secolo a.C. Malgrado tale vicinanza, i Romani prescrissero l'uso di oro e argento per motivi politici. Il popolo e il senato sentivano che un mezzo di circolazione così agevole avrebbe comportato concentrazione, aumento degli schiavi, crisi degli antichi costumi e dell'agricoltura» (l.c. p. 64, 65). «Secondo Varrone lo schiavo è un instrumentum vocale, l'animale un instrumentum semi-mutum, l'aratro un instrumentum mutum» (l.c. p. 253, 254). (Il consumo giornaliero di un cittadino di Roma superava di poco le 2 livres: francesi, quello di un contadino superava le 3 livres Un parigino consuma 0,93 di pane; un contadino, nei 20 dipartimenti dove il grano rappresenta il nutrimento principale, ne consuma 1,70 (l.c). In Italia (attualmente) se ne consuma 1 I. 8 once dove il grano è il nutrimento principale. Perché i Romani ne mangiavano comparativamente di più? In
84 Cfr. H. A. M. MERIVALE, Lectures on Colonization ecc., London 1841, voi. I, p. 52, nota. [Estratti nel
quaderno XIV]
85 Cfr. ibidem, pp. 91-92; errato il rinvio «p. 83»
86 Cfr. J. SEMPÉRÉ Y GUARINOS, Considérations sur les causes de la grandeur et de la décadence de la
monarchie espagnole, Paris 1826, t. I, pp. 275-276. [Estratti nel quaderno londinese XIV].
87Salvo indicazioni in contrario, tutte le citazioni seguenti riguardano il voi. I della cit. Economie Politique des Romains di DUREAU DE LA MALLE. [Capitoli estratti, passim].
* L'As o libra = 12 once; 1 oncia = 24 scrupula; 288 scrupula a libbra.
origine mangiavano il grano crudo o soltanto rammollito nell'acqua; in seguito pensarono di cuocerlo ... Più tardi impararono a macinarlo e inizialmente mangiavano cruda la pasta fatta con la farina. Per macinare il grano ci si serviva di un pilone o di due pietre tagliate e fatte girare l'una sull'altra ... Questa pasta cruda, il soldato romano se la preparava per vari giorni Poi fu inventato il vaglio per pulire il grano e si trovò il modo di separare la crusca dalla farina; infine si aggiunse il lievito, e all'inizio si mangiava il pane crudo, finché per puro caso si imparò che cuocendolo si sarebbe impedito che ammuffisse e lo si sarebbe conservato più a lungo. Solo dopo la guerra contro Perseo, 580, Roma ebbe dei panettieri (p. 279 l.c. «Prima dell'era cristiana i Romani non conobbero il mulino a vento» (280 Le.)). Parmentier ha dimostrato che in Francia, a partire da Luigi XIV, l'arte della macinazione ha fatto grandi progressi e che la differenza tra l'antica e la nuova tecnica di macinazione arriva fino a metà del pane fornito da una medesima quantità di grano. Per il consumo annuo di un abitante di Parigi furono assegnati prima 4, poi 3, poi 2, e infine VA sestari di grano ... così si spiega facilmente l'enorme sproporzione tra il consumo giornaliero di grano dei Romani e quello nostro; essa dipende dalla imperfezione dei procedimenti di macinazione e di panificazione» (p. 281 l.c). «La legge agraria limitava la proprietà terriera ai cittadini attivi. La limitazione della proprietà costituisce il fondamento dell'esistenza e della prosperità delle antiche repubbliche» (l.c. p. 256, 257)88. «Le entrate dello Stato consistevano in demani, contributi in natura, corvées, e alcune imposte in denaro pagate all'ingresso e all'uscita delle merci, o percepite sulla vendita di determinate derrate. Quest'uso ... esiste ancora quasi immutato nell'impero ottomano ... All'epoca della dittatura di Siila e persino alla fine del 7° secolo la repubblica romana percepiva annualmente soltanto 40 milioni di franchi, anno 697 ... Nel 1780 le entrate monetarie del sultano turco ammontavano soltanto a 35.000.000 di piastre equivalenti a 70 milioni di franchi .. I Romani e i Turchi prelevavano in natura la maggior parte delle loro entrate. Presso i Romani ... 1/10 di grano, 1/5 di frutti; presso i Turchi da 1/2 a 1/10 a seconda dei prodotti ... Poiché l'impero romano non era altro che un immenso agglomerato di municipi indipendenti, la maggior parte degli oneri e delle spese erano comunali», (p. 402-407). (La Roma di Augusto e di Nerone, senza i sobborghi, aveva soltanto 266.684 abitanti. Supponiamo che nel 4° secolo dell'era cristiana i sobborghi abbiano avuto 120.000 abitanti; la cinta aureliana ne aveva 382.695; totale 502.695; più 30.000 soldati e 30.000 stranieri; totale 562.000 teste in cifra tonda. Madrid, durante VA secolo, a partire da Carlo V, capitale di una parte d'Europa e di metà del nuovo mondo, ha molte analogie con Roma. Anche la sua popolazione non aumenta in proporzione alla sua importanza politica (405, 406, l.c). «La condizione sociale dei Romani assomigliava allora molto più a quella della Russia e dell'impero ottomano che a quella della Francia o dell'Inghilterra: poco commercio o industria; fortune immense a fianco di una miseria estrema» (p. 214, l.c)89. (Il lusso esisteva soltanto nella capitale e nelle dimore dei satrapi romani)90. «L'Italia romana, dopo la distruzione di Cartagine e fino alla fondazione di Costantinopoli, era vissuta, faccia a faccia con la Grecia e l'Oriente, nel medesimo stato in cui la Spagna del 18° secolo si è trovata rispetto all'Europa. Alberoni diceva: "La Spagna sta all'Europa come la bocca al corpo; tutto vi passa, nulla vi resta"» (l.c. p. 385 ss.)91.
L'usura, in origine, era libera in Roma. La legge delle 12 tavole (303 a.U.c.) aveva fissato l'interesse sul denaro all'1% per anno. (Niebuhr92 dice 10). Queste leggi furono subito
00 Cfr. ibidem, voi. II.
89 Cfr. ibidem, voi. Il
90 Cfr. ibidem, voi. Il, pp. 212-214.
91 Cfr. ibidem, voi. II.
92 Cfr. NIEBUHR, Romische Geschichte, ErsterTheil, p. 608.
violate. Duilio (398 a.U.c.) riduce di nuovo l'interesse sul denaro a 1%, unciario faenore. Nel 408 fu ridotto a 1/2%; nel 413 il prestito a interesse fu difeso strenuamente con un plebiscito provocato dal tribuno Genucio. Non è sorprendente che in una repubblica nella quale l'industria, il commercio all'ingrosso e al minuto erano proibiti ai cittadini, si difendesse anche il commercio del denaro (p. 260, 261, t. Il, Le). Questa situazione durò 3 anni, fino alla presa di Cartagine. Poi 12%; 6% il normale tasso di interesse annuo (261 l.c). Giustiniano fissò l'interesse al 4%; ... usura quincunx, nell'età di Traiano, è l'interesse legale del 5%. 12% era l'interesse commerciale in Egitto 146 anni avanti Cristo (l.c. p. 263).
L'alienazione non volontaria della proprietà fondiaria feudale si sviluppa con l'usura e col denaro: «L'introduzione del denaro, che compra ogni cosa e perciò favorisce il creditore che presta denaro al possidente, costringe all'alienazione legale per poterlo rimborsare» (John Dalrymple. An Essay towards a general history of Feudal Property in Great Britain, 4 ed. London 1759, p. 124)93. Nell'Europa medievale: «I pagamenti in oro sono abituali soltanto per alcuni articoli commerciali, soprattutto preziosi. Per la massima parte vengono effettuati al di fuori della sfera commerciale, quando si tratta di regali ad alte personalità, di certe altre sportule, gravi pene pecuniarie, acquisti di terreni. L'oro non monetario non di rado veniva pesato in libbre o marchi (mezza libbra) .. 8 once = 1 marco; una [oncia] quindi = 2 Lst. o 3 carati. Dell'oro monetato, fino all'epoca delle crociate, erano conosciuti soltanto i solidi bizantini, i tari italiani e i Maurabotini arabi (poi maravedi) (Hùllmann, Stàdtewesen des Mittelalters. Parte I, Bonn 1826)94 (p. 402-404). «Nelle leggi franche anche i solidi sono considerati semplice moneta di conto, in cui era espresso il valore dei prodotti agricoli dovuti in pagamento di ammende. Per esempio presso i Sassoni un solidus equivaleva ad un bue di un anno, della costituzione che raggiunge normalmente in autunno .. Secondo il diritto ripuario una mucca sana rappresentava un solidus ... 12 denari = 1 solidus aureo » (405, 406). 4 tari = un solidus bizantino ... A partire dal XIII secolo poi furono coniate in Europa varie monete auree. Augustali (dell'imperatore Federico II di Sicilia; Brindisi e Messina); Fiorentini o fiorini (di Firenze, 1252); ... Ducati o zecchini (Venezia dal 1285 in poi) (409-411, l.c). «In Ungheria, Germania e Paesi Bassi a partire dal XIV secolo furono coniate anche monete auree maggiori; in Germania si chiamarono semplicemente Gulden (l.c. 413). «Nei pagamenti in argento, per lo meno in quelli di una certa entità, l'uso predominante è di pesarlo per la maggior parte in marchi ... Anche l'argento monetato, in questo genere di pagamenti, veniva pesato, giacché la moneta era ancora quasi tutta di argento puro, e quindi l'unico criterio sicuro era il peso. Donde il nome di Pfund, {livre, lira)* e Mark, che in parte indica monete simboliche o di conto, in parte è passato ad indicare monete argentee reali. Monete argentee: denari o Kreuzer... In Germania questi si chiamavano Pfennige {Penig, Penning, Phennig) ... già dal 9° secolo. Originariamente si chiamavano Pending, Penthing, Pfentini, da pfundig, nella forma antica pfunding, che vuol dire "avere un peso", e quindi pfundige Denare, abbreviato in Pfundinge ... Un altro nome dei denari, a partire dall'inizio del 12° secolo in Francia, Germania, Paesi Bassi, Inghilterra, che invece della croce [Kreuze] avevano impressa una stella [Stern] era appunto Stemlinge, Sterlinge, Starlinge ... Denare Sterlinge = Pfennige Sterlinge ... Di Sterlingen dei Paesi Bassi, nel 14° secolo, ne occorrevano 320 per fare una libbra e 20 pezzi per fare un'oncia ... I solidi d'argento in Germania erano detti Schildlinge, Schillinge... I solidi di argento nell'alto Medioevo non sono monete reali, ma
no
Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XVII.
94 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XVII.
* Notabene: In Messico troviamo il denaro, ma non i pesi; in Perù troviamo i pesi, ma non il denaro (Cfr. W. HI. PRESCOTT, History of the ConquestofPerù, cit., voi, I, p. 147.
ciascuno un insieme di 12 denari... I solidus d'oro = 12 denari Sterlinge, giacché questo era il rapporto medio tra oro e argento ... Come moneta divisionaria circolavano gli oboli, mezzi Pfennige, Halblinge ... Con la progressiva espansione del piccolo artigianato sempre più si crearono piccole città commerciali, e i piccoli principi si arrogarono il diritto di battere la loro moneta locale, che era poi per la maggior parte moneta divisionaria ... Dickpfennige, Gros deniers, grossi, Groschen, Groten, furono coniati per la prima volta a Tours prima del XIII secolo. Questi Groschen originariamente equivalevano a due Pfennige» (415-433).
«Il fatto che i papi abbiano imposto tassazioni ecclesiastiche a quasi tutti i paesi cattolici ha contribuito non poco, dapprima allo sviluppo di tutto il sistema monetario nell'Europa economicamente attiva e poi, come conseguenza, al sorgere di ogni sorta di tentativi di aggirare il precetto ecclesiastico (contro l'interesse). Il papa si serviva dei Lombardi per la riscossione degli annalia dalle arcidiocesi e di altre gabelle. Essi erano i principali usurai e prestatori a interesse, sotto la protezione del papa. Sono conosciuti già a partire dalla metà del 12° secolo, e sono specialmente di Siena. Erano detti "pubblici usurarli" - In Inghilterra li chiamavano "banchieri romano episcopali". Alcuni vescovi di Basilea tra l'altro impegnavano agli ebrei, per una somma irrisoria, l'anello episcopale, i paramenti di seta, e tutte le suppellettili delle chiese, e pagavano anche gli interessi. Ma vescovi, abati, e curati esercitavano poi l'usura in proprio impegnando le suppellettili delle chiese in cambio di una partecipazione ai guadagni dei banchieri toscani di Firenze, Siena e altre città» ecc. (v.l.c.95, quaderno, p. 39).
Se il denaro è l'equivalente generale, il potere di acquisto generale, tutto si può comprare, tutto si può trasformare in denaro. Ma può essere trasformato in denaro solo in quanto viene alienato, in quanto il possessore se ne priva. Ogni cosa dunque è alienabile, o indifferente per l'individuo, esterna a lui. I cosiddetti possessi inalienabili, eterni, e i corrispondenti rapporti di proprietà fissi, immobili, crollano dunque quando compare il denaro. Inoltre, poiché il denaro esiste come tale soltanto nella circolazione, e a sua volta si scambia con godimenti ecc. — con valori, i quali in fondo possono risolversi tutti in godimenti puramente individuali —, ogni cosa ha valore solo nella misura in cui esiste per l'individuo. Il valore autonomo delle cose, al di fuori di quello che consiste semplicemente nel loro essere per un altro, nella loro relatività, nella loro scambiabilità, il valore assoluto di tutte le cose e di tutti i rapporti viene con ciò dissolto. Tutto viene sacrificato al godimento egoistico. Giacché, come tutto si può alienare per denaro, tutto si può però anche acquistare col denaro. Tutto si può avere per «denaro contante», che esistendo esso stesso come qualcosa di esterno può essere preso con la frode, la violenza ecc. Dunque tutto può essere appropriato da parte di tutti, e dipende dal caso che cosa l'individuo può appropriarsi oppure no, dal momento che ciò dipende dal denaro che è in suo possesso. Con ciò l'individuo in sé è posto come signore di tutte le cose. Non -esistono valori assoluti, dal momento che il valore in quanto tale è relativo al denaro. Non esiste nulla che non possa essere alienato per denaro. Non esiste nulla di superiore, di sacro ecc., dal momento che tutto può essere appropriato col denaro. Le res sacrae e religiosae, che possono essere in nullius bonis96, nec aestimationem recidere, nec obligari alienarique posse, che sono esenti dal commercio hominum, non esistono dinanzi al denaro — così come tutti sono uguali dinanzi a Dio. È bello vedere la Chiesa romana nel Medioevo farsi la propagandista principale del denaro.
95 Cfr. K. D. HULLMANN, op. cit., parte II, pp. 36-45.
96 Cfr. Institutiones. D. Justiniani. Editio Sterotypa Herban, Parisis 1815, p. 46. Ignota invece la fonte per la
frase nec ... hominum
«Visto che la legge della Chiesa contro l'usura aveva perso già da molto tempo qualsiasi significato, nel 1425 Martino la soppresse anche formalmente» (Hùllmann, parte II, La, Bonn 1827, p. 55). «Nel Medioevo in nessun paese esiste un tasso di interesse generale. Solo i preti erano inflessibili. Maggiore era l'incertezza degli istituti giuridici per garantire il prestito, tanto più alto era il tasso di interesse nei singoli casi. La scarsa circolazione di denaro, unita alla necessità di effettuare la maggior parte dei pagamenti in denaro contante, giacché non si era ancora sviluppato l'istituto dei cambi, comportavano una grande diversità nella stima degli interessi e nella nozione di usura. All'epoca di Carlomagno si poteva parlare di usura soltanto per tassi del 100%. A Lindau nel Bodensee, nel 1344, alcuni cittadini del posto prendevano il 216%. A Zurigo il Consiglio fissò l'interesse legale al 43%% .... In Italia talvolta bisognava pagare il 40%, sebbene dal 12°-14° secolo il tasso abituale non abbia superato il 20% .... Federico II, nelle sue ordinanze ... lo fissa al 10%, ma soltanto per gli Ebrei. Per i cristiani, non si pronunciava .... In Germania, nella zona romana, già nel 13° secolo il 10% era il tasso abituale» (55-57 Le).
3.5.26 - [Consumo produttivo. Newman. Trasformazioni di capitale. Ciclo economico. (Newman)]
«Si ha consumo produttivo quando il consumo di una merce è parte del processo di produzione» (Newman ecc. quaderno XVII, 10)97 «È da notare che in tal caso non c'è consumo di valore, giacché lo stesso valore esiste sotto una nuova forma» (La). «Inoltre il consumo.., è l'appropriazione del reddito individuale per i suoi differenti usi» (p. 297) (Le). «Vendere per denaro dovrà diventare in qualsiasi momento tanto facile quanto è ora comprare per denaro, e la produzione diventerebbe la causa uniforme e immancabile della domanda» (John Gray, The Social System ecc. Edinburgh 1831) (p. 16). «Dopo la terra, il capitale e il lavoro, la quarta condizione necessaria della produzione è il potere di scambio istantaneo» (1:. 18). «La capacità di scambiare è» per l'uomo in società «tanto importante quanto lo era per Robinson Crusoè la capacità di produrre» (Le, 21).
«Secondo Say il credito rimpiazza solamente il capitale, non lo crea. Ma questo è vero nel solo caso del prestito fatto da un capitalista a un industriale, ... non invece nel caso del credito tra produttori che consiste negli anticipi che essi si fanno reciprocamente. Le cose che un produttore anticipa ad un altro, non sono capitali; sono prodotti, merci. Questi prodotti, queste merci, potranno diventare e diventeranno senz'altro, nelle mani dell'imprenditore, capitali attivi, ossia strumenti di lavoro, ma attualmente nelle mani dei loro possessori non sono altro che prodotti da vendere, e quindi assolutamente inattivi ...
Occorre ... distinguere ... tra prodotto e merce ... e agente di lavoro o capitale produttivo ... Finché un prodotto rimane nelle mani del suo produttore, esso non è che una merce, o se
si vuole capitale inattivo, inerte Lungi dal dare un vantaggio qualsiasi all'industriale,
esso è per lui un peso, una causa permanente di fastidi, di spese improduttive e di perdite: spese di magazzinaggio, di conservazione e di custodia, interessi sui capitali ecc., senza contare il calo che quasi tutte le merci subiscono quando giacciono per lungo tempo inattive ... Una volta che egli vende questa sua merce a credito ad un industriale che
97 Cfr. S. P. NEWMAN, Elements of Politicai Economy, Andover-New York 1835, p. 296.
l'adopererà nella branca di lavoro di cui si occupa, da merce inattiva essa si trasforma in capitale attivo per quest'ultimo. Egli avrà dunque un accrescimento di capitale produttivo da un lato senza subire alcuna diminuzione dall'altro. Anzi: se si ammette che il venditore, pur dando le sue merci a credito, ha nondimeno ricevuto in cambio dei biglietti che lo mettono in grado di negoziare sulla piazza, non è evidente che con ciò si procura persino i mezzi per rinnovare a sua volta le sue materie prime e i suoi strumenti di lavoro e rimettersi all'opera? Noi abbiamo qui, dunque, un duplice accrescimento di capitale produttivo, in altri termini un potere acquisito da due lat » (Charles Coquelin - Du Crédit et des Banques dans l'industrie. Revue des deux mondes, t. 31, 1842, p. 776 ss.)98. «Se tutta la massa di merci da vendere passassero rapidamente, senza more e senza ostacoli, dallo stato di prodotto inerte a quello di capitale attivo: quale attività nuova si svilupperebbe in tutti i paesi! .... questa rapida trasformazione è precisamente il beneficio che il credito realizza ... É questa l'attività di circolazione. In tal modo il credito può
decuplicare gli affari degli industriali In un dato intervallo di tempo, il negoziante o
produttore ha rinnovato dieci volte, anziché una, le sue materie e i suoi prodotti ... Il credito realizza questo beneficio in quanto aumenta il potere d'acquisto di tutti. Invece di riservare questo potere a coloro che attualmente hanno la possibilità di pagare, esso lo dà a tutti
coloro che offrono, per la loro posizione sociale e la loro moralità, la garanzia di un
pagamento futuro; lo dà a chiunque è capace di utilizzare i prodotti mediante il lavoro Quindi il primo beneficio del credito è quello di aumentare, se non la somma dei valori posseduti da un paese, per lo meno quella dei valori attivi. Questo, l'effetto immediato. Da questo poi ... scaturisce l'aumento delle forze produttive, e perciò anche della somma dei valori ecc. » (La).
La locazione è una vendita condizionata, o vendita dell'uso di una cosa per un tempo limitato (Corbet Th. An inquiry into the Causes and Modes ofthe Wealth of Individuate ecc. London 1841, p. 81)".
«Trasformazioni a cui il capitale è sottoposto nel processo di produzione. Il capitale, per diventare produttivo, deve essere consumato» (S. P. Newman. Elements of Politicai
Economy. Andover e New York 1835, p. 80). «Il ciclo economico è l'intero processo di
produzione, dal momento dell'esborso fino a quello in cui si ottengono i ricavi. In agricoltura esso comincia con la semina e finisce con il raccolto» (81). La differenza tra capitale fisso e circolante consiste nel fatto che durante ogni ciclo economico, una parte è consumata parzialmente, mentre un'altra lo è totalmente (Le). Il problema dei differenti impieghi cui viene indirizzato il capitale rientra nella teoria della concorrenza. «Un mezzo di scambio: nelle nazioni sotto sviluppate, qualsiasi merce costituisca la parte più larga della ricchezza della comunità, oppure per una ragione qualsiasi sia più frequentemente di altre oggetto di scambio, finisce di solito con l'essere usata come mezzo circolante. Mezzi di scambio sono perciò il bestiame, tra le tribù dedite alla pastorizia, il pesce secco in Terranova, lo zucchero nelle Indie occidentali, il tabacco in Virginia. I metalli preziosi ... sono preferiti ... a) per l'identità qualitativa in ogni parte del mondo, ... b) perché possono essere minutamente suddivisi ed esattamente calibrati; e) per la rarità e la difficoltà di ottenerli, e d) perché possono essere coniati» (100, Le).
Estratti da quest'articolo, nel quaderno londinese XVI. 99 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XVI.
3.5.27 - [Dr. Price. Potere innato del capitale]
La concezione del capitale come entità che si autoriproduce — come valore che si perpetua e si accresce in virtù di una qualità innata — ha portato alle favolose escogitazioni del Dr. Price, che si lasciano di gran lunga in dietro le fantasie degli alchimisti, e alle quali Pitt credette seriamente facendone, nelle sue leggi sul sinking fund [fondo di ammortamento] (vedi Lauderdale)100, i pilastri della sua sapienza finanziaria. Ecco alcuni estratti significativi del Nostro:
«Il denaro gravato di interesse composto subisce inizialmente incrementi molto lenti, Ma il saggio di incremento, essendo progressivamente accelerato, diventa in poco tempo così rapido da superare qualsiasi forza di immaginazione. Un penny collocato all'interesse composto del 5% alla nascita di Nostro Signore, sarebbe aumentato fino ad oggi ad una somma superiore a quella che si otterrebbe con 150 milioni di mondi, tutti di oro massiccio. Ma se fosse collocato a interesse semplice, nello stesso periodo non ammonterebbe a più di 7 scellini e 4% d. Il nostro governo finora ha deciso di incrementare le disponibilità monetarie seguendo l'ultima anziché la prima di queste vie» (Price, Richard : An Appeal to the Public on the Subject of the National Debt. London 1772, 2 ed., p 18, 19)101. (La sua trovata: il governo doveva prendere denaro a prestito a interesse semplice, e riprestarlo a interesse composto). Nelle sue Observations on Reversionary Payments ecc. London 1772102, si spinge ad altezze ancora maggiori: «Uno scellino collocato al 6% di interesse
composto alla nascita di Nostro Signore sarebbe aumentato ad una somma superiore
a quella che potrebbe contenere l'intero sistema solare, supponendolo come una sfera che abbia il diametro uguale al diametro dell'orbita di Saturno» (l.c. XIII nota). «Perciò, non c'è motivo per cui uno Stato debba trovarsi in una qualche difficoltà; perché, con modestissime economie, esso può pagare i debiti più estesi nel breve tempo che può essere richiesto dal suo interesse» (p. XIV). Il buon Price era semplicemente abbagliato dalle cifre enormi risultanti dalla progressione geometrica dei numeri. Dal momento che concepiva il capitale come un'entità autoriproducentesi, come un semplice numero che si automoltiplica, senza tenere in alcun conto le condizioni di riproduzione del lavoro, egli poteva credere di aver trovato le leggi della sua crescita in quella formula (vedi sopra). Pitt, nel 1729, in un discorso in cui propose di aumentare la somma destinata al fondo di ammortamento, ha accolto del tutto seriamente la mistificazione del Dr. Price (S = C.(1+i)n).
McCulloch, nel suo Dictionary of commerce, 1847, elenca le seguenti proprietà del denaro metallico: «il materiale deve essere: 1) divisibile nelle più minuscole porzioni; 2) conservabile per un periodo indefinito senza deteriorarsi; 3) facilmente trasportabile da un luogo ad un altro, grazie al suo grande valore in piccolo volume; 4) un pezzo di denaro di una certa denominazione deve essere sempre uguale, per grandezza e qualità, a qualsiasi
100 Cfr. LAUDERDALE, Recherches ecc., cit., pp. 173-182 [Ricerche, pp. 70-83]
101 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XVI.
102 Estratti ibidem. Nel manoscritto errata la data di edizione «1782».
altro pezzo che abbia la medesima denominazione; 5) il suo valore deve essere relativamente stabile» (581 )103.
3.5.28 - [Proudhon .Capitale e scambio semplice. Surplus. - Necessità della mancanza di proprietà dell'operalo. Townsend. Galiani- L'infinito in processo. Galiani]
In tutta la polemica del sig. Proudhon con Bastiat, in Gratuiité du crédit, Discussion entre Mr. Fr. Bastiat e M. Proudhon, Paris 1850, l'argomentazione del buon Proudhon si aggira intorno a questo punto: che, secondo lui, prestare è cosa del tutto diversa dal vendere. Il prestito a interesse «è la facoltà di rivendere sempre lo stesso oggetto e riottenerne sempre il prezzo senza cedere mai la proprietà di ciò che si vende» (nella prima lettera a Chevé, uno dei redattori della «Voix du Peuple», p. 9). La forma diversa in cui qui si presenta la riproduzione del capitale lo inganna facendogli ritenere che questa continua riproduzione del capitale — il cui prezzo viene sempre riottenuto e che viene sempre di nuovo scambiato col lavoro ricavandone un profitto, profitto che viene sempre di nuovo realizzato nella compra-vendita — costituisca il concetto del capitale. Ciò che lo induce in errore è il fatto che Yobjet non cambia proprietario, come avviene nella compra-vendita; ossia, in fondo, soltanto la forma di riproduzione tipica di quel capitale, prestato a interesse, che si configura come capitale fisso. Nella locazione di immobili, di cui parla Chevé, si ha direttamente la forma del capitale fisso. Se si considera l'intero processo del capitale circolante, si vede che, sebbene non sempre si venda il medesimo oggetto (per esempio questa determinata libbra di zucchero), si riproduce sempre di nuovo il medesimo valore, e che l'alienazione riguarda la forma, non la sostanza. Ma se uno è capace di simili escogitazioni, evidentemente non ha ancora capito nemmeno i primi concetti elementari dell'economia politica. Proudhon non capisce né come dalla legge dello scambio di valori scaturisca il profitto, né come vi scaturisca l'interesse. «Case», denaro ecc, quindi, secondo lui, non debbono esser scambiati come «capitale», ma come «merce ... a prezzo di costo» (44). (Il giovinotto non comprende che tutto sta nello scambio tra valore e lavoro, secondo la legge dei valori; e che quindi, per sopprimere l'interesse, egli dovrebbe sopprimere il capitale stesso, il modo di produzione basato sul valore di scambio, e dunque anche il lavoro salariato. Il sig, Proudhon è incapace persino di fare una semplice distinzione tra prestito e vendita: «In effetti, il cappellaio che vende i cappelli riceve in cambio il valore, né più né meno. Ma il capitalista che presta .. non solo rientra integralmente nel suo capitale; egli riceve più che il capitale, più di ciò che egli porta nello scambio; egli riceve, oltre al capitale, un interesse» (69). I cappellai del signor Proudhon dunque non calcolano nel loro prezzo di costo né il profitto né l'interesse. Egli non comprende che proprio in quanto ricevono il valore dei loro cappelli essi ricevono di più di quanto questi gli siano costati, perché una parte di questo valore è appropriato, nello scambio col lavoro, senza un equivalente. Ecco di nuovo il suo grande principio, già discusso precedentemente104: «È impossibile che mentre l'interesse del capitale si
•ino
Cfr. A Dictionary, Practical, Theoretical, and Historical, of Commerce and Commercial Navigation ecc. By J. R. MAcCULLOCH, Esq. ecc. A New Edition ecc. London 1847, p. 836. [Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XVI].
104 Cfr. Gratuite du credit ecc, cit., pp.191-208
aggiunge, nel commercio, al salario dell'operaio per comporre il prezzo della merce, l'operaio possa riavere ciò che lui stesso ha prodotto. Vivere lavorando è un principio che, in regime di interesse, implica contraddizione» (105). Nella lettera IX (pp. 144-152) il buon Proudhon confonde il denaro come mezzo di circolazione col capitale, e ne deduce che il «capitale» esistente in Francia ricava il 160% (ossia 1600 milioni di interessi annui in debiti
pubblici, ipoteche ecc, per un capitale di un miliardo, ... la somma di moneta circolante
in Francia).
Quanto poco egli capisca del capitale in generale e della sua riproduzione continua, basta a dimostrarlo ciò che egli attribuisce, come carattere specifico, al capital- argent, ossia al denaro prestato come capitale «Poiché, in virtù dell'accumulazione degli interessi, il capitale-denaro, di scambio in scambio, ritorna sempre alla sua fonte, ne segue che il riaffitto fatto sempre da una medesima persona frutta sempre un profitto ad una medesima persona» (154). Ogni lavoro deve lasciare un eccedente»105. (Tutto deve essere venduto, nulla deve essere prestato. Qui sta tutto il succo della faccenda. Proudhon è incapace di vedere come lo scambio delle merci si basi sullo scambio tra capitale e lavoro, e che in quest'ultimo scambio è la fonte del profitto e dell'interesse. Egli preferisce attenersi alla forma più semplice e più astratta dello scambio).
Ecco un'altra bella dimostrazione del sig. Proudhon: «poiché il valore non è altro che una proporzione, e poi che tutti i prodotti stanno necessariamente in proporzioni reciproche, ne segue che dal punto di vista sociale i prodotti sono sempre valori, e valori fatti: la differenza, per la società, tra capitale e prodotto non esiste. Questa differenza è del tutto soggettiva, relativa agli individui » (250).
La natura antitetica del capitale e la necessità, per il capitale stesso, che l'operaio non abbia proprietà, è ingenuamente espressa dai più antichi economisti inglesi, per esempio dal reverendo Mr. J. Townsend, il padre della teoria della popolazione, mediante la cui appropriazione fraudolenta il sig. Malthus (che è un vero e proprio plagiario spudorato: la sua teoria della rendita, per esempio, è presa da Anderson, che era un fittavolo) si è fatto una fama. Townsend afferma: «Sembra essere una legge della natura che i poveri debbano essere imprevidenti nella misura sufficiente perché sempre alcuni di essi compiano i mestieri più servili, più sordidi, e più ignobili nella comunità.
Ciò accresce di molto la somma della felicità umana. Le persone più delicate vengono in tal modo liberate dai lavori umili ed estenuanti e possono tranquillamente dedicarsi alle elevate vocazioni ecc. » (A Dissertation on the Poorlaws. Edizione del 1817, p. 39)106. «La costrizione legale al lavoro è applicata con troppa fatica e violenza, con troppo clamore, e induce cattive disposizioni ecc., laddove la fame non è soltanto uno stimolo placabile, silenzioso, incessante, ma come spinta naturalissima all'attività e al lavoro, essa provoca gli sforzi più intensi» (15). (Questa la risposta al problema di quale lavoro sia effettivamente più produttivo, quello dello schiavo oppure quello dell'operaio libero.
A. Smith non poteva porre il problema, dato che il modo di produzione del capitale presuppone il lavoro libero.
105 Cfr. Gratuite du Crédit ecc., cit., p. 215.
106 L'opera apparve anonima (By a Well - Wisherto Mankind) la prima volta nel 1786
D'altra parte proprio dal rapporto sviluppato tra capitale e lavoro A. Smith è autorizzato a suddividere i lavori in produttivi e improduttivi107. Invece le stupide facezie di Lord Brougham e le presunte serie obbiezioni di Say, Storch, McCulloch e tutti quanti ci rimbalzano sopra. A. Smith pecca soltanto nel concepire l'oggettivazione del lavoro in maniera troppo rozza, come lavoro che si fissa in un oggetto tangibile. Ma è cosa che in lui si riscontra marginalmente più che altro come improprietà di linguaggio).
Anche in Galiani gli operai esistono per legge di natura. Galiani pubblicò il suo libro nel 1750. «Iddio fa che gli uomini che esercitano mestieri di prima utilità nascono abbondantemente» (Della moneta, voi. Ili Scrittori Classici Italiani di Economia Politica. Parte Moderna. Milano 1803, p. 78). Ma nello stesso tempo egli possiede già l'esatto concetto del valore: «La fatica ... è l'unica che dà valore alla cosa» (74). Il lavoro è naturalmente diverso anche qualitativamente non solo in ragione delle diverse branche di produzione, ma anche della maggiore o minore intensità ecc. Il modo in cui queste diversità si compongono e ogni lavoro viene ridotto a lavoro semplice non qualificato, non può essere naturalmente ancora indagato a questo punto. Basti qui dire che questa riduzione è compiuta di fatto quando i prodotti di tutti i generi di lavoro sono posti come valori. In quanto valori essi sono equivalenti in determinate proporzioni; le stesse qualità superiori di lavoro vengono stimate in lavoro semplice.
Ciò diventa immediatamente evidente quando si rifletta sul fatto che per esempio l'oro della California è il prodotto del lavoro semplice. Tuttavia con esso si paga ogni genere di lavoro. La differenza qualitativa è dunque soppressa, e il prodotto di un genere superiore di lavoro è di fatto ridotto ad un quantum di lavoro semplice. Queste classificazioni delle diverse qualità di lavoro sono dunque qui assolutamente indifferenti, e non pregiudicano affatto il principio, «i metalli ... usansi per moneta perché vagliono, ... non vagliono perché usansi per moneta» (l.c. 95). «È la velocità del giro del denaro, non la quantità de' metalli che fa apparir molto o poco il denaro» (99). «Di due sorte è la moneta, ideale e reale; e a due diversi usi è adoperata, a valutare le cose e a comperarle. Per valutare è buona la
107
Ciò che e o non e lavoro produttivo — un punto, questo, su cui si e molto polemizzato per ogni verso da quando Adam Smith operò questa distinzione — deve risultare dall'esposizione dei diversi lati del capitale stesso. Lavoro produttivo è soltanto quello che produce capitale. Non è ridicolo, chiede per esempio (per lo meno in termini affini) il sig. Senior, che il costruttore di pianoforti debba essere un lavoratore produttivo, e il pianista no? quantunque senza quest'ultimo il pianoforte sarebbe un nonsenso? (Cfr. W. N. SENIOR, Principes Fondamentaux ecc., cit. pp. 197-206.) Ma è esattamente così. Il costruttore di pianoforti riproduce capitale , mentre il pianista scambia il suo lavoro soltanto con reddito. Ma il pianista che produce musica e soddisfa il nostro senso musicale, non produce quest'ultimo in una certa misura? In effetti, sì: il suo lavoro produce qualcosa; ma per questo esso non è lavoro produttivo in senso economico, così come non lo è il lavoro del pazzo che produce chimere. Il lavoro è produttivo solo in quanto produce il suo contrario. Perciò altri economisti fanno essere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo. Per esempio il pianista offre uno stimolo alla produzione, sia perché dispone la nostra individualità ad una maggiore energia e vitalità, o anche nel senso comune per cui desta un nuovo bisogno per la cui soddisfazione viene impiegata più solerzia nella produzione materiale immediata. Con ciò si ammette già che soltanto il lavoro che produce capitale è produttivo; e che quindi il lavoro che non fa ciò, per quanto possa essere utile — ma può essere anche dannoso — è lavoro non produttivo, e perciò improduttivo, ai fini della capitalizzazione. Altri economisti poi affermano che la differenza tra produttivo e improduttivo debba essere riferita non alla produzione ma al consumo. È esattamente il contrario. Il produttore di tabacco è produttivo, quantunque il consumo di tabacco sia improduttivo. La produzione destinata al consumo improduttivo è produttiva tanto quanto lo è quella destinata al consumo produttivo; sempre supposto che si produca o riproduca capitale. «Lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente la ricchezza del suo padrone», dice perciò molto giustamente Malthus (IX, 40, cfr. T. R MALTHUS, Principles ecc., cit., p. 47, nota [Principii, p. 171]. Autore della nota è il curatore dell'opera W. Otter.) giustamente per lo meno in un certo senso. L'espressione è troppo astratta, tanto è vero che in questa formulazione vale anche per lo schiavo. La ricchezza del padrone, in rapporto all'operaio, è la forma stessa della ricchezza nel suo rapporto col lavoro; è il capitale. Lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente il capitale.
moneta ideale così come la reale e forse anche più ... l'altro uso della moneta è di comperare quelle cose istesse ch'ella apprezza ... i prezzi e i contratti si valutano in moneta ideale e si eseguiscono in reale» (p. 112 s.). «I metalli han questo di proprio e singolare che in essi soli tutte le ragioni si riducono ad una che è la loro quantità; non avendo ricevuto dalla natura diversa qualità né nell'interna loro costituzione né nell'esterna forma e fattura» (126, 127). Questa è un'osservazione molto importante, il valore implica una sostanza comune, e la riduzione di tutte le differenze e proporzioni, a differenze e proporzioni puramente quantitative. È questo il caso dei metalli preziosi, che per tale motivo si presentano come la sostanza naturale del valore. «La moneta ... come d'una regola della proporzione che hanno le cose tutte ai bisogni della vita — è quei che dicesi con una voce sola prezzo delle cose» (152). « L'istessa moneta ideale suol essere di conto, cioè a dire con essa si stipula, si contrae e si valuta ogni cosa: il che è nato da una medesima cagione, che le monete le quali oggi sono ideali sono le più antiche d'ogni nazione, e tutte furono un tempo reali; e perché erano reali con esse si contava» (152). (questa e anche la spiegazione formale che dà Urquhart del denaro ideale. Per i negri ecc. la barra di ferro era originariamente denaro reale, poi si trasformò in denaro ideale; ma nello stesso tempo essi cercarono di mantenerne il valore precedente. Poiché dunque il valore che il ferro assume nel commercio muta rispetto all'oro ecc., la barra ideale, per conservare il suo valore, esprime proporzioni variabili di quantità reali di ferro — un calcolo faticoso, che fa onore alla capacità di astrazione di questi signori). (Castlereagh, nei dibattiti provocati dal Bullioncommittee del 1810, formulò analoghe opinioni confuse). Notare questa bella frase di Galiani: «Quell'infinito che» (le cose) «non hanno nella progressione lo hanno nel giro» (156).
A proposito del valore d'uso Galiani dice molto bene:
«Il prezzo è una ragione ... il prezzo delle cose è la proporzione loro al nostro bisogno, non ha ancora misura fissa. Forse si troverà, lo per me credo che ella sia l'uomo istesso» (162). «La Spagna, in quel tempo stesso che era come la maggiore così la più ricca potenza, contava co' reali e co' piccolissimi maravedis» (172, 173). «Anziché egli» (l'uomo) «è l'unica e vera ricchezza» (188). «La ricchezza è una ragione tra due persone» (221). Quando il prezzo d'una cosa ossia la sua proporzione con le altre si cambia proporzionalmente con tutte, è segno evidente che il valore di questa sola e non di tutte le altre si è cambiato» (154). (Vanno calcolati anche i costi per conservare e riparare il capitale).
«La limitazione positiva della quantità di cartamoneta realizzerebbe l'unico scopo utile che il costo di produzione realizza già nella moneta metallica» (300). (Opdyke)108. La differenza puramente quantitativa nella materia del denaro: «Il denaro ritorna soltanto in natura» (nei prestiti); « ed è questo che distingue questo agente da tutte le altre macchine ... definisce la natura dei suoi servizi ... dimostra chiaramente l'insostituibilità della sua funzione» (269). «Se possediamo del denaro, dobbiamo fare soltanto uno scambio per procurarci l'oggetto desiderato, mentre con altri prodotti eccedenti dobbiamo farne due, di cui il primo (per procurarci il denaro) è infinitamente più difficile del secondo» (287, 288).
«Il banchiere differisce dal vecchio usuraio ... per il fatto che egli presta al ricco e raramente o mai al povero. Quindi nel prestare egli rischia di meno, e può permettersi di farlo alle condizioni più vantaggiose; e, per entrambi i motivi, egli evita l'odio popolare che colpisce l'usuraio » (Newman , F . W . Lectures on Politicai Economy, London 1851, p. 44).
108 Cfr. G. OPDYKE, A Treatise on Politicai Economy. New York 1851, p. 300. [Estratti nel quaderno XX]
3.5.29 - [Anticipi. Storch. . Teoria del risparmio. Storch. - MacCulloch .Surplus -Profitto Distruzione periodica di capitale. Fullarton. Arnd. Interesse naturale]
Tutti nascondono con tanta segretezza e sotterrano molto profondamente il loro denaro, ma specialmente i gentili, che sono quasi padroni esclusivi del commercio e delle finanze, infatuati come sono dalla credenza che l'oro e l'argento che nascondono durante la loro vita servirà loro dopo la morte (Francois Bernier, Voyage contenant la description des états du Grand Mogol ecc. Paris -1830, t. I, p. 314)109.
Nel suo stato naturale la materia ... è sempre priva di valore ... Soltanto attraverso il lavoro essa riceve un valore di scambio, diventa elemento di ricchezza (MeCulloch , Discours sur l'origine de l'economie politique ecc., trad. par Prévost. Genève et Paris 1825, p. 57)110. Le merci nello scambio sono l'una misura dell'altra (Storch - Cours d'Economie Politique avec des notes ecc. par J. B. Say. Paris 1823, t. I, p. 81 )111. «Nel commercio tra Russia e Cina l'argento serve a valutare tutte le merci, tuttavia questo commercio si svolge attraverso il baratto» (p. 88)112. «Come il lavoro non è la fonte .. delle ricchezze, così non è nemmeno la misura» (p. 123, Le.)113. «Smith ... si convinse che la stessa causa che fa esistere le cose materiali è anche la fonte e la misura del valore» (p. 124)114. «L'interesse è il prezzo che si paga per l'uso di un capitale» (p. 336)115. La moneta deve avere un valore diretto, ... ma fondato su di un bisogno fittizio. La sua materia non deve essere indispensabile all'esistenza dell'uomo; perché qualsiasi quantità che ne è impiegata come moneta non può mai essere impiegata individualmente, deve sempre circolare (t. 1 p. 113, 114)116. «Il denaro sostituisce tutto» (p. 113)117. Nel tomo V, Considerations sur la nature du revenu national, Paris 1824, si legge: «I consumi riproduttivi non sono propriamente spese, ma soltanto anticipi perché vengono rimborsati a coloro che li fanno» (p. 54)118. «Non c'è forse una contraddizione evidente nella proposizione che i popoli si arricchiscono con i loro risparmi o le loro privazioni, ossia condannandosi volontariamente alla povertà?» (p 176)119.. «Nei tempi in cui in Russia le pelli e le pellicce facevano la funzione del denaro l'incomodità annessa alla circolazione di una moneta cosi voluminosa e deperibile, diede origine all'idea di sostituirla con piccoli pezzi di rame bollato, che così divennero segn pagabili in pelli e pellicce ... Essi conservarono questo impiego fino al 1700» (ossia d rappresentare in seguito le frazioni dei copechi d'argento) «per lo meno nella città di
109 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XXI.
0 Per gli estratti da quest'opera, cfr. MEGA I/3, p.550-560.
1 Cfr. Corso, p. 42.
2 Cfr. ibidem, p. 44.
3 Cfr. ibidem, p. 59.
4 Cfr. ibidem, p. 60.
5 Cfr. ibidem, p. 152.
6 Cfr. ibidem, p. 276.
7 Cfr. ibidem, p. 276.
8 Cfr. Considerazioni, p. 893.
9 Cfr. ibidem, p. 872.
Caluga e nei suoi dintorni, fino a che Pietro I» (1700) «ordinò di rilasciarli contro la piccola moneta di rame» (p 79)120.
Un accenno sui miracoli dell'interesse composto lo si trova già nel grande avversario dell'usura del 17° secolo, J o s. Child (Traités sur le commerce ecc. trad. dall'inglese (in inglese fu pubblicato nel 1669) Amsterdam et Berlin 1754) (pp. 115-117)121.
«In realtà una merce si scambierà sempre con una quantità di lavoro maggiore di quella che l'ha prodotta; ed è questo eccedente che costituisce il profitto» (McCulloch, The principles of Politicai Economy. London 1830, p. 221 )122. Bel modo, per il sig. McCulloch, di capire il principio di Ricardo. Egli distingue tra valore di scambio e valore reale - Il primo 1) è la quantità di lavoro speso per la sua appropriazione o produzione; 2) il secondo è il potere d'acquisto di certe quantità di lavoro o altre merci, (p. 211 )123. L'uomo è il prodotto del lavoro quanto qualsiasi macchina costruita dalla sua attività; e secondo noi in tutte le indagini economiche egli dovrebbe essere considerato esattamente dallo stesso punto di vista. (115, Le.)124. I salari ... consistono realmente di una parte del prodotto dell'attività del lavoratore (p. 295)125. I profitti del capitale non sono che un'espressione diversa per dire i salari del lavoro accumulato (p. 291 )126.
«Una periodica distruzione di capitale è diventata una condizione di esistenza necessaria per qualsiasi saggio d'interesse corrente, e, da questo punto di vista, queste terribili calamità che ci siamo abituati ad attendere con tanta inquietudine e apprensione, e che siamo così ansiosi di evitare, possono essere nient'altro che il correttivo naturale e necessario di una opulenza pletorica e artificiosamente gonfiata, la vis medicatrix con la quale il nostro sistema sociale, così come attualmente è costituito, è in grado di liberarsi periodicamente di una pletora sempre ricorrente che ne minaccia l'esistenza, e di riacquistare una solida e sana condizione» (Fullarton (John): On the regulation of currency ecc. London 1844, p. 165)127.
Il denaro è un potere generale di acquisto (Chalmers)128.
120 Cfr. Cours ecc., t. IV, p. 79 [Corso, pp. 700-703].
121 Estratti da quest'opera, in un quaderno non datato e non numerato, redatto ca. maggio-giugno 1845 a
Bruxelles.
122 Cfr. MACCULLOCH, Prìncipii, p. 151.
123 Cfr. ibidem, p. 147. In realtà la 2) riguarda il «valore di scambio», e la 1) riguarda il «valore reale».
L'inversione si spiega confrontando Theorien uber den Mehrwert, Berlin 1962, voi. MI, p. 169 (il passo di J.
Cazenòve); e, a conferma, p. 174. [Storia delle teorie economiche, tr. Elio Conti, Torino 1958, voi. MI, p.
191]. D'altra parte, nel tradurre la proposizione 2), che nel testo dice «2) der zweite kaufmacht von certain
quantities of labour der andren Waren», è stato necessario supporre un errore di scrittura di Marx, o di
lettura del manoscritto, o di stampa, nel «der» (letteralmente «delle»). Si tratta invece proprio di quell'«octer»
(«o») (in MacCulloch « ... for other commodities or for labour .. ») che Marx stesso sottolineerà nel passo
citato a p. 174 delle Theorien, e su cui egli baserà tutta la sua critica della «apparente coerenza» di
MacCulloch rispetto a Ricardo (in realtà «spudorata fuga da Ricardo a Malthus»). Cfr. ancora Theorien, pp.
169-177, specie p. 172 («die Menge der Arbeit oefer [corsivo di Marx] irgendeineranderen Ware»
124 Cfr. ibidem, p. 38.
125 Cfr. ibidem, p. 174.
126 Cfr. ibidem, p. 171.
127 Estratti dalla I ed. di quest'opera, ne! quaderno londinese I.
128 Cfr. T CHALMERS, On Politicai Economy in connection with the Moral State and Moral Prospects of
Society. Second Edition, Glasgow 1832 [Economia politica ecc., Bibl. dell'Economista, serie I, voi. 8°, Torino
1855, pp. 936-937]. Estratti, nel quaderno londinese IX.
Il capitale consiste in servizi e merci usati nella produzione. Il denaro è la misura del
valore, il mezzo di scambio, e l'equivalente universale; più esplicitamente, è il mezzo per ottenere il capitale; è l'unico mezzo per pagare il capitale previamente ottenuto a credito; virtualmente è un pegno per ottenere il suo valore equivalente in capitale: il commercio è lo scambio di capitale contro capitale attraverso il mezzo del denaro, e poiché il contratto riguarda il mezzo, solo il denaro può soddisfano e saldare il debito.
Nella vendita si ha una cessione di un genere di capitale in cambio di denaro al fine di ottenere il suo valore specifico equivalente in un capitale di qualsiasi altro genere. L'interesse è il compenso dato per il prestito di denaro. Se il denaro viene preso a prestito per procurarsi capitale, il compenso dato è una remunerazione per l'uso del capitale (materie prime, lavoro, merci ecc.), che esso ha ottenuto. Se invece è preso a prestito per saldare un debito, per pagare un capitale previamente ottenuto ed usato (per il quale si è stabilito per contratto il pagamento in denaro), allora il compenso dato si riferisce all'uso del denaro stesso, e sotto questo riguardo interesse e sconto sono simili. Lo sconto è solamente la remunerazione per il denaro stesso, per convertire moneta fiduciaria in moneta effettiva. Una cambiale valida comanda altrettanto capitale che le banconote, meno le spese di sconto; e le cambiali vengono scontate per ottenere denaro di taglio più conveniente per i salari ed i piccoli pagamenti in contanti, o per far fronte a impegni di maggiore entità a breve termine; e inoltre per il vantaggio di ottenere agevolmente denaro al tasso inferiore al 5%, che è lo sconto abitualmente fatto per il contante. L'obbiettivo principale dello sconto, tuttavia, consiste fondamentalmente nella offerta e nella domanda di denaro avente corso legale ... Il saggio di interesse poggia principalmente sulla domanda e sull'offerta di capitale, e il tasso di sconto interamente sull'offerta e sulla domanda di denaro («Economist», 13 marzo, '58, Lettera al direttore)129.
i II sig. K. Arnd, che si trova perfettamente a suo agio quando ragiona di «imposta sui cani», ha fatto questa interessante scoperta:
«Nel processo naturale della produzione di beni c'è un solo fenomeno che — nei paesi le cui terre sono interamente coltivate — sembra destinato a regolare in una certa misura il tasso di interesse; ed è il rapporto di incremento annuo del volume del legname delle foreste europee — rapporto di incremento che, del tutto indipendentemente dal valore di scambio del legname, oscilla tra il 3 e il 4% (Die naturgemàsse Wolkswirtschaft ecc. Hanau 1845, pp. 124, 125)130. È proprio il caso di chiamarlo tasso d'interesse originario della foresta.
3.5.30 - [Interesse e profitto. - Carey. - Il prestito su pegni in Inghilterra]
«Il valore eccedente o overplus sarà proporzionale, in ciascuna branca, al valore del capitale impiegato» (Ricardo)131.
129 Cfr. «The Economist», voi. XVI, N. 7 March 13, 1858, p. 290, articolo Willthe lowrate of interest last?
i^n
K. ARND, Die naturgemàsse Wolkswirtschaft, gegenuber dem Monopoliengeiste und dem Communismus, mit einem Ruckblick aufdie einschlagende Literatur. Hanau 1845.
131 Cfr. D. RICARDO, Prìnciples ecc., cit., p. 84 [Principi p. 57].
Riguardo all'interesse, occorre considerare due cose: in primo luogo, che il profitto si scinde in interesse e profitto. (Gli Inglesi chiamano profitto lordo l'unità di questi due). La differenza la si avverte tangibilmente quando una classe di capitalisti del denaro [monied capitalists] si contrappone ad una classe di capitalisti dell'industria [industriai capitalists]. In secondo luogo, che il capitale stesso diventa una merce, o che la merce (denaro) viene venduta come capitale. Così come si dice, per esempio, che un capitale, al pari di qualsiasi altra merce, regola il suo prezzo in base alla domanda e all'offerta. Queste dunque determinano il tasso di interesse. Qui dunque entra in circolazione il capitale in quanto tale.
Capitalisti del denaro e capitalisti dell'industria possono costituire soltanto due classi particolari, perché il profitto è in grado di diramarsi in due divergenti categorie di reddito. Le due specie di capitalisti esprimono soltanto questo fatto; ma la scissione, la scomposizione del profitto in due divergenti forme di reddito, deve già esserci affinché su di essa possano crescere due classi particolari di capitalisti.
La forma dell'interesse è più antica di quella del profitto. In India il livello dell'interesse per i common agriculturists non è affatto indicativo del livello del profitto. Indica anzi che il profitto stesso, insieme ad una parte del salario stesso, è appropriato dall'usuraio sotto forma di interesse. È operazione del tutto degna del senso storico del sig. Carey132 paragonare questo interesse a quello che vige sul mercato monetario inglese e che il capitalista inglese paga, e dedurne in che misura il «saggio del lavoro» (la partecipazione del lavoro al prodotto) è più elevato in Inghilterra che in India. Egli avrebbe dovuto prendere a paragone l'interesse che in Inghilterra pagano i tessitori a mano, per esempio nel Derbyshire, i cui materiali e strumenti vengono anticipati (prestati) dal capitalista. Avrebbe scoperto allora che qui l'interesse è così elevato che, dopo aver saldato tutti i debiti, il lavoratore alla fine è ancora debitore, e ciò non solo dopo aver restituito al capitalista i suoi anticipi, ma dopo avervi aggiunto ancora il proprio lavoro gratis. Storicamente, avrebbe scoperto che la forma del profitto industriale nasce soltanto quando il capitale non si presenta più accanto al lavoratore autonomo. // profitto perciò all'origine è determinato dall'interesse. Ma nell'economia borghese è l'interesse che è determinato dal profitto ed è soltanto una parte di esso. Il profitto dunque deve essere tanto elevato che una parte se ne possa ramificare sotto forma di interesse. Storicamente avviene l'inverso. È l'interesse che deve essere tanto abbassato che una parte del guadagno in più possa rendersi autonomo sotto forma di profitto. C'è una relazione naturale tra salari e profitto — tra lavoro necessario e pluslavoro; ma ce n'è una tra profitto e interesse, identica a quella che è determinata dalla concorrenza tra queste due classi ordinate sotto queste differenti forme di reddito? Ma affinché questa concorrenza esista, ed esistano le due classi, deve essere già presupposta la divisione del plusvalore in profitti e interessi. Considerare il capitale in generale non significa affatto operare una mera astrazione. Quando io per esempio considero il capitale complessivo di una nazione distinto dal lavoro salariato complessivo (o anche dalla proprietà fondiaria), oppure considero il capitale come la base economica generale di una classe distinta da un'altra classe, io lo considero appunto in generale. È come quando per esempio considero dal punto di vista fisiologico l'uomo distinto dall'animale. La differenza reale tra profitto e interesse esiste come differenza tra una classe di capitalisti del denaro rispetto ad una classe di capitalisti dell'industria. Ma affinché queste due classi possano contrapporsi, la loro duplice esistenza presuppone una scissione entro il plusvalore creato dal capitale.
132 Cfr. H. C. CAREY, Essays on the Rate ofWaghes ecc. Philadelphia 1835, cap. VII. [Estartti nei quaderno londinese X]
(L'economia politica ha a che fare con le forme sociali specifiche della ricchezza o piuttosto della produzione della ricchezza. Il contenuto di essa, sia esso soggettivo, come il lavoro, o oggettivo, come gli oggetti destinati a soddisfare i bisogni naturali o sociali, si presenta anzitutto come un fatto comune a tutte le epoche della produzione. Questo contenuto si presenta perciò anzitutto come mero presupposto che esula completamente dalla sfera di considerazione dell'economia politica, e vi rientra solo quando viene modificato dai rapporti formali o quando a sua volta li modifica. Le cose generiche che di solito si dicono su questa questione si riducono ad astrazioni, che avevano un valore storico nei primi tentativi dell'economia politica, quando le forme venivano ancora faticosamente scrostate dal contenuto e ci si sforzava di fissarle come oggetti di considerazione autonomi. In seguito diventano coriacei luoghi comuni, tanto più ripugnanti quanto più si fanno avanti con pretese scientifiche. Questo vale per tutto ciò di cui chiacchierano gli economisti tedeschi e che di solito fanno rientrare sotto la categoria «beni»).
L'importante è che interesse e profitto esprimono entrambi relazioni del capitale. Come forma particolare il capitale che frutta interessi non si contrappone al lavoro, ma al capitale che frutta profitti. Il rapporto in cui per un verso il lavoratore si presenta ancora come lavoratore autonomo, quindi non come operaio salariato, ma per l'altro verso le sue condizioni oggettive già possiedono una esistenza autonoma accanto a lui, costituendo la proprietà di una classe particolare di usurai, si sviluppa necessariamente in tutti i modi di produzione basati in misura maggiore o minore sullo scambio — con lo sviluppo del patrimonio mercantile o del patrimonio monetario in antitesi alle particolari e limitate forme di patrimonio agricolo o industriale. Lo sviluppo di questo patrimonio mercantile stesso può essere considerato come sviluppo del valore di scambio e perciò della circolazione e dei rapporti monetari in quelle sfere. Questo rapporto ci mostra senza dubbio, da una parte, l'autonomizzazione, la separazione delle condizioni del lavoro — che provengono sempre più dalla circolazione e ne dipendono — dall'esistenza economica del lavoratore. Dall'altra però quest'ultima non è ancora sussunta nel processo del capitale. Il modo di produzione non viene perciò ancora sostanzialmente modificato. Dove questo rapporto si ripresenta nell'ambito dell'economia borghese — è nelle branche industriali arretrate o in quelle che ancora resistono al tramonto nel modo di produzione moderno. In esse si ha ancora lo sfruttamento più odioso del lavoro, senza che qui il rapporto tra capitale e lavoro implichi una qualche base di sviluppo di nuove forze produttive e il germe di nuove forme storiche. Nel modo di produzione stesso il capitale si presenta qui ancora materialmente sussunto sotto i singoli lavoratori o sotto le famiglie di lavoratori — nella bottega artigiana o nella piccola agricoltura che sia. Abbiamo cioè lo sfruttamento da parte del capitale, senza il modo di produzione del capitale. Il tasso di interesse si presenta molto alto perché include il profitto e persino una parte del salario. Questa forma di usura, nella quale il capitale non si impadronisce della produzione, e quindi è soltanto formalmente capitale, presuppone il predominio di forme di produzioni preborghesi; ma si riproduce di nuovo, in sfere subordinate, nell'ambito della stessa economia borghese.
Seconda forma storica dell'interesse: prestito di capitale alla ricchezza consumatrice. Assume qui storicamente importanza come un momento della genesi del capitale, in quanto il reddito (e spesso anche la terra) dei proprietari terrieri vengono accumulati e capitalizzati nelle tasche degli usurai. Si tratta di uno di quei processi mediante cui il capitale circolante o anche il capitale nella forma di denaro si concentra in una classe indipendente dai proprietari fondiari.
La forma del capitale realizzato e al tempo stesso del suo plusvalore realizzato, è il denaro. Il profitto (non soltanto l'interesse) si esprime dunque in denaro; perché in esso il valore è realizzato e misurato.
La necessità dei pagamenti in denaro — non solo del denaro per l'acquisto di merci ecc. — si sviluppa ovunque esistano rapporti di scambio e circolazione del denaro. Non è affatto necessario che lo scambio sia simultaneo. Il denaro offre la possibilità che una parte ceda la sua merce e che l'altra differisca il suo pagamento. Il bisogno di denaro per questo scopo (che poi si evolve nei prestiti e negli sconti) è una fonte storica principale dell'interesse. Ma per ora questo argomento esula dal nostro discorso; va ripreso solo quando si parlerà dei rapporti di credito.
Differenza tra compera (D-M) e vendita (M-D): «quando vendo, io ho 1) ricavato un profitto sulla merce; 2) ottenuto un articolo che li rappresenta tutti o è convertibile con tutti, il denaro, il quale, essendo sempre smerciabile, mi dà la possibilità di comandare qualsiasi altra merce; questa superiore smerciabilità del denaro è infatti l'esatto effetto o la conseguenza naturale della minore smerciabilità delle merci ... Diverso è il caso della compera. Se si compera per rivendere o offrire ad acquirenti, sebbene possa esserci la probabilità non c'è però la certezza assoluta di vendere a prezzo remunerativo ... Ma non tutti comprano per rivendere; molti comprano per il proprio uso o consumo» ecc. (Corbet, Th. An Inquiry into the Causes and Modes of the Wealth of Individuai, London 1841, p. 117)133.
«Economist», 10 aprile [1858] «Un rapporto parlamentare presentato da Mr. James Wilson mostra che la zecca, nel 1857, ha coniato oro per il valore di 4.859.000 I., di cui 364.000 I. in mezze sovrane. L'argento coniato nello stesso anno ammontava a 370.000 I., il costo del metallo impiegato a 363.000 I. ... La somma totale coniata nei dieci anni, a tutto il 31 dicembre 1857, è stata di 55 milioni 239.000 I. in oro, e 2.434.000 I. in argento .... Il valore delle monete di rame, l'anno scorso, ammontava a 6.720 I. — giacché il valore del rame è di 3.492 I.; di esse 3.163 sono state coniate in pence, 2.464 in halfpence e 1.120 in farthings ... Il valore totale delle monete di rame negli ultimi dieci anni è stato di 141 mila 477 I.; il costo del rame di cui erano composte è stato di 73.503 I.».
«Secondo Thomas Culpeper (1641), Joasias Child (1670), Paterson (1694), Locke (1700), la ricchezza dipende dalla riduzione volontaria dei tassi di interesse dell'oro e dell'argento. Tale prassi fu seguita in Inghilterra per quasi due secoli» (Ganilh)134. Quando Hume, in contrasto con Locke, ricavò la determinazione del tasso di interesse dal saggio di profitto, egli aveva già dinanzi agli occhi uno sviluppo del capitale ben più considerevole; e ciò vale tanto più per Bentham e per la sua difesa dell'usura, scritta circa verso la fine del 18° secolo. (Da Enrico Vili fino ad Anna vi -fu una compressione legale dell'interesse).
«In ogni paese esiste: 1) una classe che produce, 2) una classe che possiede denaro, e che vive degli interessi del suo capitale» (J. St - Mill, Some unsettied questions of politicai economy. London 1844) (p. 110)135.
«Le frequenti oscillazioni mensili, e il sistema di impegnare un articolo per rilevarne un altro, ottenendo una somma irrisoria, sono all'origine del livello eccessivo raggiunto dall'aggio sul denaro. Vi sono 240 titolari di monti di pegni autorizzati a Londra e circa 1.450 in tutto il paese ... Si stima che il capitale impiegato ammonti a circa 1 milione. Tre rotazioni annue .. Ogni volta, in media, 33,5 di profitto; sicché le categorie inferiori in Inghilterra pagano 1 milione all'anno per il prestito temporaneo di un solo milione, senza contare ciò che esse ci rimettono nella confisca dei beni» (J - D. Tuckett An History ofthe Past and Present State ofthe Labouring Population ecc., London 1846, voi. I, p. 114).
133 Cfr «The Economiste, voi. XVI, N. 763, Aprii 10, 1858, p. 401, Commercial, and .Miscellaneous News
134 Cfr. CH. GANILH, Des systèmes ecc., cit., t. I, pp. 76-77.
135 Cfr. J. St MILL, Saggi ecc., cit., p. 757.
3.5.31 - [Come il commerciante subentra al maestro artigiano]
«Alcuni lavori non possono essere fatti che all'ingrosso, per esempio quelli di porcellaneria, vetreria ecc. Perciò non sono mai mestieri artigianali. Già nel XIII e XIV secolo alcuni lavori, come la tessitura, sono stati fatti all'ingrosso» (Poppe)136.
«Nei tempi più antichi tutte le fabbriche erano appannaggio dell'artigianato, e il mercante rimaneva un semplice Verleger [Imprenditore committente] e promotore dell'artigianato. Nelle manifatture tessili tale rapporto era ancora mantenuto molto rigorosamente. Ma a poco a poco in molte parti i commercianti cominciarono a sovrapporsi al maestro artigiano (naturalmente senza i pregiudizi corporativi, le tradizioni, e i rapporti con i lavoranti che caratterizzavano i vecchi maestri artigiani), «e ad assumere lavoranti a salario giornaliero» Poppe, p. 92, voi I, Geschichte der Technologie. Gòttingen 1807-1811 )137. Fu questo uno dei motivi principali per cui in Inghilterra l'industria vera e propria si fissò e si sviluppò nelle città che non avevano corporazioni.
3.5.32 - [Patrimonio mercantile]
Il capitale commerciale ovvero il denaro che assume la veste del patrimonio mercantile, è la prima forma del capitale, ossia del valore che proviene esclusivamente dalla circolazione (dallo scambio), vi si conserva, riproduce e moltiplica, e così lo scopo esclusivo di questo movimento e di questa attività è il valore di scambio. Dei due movimenti, comprare per vendere, e vendere per comprare, prevale la forma D - M - M - D. Il denaro, e l'aumento del denaro, sono lo scopo esclusivo di questa operazione. Il mercante non compra la merce per i suoi bisogni personali, cioè per il valore d'uso che essa ha, né la vende per esempio per onorare contratti stipulati in denaro, o per ottenere altre merci per i suoi bisogni. Il suo scopo diretto è l'aumento del valore, e nella sua forma immediata di denaro. Il patrimonio commerciale è in primo luogo il denaro come mezzo di scambio; il denaro come movimento di mediazione della circolazione; esso scambia merce con denaro, denaro con merce e viceversa. Inoltre il denaro si presenta qui come fine a se stesso, ma senza assumere per questo la sua esistenza metallica. Esso è qui la metamorfosi vivente del valore nelle due forme della merce e del denaro: l'indifferenza del valore alla forma determinata del valore d'uso che esso assume, e al tempo stesso la sua metamorfosi in tutte queste forme, che però figurano solo come travestimenti. Se è vero dunque che l'attività commerciale unifica i due movimenti della circolazione, e perciò il denaro come patrimonio commerciale è per un verso la prima, esistenza del capitale, e anche storicamente si presenta così, per l'altro verso questa forma si presenta in contraddizione diretta con il concetto del valore. La legge del commercio è: comprare a poco vendere a molto. La sua legge insomma non è lo
Cfr. J.H.M.Poppe, Geschichte der Technologie. Gòttingen 1807, I Band, p. 32. [Estratti nel quaderno londinese XV].
137 Cfr. ibidem, pp. 70-71
scambio di equivalenti, col quale anzi il commercio sarebbe impossibile come ramo d'attività particolare.
Il denaro come patrimonio commerciale — così come si presenta nelle più diverse forme di società e ai più di versi livelli di sviluppo delle forze produttive sociali — è tuttavia semplicemente il movimento di mediazione tra estremi che non domina, e tra contraddizioni che non crea.
A. Smith, nel t. Il, 1. Ili (ed. Garnier), afferma: «Il grande commercio di ogni società civile è quello condotto fra gli abitanti della città e quelli della campagna. Esso consiste nello scambio del prodotto grezzo col prodotto della manifattura, o immediatamente, o mediante l'intervento del denaro» (p. 403)138. Il commercio unifica sempre; la produzione all'origine è produzione al minuto. «La città è una fiera e un mercato continuo, nel quale gli abitanti della campagna si recano per scambiare il loro prodotto grezzo col prodotto della manifattura. È questo commercio che fornisce agli abitanti della città sia i materiali del loro lavoro, sia i mezzi della loro sussistenza. La quantità di lavoro finito che essi li vendono agli abitanti della campagna determina necessariamente la quantità di materiali e di derrate che essi acquistano» (p. 408)139.
Finché lo scopo principale sono «i mezzi di sussistenza e di godimento», predomina il valore d'uso140.
Il concetto di valore implica che esso si conserva e si moltiplica soltanto attraverso lo scambio. Ma il valore esistente è dapprima il denaro.
«Quell'attività che mira a qualcosa di più che la semplice sussistenza necessaria, si fissò nelle città molto prima che fosse comunemente praticata dai coltivatori della campagna» (p. 452)141.
«Sebbene gli abitanti di una città traggano in definitiva la loro sussistenza, e tutti i mezzi e i materiali della loro industria, dalla campagna, tuttavia quelli di una città situata presso le coste del mare o le sponde di un fiume navigabile, possono trarli anche dai più remoti angoli del mondo, o in cambio del prodotto della manifattura della loro industria, o esercitando la funzione di vettori fra paesi distanti e scambiando reciprocamente i prodotti di questi paesi. In tal modo una città può diventare molto ricca, mentre non soltanto la campagna dei suoi immediati dintorni, ma anche tutti i paesi coi quali essa commercia sono poveri. Forse ciascuno di questi paesi, preso singolarmente, non potrebbe offrirle che una piccola parte della sua sussistenza e ben poco per gli affari; ma presi tutti insieme essi potrebbero offrire una grande quantità di sussistenza e una grande varietà di occupazioni» (p. 453)142. (Le città italiane sono le prime in Europa che si elevano con il commercio; persino durante le crociate — Venezia, Genova, Pisa — in parte mediante il trasporto degli stessi eserciti, e sempre mediante quello dei mezzi di sussistenza di cui bisognava rifornirli. Queste repubbliche erano per così dire i commissari per la sussistenza di questi eserciti) (l.c.)143.
Il patrimonio commerciale in quanto è sempre implicato nello scambio e scambia per il valore di scambio, è di fatto il denaro vivente.
138 Cfr. A. SMITH, Recherches ecc., cit. [Ricchezza delle nazioni, p. 343].
139 Cfr. ibidem [ibidem, p. 345].
140 Cfr. ibidem, p. 415 [ibidem, p. 348].
141 Cfr. ibidem [ibidem p. 364].
142 Cfr. ibidem [ibidem p. 364].
143 Cfr. ibidem, p 454 [ibidem p. 365].
«Gli abitanti delle città commerciali, importando oggetti raffinati e articoli di lusso di gran pregio dai paesi più ricchi, dettero nuovo alimento alla vanità dei grandi proprietari terrieri, i quali li acquistavano avidamente, in cambio di quantità considerevoli del prodotto grezzo delle loro terre. Di conseguenza il commercio di gran parte d'Europa in quei tempi consisteva principalmente nello scambio del prodotto grezzo di un paese col prodotto della manifattura di un altro paese industrialmente più avanzato»(p. 455)144. «Quando questo gusto si fu abbastanza diffuso per suscitare una domanda considerevole, i commercianti, per risparmiare i costi di trasporti, cercarono di impiantare manifatture dello stesso genere nel loro paese. Da qui l'origine delle prime manifatture destinate alla vendita in luoghi lontani» (l.c.)145. Le manifatture di lusso, risultato del commercio estero, sono impiantate dai commercianti (p. 458)146 (lavorano materiali esteri). A. Smith parla di un secondo tipo di tali manifatture, e cioè quelle che «si sviluppano naturalmente e spontaneamente mediante il graduale perfeziona mento delle manifatture domestiche e grossolane». Queste lavorano materiali indigeni (p. 459)147.
I popoli commerciali degli antichi vivevano, come gli dei di Epicuro, negli intermondi
dell'universo o piuttosto come gli ebrei nei pori della società polacca. La maggior parte dei
popoli o delle città commerciali autonome e fortemente sviluppate praticavano il carrying
trade, che trovava le sue condizioni nella barbarie dei popoli produttori tra i quali essi
svolgevano il molo del denaro (di mediatori).
Nei primi stadi della società borghese il commercio domina l'industria; nella società moderna è l'inverso.
II commercio naturalmente reagirà in misura maggiore o minore sulle comunità tra le quali
esso si svolge. Subordinerà in misura maggiore o minore la produzione al valore di
scambio; spingerà in misura maggiore o minore nello sfondo il valore d'uso immediato,
nella misura in cui fa dipendere la sussistenza più dalla vendita che dall'uso immediato del
prodotto. Dissolve i vecchi rapporti. Quindi accresce la circolazione del denaro. Prima
investe l'eccedente della produzione, poi finisce con l'impugnare gradualmente la
produzione stessa. Tuttavia l'effetto disgregatore dipende molto dalla natura delle
comunità produttrici tra le quali esso opera. Per esempio [il commercio] ha a mala pena
scosso le antiche comunità dell'India e in genere i rapporti asiatici. La frode nello scambio
è la base del commercio quando esso si è reso autonomo.
Ma il capitale nasce solo dove il commercio si impadronisce della produzione stessa e il mercante diventa produttore o il produttore diventa semplice mercante. A ciò si oppongono l'assetto corporativo medioevale, i sistemi di caste ecc. La nascita del capitale nella sua forma adeguata invece presuppone il capitale come capitale commerciale, sicché non si produce più per l'uso, con la mediazione più o meno ampia del denaro, ma per il commercio all'ingrosso.
Il patrimonio commerciale come forma economica autonoma e come base delle città e dei popoli commerciali, esiste ed è esistito tra popoli che si trovano ai livelli di sviluppo economico più diversi, e nella stessa città commerciale (per esempio quella asiatica antica, quella greca, e quella italiana del Medioevo) la produzione può continuare ad esistere soltanto nella forma della corporazione ecc.
144 Cfr. ibidem, [ibidem, p. 365].
145 Cfr. ibidem, p. 455 [ibidem, p. 365].
146 Cfr. ibidem [ibidem p. 366].
147 Cfr. ibidem [. Ibidem, p. 367]. Cfr. in generale MEGA 1/3, pp. 478-481.
Steuart. «Il commercio è un'operazione in virtù della quale la ricchezza, o lavoro, sia essa degli individui o della società, può essere scambiata, da una categoria di uomini detti mercanti, per un equivalente atto a sopperire a qualsiasi bisogno, senza alcuna interruzione per l'industria e alcun ostacolo a! consumo. L'industria è l'applicazione ad un lavoro abile da parte di un uomo libero, al fine di fornire, per mezzo del commercio, un equivalente atto a sopperire a qualsiasi bisogno» (t. I, p. 166)148.
«Finché i bisogni rimangono semplici e ristretti, chi lavora trova il tempo sufficiente per distribuire tutto il suo lavoro; quando i bisogni si moltiplicano, l'uomo deve lavorare più intensamente; il tempo diventa prezioso; e allora nasce il commercio... Il mercante come intermediario tra chi lavora e chi consuma» (p. 171).
L'introduzione del commercio si ha quando avviene la concentrazione (dei prodotti) in poche mani (l.c.)149. Il consumatore non compra per rivendere. Il commerciante compra e vende soltanto in vista di un guadagno (p. 174) (ossia per il valore). «Il tipo più semplice di commercio è quello che si attua mediante il baratto dei mezzi di sussistenza più necessari» (tra il prodotto eccedente dei fittavoli e le libere braccia). «Il progresso deve essere ascritto principalmente all'introduzione del denaro» (p. 176). Finché i bisogni reciproci sono soddisfatti mediante il baratto, non esiste la minima possibilità per il denaro. Questa è la combinazione più semplice. Quando invece i bisogni si moltiplicano, il baratto si fa più difficile; e allora si introduce il denaro, che è il prezzo comune di tutte le cose, l'equivalente adeguato nelle mani di coloro che hanno bisogni. Questa operazione del comprare e vendere è alquanto più complessa della prima. Abbiamo dunque: 1) baratto; 2) vendita; 3) commercio. Il commerciante deve stare in mezzo. Quelli che prima si chiamavano bisogni sono ora rappresentati dal consumatore; l'industria è rappresentata dal manifatturiere, il denaro dal commerciante. Il commerciante rappresenta il denaro sostituendolo col credito; e come il denaro fu inventato per agevolare il baratto, così il mercante trova nel credito un nuovo modo perfezionato per usare il denaro. Questa operazione del comprare e vendere è ora il commercio; esso libera le due parti da tutti i fastidi del trasporto e dell'adeguamento reciproco dei bisogni, o dei bisogni al denaro; il commerciante rappresenta di volta in volta il consumatore, il manifatturiere, e il denaro. Per il consumatore egli rappresenta la massa dei manifatturieri, per questi ultimi rappresenta la massa dei consumatori, e per entrambe le classi il suo credito sostituisce l'uso del denaro (p. 177, 178). Il presupposto è che i commercianti comprino e vendano non per necessità, ma in vista di un profitto (p. 203)150.
«L'industriale produce soltanto per l'uso altrui, non per il proprio; questi beni cominciano ad essere utili per lui soltanto nel momento in cui sono scambiati. Essi dunque rendono necessario il commercio e l'arte degli scambi, e sono apprezzati soltanto per il loro valore di scambio» (p. 161) (Sismondi, Etudes sur l'economie politique, t. Il, Bruxelles 1838). Il commercio ha tolto alle cose e alle ricchezze il loro primitivo carattere di utilità: esso ha ridotto tutte le cose all'opposizione tra valore d'uso e valore di scambio (p. 162). In origine
l'utilità è la vera misura dei valori, il commercio quindi esiste nello stato patriarcale
della società; ma non l'ha interamente assorbita; esso viene esercitato soltanto sul surplus delle produzioni di ciascuno, e non su ciò che è necessario alla sua esistenza (p. 162, 163). Al contrario il carattere del nostro progresso economico consiste nel fatto che il commercio si è accollata la distribuzione della totalità della ricchezza annualmente prodotta e di conseguenza ha assolutamente represso il carattere di valore utile che
148 Cfr. J. STEUART, An Inquiry ecc., cit.
149 Cfr. ibidem, p. 171.
150 Cfr. ibidem, p. 201.
questa aveva, per lasciar sussistere soltanto quello di valore di scambio (163). Prima dell'introduzione del commercio ... ogni aumento nella quantità del prodotto si traduceva in un aumento diretto delle ricchezze. Scarsamente importante era allora la quantità di lavoro mediante la quale una cosa utile era stata acquisita ... E in effetti, la cosa richiesta non perde affatto la sua utilità nemmeno quando per procurarsela non fosse necessario alcun lavoro; grano e tela non sarebbero meno utili a chi li possiede, ... nemmeno se gli fossero caduti dal cielo. I veri criteri di valutazione della ricchezza consistono senza dubbio nel godimento e nell'utilità. Ma dal momento in cui gli uomini fecero dipendere la loro sussistenza dagli scambi che potevano fare, o dal commercio, essi furono costretti ad afferrarsi ad un altro criterio di valutazione, ossia al valore di scambio, al valore, il quale non risulta dall'utilità, ma dal rapporto tra il bisogno dell'intera società e la quantità di lavoro che era sufficiente per soddisfare questo bisogno, o anche, la quantità di lavoro che in futuro avrebbe potuto soddisfano (p. 266, La). Nella valutazione dei valori, che si è cercato di misurare istituendo il denaro contante, il concetto di utilità è stato totalmente emarginato. È stato considerato solamente il lavoro, cioè lo sforzo necessario a procurarsi le due cose reciprocamente scambiate (p. 267).
Sull'interesse, Gilbart (J. W.), in The History and Principles of Banking. London 1834151, afferma:
«Che un uomo il quale prende a prestito del denaro con l'intenzione di trarne un profitto, debba cedere al prestatore una parte del profitto stesso, è un principio assiomatico di giustizia naturale. Un uomo abitualmente trae un profitto dai traffici. Ma nel Medioevo la popolazione è puramente agricola. E ciò vuol dire, come del resto accade in regime feudale, che può esserci soltanto poco traffico e quindi poco profitto ... Da ciò si giustificano le leggi sull'usura nel Medioevo ... Inoltre: in un paese agricolo, è raro che una persona desideri prendere a prestito del denaro tranne che non sia ridotta alla miseria estrema» (p. 163). Enrico Vili limitò l'interesse al 10%, Giacomo I all'8, Carlo II al 6, Anna al 5 (p. 164, 165). A quei tempi i prestatori erano dei monopolisti, se non di diritto per lo meno di fatto, e perciò era necessario imporre delle restrizioni a loro come ad altri monopolisti (165). Ai nostri tempi il saggio di profitto regola il saggio di interesse; a quei tempi il saggio di interesse regolava il saggio di profitto. Se il prestatore di denaro imponeva al commerciante un alto saggio di interesse, il commerciante doveva porre un saggio di profitto più alto ancora sulle sue merci, e di conseguenza una somma di denaro maggiore veniva presa dalla tasca degli acquirenti e portata in quella dei prestatori di denaro. Questo prezzo addizionale imposto alle merci diminuiva la possibilità e la propensione del capitale ad acquistarle (p. 165) (la).
3.5.33 - [Con gli equivalenti, il commercio è impossibile. Opdyke]
«Data la regola degli equivalenti invariabili, il commercio sarebbe impossibile» (G. Opdyke: A Treatise on Politicai Economy, New York 1851, p. 67).
151 Estratti di quest'opera, in un quaderno non numerato, redatto ca. luglio 1845 a Manchester; cfr. MEGA I/6, p. 606.
«La limitazione positiva della quantità di questo strumento» (ossia della carta moneta) «realizzerebbe l'unico scopo utile che il costo di produzione ha nell'altro» (cioè nella moneta metallica) (l.c. 300).
3.5.34 - [Capitale e interesse]
Interesse. «Se una data somma di metallo prezioso diminuisce di valore, questo non è un motivo per usare una quantità di denaro corrispondentemente minore, giacché se il capitale ha meno valore per il prestatore, anche l'interesse che gli si deve pagare è nella
stessa misura meno oneroso In California è del 3% mensile, e del 36% annuo a causa
della situazione incerta Nell'lndostan, dove i prestiti contratti dai principi indiani sono
destinati a spese improduttive per controbilanciare in media le perdite di capitali dei prestatori, l'interesse è molto alto, 30%, non avendo alcuna relazione col profitto che si può guadagnare nelle operazioni industriali». («Economista, 22 gennaio 1853)152. (Il prestatore «esige qui un interesse tanto alto da essere sufficiente a ricostituire il capitale in poco tempo, o almeno da poter servire, sulla media di tutte le sue operazioni di prestito, a controbilanciare le sue perdite in particolari circostanze, con i guadagni apparentemente esorbitanti realizzati in altre circostanze» (le).
Il saggio dell'interesse dipende: 1) dal saggio di profitto; 2) dalla proporzione in cui l'intero profitto si distribuisce tra chi dà e chi prende a prestito (l.c).
Solamente l'abbondanza o la scarsità dei metalli preziosi, il livello alto o basso dei prezzi generali prevalenti, determina tanto la quantità maggiore o minore di denaro richiesta per effettuare gli scambi tra chi prende e chi dà a prestito, quanto tutte le altre specie di
scambio La differenza consiste soltanto nel fatto che occorre una maggiore somma di
denaro per rappresentare e trasferire il capitale prestato .... la relazione tra la somma pagata per l'uso del capitale e il capitale esprime il saggio di interesse misurato in denaro (l.c).
Doublé Standard [bimetallismo]. Prima, nei paesi in cui vigeva il sistema aureo e argenteo, ha circolato quasi sempre solamente l'argento, perché nel periodo 1800 -1850
l'oro ebbe la tendenza a rincarare rispetto al l'argento Aumentando rispetto all'argento,
l'oro fece aggio, in Francia, rispetto al suo rapporto con l'argento fissato nel 1802 . Così
anche negli Stati Uniti; in India. (In quest'ultima attualmente vige il sistema argenteo,
come in Olanda ecc.) La circolazione degli Stati Uniti è stata la prima ad esserne
influenzata. Ma la massiccia importazione di oro della California provocò l'aggio
dell'argento in Europa, ci fu un vasto drenaggio di monete d'argento e la sostituzione
di questo con l'oro....
Il governo degli Stati Uniti batté monete auree abbassandole ad 1 dollaro ... In Francia l'argento fu sostituito con l'oro. («Economista, 15 novembre 1851 )153. Quale che sia «la misura del valore», «e quale che sia la porzione fissa di tale misura rappresentata dalla
152 Cfr. «The Economist», Voi XI, N. 491, January 22, 1853, pp. 89-90, articolo Connection between the rate
of interest and the abundance orscarcity of the precious metals.
153 Cfr. «The Economist», voi. IX, N. 429, November 15, 1851, p. 1257, articolo The Effect of California on
Fixed Incomes
moneta circolante (porzione che può essere determinata), ambedue possono avere un valore fisso e permanente l'una rispetto all'altra solamente se sono convertibili secondo la volontà dei possessore («Economist»y54.
L'unico modo in cui una classe di monete può imporre l'aggio è che nessuno sia obbligato a pagane, mentre tutti siano obbligati ad accettarle come valuta legale («Economist )155.
Nessun paese può conseguentemente avere più di uno standard (più di uno standard come misura del valore); giacché questo standard deve essere uniforme e immutabile. Nessun articolo ha un valore uniforme e immutabile rispetto ad un altro; lo ha solo rispetto a se stesso. Un pezzo d'oro ha sempre lo stesso valore di un altro che abbia esattamente la stessa finezza, lo stesso peso e lo stesso valore su una medesima piazza; ma ciò che si può dire dell'oro non lo si può dire anche di qualsiasi altro articolo, per esempio l'argento («Economist» 1884)156.
La Lst. inglese è un po' meno di 1/3 del suo valore originario, il fiorino tedesco = 1/6, la Scozia prima dell'unione [ridusse] la sua libbra a 1/36, la livre francese = 1/74, il maravedi spagnolo = meno di 1/1000, il reis portoghese ancora di meno (p. 13, Morrison)157.
Prima della legge del 1819, le cause che determinavano il prezzo dei metalli preziosi al di fuori della circolazione delle banconote erano le seguenti: 1) la condizione più o meno perfetta della moneta. Se la moneta metallica circolante scende al di sotto del suo peso normale, il più piccolo scarto nello scambio, provocando una domanda per l'esportazione, fa alzare necessariamente il prezzo del metallo prezioso non coniato per lo meno in misura pari alla degradazione della moneta. 2) Le leggi penali che proibivano la fusione ed esportazione di monete e il commercio dei metalli preziosi. Ciò offriva, in presenza di una intensa domanda per l'esportazione, un ampio margine per variare il prezzo dei metalli preziosi rispetto alla moneta persino in tempi in cui la cartamoneta era piena mente convertibile. Nel 1783, 1792, 1795, 1796 ... 1816 il prezzo del lingotto sali oltre il prezzo di zecca, poiché i creditori della banca, preparandosi ansiosamente al ripristino dei pagamenti in contanti, accettarono oro a prezzo notevolmente superiore a quello di zecca (Fullarton)158.
Il sistema può essere aureo senza che circoli una sola oncia d'oro («Economist )159.
Sotto Giorgio III (1774) l'argento aveva corso legale soltanto fino a 25 I. La banca stessa, per legge, pagava ormai soltanto in oro ( Morrison)160. Lord Liverpool (inizi del 19° secolo) trasformò l'argento e il rame in monete puramente rappresentative (l.c.)161.
Effetto disgregatore del denaro. Il denaro è uno strumento di frantumazione della proprietà.
154 Cfr. «The Economisti, voi. V, N. 215, October 9, 1847, p. 1158.
155 Cfr. «The Economisti, voi. IX, N. 386, January 18, 1851, p. 59
Cfr. «The Economist», voi. I, n.37, May 11, 1844, p. 771. articolo The first step in the currency question. -Sir Robert. Peel.
157 Cfr. W. HAMPSON MORRISON, Observations on the System of Metallic Currency adapted in this country, London 1837, p. 13. [Estratti nel quaderno VI].
-ICQ
Cfr. J. FULLARTON, On the Regulation ofCurrencies, Il ed. with corrections and additions, London 1845, pp.7-10, nota. [Estratti da questa XI edizione in un quaderno datato da Engels al 1851].
-ICQ
Cfr. uno dei numeri dell' «Economisti dal 16 al 23 ottobre 1847.
160 Cfr. W. H. MORRISON, Observations ecc., cit., p. 21.
161 Cfr. ibidem, pp. 24 -25.
Una assurdità di Urquhart a proposito del titolo [standard] del denaro: «Il valore dell'oro deve essere misurato dall'oro stesso; ma come può una sostanza qualsiasi essere la misura del proprio valore in altri oggetti? Il valore dell'oro deve essere stabilito dal suo stesso peso, ma sotto una falsa denominazione di tale peso — e un'oncia deve valere tot libbre e frazioni di libbre. Questo significa falsificare una misura, non stabilire un titolo!» (Familiar WordsY62.
Ad. Smith chiama il lavoro misura reale e il denaro misura nominale del valore; per la prima è quella originaria163.
Valore del denaro. J. St. Mill. «Data una quantità di beni venduti e dato il numero di vendite e rivendite di tali beni, il valore del denaro dipende dalla sua quantità oltreché dal numero di volte in cui ogni pezzo di denaro muta possessore in questo processo». «La quantità di denaro in circolazione = valore monetario di tutte le merci vendute, diviso per il numero che esprime la velocità di circolazione». «Dato l'ammontare delle merci e delle transazioni, il valore del denaro è in ragione inversa della sua quantità, moltiplicata per la sua velocità di circolazione». Ma tutti questi teoremi vanno intesi limitatamente al fatto che «si parla soltanto della quantità di denaro che circola realmente e che viene effettivamente scambiata con merci»164. «La quantità di denaro occorrente è determinata in parte dai suoi costi di produzione, in parte dalla velocità con cui circola. Data la velocità di circolazione, i costi di produzione sono determinanti; dati i costi di produzione, la quantità del denaro dipende dalla velocità della circolazione»165.
Il denaro non ha altro equivalente che se stesso o ciò che è merce. Perciò esso degrada tutto. Agli inizi del 15° secolo in Francia furono impegnate agli Ebrei persino le pile dell'acqua santa (i calici ecc.) (Augier)166.
Il denaro non è oggetto diretto di consumo: il denaro non diventa mai oggetto di consumo, rimane sempre merce, non diventa mai derrata. Soltanto per la società esso ha un valore intrinseco diretto; per ciascun individuo esso è qualcosa che si può scambiare. Perciò la sua materia deve avere un valore, ma fondata su un bisogno fittizio, e non deve essere indispensabile all'esistenza dell'uomo; giacché tutta la quantità che ne è impiegata come denaro non può esserlo individualmente; essa deve circolare sempre (Storch)167.
John Gray: The Social System. A Treatise on the principles of Exchange, Edinburgh 1831.
«Vendere per denaro dovrà diventare facile in qualsiasi momento tanto quanto comprare con denaro; in tal modo la produzione diventerebbe la causa uniforme e immancabile della domanda» (16). Il limite attuale della produzione è costituito dalla quantità di merci che si può vendere con profitto e non dalla quantità che se ne può produrre (59).
Il denaro dovrebbe essere soltanto una ricevuta, un certificato che attesti o che il suo detentore ha contribuito per un certo valore alla ricchezza nazionale, o che egli ha acquisito un diritto su tale valore da parte di qualcuno che vi abbia contribuito ... Il denaro non dovrebbe essere né più né meno che un certificato mobile, trasferibile, divisibile e inimitabile che attesti l'esistenza di una ricchezza in riserva (63, 64). Un prodotto,
162 Cfr. D. URQUHART, Familiar Words ecc., cit., pp. 104 -105.
163 Cfr. A. SMITH, An Inquiry ecc., cit., pp. 100 -101 [Ricchezza delle nazioni, p. 32].
164 Cfr. J. ST. MILL, Principles ecc., cir., voi. Il, pp. 17-18 [Principi, pp. 471-73].
165 Cfr. ibidem, pp. 29-30 [ 481 e relativa nota].
166 Cfr. M. AUGIER, Du Credit public et de son histoire depuis les temps anciens jusqu'à nos jours, Paris
1842, pp. 95,101. [Estratti in un quaderno non datato e non numerato, redatto ca. 1846-47 a Bruxelles].
167 Cfr. H. STORCH, Coursecc, cit., t. Il, pp. 113-114 [Corso, p. 276].
previamente stimato ad un certo valore, viene depositato in banca e ritirato tutte le volte che se ne ha bisogno; basta soltanto pattuire, col comune consenso, che colui che deposita una qualsiasi proprietà alla Banca Nazionale che proponiamo, può prelevare qualsiasi cosa essa contenga, per un valore eguale al suo deposito, invece di essere obbligato a ritirare la cosa stessa che vi aveva depositato. Il banco nazionale che noi proponiamo dovrebbe accettare, prendere in carico, e restituire ogni sorta di valori (l.c. 68).
«Se il denaro» dice Gray «ha lo stesso valore di ciò che rappresenta, cessa di essere rappresenativo. Uno dei principali requisiti del denaro è dato dal fatto che il detentore è obbligato in qualsiasi momento a presentarlo in pagamento all'indirizzo dal quale l'ha ricevuto. Se invece il denaro ha lo stesso valore intrinseco di ciò che viene dato in cambio di esso, tale necessità viene meno» (74).
«Il deprezzamento del capitale...., dovrebbe costituire una voce del bilancio nazionale» (p. 116). «Gli affari di ciascun paese dovrebbero essere gestiti mediante un capitale nazionale» (171). «Tutta la terra dovrebbe essere trasformata in proprietà nazionale» (298).
Gray (John): Lectures on the nature and use of Money (Edinburgh 1848): «L'uomo, collettivamente, non dovrebbe conoscere alcun limite ai suoi mezzi fisici di godimento, salvo quelli connessi all'esaurimento o della sua industriosità o delle sue forze produttive ; mentre noi, adottando un sistema monetario, falso in linea di principio, e distruttivo in pratica, abbiamo consentito a restringere la somma dei nostri mezzi fisici di godimenti esattamente a quella quantità che può essere scambiata con profitto con una merce che è tra le meno suscettibili di moltiplicarsi con l'esercizio dell'umana industriosità che ci sia sulla faccia della terra» (29). I requisiti di un buon sistema sono: 1) un sistema bancario le cui operazioni contribuiscano al ristabilimento della relazione natura le tra l'offerta e la domanda; 2) una vera misura del valore, al posto della attuale finzione (108). (In questo libro Gray sviluppa ancor più l'idea della banca di scambio fino ai dettagli, sempre mantenendo il modo di produzione attuale). «Deve esserci un prezzo minimo del lavoro pagabile in moneta a corso legale» (p. 160). Citiamo per esempio il più basso saggio di salario legalmente possibile per settimana di 60-70 ore, 20 sh. o 1 I. a corso legale (161). «Dobbiamo mantenere la nostra misura fittizia del valore, l'oro, e in tal modo vincolare le risorse produttive del paese, o dobbiamo invece ricorrere alla misura naturale del valore, il lavoro, e di conseguenza liberare le nostre risorse produttive?» (p. 169). Una volta fissato l'ammontare di questo salario minimo ..., esso dovrebbe rimanere lo stesso per sempre (174). «Basta dare all'oro e all'argento il posto che ad essi spetta sul mercato accanto al burro, alle uova, alle stoffe, e il valore dei metalli preziosi non ci interesserà più di quanto ci interessi il valore del diamante» ecc. (182). Nessuna obiezione, da fare all'oro e
all'argento se sono usati come strumenti di scambio, l'obiezione riguarda solamente il
loro uso come misure del valore In breve tempo si vedrebbe quante once d'oro o
d'argento sarebbe possibile ottenere, a Londra, Edinburgo o Dublino, in cambio di un biglietto di cento sterline a corso legale (p. 188).
Interesse. Come aumenta la classe dei rentiers così aumenta quella dei prestatori di capitale, perché non sono che una sola e medesima classe. Questa è la sola ragione per cui l'interesse ha avuto la tendenza a diminuire nei vecchi paesi (201, 202, Ramsay)168. «È probabile che in ogni età i costi di produzione dei metalli preziosi non siano stati mai ricompensati dal loro valore.» (101, II, Jacob, W. : An Historical Enquiry into the Production and Consumation of Precious Metals. London 1831).
168 Cfr. G. RAMSAY, An Essay ecc., cit., p. 202.
Valore del denaro. Il valore di tutte le cose, diviso per il numero di transazioni di cui sono state oggetto per passare dalla produzione al produttore, = valore del denaro occorso per comprarle, diviso per il numero di volte che questo denaro è stato trasmesso in un medesimo periodo di tempo (Sismondi: Nouveaux Principe d'Economie Politique ecc.)169.
Lo sviluppo più formale della falsa teoria del prezzo lo troviamo in James Mill (che citiamo nella traduzione di J. T. Parisot, Paris 1823. Eléments d'Economie Politique, ecc.).
I passi principali di Mill sono i seguenti:
«Il valore del denaro = alla proporzione in cui lo si scambia con altri articoli, o alla quantità di denaro che si dà in cambio di una determinata quantità di altre cose» (p. 128)170. Questa proporzione è determinata dalla quantità totale di denaro esistente in un paese. Supponendo che da una parte vi siano tutte le merci di un paese e dall'altra tutto il denaro, è evidente che, nello scambio tra le due parti, il valore del denaro, ossia la quantità di merci che è stata ceduta in cambio di esso, dipende interamente dalla quantità del denaro stesso. (I.c.)171. Ma i fatti corrispondono precisamente a questa supposizione. La massa totale delle merci di un paese non si scambia in blocco con la massa totale del denaro, bensì le merci si scambiano in porzioni, e in porzioni spesso piccolissime, e in periodi diversi, nel corso dell'anno. La stessa moneta che oggi è servita a questo scambio può domani servire ad un altro scambio. Una parte del denaro viene impiegata per un gran numero di scambi, un'altra per un numero molto piccolo, una terza viene accumulata e non serve ad alcuno scambio. Tra queste variazioni ci sarà un tasso medio, basato sul numero di scambi per il quale ciascun pezzo di denaro sarebbe impiegato se tutti avessero operato un identico numero di scambi. Fissiamo questo tasso ad un numero qualsiasi, per esempio 10. Se ciascuna moneta che si trova nel paese è servita a 10 compere, è come se il numero totale di monete si fosse moltiplicato per dieci e ciascuna fosse servita ad un'unica compera. In questo caso il valore di tutte le merci è uguale a dieci volte il valore del denaro ecc. (p. 129, 130)172. Se, invece di adoperare ciascuna moneta per 10 compere, si moltiplicasse per dieci la massa totale del denaro, e ciascuna moneta servisse per un solo scambio, è evidente che ogni aumento di questa massa causerebbe una diminuzione proporzionale nel valore di ciascuna di queste monete presa separatamente. Poiché si suppone che la massa di tutte le merci con cui il denaro può scambiarsi rimane la stessa, il valore della massa complessiva del denaro non è maggiore dopo che la quantità è aumentata, di quello che fosse prima. Supponendo che vi sia stato un aumento di un decimo, il valore di ciascuna delle sue parti, per esempio di un'oncia, deve essere diminuito di un decimo (p. 130, 131)173. «Qualunque sia dunque il grado di aumento o di diminuzione della massa totale del denaro, se la quantità delle altre cose rimane la stessa, questa massa totale e ciascuna delle sue parti subiranno reciprocamente una diminuzione o un aumento proporzionale. È evidente che questa è una proposizione assolutamente vera. Ogni volta che il valore del denaro ha subito un aumento o una diminuzione, ferme restando la quantità di merci con cui lo si poteva scambiare e la velocità della sua circolazione, questo cambiamento deve aver avuto come causa un aumento o diminuzione proporzionale del denaro, né può essere attribuito ad altra causa. Se diminuisce la massa delle merci, mentre la quantità del denaro rimane la stessa, è come se la somma complessiva del denaro fosse aumentata, e viceversa. Simili
169 Cfr. J.C.L.S. DE SISMONDI, Nuovi Principii ecc., cit., libro V, cap. 1-3.
170 Cfr. Elementi ecc., cit., p. 755.
171 Cfr. ibidem, p. 755.
172 Cfr. ibidem, p. 756.
173 Cfr. ibidem, p. 756.
cambiamenti sono il risultato di ogni alterazione nella velocità della circolazione Ogni aumento del numero delle compere produce lo stesso effetto di un aumento totale del denaro; una diminuzione di questo numero produce l'effetto direttamente opposto» (p. 131, 132)174. Se una porzione del prodotto annuo non è stata scambiata affatto, o perché è stata consumata dai produttori o perché non è stata scambiata con denaro, questa porzione non deve essere calcolata, perché ciò che non si scambia col denaro, rispetto al denaro è come se non esistesse (p. 131, 132)175. Ogni volta che l'aumento o la diminuzione del denaro può aver luogo liberamente, questa quantità è regolata dal valore del metallo .... Ma oro e argento sono merci, prodotti... I costi di produzione regolano il valore dell'oro e dell'argento così come il valore di tutti gli altri prodotti (p. 136)176.
L'inconsistenza di questo ragionamento è evidente.
)Presupporre che tanto la massa delle merci quanto la velocità di circolazione rimangano invariate, e però una maggiore quantità di oro e d'argento si scambi con la medesima massa di merci (senza che il valore, ossia la quantità di lavoro contenuta nell'oro e nell'argento, sia modificato), significa presupporre precisamente quel che si voleva dimostrare, e cioè che i prezzi delle merci sono determinati dalla quantità del mezzo circolante e non viceversa.
)Mill ammette che le merci che non sono messe in circolazione non esistono per il denaro. È altrettanto evidente che il denaro che non è messo in circolazione non esiste per le merci. Quindi non esiste un rapporto fisso tra il valore del denaro in generale e la quantità di esso che entra in circolazione. Che la quantità che si trova effettivamente in circolazione, divisa per il numero delle sue circolazioni, sia uguale al valore del denaro, è soltanto una perifrasi tautologica per dire che il valore della merce espresso in denaro è il prezzo; poiché il denaro che si trova in circolazione esprime il valore delle merci che fa circolare — perciò il valore di queste merci è determinato dalla quantità del denaro che circola.
)La confusione nella tesi di Mill viene in luce chiaramente quando egli afferma che il valore del denaro diminuisce o aumenta «ad ogni alterazione nella velocità della circolazione». Che una lira sterlina circoli 1 o 10 volte in un giorno, in ogni scambio, essa esprime un equivalente della merce, si scambia col medesimo valore in merce. Il valore di sterlina rimane lo stesso in ogni scambio, e non viene alterato né da una circolazione lenta né da una veloce. L'alterazione riguarda la quantità del denaro circolante; non riguarda invece né il valore della merce, né il valore del denaro. «Quando si dice che un pezzo di stoffa vale 5 I., ciò vuol dire: esso possiede il valore di 616.370 grani di oro campione. Il che si può parafrasare così: «il prezzo deve diminuire perché il valore delle merci corrisponde a tot once d'oro; e la quantità di oro in quel paese è diminuita"» (Hubbard J. G. The Currency and the Country, London 1843, p. 44).
)Mill dapprima suppone, in teoria, che l'intera quantità del denaro che si trova in un paese si scambia in blocco con l'intera quantità di merci che vi si trova. Poi dice che ciò si verifica nella realtà, e per il motivo principale che nella prassi avviene proprio il contrario, cioè si scambiano solamente porzioni di denaro con porzioni di merci, per lo meno con pagamenti regolati da contratti a breve termine. Ne segue dunque che l'insieme delle transazioni o compere fatte in un giorno è del tutto indipendente dal denaro che circola in quel giorno e che la quantità di denaro che circola in un certo giorno non è la causa ma
174 Cfr. ibidem, pp. 756-757.
175 Cfr. ibidem, p. 757.
176 Cfr. ibidem, p. 758.
l'effetto di una serie di transazioni precedenti e del tutto indipendenti dalla riserva periodica di denaro.
5) Infine Mill stesso ammette che in regime di libera circolazione del denaro — e solo con questo abbiamo a che fare — il valore del denaro è determinato dai suoi costi di produzione, ossia, come egli stesso dice, dal tempo di lavoro in esso contenuto.
Questioni concernenti il denaro. Nel pamphlet di Ricardo Proposais for an Economical and Secure Currency with Observations on the profits of the Bank of England. London 1816, si trova un passo in cui egli manda a gambe all'aria tutta la sua concezione. Vi si dice infatti: «L'ammontare dei biglietti in circolazione dipende ... dall'ammontare richiesto per la circolazione del paese, e questo è regolato dal valore dello standard, dalla somma dei pagamenti, da ciò che occorre, in termini economici, per realizzarli» (p. 17, 18 La).
Sotto Luigi XIV, XV, XVI esistevano in Francia ancora imposte in natura per la popolazione contadina invece delle imposte pubbliche (Augier)177.
Prezzi e quantità del mezzo circolante. Un puro aumento del prezzo non è sufficiente a creare una domanda di moneta circolante addizionale. Ciò accade soltanto se nello stesso tempo produzione e consumo aumentano. Per esempio, se il prezzo del grano aumenta, ma diminuisce la sua offerta, lo si può regolare con la quantità di moneta circolante che
già esiste Ma se si verifica un aumento dei prezzi in seguito ad una lievitazione della
domanda, alla creazione di nuovi mercati, ad un accrescimento del livello di produzione, insomma se c'è un aumento dei prezzi e della somma complessiva delle transazioni, è necessario moltiplicare quantitativamente ed estendere qualitativamente l'intervento del denaro (Fullarton )178.
È il commercio che regola il denaro, e non viceversa. Lo strumento del commercio deve tener dietro alle variazioni (nei prezzi) delle altre merci ( D 'Avenant )179.
(Sotto le monarchie feudali i pochi articoli di largo consumo che il popolo acquistava erano diminuiti a tal punto che non c'era moneta d'oro o d'argento abbastanza piccola per soddisfare il bisogno quotidiano del lavoratore ... perciò la moneta circolante era fatta, come nell'antica Roma, soltanto con metalli di qualità inferiore, rame, stagno, ferro) (Jacob)180.
Jacob ritiene che in questo secolo 2/3 dell'oro e dell'argento d'Europa sono impiegati in altri oggetti, utensili e ornamenti, e non per coniare le monete181. (In un altro passo egli calcola, per l'Europa e l'America, che il metallo prezioso usato per utensili ed ornamenti, ammonti a 400 milioni di Lst.)182.
Prezzi e quantità del mezzo circolante. La teoria di Locke, «Spectator» (19 ott. 1711), di Hume, di Montesquieu, su questa questione poggia su tre principi:
1) I prezzi delle merci sono proporzionali alla quantità di denaro esistente nel paese;
177 Cfr. M. AUGIER, Du Créditpubli ecc., cit., p. 128.
178 Cfr. J. FULLARTON, On the Regulation ecc;, Il ed., cit., pp. 102-104.
17Q
Cfr. CH. D'AVENANT, Discourses o the pubblic Revenues and on the Trade of England ecc., Part II, London 1698, p. 16. [Estratti, in un quaderno non numerato, datato Manchester, luglio 1845; cfr. MEGA I/6, p. 604].
180 Cfr. W. JACOB, An Historical Inquiry ecc., cit., voi. I, p. 302.
181 Cfr. ibidem, voi. Il, pp. 212-213.
182 Cfr. ibidem, voi. Il pp. 214 -214.
)la moneta e il denaro circolante di un paese rappresentano tutto il lavoro e le merci del paese stesso, sicché, secondo la quantità più o meno grande dell'elemento rappresentante, ad esso andrà una quantità più o meno grande di cose rappresentate;
)aumentate la quantità delle merci, ed esse diventano meno costose; aumentate quella del denaro, e il loro valore sale. ( Steuart )183.
Le monete divisionarie (le piccole monete di rame o d'argento, counters) in opposizione al
denaro che ha valore intrinseco (l.c.)184.
Effetto disgregatore del denaro. Il denaro è un mezzo per decomporre la proprietà (case o altro capitale) in innumerevoli frammenti e spezzettarla attraverso lo scambio (Bray)185. (Senza il denaro ci sarebbe una massa di oggetti non scambiabili, inalienabili). «Quando le cose immobili e immutabili entrarono anch'esse nel commercio degli uomini come le cose mobili e fatte per essere scambiate, venne in uso il denaro come regola e misura (square) da cui queste cose ricevevano valutazione e valore» (Free Trade. London 1622)186.
Moneta. Le monete divisionarie d'argento e di rame sono rappresentative delle frazioni della sterlina. (Da una recente risposta del Lord of the Treasury).
Valore di scambio. F. Vidal (ma anche Lauderdale) (e per certi aspetti Ricardo) dice: «Il vero valore sociale è il valore d'uso o di consumo; il valore di scambio non fa che caratterizzare la ricchezza relativa di ciascun membro della società in rapporto agli altri» (70. De la Répartition des Richesses ecc. Paris 1846)187. D'altra parte il valore di scambio esprime la forma sociale del valore, mentre il valore d'uso non ne esprime alcuna forma economica, ma soltanto l'essere del prodotto ecc, per l'uomo in generale.
3.5.35 - [Due nazioni possono scambiare in base alla legge del profitto in modo da ottenere entrambe un profitto, ma una viene sempre avvantaggiata]
[[Dal fatto che il profitto può stare al di sotto del plusvalore, cioè che il capitale può scambiarsi con profitto senza valorizzarsi in senso stretto, consegue che non solamente dei capitalisti individuali ma intere nazioni possono continuamente scambiare reciprocamente, persino ripetere continuamente lo scambio su scala sempre più vasta, senza aver bisogno per questo di ottenere un profitto uniforme. L'una può continuamente appropriarsi d'una parte del pluslavoro dell'altra, in cambio della quale non dà nulla; solamente, non nella stessa misura che nello scambio tra capitalista e operaio]].
Il denaro nella terza determinazione, cioè come denaro (valore per sé stante, equivalente ecc.). Quale sia l'importanza del ruolo del denaro in questa determinazione — persino nella sua forma immediata —, lo si vede in tempo di crisi, di raccolti deficitari ecc.,
183 Riferimento al quaderno londinese Vili, con estratti della Inquiry di Steuart, in part. voi. I, p. 399, in cui si
citano i passi dell'articolo di Locke sullo «Spectator».
184 Fonte ignota.
185 Cfr. J. F. BRAY, Labour's Wrongs ecc., cit., pp. 140 -141.
186 Cfr. [E. MISSELDENi], Free Trade ecc,, elt., p. 21.
187 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese XVI.
insomma, ogni volta che una nazione deve improvvisamente saldare il conto con un'altra II denaro nella sua forma immediata, metallica, si presenta allora come l'unico e assoluto mezzo di pagamento, ossia come l'unico controvalore, l'unico equivalente accettabile. E inoltre esso segue un tragitto che è esattamente l'opposto di quello seguito da tutte le altre merci. Infatti le merci che servono da mezzo di pagamento vengono trasportate dal paese in cui sono meno care a quello in cui lo sono al massimo. Il denaro viceversa, in tutti i periodi in cui la sua natura specifica assume un netto risalto, cioè quando, al contrario di tutte le altre merci, esso viene richiesto come valore per sé stante, equivalente assoluto, forma generale della ricchezza — e tali momenti coincidono sempre più o meno con i momenti di crisi, sia essa generale o per esempio soltanto granaria —, il denaro, dicevamo, cioè l'oro e l'argento, vengono viceversa trasmessi sempre dal paese dove sono più cari — cioè dove tutti i prezzi delle merci sono relativamente crollati al livello più basso — al paese dove lo sono meno, cioè dove i prezzi delle merci sono relativamente più alti. «È una singolare anomalia dell'economia di scambio, e merita di essere
particolarmente notata, che la corrente di transito (dell'oro tra due nazioni che usano
entrambe l'oro come mezzo di circolazione) si svolge sempre dal paese in cui momentaneamente il metallo è più caro , al paese in cui esso lo è meno, giacché la lievitazione del prezzo di mercato del metallo, fino al limite massimo nel mercato interno, e il crollo del prezzo nel mercato estero, sono i risultati certi di questa tendenza ad un deflusso di oro che segue ad una depressione degli scambi» (J. Fuilarton, On the Regulation of Currencies ecc., 2 ed. London 1845)188.
Come in generale lo scambio comincia sempre là dove le comunità si arrestano e il denaro, come misura creata dallo scambio stesso, come mezzo di scambio ed equivalente generale, acquista il suo peso specifico non nel commercio interno, ma in quello che si svolge tra comunità e popoli diversi, ecc., così fu proprio come mezzo di pagamento
internazionale [nota: in questo punto Marx riporta una scritta in greco, che in questo testo non è
riproducibile] — per il saldo dei debiti internazionali — che il denaro, nel 16° secolo, cioè nel periodo dell'infanzia della società borghese, attrasse l'interesse esclusivo degli Stati e quello della nascente economia politica.
Il ruolo importante che il denaro (oro e argento) ancora svolge in questa terza forma nel commercio internazionale, si è chiarito completamente ed è stato a sua volta riconosciuto dagli economisti soltanto a partire dalla successione regolare di crisi monetarie nel 1825, 1839, 1847 e 1857. Gli economisti se la cavano dicendo che in questo caso il denaro non viene richiesto come mezzo di circolazione ma come capitale . Esatto. A patto che non si dimentichi che il capitale viene richiesto nella forma determinata di oro e argento e non in quella di un'altra merce qualsiasi. L'oro e l'argento si presentano nel ruolo di mezzo di circolazione internazionale assoluto, perché essi sono il denaro come valore per sé stante, come equivalente autonomo. «In realtà, non è questione di mezzo di circolazione ma di capitale». (Piuttosto, è questione di denaro, non di mezzo di circolazione, e nemmeno di capitale, perché non è richiesto il capitale , che è indifferente alla forma particolare in cui
esiste, ma il valore nella forma specifica di denaro) « tutte le varie cause che,
nell'attuale situazione degli affari monetari, sono in grado di orientare il flusso dell'oro
e dell'argento da un paese all'altro» (cioè di dare origine ad un deflusso di oro e argento), rientrano tutte sotto l'unico capitolo della situazione della bilancia dei pagamenti esteri, e della necessità continuamente ricorrente di trasferimenti di capitale» (ma nota bene! capitale nella forma di denaro) «da un paese all'altro al fine di liberarsene. Per esempio, in caso di raccolto deficitario ... Che il capitale sia trasferito sotto forma di merce oppure di moneta metallica, ciò non ha alcuna influenza sulla natura della transazione» (ce l'ha
188 Cfr. op. cit,,pp. 119-120.
materialmente altroché). Altro esempio: le spese di guerra. (Il caso dei trasferimenti di capitale al fine di investirlo ad interesse col massimo vantaggio qui non ci interessa; tanto meno quello di una sovrimportazione di prodotti esteri che il sig. Fullarton cita, sebbene tale caso rientri in argomento quando questa sovrimportazione coincide con una crisi) Fullarton, le. 130, 131). «Per questo trasferimento di capitale l'oro è preferito» (ma nei casi di violento deflusso di oro la preferenza non c'entra assolutamente nulla) «solamente in quei casi in cui è probabile che esso effettui il pagamento in modo più conveniente, più rapido, o in maniera più profittevole di qualsiasi altro genere di capitale»189. (Il sig. Fullarton sbaglia nel trattare dei trasferimenti di oro o di altra forma di capitale come se fosse una questione di preferenza, mentre si tratta proprio di casi nei quali l'oro deve essere trasferito sul mercato internazionale, così come poi all'interno le tratte devono essere
pagate in moneta legale e non con un sostituto qualsiasi). «Oro e argento possono
essere trasportati ovunque si voglia con rapidità e precisione, e si può essere certi che, giunti a destinazione, essi corrisponderanno quasi esattamente alla somma richiesta, invece di incorrere nei rischi propri di una spedizione di tè, caffè, zucchero, o di indaco. Per tali occasioni, l'oro e l'argento sono infinitamente più vantaggiosi di tutti gli altri tipi di merce, dato il loro uso universale come denaro. Non è in tè, caffè, zucchero o indaco che di solito ci si impegna a pagare i debiti, siano essi esteri o interni, ma in moneta contante; e di conseguenza una rimessa, sia nella stessa moneta convenuta, o in oro e argento immediatamente convertibili in quella moneta tramite la zecca o il mercato monetario del paese destinatario, deve sempre offrire a chi fa la rimessa i mezzi più sicuri, diretti, e idonei a raggiungere lo scopo, senza il rischio di una delusione in seguito a un crollo della domanda o ad una fluttuazione nei prezzi» (132, 133). Perciò Fullarton insiste proprio sulla proprietà dell'oro e dell'argento di essere denaro, merce generale dei contratti, criterio di misura dei valori, e di avere al tempo stesso la possibilità di essere convertiti ad libitum in mezzo di circolazione. Gli inglesi possiedono il termine adeguato di currency per designare il denaro come mezzo di circolazione (cui non corrisponde il termine coin, moneta, perché questa è a sua volta un particolare mezzo di circolazione), e quello di money per il denaro nella sua terza determinazione. Ma siccome quest'ultimo non l'hanno particolarmente analizzato, spiegano questo money interpretandolo come capital anche se poi sono costretti in linea di fatto a distinguerlo, come determinata forma di capitale, dal capitale in generale.
«Sembra che Ricardo abbia avuto delle opinioni molto particolari ed estreme in merito alla limitata portata del ruolo che l'oro e l'argento svolgono nell'equilibrio della bilancia estera. Il sig. Ricardo ha trascorso una vita intera in mezzo alle controversie suscitate dal Restriction Act, e si è abituato talmente a considerare ogni notevole fluttuazione negli scambi e nel prezzo dell'oro come un effetto di eccessive emissioni della Banca d'Inghilterra, che talvolta è parso addirittura che egli fosse a malapena disposto ad ammettere che può esistere qualcosa come una bilancia sfavorevole dei pagamenti
commerciali E così egli diede tale scarso peso al ruolo dell'oro nell'equilibrio di tale
bilancia, da prevedere persino che il deflusso dovuto all'esportazione sarebbe cessato non appena fossero stati ripristinati i pagamenti in contanti, e il mezzo di circolazione fosse stato riportato al livello del metallo
(Vedi Ricardo's Evidence before the Lord's Committee of 1819 on the Bank o England, p.
186) Ma a partire dal 1800, data in cui la cartamoneta scacciò completamente l'oro in
Inghilterra, i nostri commercianti non ne avevano veramente più bisogno; giacché, a causa della situazione instabile del continente europeo, e del suo aumentato consumo di manufatti importati, in conseguenza, delle interruzioni che l'incessante movimento degli
189 Cfr. ibidem, p. 132.
eserciti invasori aveva causato nell'industria e in tutto lo sviluppo interno, sommate al monopolio assoluto del commercio coloniale che l'Inghilterra aveva raggiunto grazie alla sua superiorità navale, le esportazioni di merci dalla Gran Bretagna al continente continuavano a superare largamente le importazioni in senso inverso, finché l'interscambio rimaneva aperto; e dopo che esso fu chiuso dai decreti di Berlino e di Milano, le transazioni commerciali diventarono troppo insignificanti per poter influenzare gli scambi in un senso o nell'altro. Furono le spese militari all'estero e i sussidi, e non le necessità del commercio, che contribuirono in maniera cosi straordinaria a disorganizzare gli scambi e ad elevare il prezzo dell'oro e dell'argento negli ultimi anni della guerra. I più importanti economisti di questo periodo, per questa ragione, ebbero poche o nessuna occasione effettiva di valutare praticamente la portata di cui erano suscettibili le bilance commerciali estere» (Credevano che con la guerra e con un aumento delle emissioni il trasferimento internazionale di metalli preziosi cessasse). «Se il sig. Ricardo fosse vissuto tanto da assistere ai deflussi, del 1825 e 1839, senza dubbio avrebbe capito la ragione di modificare le sue opinioni » (l.c. 133 -136).
Il prezzo è il valore in denaro delle merci (Hubbard)190. Il denaro possiede la qualità di essere sempre scambiabile con ciò di cui esso è la misura, e la quantità richiesta per gli scopi dello scambio deve variare, naturalmente, secondo la quantità di proprietà che deve essere scambiata. (100. J . W . Bosanquet, Metallic, Paper, and Credit Currency ecc. London 1842)191.
«lo sono pronto ad ammettere che l'oro è una merce così richiesta che può sempre comandare un mercato, che esso può sempre comprare tutte le altre merci, mentre le altre merci non possono sempre comprare l'oro. I mercati mondiali sono aperti ad esso in quanto è una merce che, in caso di emergenza, può essere esportata con minor sacrificio di qualsiasi altro articolo, il quale potrebbe superare in quantità o qualità la domanda abituale nel paese destinatario» (Th. Tooke. An Enquiry info the Currency Principle ecc., 2 ed., London 1844, p. 10)192. «Ci deve essere una quantità notevole di metalli preziosi che possono essere e sono adoperati per equilibrare nel modo più conveniente le bilance internazionali, come merce più generalmente richiesta e meno legata di altre a oscillazioni nel valore di mercato» (p. 12, 13).
(Cause che secondo Fullarton hanno fatto salire il prezzo di lingotto al di sopra del prezzo di zecca: «La moneta che; in seguito all'uso, si degradava fino al 3 o 4% al di sotto del suo
peso normale; le leggi penali che proibivano la fusione e l'esportazione della moneta,
mentre il commercio del metallo di cui la moneta è composta rimaneva perfettamente libero. Queste stesse cause tuttavia agivano soltanto in periodi in cui il corso dei cambi era
sfavorevole Ma [il prezzo di mercato del denaro] nel periodo 1816 -1821 si livellò
sempre al prezzo di banca del lingotto, quando il cambio fu favorevole all'Inghilterra; non aumentò mai, quando il cambio fu sfavorevole, se non per quel tanto che avrebbe indennizzato i fonditori delle monete per la loro degradazione dovuta all'uso e per le conseguenze penali cui andava incontro chi le fondeva, ma non andò oltre» (Fullarton , vedi il suo libro pp. 8, 9)193. «Dal 1819 a oggi, tra tutte le vicissitudini che il denaro ha subito durante questo periodo agitato, il prezzo di mercato dell'oro non è aumentato in nessuna occasione oltre i 78 sh. per oncia, né è diminuito oltre i 77 sh. 6 d., con una oscillazione massima di 6 d. solamente per oncia. Oggi tale oscillazione non sarebbe
190 Cfr. J. G. HUBBARD, The Currency and the Country ecc., cit., p. 33
1Q1
Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese VII.
192 Estratti da quest'opera, nel quaderno londinese VII.
193 Cfr. J. FULLARTON, Or the Regulation ecc., Il ed., pp. 7-9.
possibile giacché solo a causa del ripetuto deterioramento della moneta si è avuto un aumento così trascurabile qual è quello di VA d. all'oncia, o circa 1/6% sul prezzo di zecca; e la diminuzione a 77 sh. 6 d. è interamente addebitabile alla circostanza che la banca ad un certo punto ha ritenuto opportuno di stabilizzare questo tasso come limite dei suoi acquisti. Tuttavia tali circostanze non esistono più. Per molti anni la banca ha seguito la prassi di - concedere 77 sh. 9 d. per l'oro che gli veniva portato per essere coniato» (cioè la banca intasca VA d. di coniatura che la zecca le fornisce gratis); «e appena la riconiatura di sovrane che è in corso sarà completata, sarà posto un limite effettivo, fino a che la moneta si deteriorerà di nuovo, a qualsiasi futura oscillazione del prezzo dell'oro in lingotti nel nostro mercato, oltre la piccola differenza frazionale tra i 77 si 9 d. concessi dalla banca e il prezzo di zecca di 77 sh. 10% d.» (I.c. pp. 9, 10).
Contraddizione tra il denaro come misura e equivalente da un lato, e come mezzo di circolazione dall'altro. Quest'ultimo va soggetto ad una perdita di peso del metallo dovuta ad abrasione. Già Garnier osserva che «se una moneta alquanto logora fosse valutata meno di una moneta nuova di zecca, la circolazione sarebbe continuamente ostacolata e ogni pagamento darebbe luogo a controversie»194.
(Tra i minerali si cerca e si sceglie naturalmente la materia adatta all'accumulazione. Garnier )195.
Poiché è ovvio che le monete, per forza di cose, debbono sempre deprezzarsi, pezzo per pezzo, per effetto normale e inevitabile dell'abrasione (per non parlare dell'allettamento che un vero ripristino delle monete offrirebbe all'immensa legione di players e di sweaters'8, è fisicamente impossibile eliminare completamente dalla circolazione per qualche tempo, anche per un solo giorno, la massa sterminata di monete tosate» (The Currency Theory reviewed ecc. By a Banker in England, Edinburgh 1845)196. Ciò è stato scritto nel dicembre 1844 a commento delle proteste che poco prima erano state fatte, in merito all'oro alleggiato in circolazione, in una lettera al «Times». (La difficoltà è questa: se il denaro alleggiato viene rifuso, ogni standard diventa insicuro. Se viene accettato, si spalancano le porte ad ogni sorta di imbrogli e il risultato è lo stesso). Quanto alle suddette proteste, lo scritto afferma: «Il loro effetto ... è stato quello di denunciare virtualmente l'intero sistema della moneta aurea corrente come un mezzo pericoloso e illegale di transazioni monetarie» (p. 68, 69). «In base alla legge inglese, se una sovrana d'oro supera una deficienza di peso di 0.744 grani, deve cessare di essere considerata moneta corrente. Non c'è invece nessuna legge analoga per la moneta argentea» (Wm . H . Morrison. Observations ori the system of Metallic Currency adopted in this country. London 1837, p. 54).
I sostenitori del Currency principle affermano che il valore del mezzo circolante dipende dalla sua quantità (Fullarton)197. Dato il valore del mezzo circolante da un lato, e i prezzi e la somma delle transazioni dall'altro (e anche la velocità della circolazione), naturalmente può circolare soltanto una determinata quantità. Dati i prezzi e la somma delle transazioni, e la velocità di circolazione, tale quantità dipende esclusivamente dal valore del mezzo circolante. Dati questo valore e la velocità di circolazione, essa dipende esclusivamente dai prezzi e dalla somma delle transazioni. La quantità è in tal modo determinata. Se
194 Cfr. G. GARNIER, Histoire ecc., cit., t. I, p. 24.
195 Cfr. ibidem, p. 7.
a Profittatori e speculatori che sottraggono metallo alle monete.
196 Cfr. op. cit., -pp. 69-70. Estratti da quest'opera anonima, nel quaderno londinese VII.
197 Cfr. J. FULLARTON, On the Regulation ecc., cit., Il ed.
perciò circola denaro rappresentativo — meri segni di valore — la quantità che ne può circolare dipenderà dal tipo che essi rappresentano. Da ciò viene tratta la falsa deduzione che la semplice quantità ne determina il valore. Per esempio: di biglietti che rappresentano libbre non ne può circolare una quantità identica a quella di pezzi che rappresentano scellini.
Il capitale che frutta profitto è il capitale reale, il valore posto al tempo stesso come valore che si riproduce e si moltiplica, e come presupposto identico a se medesimo, distinto da se stesso in quanto plusvalore posto. Il capitale che frutta interesse è a sua volta la forma puramente astratta del capitale che frutta profitto.
In quanto il capitale è posto come capitale che frutta profitto, corrispondentemente al suo valore (premesso un determinato livello di produttività), la merce, o la merce posta nella sua forma di denaro (nella forma ad essa corrispondente di valore autonomizzato o, come ora possiamo dire, capitale realizzato), può entrare in circolazione come capitale; come capitale, esso può diventare merce. In questo caso esso è capitale prestato a interesse. La forma della sua circolazione, o dello scambio cui va soggetto, si presenta allora come specificamente diversa da quella finora considerata. Noi abbiamo visto come il capitale si ponga sia nella determinazione della merce, sia nella determinazione del denaro; ma ciò accade solo in quanto entrambi si presentano come momenti della circolazione del capitale, nei quali esso alternativamente si realizza. Essi sono soltanto suoi modi di esistenza transitori e continuamente riprodotti, momenti del suo processo vitale. Ma il capitale in quanto capitale non è esso stesso diventato un momento della circolazione, cioè il capitale stesso come merce. La merce non è stata venduta come capitale; né il denaro lo è stato come capitale. In sintesi: né la merce né il denaro — e noi a rigore dobbiamo considerare soltanto l'ultimo come la forma adeguata — sono entrati in circolazione come valori che fruttano profitto.
Maclaren afferma:
«Mr. Tooke, Mr. Fullarton e Mr. Wilson ritengono che il denaro possieda valore intrinseco come una merce, e che si scambi con le merci in relazione a quel valore, e non semplicemente in relazione alla domanda di monete in quel momento; ed essi suppongono, insieme al dr. Smith, che le esportazioni di metalli preziosi sono fatte senza alcun riguardo allo stato della moneta circolante, per alleggerire la bilancia dei pagamenti internazionali, e per pagare le merci come il grano che abbia avuto una domanda improvvisa, e che essi vengono prelevati dal fondo che non fa parte della circolazione interna, né influisce sui prezzi, ma è riservato per questi scopi ... È difficile spiegare in quale maniera i metalli preziosi che essi dicono essere riservati per tale scopo, e che non influiscono sui prezzi, possano sfuggire alle leggi dell'offerta e della domanda, e sebbene esistano nella forma di denaro che giace inutilizzato, e mentre si sa che serve a fare acquisti, non è nemmeno impiegato per quello scopo e non influenza i prezzi, data la possibilità di essere impiegato in questa maniera. La risposta è la seguente: la riserva di metalli preziosi in questione rappresenta una eccedenza di capitale e non una eccedenza di entrate, e non è quindi utilizzabile semplicemente per incrementare la domanda di merci, salvo la condizione di incrementare anche l'offerta. Il capitale in cerca di impiego non è una pura aggiunta alla domanda potenziale della società. Esso non può essere risolto in moneta circolante. Se esso tende ad alzare i prezzi attraverso la domanda, tende anche ad abbassarli attraverso un'offerta corrispondente. Il denaro, come titolo per il capitale, non è semplicemente un potere d'acquisto — esso acquista solamente in rapporto alla vendita, e infine va all'estero in cambio di merci straniere piuttosto che spendere se stesso come mera aggiunta alla moneta circolante nel paese. Il denaro, come titolo per il capitale, non entra mai sul mercato per essere scambiato con merci, perché il
suo scopo è di riprodurre merci: è soltanto il denaro che rappresenta il consumo che può in fondo influenzare i prezzi» («Economist», 15 maggio 1858)198.
«Mr. Ricardo sosteneva che i prezzi dipendessero dalla quantità relativa del mezzo circolante e rispettivamente delle merci, che i prezzi aumentassero solamente in seguito a un deprezzamento del mezzo circolante, cioè in seguito ad un'eccessiva abbondanza di esso rispetto alle merci, che essi diminuissero o per una riduzione nella quantità del mezzo circolante, o per un incremento relativo nello stock di merci generali che esso fa circolare. Secondo Mr. Ricardo, tutto il metallo prezioso e tutta la moneta aurea del paese devono essere ritenuti mezzo circolante, e se questo aumenta senza un aumento corrispondente delle merci, il mezzo circolante si deprezza, e diventa più vantaggioso esportare metalli preziosi anziché merci. D'altra parte, se un cattivo raccolto o qualsiasi calamità provocano una grande distruzione di merci senza alcun mutamento corrispondente nella quantità della moneta circolante, il mezzo circolante, la cui quantità era proporzionata al mercato delle merci già stimate piuttosto che a quello delle merci improvvisamente ridotte di prezzo, diventa a sua volta eccessivo o 'deprezzato', e deve essere diminuito tramite l'esportazione prima che possa essere ripristinato il suo valore. In conformità a questa opinione sulla circolazione che è alla base della teoria di Lord Overstone, l'offerta del mezzo di circolazione o currency è sempre suscettibile di infiniti incrementi quantitativi, e diminuisce in valore in rapporto a quell'incremento; e può essere riportato al proprio valore solo esportando la parte sovrabbondante. Di conseguenza, qualsiasi emissione di carta- moneta, che potrebbe riempire il vuoto causato dall'esportazione di metallo prezioso, e prevenire cosi la caduta «naturale» dei prezzi altrimenti certa, viene considerata dalla scuola di Ricardo una interferenza nelle leggi economiche che regolano il prezzo, e una deviazione dai principi che dovrebbero necessariamente regolare un mezzo di circolazione puramente metallico» (Le).
198 Cfr. «The Economista, voi. XVI, N. 768, May 15, 1858, p. 537, recensione al libro di J. MAcLAREN, A Sketch ofthe history of Currency ecc., London 1858