F. Engels

Prefazione

 

Finalmente mi è concesso di fornire al pubblico questo terzo Libro dell'opera principale di Marx, la conclusione della sua parte teorica. Quando, nel 1885, vide la luce il secondo Libro, pensavo che il terzo avrebbe presentato soltanto difficoltà tecniche, con l'eccezione, è vero, di alcune sezioni di grande importanza. Così era in realtà; tuttavia, delle difficoltà che mi avrebbero riservato appunto queste sezioni, le più importanti dell'opera, come degli ostacoli d'altro genere che dovevano tanto ritardare il completamento del volume, allora non avevo la minima idea.

Prima e più di tutto mi disturbò una persistente debolezza della vista, che per anni ridusse al minimo il tempo da me dedicato allo scrivere, e che tuttora solo eccezionalmente mi permette di prendere in mano la penna alla luce artificiale. Vennero poi altri lavori ai quali non potevo sottrarmi: riedizioni e traduzioni di lavori precedenti di Marx e miei, quindi revisioni, prefazioni, integrazioni, spesso impossibili senza nuovi studi, ecc. In primo luogo, l'edizione inglese del primo Libro, del cui testo sono in ultima istanza responsabile e che perciò mi ha portato via molto tempo. Chi ha seguito in una certa misura l'enorme sviluppo della letteratura socialista internazionale durante l'ultimo decennio e, in particolare, il numero delle traduzioni di precedenti lavori di Marx e miei, mi darà ragione se mi rallegro che il numero delle lingue per le quali potevo rendermi utile al traduttore e quindi avevo il dovere di non sottrarmi ad una revisione della sua opera sia molto limitato. Ma lo sviluppo della letteratura socialista non era che un sintomo del corrispondente sviluppo dello stesso movimento operaio internazionale. E questo mi imponeva nuovi doveri.

Dai primi giorni della nostra attività pubblica, una buona parte del lavoro di raccordo fra i movimenti socialisti ed operai nei diversi paesi era venuto a pesare su Marx e me. Questo lavoro crebbe col rafforzarsi del movimento nel suo insieme; mentre però, anche in questo, Marx si era assunto fino alla morte l'onere maggiore, in seguito il lavoro sempre crescente ricadde solo sulle mie spalle. Ed è vero che nel frattempo i rapporti diretti fra i singoli partiti operai nazionali sono diventati la regola e, per fortuna, sempre più lo diventano, ma ciò non toglie che al mio aiuto si ricorra tuttora molto più spesso di quanto, nell'interesse dei miei lavori teorici, mi sarebbe gradito. D'altra parte, per chi come me è stato attivo per oltre cinquant'anni in questo movimento, i lavori che ne conseguono sono un dovere irrecusabile, da assolvere senza indugio. Come nel secolo XVI, così nei nostri tempi agitati, nel campo degli interessi pubblici i teorici puri non si trovano ormai che dal lato della reazione, e appunto perciò questi signori non sono nemmeno in senso proprio dei teorici, ma dei puri e semplici apologeti di quest'ultima.

Il fatto che abiti a Londra implica che questi rapporti di partito si svolgano per lo più in forma epistolare d'inverno, in gran parte in forma personale diretta d'estate. Di qui, come dalla necessità di seguire il corso del movimento in un numero sempre crescente di paesi e in una gamma di organi di stampa in ancora più forte espansione, mi è derivata l'impossibilità di portare a termine lavori che non tollerano interruzioni altro che nei mesi invernali, soprattutto nel primo trimestre di ogni anno. Quando si sono lasciati indietro i settant'anni, le fibre connettive del cervello lavorano con una certa, penosa lentezza; le interruzioni nel corso di lavori teorici difficili non si superano più con la facilità e la prontezza di un tempo. Ne risultò che il lavoro di un inverno, se non pienamente completato, era per la maggior parte da rifare nell'inverno successivo; appunto ciò che avvenne specialmente per la sezione più difficile, la quinta.

Come il lettore vedrà dalle avvertenze che seguono, il lavoro redazionale fu essenzialmente diverso da quello per il Libro II. Del III, infatti, esisteva soltanto un primo abbozzo, per giunta estremamente lacunoso. Di regola, gli inizi di ogni sezione vi erano elaborati con una certa cura e, in generale, anche stilisticamente rifiniti. Ma quanto più si procedeva innanzi, tanto più la stesura diventava sommaria e lacunosa, tanto più conteneva digressioni su punti secondari emersi nel corso dell'indagine la cui versione definitiva era rinviata a un ordinamento successivo della materia, tanto più si allungavano, aggrovigliandosi, i periodi nei quali si esprimevano i pensieri buttati giù in statu nascendi. In vari punti, la grafia e il testo tradiscono fin troppo chiaramente l'insorgere e svilupparsi graduale delle crisi, derivanti da eccesso di lavoro, che resero prima sempre più difficile all'Autore, poi, ad intervalli, del tutto impossibile, un lavoro indipendente. E come stupirsene? Fra il 1863 e il 1867, Marx aveva non solo completato in abbozzo gli ultimi due libri del Capitale, e in stesura definitiva, il primo, ma anche svolto il gigantesco lavoro connesso alla fondazione e alla crescita dell'Associazione internazionale dei lavoratori. Intanto, però, già nel 1864 e 1865, si erano manifestati gravi sintomi di quei disturbi ai quali si deve se Marx non diede egli stesso l'ultima mano ai Libri II e III.

Cominciai il mio lavoro dettando l'intero manoscritto, dall'originale anche per me spesso decifrabile solo a fatica, in una copia leggibile: cosa che mi portò via non poco tempo. Solo dopo potè avere inizio il vero e proprio lavoro di redazione, che ho limitato allo stretto necessario, conservando il più possibile, dove lo permetteva la chiarezza, il carattere del primo abbozzo e non sopprimendo neppure ripetizioni isolate là dove, come di solito in Marx, il tema è affrontato da un angolo ogni volta diverso, o riesposto in altra forma. Dove le mie varianti o aggiunte non sono di natura puramente redazionale, o dove sono stato costretto a rielaborare il materiale documentario fornito da Marx svolgendolo in conclusioni mie anche se mantenute il più possibile nello spirito di Marx, l'intero brano è posto fra parentesi quadre e indicato con le mie iniziali. Nelle note a pie pagina, qua e là mancano le parentesi; dove però alla fine stanno le mie iniziali, sono io responsabile dell'intera nota.

Nel manoscritto, com'è naturale in un primo abbozzo, si trovano numerosi rinvii a punti da sviluppare in seguito, senza che la promessa venga in tutti i casi mantenuta. Io li ho lasciati così com'erano, perché mostrano i propositi dell'Autore circa gli sviluppi futuri dell'opera.

E veniamo ai particolari.

Per la prima sezione, il manoscritto di base era utilizzabile solo con molte riserve. Subito all'inizio, vi si affronta l'intero calcolo matematico del rapporto fra saggio di plusvalore e saggio di profitto (che costituisce il nostro capitolo III), mentre il tema svolto nel nostro capitolo I vi è trattato solo in seguito ed occasionalmente. Qui mi vennero in aiuto due inizi di rifacimento, ciascuno di 8 pagine in folio, anch'essi però non elaborati in modo del tutto organico. Di essi si compone l'attuale capitolo I. Il capitolo II è tratto dal manoscritto di base. Per il capitolo III, esisteva tutta una serie di elaborazioni matematiche incompiute, ma anche un intero quaderno, pressoché completo, che risale agli anni Settanta e traduce in equazioni il rapporto tra saggio di plusvalore e saggio di profitto. Il mio amico Samuel Moore ', che aveva pure fornito la maggior parte della traduzione inglese del primo Libro, si assunse di elaborare per me questo quaderno, compito al quale, da vecchio matematico di Cambridge, era assai meglio preparato. In base al suo riassunto, e utilizzando qua e là il manoscritto di base, ho completato il capitolo III. Del IV non esisteva che il titolo. Data però l'importanza cruciale del punto ivi trattato: Influenza della rotazione sul saggio di profitto, l'ho io stesso elaborato, ragione per cui l'intero capitolo figura nel testo fra parentesi quadre. E qui risultò che, in realtà, la formula del capitolo III per il saggio di profitto aveva bisogno, per assumere validità generale, di una modifica. Dal capitolo V in poi, il manoscritto di base è l'unica fonte per il resto della sezione, sebbene anche in questa siano state necessarie numerosissime varianti e integrazioni.

Per le tre sezioni successive mi sono potuto attenere quasi completamente, a prescindere dalla redazione stilistica, al manoscritto originale. Si sono dovuti elaborare, in armonia con il capitolo IV da me inserito, singoli punti per lo più relativi agli effetti della rotazione: anch'essi sono posti fra parentesi e indicati con le mie iniziali.

La sezione V, che tratta anche il tema più complesso dell'intero libro, fu quella che presentò le difficoltà maggiori. E proprio qui Marx fu sorpreso da una delle gravi crisi di salute alle quali si è accennato. Non esiste perciò un abbozzo completo, e neppure uno schema le cui linee dorsali vadano sviluppate, ma solo un inizio di stesura, che non di rado si risolve in un cumulo disordinato di notizie, osservazioni, materiali in forma di estratti. Cercai dapprima di completare questa sezione, come in certo qual modo mi era riuscito con la prima, riempiendone i vuoti ed elaborandone i frammenti appena appena accennati, in modo da offrire almeno approssimativamente tutto ciò che l'Autore si era proposto di dare. Mi ci provai almeno tre volte senza mai riuscirvi, e il tempo così perduto è una delle cause principali del ritardo. Finalmente, capii che su questa via non sarei approdato a nulla. Avrei dovuto riprendere in mano tutta la ponderosa letteratura sulla materia e, alla fin fine, avrei prodotto qualcosa che non era il libro di Marx. Non mi restò che cedere, sotto certi aspetti, le armi limitandomi all'ordinamento il più possibile accurato di quanto esisteva e all'aggiunta delle integrazioni resesi strettamente indispensabili. Così, nella primavera del 1893, il lavoro principale per questa sezione giunse a termine.

Dei capitoli singoli, erano sostanzialmente elaborati quelli dal XXI al XXIV. I capitoli XXV e XXVI richiesero un vaglio della parte documentaria e l'inserzione di materiale reperibile altrove. Si poterono dare i capitoli XXVII e XXIX quasi interamente com'erano nel manoscritto, mentre si dovette qua e là riordinare in altro modo il capitolo XXVIII. Le vere e proprie difficoltà cominciarono tuttavia con il capitolo XXX. Di qui innanzi, infatti, si trattava di mettere nel giusto ordine non solo il materiale documentario, ma anche il corso del pensiero, interrotto ad ogni momento da incisi, digressioni, ecc., e proseguito, spesso in modo del tutto incidentale, in altra sede. Così, mediante spostamenti e soppressioni di passi poi utilizzati altrove, vide la luce il capitolo XXX. Il capitolo XXXI era di nuovo elaborato in forma più organica. Ma ecco seguire nel manoscritto un brano piuttosto lungo, intitolato «La confusione» e composto di puri e semplici estratti delle relazioni parlamentari sulle crisi del 1848 e del 1857, in cui sono riunite e brevemente commentate qua e là in forma umoristica le deposizioni di ventitré uomini d'affari e scrittori di economia, in particolare su denaro e capitale, deflusso dell'oro, superspeculazione, ecc. Qui vuoi gli interpellanti, vuoi gli interpellati, sostengono più o meno tutte le tesi allora correnti sul rapporto fra denaro e capitale, e Marx si proponeva di trattare criticamente e satiricamente la «Confusione» qui apparsa in luce in merito a che cosa, sul mercato monetario, sia denaro e che cosa capitale. Dopo ripetuti tentativi, mi sono convinto che la redazione di questo capitolo è impossibile; il materiale, soprattutto quello con glosse di Marx, ha trovato impiego dove se ne presentava il nesso.

Segue, passabilmente in ordine, quanto da me collocato nel capitolo XXXII, ma, subito dopo, una nuova infornata di estratti dalle relazioni parlamentari su ogni possibile argomento toccato in questa sezione, misti a più o meno lunghe osservazioni dell'Autore. Verso la fine, gli estratti e le glosse si concentrano sempre più sul movimento dei metalli monetari e del corso dei cambi, per concludersi di nuovo con ogni sorta di aggiunte e integrazioni. Le «condizioni precapitalistiche» (capitolo XXXVI) erano invece completamente elaborate.

Con tutto questo materiale, dalla «Confusione» in poi, e nei limiti in cui non era già stato collocato in passi precedenti, ho messo insieme i capitoli XXXIII-XXXV. La cosa, naturalmente, avvenne non senza forti interpolazioni da parte mia per stabilire un nesso fra i diversi temi. Quando non siano di natura puramente formale, esse sono indicate espressamente come mie. In tal modo, mi è infine riuscito di inserire nel testo tutte le enunciazioni dell'Autore in qualche modo attinenti alla materia; non ne è rimasto fuori che una piccola parte degli estratti, che o si limitava a ripetere ciò che si era già dato altrove, o toccava punti non approfonditi nel manoscritto.

La sezione sulla rendita fondiaria era elaborata in modo assai più completo, anche se per nulla ordinata, come risulta dal fatto stesso che, nel capitolo XLIII (nel manoscritto, ultima parte della sezione sulla rendita), Marx trovi necessario ricapitolare in breve il piano dell'intera sezione. E questo era tanto più desiderabile, ai fini della edizione in volume, in quanto il manoscritto comincia con il capitolo XXXVII, al quale seguono i capitoli XLV-XLVII e solo dopo i XXXVIII-XLIV. Il lavoro maggiore fu imposto dalle tabelle sulla rendita differenziale II, e dalla scoperta che nel capitolo XLIII non era stato esaminato il terzo caso di questo tipo di rendita, la cui trattazione avrebbe dovuto trovare posto appunto lì.

Per questa sezione sulla rendita fondiaria, Marx aveva compiuto negli anni Settanta studi speciali e affatto nuovi. Per anni ed anni, aveva studiato nella lingua originale le rilevazioni statistiche resesi indispensabili in Russia dopo la «riforma» del 1861 e altre pubblicazioni sulla proprietà fondiaria poste a sua disposizione da amici russi nella completezza massima desiderabile, ne aveva fatto degli estratti e si proponeva di utilizzarli nel rimaneggiamento di questa sezione. Data la varietà delle forme sia della proprietà fondiaria, sia dello sfruttamento dei produttori agricoli in Russia, nella sezione sulla rendita fondiaria la Russia avrebbe dovuto occupare lo stesso posto che, nel Libro I, l'Inghilterra per il lavoro salariato nell'industria. Purtroppo, l'attuazione di questo piano gli restò preclusa.

Infine la settima sezione esisteva in stesura completa, ma solo come primo abbozzo, i cui periodi interminabilmente intricati dovevano prima essere scomposti per poter diventare pubblicabili. Dell'ultimo capitolo non v'era che l'inizio. Qui dovevano essere presentate come risultato effettivo del periodo capitalistico le tre grandi classi della società capitalistica evoluta — proprietari fondiari, capitalisti, operai salariati — corrispondenti alle tre grandi forme di reddito: rendita fondiaria, profitto, salario, e la lotta di classe necessariamente connessa alla loro esistenza. Marx soleva riservarsi per la redazione definitiva, poco prima della stampa, simili ricapitolazioni e conclusioni, poiché allora gli ultimi avvenimenti storici gli fornivano con regolarità immancabile, nella più tempestiva attualità, la riprova dei suoi sviluppi teorici.

Le citazioni e il materiale documentario sono, come già nel Libro II, notevolmente più scarni che nel I. I rinvìi al Libro I recano i numeri di pagina della 2" e 3" edizione. Là dove, nel manoscritto, si richiamano enunciazioni teoriche di economisti precedenti, di solito si dà soltanto il nome; il luogo doveva essere citato all'atto dell'elaborazione finale. Naturalmente, ho dovuto lasciare il tutto così com'era. Delle relazioni parlamentari, solo quattro ne sono state, ma abbastanza largamente, utilizzate. Sono le seguenti:

1. Reports from Committees (della Camera dei Comuni), voi. Vili, Commercial Distress, Voi. II, Pari I, 1847/48, Minutes of Evidence. Citati come: Commercial Distress, 1847/48.

2. Secret Committee of the House of Lords on Commercial D¡stress 1847, Report printed 1848, Evidence printed 1857 (in quanto ritenuta, nel 1848, troppo compromettente). Citato come: Commercial Distress, 1848-1857.

3. Report: Bank Acts, 1857. - Idem, 1858. — Relazioni della commissione della Camera dei Comuni sugli effetti dei Bank Acts del 1844 e 1845, con deposizioni di testi. Citato come: Bank Acts (a volte anche Bank Committee) 1857 e, rispettivamente, 1858.

Al quarto libro — la storia delle teorie sul plusvalore (Theorien über den Mehrwert) — porrò mano non appena, in qualche modo, mi sarà possibile Nella Prefazione al secondo Libro del Capitale avevo dovuto regolare i conti con i signori che, all'epoca, levavano alte strida perché pretendevano di aver trovato «in Rodbertus la fonte segreta e un precursore più grande di Marx». Avevo offerto loro l'occasione di mostrare «quali servizi possa rendere l'economia rodbertusiana», sfidandoli a provare «come non solo senza violazione della legge del valore, ma anzi sulla sua base, possa e debba formarsi un eguale saggio medio di profitto». Gli stessi signori che allora, per ragioni soggettive od oggettive, ma, di norma, tutto fuorché scientifiche, strombazzavano il buon Rodbertus come stella economica di primaria grandezza, sono rimasti tutti senza eccezione in debito di una risposta. Altri, invece, hanno creduto che della questione valesse la pena di occuparsi.

Nella sua critica del Libro II («Conrads Jahrbücher» XI, 5, 1885, pp. 452-465), il prof. W. Lexis affronta il problema, anche se non intende dargli diretta soluzione. Scrive:

«La soluzione di quella contraddizione» (fra la legge del valore di Ricardo-Marx e l'eguaglianza dei saggi medi di profitto) «è impossibile se si considerano isolatamente i diversi generi di merci, e se il loro valore deve essere eguale al loro valore di scambio, e questo eguale o proporzionale al loro prezzo».

Essa è possibile, a suo parere, soltanto se

«si rinunzia per i singoli generi di merci alla misura del valore secondo il lavoro, e si considera soltanto la produzione di merci nel l'insieme e la sua distribuzione fra le classi nel loro complesso dei capitalisti e dei lavoratori [...]. Del prodotto totale, la classe operaia non riceve che una certa parte [...]. L'altra, che tocca ai capitalisti, forma nel senso di Marx il plusprodotto, e quindi anche [...] il plusvalore. I membri della classe capitalistica si dividono fra loro questo plusvalore complessivo, non secondo il numero di operai da essi impiegato, ma in proporzione alla grandezza del capitale apportato da ciascuno, includendo nel calcolo, come valore capitale, anche il suolo». I valori ideali di Marx, determinati dalle unità lavorative incorporate nelle merci, non corrispondono ai prezzi, ma possono «essere considerati il punto di partenza di uno spostamento che conduce ai prezzi effettivi. Questi ultimi sono determinati dal fatto che capitali di pari grandezza esigono guadagni di pari grandezza». Ne segue che alcuni capitalisti riceveranno per le loro merci prezzi più alti dei loro valori ideali, altri prezzi più bassi. «Ma poiché all'interno della classe capitalistica le decurtazioni e le maggiorazioni in plusvalore si compensano a vicenda, la grandezza complessiva del plusvalore è la medesima che se tutti i prezzi fossero proporzionali ai valori ideali delle merci».

Come si vede, la questione, se qui è lungi dall'essere risolta, è tuttavia nell'insieme posta correttamente, benché in modo sommario e semplicistico. E in realtà, è più di quanto fossimo in diritto di aspettarci da chi, come l'autore, si presenta con un certo orgoglio come «economista volgare» ; è anzi stupefacente, se paragonato alle imprese — di cui parleremo in seguito — di altri economisti volgari. L'economia volgare dell'autore è, in effetti, di natura peculiare. Egli dice che l'utile di capitale può, certo, essere dedotto alla maniera di Marx, ma nulla impone di adottare una simile idea. Al contrario. L'economia volgare ha, sembra, una spiegazione almeno più plausibile:

«I venditori capitalistici, il produttore di materia prima, il fabbricante, il grossista, il dettagliante, guadagnano nei loro affari in quanto ciascuno vende più caro di quanto non acquisti, dunque eleva di una certa percentuale il prezzo di costo della propria merce. Solo l'operaio non è in grado di imporre un simile incremento di valore; la sua condizione sfavorevole nei confronti del capitalista lo costringe a vendere il suo lavoro al prezzo che gli è costato, cioè per l'importo dei mezzi di sussistenza necessari [...]. Perciò queste maggiorazioni di prezzo conservano nei confronti dei salariati compratori tutta la loro importanza, e determinano il trasferimento alla classe capitalistica di una parte del valore del prodotto totale».

Ora non è necessario un grande sforzo cerebrale per capire che questa spiegazione «volgar-economica» del profitto capitalistico giunge in pratica agli stessi risultati della teoria marxiana del plusvalore; che gli operai, stando alla tesi sostenuta da Lexis, si trovano esattamente nella stessa «condizione sfavorevole» che in Marx; che sono allo stesso modo vittime di un raggiro, perché ogni non-lavoratore può vendere al disopra del prezzo, ma il lavoratore no; e che, sulla base di questa teoria, si può costruire un socialismo volgare plausibile almeno come quello costruito qui in Inghilterra sulle fondamenta della teoria del valore d'uso e dell'utilità marginale di Jevons-Menger Anzi, sospetto addirittura che il signor George Bernard Shaw, se venisse a conoscenza di questa teoria del profitto, sarebbe capace di afferrarla con tutt'e due le mani e, dando il benservito a Jevons e a Karl Menger, edificare di bel nuovo su questa pietra la chiesa fabiana dell'avvenire

In realtà, questa teoria non è che una trascrizione di quella marxiana. Da dove infatti si attingono tutte le maggiorazioni di prezzo? Dal «prodotto totale» dei lavoratori. E ciò in quanto la merce «lavoro» o, come dice Marx, forza lavoro, deve necessariamente vendersi al disotto del suo prezzo. Giacché, se la proprietà comune a tutte le merci è d'essere vendute più care dei costi di produzione, ma se il lavoro, unica merce a fare eccezione, è sempre venduto soltanto ai costi di produzione, allora esso si vende al disotto del prezzo che costituisce la regola in questo volgar-economico mondo. L'extraprofitto che di conseguenza tocca al capitalista, rispettivamente alla classe capitalistica, consiste appunto in ciò, e, in ultima istanza, può veder la luce soltanto perché l'operaio, dopo aver riprodotto l'equivalente del prezzo del suo lavoro, deve produrre un'ulteriore quota di prodotto per la quale non è pagato — plusprodotto, prodotto di lavoro non retribuito, plusvalore. Nella scelta delle sue espressioni, W. Lexis va con i piedi di piombo. Non dice mai chiaro e netto che le idee di cui sopra sono le sue; se però lo sono, è evidente che qui non ci troviamo di fronte ad uno dei soliti economisti volgari di cui egli stesso dice che, agli occhi di Marx, «nella migliore delle ipotesi sono soltanto degli irrimediabili mentecatti», ma ad un marxista camuffato da economista volgare. Se tale camuffatura sia avvenuta consciamente o inconsciamente, è una questione psicologica che qui non ci interessa. Chi la volesse approfondire, cercherà forse di spiegare in pari tempo come sia stato possibile che, a un certo punto, un uomo assennato come W. Lexis indubbiamente è abbia ancora difeso3 un'assurdità quale il bimetallismo.

Il primo che si sia veramente sforzato di rispondere alla questione è stato il dott. Conrad Schmidt in Die Durchschnittsprofitrate auf Grundlage des Marx'schen Werthgesetzes (Il saggio medio di profitto in base alla legge del valore di Marx), Dietz, Stoccarda, 1889. Schmidt cerca di mettere d'accordo i dettagli della formazione del prezzo di mercato sia con la legge del valore, sia col saggio medio di profitto. Nel suo prodotto il capitalista industriale riceve, primo, l'equivalente del capitale anticipato; secondo, un plusprodotto per il quale non ha pagato nulla. Ma, per ottenere questo plusprodotto, deve anticipare nella produzione il suo capitale; deve cioè impiegare una data quantità di lavoro oggettivato per potersi appropriare il plusprodotto. Per il capitalista, dunque, quel suo capitale anticipato è la quantità di lavoro oggettivato socialmente necessaria per procurargli quel plusprodotto. Lo stesso vale per ogni altro capitalista industriale. Ora, poiché i prodotti si scambiano, conformemente alla legge del valore, in proporzione al lavoro socialmente necessario per la loro produzione, e poiché per il capitalista il lavoro necessario alla produzione del suo plusprodotto è appunto il lavoro passato accumulato nel suo capitale, ne segue che i plusprodotti si scambiano in proporzione ai capitali richiesti per produrli, non in proporzione al lavoro effettivamente incorporato in essi. La parte spettante ad ogni unità di capitale è quindi pari alla somma di tutti i plusvalori prodotti, divisa per la somma dei capitali a tal fine impiegati. Di conseguenza, eguali capitali fruttano in lassi di tempo eguali profitti eguali, e ciò avviene in quanto il prezzo di costo del plusprodotto così calcolato, cioè il profitto medio, viene aggiunto al prezzo di costo del prodotto pagato, e a questo prezzo accresciuto si vendono sia il prodotto pagato, sia il prodotto non pagato. Il saggio medio di profitto è bell'e nato, sebbene, come ritiene Schmidt, i prezzi medi delle merci singole vengano determinati in base alla legge del valore.

La costruzione è estremamente ingegnosa, è del tutto conforme al modello hegeliano; ha però in comune con la maggioranza delle tesi hegeliane il fatto di non essere giusta. Plusprodotto o prodotto pagato, non fa differenza: se la legge del valore deve valere immediatamente anche per i prezzi medi, l'uno e l'altro devono vendersi in ragione del lavoro socialmente necessario richiesto e consumato per produrli. La legge del valore si rivolge a priori contro l'idea, ereditata dal modo di pensare capitalistico, che il lavoro passato accumulato, in cui consiste il capitale, non sia semplicemente una determinata somma di valore finito, ma, in quanto fattore della produzione e della formazione del profitto, sia anche creatore di valore, dunque sorgente di più valore di quanto non ne abbia esso stesso; stabilisce che tale proprietà spetta unicamente al lavoro vivo. Che i capitalisti si attendano profitti eguali in ragione della grandezza dei loro capitali; che perciò nell'anticipazione di capitale vedano una specie di prezzo di costo del loro profitto, è noto. Ma, servendosi di questa concezione per mettere d'accordo con la legge del valore i prezzi calcolati secondo il saggio medio di profitto, C. Schmidt sopprime la stessa legge del valore, in quanto vi incorpora come fattore codeterminante un'idea che è con essa in antitesi completa.

O il lavoro accumulato è generatore di valore accanto al lavoro vivo, e allora la legge del valore cade.

O non è generatore di valore, e allora la dimostrazione di Schmidt non si concilia con la legge del valore.

Schmidt è stato spinto fuori strada, quando stava già per risolvere il problema, dalla convinzione di dover trovare una formula possibilmente matematica che permettesse di dimostrare la congruenza del prezzo medio di ogni singola merce con la legge del valore. Ma se, a due passi dalla meta, ha preso una via sbagliata, il resto del contenuto del suo opuscolo mostra con quale acume egli abbia tratto conclusioni ulteriori dai primi due libri del Capitale. A lui spetta l'onore di aver trovato in modo indipendente sia la giusta spiegazione, che Marx dà nella terza sezione del Libro III, della tendenza fino allora inesplicabile alla caduta del saggio di profitto, sia la derivazione del profitto commerciale dal plusvalore industriale, e tutta una serie di rilievi sull'interesse e la rendita fondiaria, con cui si anticipano argomenti svolti da Marx nelle sezioni quarta e quinta del Libro III.

In un lavoro successivo (cfr. «Neue Zeit», 1892-1893, nn. 3 e 4) 4 Schmidt cerca un'altra via di soluzione. È la concorrenza, essa dice, a produrre il saggio medio di profitto, facendo si che capitali emigrino da rami di produzione con sottoprofitto in rami con sovraprofitto. Ora, che la concorrenza sia la grande livellatrice dei profitti, non è una novità. Ma Schmidt cerca di dimostrare che questo livellarsi dei profitti equivale alla riduzione del prezzo di vendita delle merci prodotte in eccesso alla misura di valore che la società può pagare per esse secondo la legge del valore. Perché neppure questa via potesse condurre alla meta, risulta a sufficienza dalle spiegazioni date da Marx nel presente volume.

Dopo Schmidt, il problema è stato affrontato da P. Fireman (cfr. «Conrads Jahrbücher», III serie, vol. 3, p. 793)5. Non mi addentrerò nei suoi rilievi su alcuni aspetti dell'esposizione di Marx. Essi poggiano sul malinteso che Marx voglia definire là dove argomenta, e che, in generale, vi si debbano ricercare definizioni fisse e bell'e pronte, valide una volta per tutte. Ora è evidente che là dove le cose e le loro reciproche relazioni sono viste non già come fisse, ma come mutevoli, anche i loro riflessi mentali, i concetti, soggiacciono a mutamento e trasformazione; non li si incapsula in rigide definizioni, ma li si sviluppa nel loro processo storico, e rispettivamente logico, di formazione. Sarà chiaro, di conseguenza, perché Marx, all'inizio del Libro I, dove parte dalla produzione semplice delle merci come presupposto storico per giungere da questa base al capitale, prenda le mosse appunto dalla merce semplice e non da una forma concettualmente e storicamente secondaria, la merce già modificata in senso capitalistico; cosa che, beninteso, Fireman non può assolutamente capire. Questo ed altri punti marginali, che potrebbero offrire il destro a molteplici obiezioni, preferiamo lasciarli da parte per andare subito al nocciolo della questione.

Mentre all'autore la teoria insegna che, a saggio di plusvalore dato, il plusvalore è proporzionale al numero delle forze lavoro impiegate, l'esperienza gli mostra che, a saggio medio di profìtto dato, il profitto è proporzionale alla grandezza del capitale totale impiegato. Fireman spiega questo fatto nel senso che il profitto è un fenomeno puramente convenzionale (il che in lui significa: appartenente ad una formazione sociale data, con cui sta o cade); la sua esistenza è legata esclusivamente al capitale; e questo, se è abbastanza forte per assicurarsi un profitto, è però costretto dalla concorrenza ad assicurarselo a un saggio uniforme per tutti i capitali. Senza eguaglianza del saggio di profitto, una produzione capitalistica è per l'appunto impossibile; premessa questa forma di produzione, per ogni capitalista singolo la massa del profitto, a saggio dato, può dipendere soltanto dalla grandezza del suo capitale. D'altra parte, il profitto consiste in plusvalore, in lavoro non retribuito. E come avviene la trasformazione del plusvalore, la cui grandezza dipende dallo sfruttamento del lavoro, nel profitto, la cui grandezza dipende dalla grandezza del capitale a ciò richiesto?

«Semplicemente così : in tutti i rami di produzione in cui il rapporto [...] fra capitale costante e variabile è più alto, le merci si vendono al disopra del proprio valore, ma questo significa altresì che, nei rami di produzione in cui il rapporto fra capitale costante e variabile = c : v è più basso, le merci si vendono al disotto del proprio valore, e soltanto là dove il rapporto c : v rappresenta una data grandezza media le merci si vendono al loro vero valore [...]. È questa incongruenza di singoli prezzi coi loro rispettivi valori una smentita del principio del valore? Niente affatto. Poiché i prezzi di alcune merci salgono al disopra del valore nella stessa misura in cui i prezzi di altre merci scendono al disotto del valore, la somma totale dei prezzi resta pari alla somma totale dei valori [...] 'In ultima istanza' dunque l'incongruenza svanisce». Questa incongruenza è una «perturbazione»; tuttavia, «nelle scienze esatte si è soliti non considerare mai come smentita di una legge una perturbazione calcolabile».

Si confronti quanto sopra con i passi corrispondenti del capitolo IX, e si vedrà che Fireman ha davvero messo il dito sul punto cruciale. Ma quanti altri anelli intermedi fossero richiesti, anche dopo questa scoperta, per giungere alla soluzione completa ed evidente del problema, risulta dall'accoglienza immeri- tatamente fredda in cui si è imbattuto il suo pur così importante articolo. Benché ad interessarsi del problema fossero in molti, tutti temevano di scottarcisi le dita. E ciò si spiega non solo con la forma incompiuta in cui Fireman lasciò la sua scoperta, ma con le innegabili manchevolezze sia della sua interpretazione della teoria di Marx, sia della critica generale da lui rivolta ad essa sulla base di tale interpretazione.

Quando si offre la possibilità di rendersi ridicoli in questioni serie, il sign. prof. Julius Wolf di Zurigo non manca mai all'appuntamento. Tutto il problema si risolve, egli ci racconta («Con-rads Jahrbücher», III serie, t. II, pp. 352 segg.) partendo dal plusvalore relativo. La produzione del plusvalore relativo si basa sull'aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile:

«Un più in capitale costante ha come presupposto un più in forza produttiva dei lavoratori. Ma poiché questo più in forza produttiva (attraverso il ribasso dei mezzi di sussistenza) si porta dietro un più in plusvalore, ecco stabilirsi il rapporto diretto fra plusvalore crescente e parte crescente del capitale costante nel capitale totale. Un più in capitale costante implica un più in forza produttiva del lavoro. Perciò, a capitale variabile immutato e capitale costante crescente, secondo Marx il plusvalore deve aumentare. È questo il problema che ci è stato posto».

È vero che Marx, in cento passi del Libro I, ha detto esattamente l'opposto; è vero che l'affermazione secondo cui, per Marx, il plusvalore relativo aumenterebbe, diminuendo il capitale variabile, nella stessa proporzione in cui aumenta il capitale costante, è così sbalorditiva da impedire il ricorso ad espressioni parlamentari; è vero che il sign. Julius Wolf mostra ad ogni riga di non aver capito nulla, né relativamente né in assoluto, sia del plusvalore assoluto che del plusvalore relativo; è vero che, stando alle sue stesse parole,

«qui sembra davvero, a primo acchito, di aggirarsi in un groviglio di assurdità», il che, per inciso, è l'unica cosa vera in tutto l'articolo. Ma che importa? Il sign. Julius Wolf va così fiero della sua geniale scoperta, che non può non tributare postumi elogi a Marx, e celebrare una così insondabile scemenza come una

«nuova prova dell'acume e della lungimiranza con cui è stato concepito il suo» (di Marx) «sistema dell'economia politica».

Ma c'è ancora di meglio; il sign. Wolf scrive:

«Ricardo ha sostenuto sia che a eguale impiego di capitale, eguale plusvalore (profitto), sia che a eguale dispendio di lavoro, eguale plusvalore (quanto a massa). E il problema era: come l'una cosa si concilia con l'altra? Marx, tuttavia, non ha riconosciuto il problema in questa forma. Ha indubbiamente dimostrato (nel terzo Libro) che la seconda proposizione non consegue incondizionatamente dalla legge del valore, anzi contraddice alla sua legge del valore; quindi [...] va assolutamente respinta».

E si mette a indagare chi di noi due, io o Marx, si sia sbagliato. Che egli stesso vagoli nell'errore non gli passa, inutile dirlo, neppure per la testa.

Farei torto ai lettori, e misconoscerei tutta la comicità della situazione, se sciupassi una parola su questa perla di brano. Aggiungo soltanto: con la stessa audacia con cui già allora Wolf poteva dire che cosa «abbia indubbiamente dimostrato Marx nel terzo libro», ora coglie l'occasione per riferire un «pettegolezzo da professori» secondo cui il succitato articolo di Conrad Schmidt «sarebbe stato ispirato direttamente da Engels». Signor Julius Wolf! Nel mondo in cui Lei vive e briga, può essere costume che chi ufficialmente pone un problema ad altri renda edotti in segreto gli amici personali della sua soluzione. Che Lei ne sia capace, non stento a crederlo. Ma che, nel mondo che io frequento, non ci si abbassi a simili miserie, glielo dimostra questa prefazione.

Marx era appena morto, che Achille Loria si precipitava a pubblicare su di lui un articolo nella «Nuova Antologia» (aprile 1883): prima di tutto, una biografia fitta di inesattezze; poi, ima critica dell'attività pubblica, politica e letteraria, di Marx. La concezione materialistica della storia secondo Marx viene qui falsata e stravolta con una sicurezza che tradisce un grande obiettivo. E questo obiettivo è stato raggiunto: nel 1886

Lo stesso sign. Loria ha pubblicato un volume, La teoria economica della costituzione politica, in cui annuncia all'attonito mondo contemporaneo, come sua scoperta personale, la teoria marxiana della storia da lui così totalmente e volutamente sfigurata nel 1883. È vero che qui la teoria di Marx precipita a un livello piuttosto filisteo; le testimonianze e le esemplificazioni storiche brulicano di svarioni che non si lascerebbero passare ad uno scolaro di quarta; ma che importa? La scoperta che sempre e dovunque le situazioni e gli eventi politici trovano spiegazione nelle corrispondenti condizioni economiche, non è stata fatta da Marx nel 1845, ma, come vi si dimostra, dal sign. Loria nel 1886. Questo, almeno, egli ha felicemente dato da bere ai suoi compatrioti e, da quando il suo libro è uscito in Francia, ad alcuni francesi, e può andarsene tronfio in giro per l'Italia come autore di una nuova teoria della storia che fa epoca, fin quando i socialisti di laggiù non troveranno

Il tempo di strappare all'illustre Loria le penne di pavone rubate.

Ma questo non è che un piccolo saggio dello stile del signor Loria. Egli infatti ci assicura che tutte le dottrine di Marx si basano su un «consaputo sofisma», e che Marx non rifuggiva dall'uso di paralogismi neppure «sapendoli tali». E, dopo aver fornito ai suoi lettori, con tutta una serie di banali storielle, il necessario per vedere in Marx un arrivista à la Loria che mette in scena le sue trovate con gli stessi squallidi mezzucci da ciarlatano del nostro professore patavino, può confidare loro un importante segreto; e così riconduce anche noi al saggio di profitto.

Dice il sign. Loria: secondo Marx, la massa di plusvalore prodotta in un'impresa industriale capitalistica (plusvalore che il sign. Loria identifica con il profitto) dipende dal capitale variabile in essa impiegato, perché il capitale costante non crea profitto. Ora ciò contraddice alla realtà. Infatti, nella pratica, il profitto dipende non dal capitale variabile, ma dal capitale totale. Ed è lo stesso Marx a riconoscerlo (I, capitolo XI) e ad ammettere che in apparenza i fatti contraddicono la sua teoria. Ma come risolve, egli, la contraddizione? Rinviando i suoi lettori ad un volume successivo non ancora uscito. Di questo volume, Loria aveva già detto in precedenza ai suoi lettori di non credere che Marx avesse mai pensato, neppure per un momento, di scriverlo, ed ora esclama trionfante:

«Non a torto io ho affermato che questo secondo volume con cui Marx minaccia continuamente i suoi avversari senza che esso appaia, questo volume può essere un ingegnoso spediente ideato dal Marx a sostituzione degli argomenti scientifici».

E con chi non sia ancora convinto che Marx si trova allo stesso livello di ciarlataneria scientifica dell'illustre Loria, si butta insieme il ranno e il sapone.

Tanto, dunque, abbiamo imparato: secondo il sign. Loria, la teoria del plusvalore di Marx è assolutamente incompatibile col fatto dell'eguaglianza del saggio generale di profitto. Ma ecco uscire il Libro II e, con esso, il quesito posto da me pubblicamente proprio su questo punto7. Se il sign. Loria fosse stato uno di noi sprovveduti tedeschi, si sarebbe trovato, in certa qual maniera, in imbarazzo. Ma è un prode meridionale; viene da un clima caldo, in cui, come egli può testimoniare, la spregiudicatezza è in certo modo una condizione naturale. Il problema del saggio di profitto è reso di pubblica ragione. Il sign. Loria lo ha pubblicamente dichiarato insolubile. E appunto perciò supererà se stesso dandone pubblicamente la soluzione.

Questo miracolo si compie nei «Conrads Jahrbücher», Nuova serie, vol. XX, pp. 272 segg. , in un articolo di commento al citato scritto di Conrad Schmidt. Dopo aver appreso da quest'ultimo come si genera il profitto commerciale, improvvisamente tutto gli appare chiaro:

«Poiché la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro avvantaggia i capitalisti che investono nei salari una parte maggiore del loro capitale, da questi capitalisti avvantaggiati il capitale improduttivo» (leggi : commerciale) «può esigere un più elevato interesse» (leggi : profitto) «e creare l'eguaglianza fra i singoli capitalisti industriali [...]. Così per es., se i capitalisti industriali A, B, C, impiegano nella produzione 100 giornate lavorative ciascuno e, rispettivamente, 0, 100, 200 capitale costante, e se il salario per 100 giornate lavorative racchiude in sé 50 giornate lavorative, ogni capitalista riceverà un plusvalore di 50 giornate lavorative, e il saggio di profitto sarà per il primo del 100%, per il secondo del 33,3% e per il terzo del 20%. Ma se un quarto capitalista D accumula un capitale improduttivo di 300, che estorce da A un interesse» (profitto) «del valore di 40 giornate lavorative, e da B un interesse di 20 giornate lavorative, il saggio di profitto dei capitalisti A e B scenderà al 20% come quello di C, e D con un capitale di 300 otterrà un profitto di 60, cioè un saggio di profitto del 20%, come tutti gli altri capitalisti».

Con così sorprendente destrezza, in un battibaleno, l'illustre Loria risolve lo stesso problema che dieci anni prima aveva dichiarato insolubile. Purtroppo, egli non ci ha svelato il segreto di ciò che conferisce al «capitale improduttivo» il potere non soltanto di carpire agli industriali un extraprofitto, eccedente il saggio di profitto medio, ma anche di conservarlo, esattamente come il proprietario terriero intasca come rendita fondiaria il profitto eccedente del fittavolo. In realtà, così i commercianti preleverebbero dagli industriali un tributo del tutto analogo alla rendita fondiaria, e determinerebbero in tal modo il saggio medio di profitto. Ora è vero che, come tutti più o meno sanno, nella produzione del saggio generale di profitto il capitale commerciale è un fattore dei più essenziali. Ma solo un avventuriero letterario che, in fondo al cuore, se ne infischi dell'intera economia può permettersi di sostenere che esso abbia il magico potere di succhiarsi tutto il plusvalore eccedente il saggio generale di profitto, per giunta prima che questo si sia formato, e di convertirlo in rendita fondiaria per se stesso; come se non bastasse, senza aver bisogno allo scopo di possedere nemmeno un pezzetto di terra. Non meno stupefacente è l'asserzione che il capitale commerciale ha il potere di scoprire quegli industriali il cui plusvalore raggiunge appena appena il saggio medio di profitto, e ascrive a proprio onore di alleviare in certo qual modo la sorte di tali vittime infelici della legge del valore di Marx vendendo loro gratuitamente i prodotti, perfino senza alcuna provvigione. Che prestigiatori si dev'essere, per immaginare che Marx abbia bisogno di così miserabili giochetti!

Ma in tutto il suo splendore brilla l'illustre Loria solo se raffrontato ai suoi competitori nordici, per es. al sign. Julius Wolf, che pure non è l'ultimo venuto. Che povero bercione sembra costui, anche nel suo grosso volume Sozialismus und kapitalistische Gesellschaftsordnung (Socialismo e ordine sociale capitalistico)accanto all'italiano! Com'è goffo, sarei quasi tentato di dire modesto, di fronte alla nobile arroganza con la quale il Maestro8 dichiara come cosa del tutto naturale che Marx, né più né meno di qualunque altro, era un sofista, un paralogista, un fanfarone, un ciarlatano, esattamente come lo stesso sign. Loria; che Marx, ogni qual volta si trova a mal partito, ciancia di rinviare la conclusione delle sue teorie ad un volume successivo che sa molto bene di non potere e non volere sfornare! Improntitudine illimitata unita ad anguillesca capacità di sgusciare attraverso situazioni insostenibili, eroico disdegno delle pedate ricevute, arte di cogliere al volo e fare proprie le creazioni altrui, invadente ciarlataneria pubblicitaria, organizzazione della fama mediante cricche di compari; chi lo eguaglia in tutto ciò?

L'Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui vi spuntò l'alba del mondo moderno, essa ha prodotto grandiose figure di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma l'era della decadenza e della dominazione straniera le ha pure lasciato delle maschere teatrali classiche, fra cui due tipi particolarmente elaborati : Sganarello e Dulcamara. Ne vediamo incarnata la classica unità nel nostro illustre Loria.

Per finire, devo condurre i miei lettori oltre oceano. A New York, anche il sign. dott. George C. Stiebeling ha trovato una soluzione, per giunta straordinariamente semplice, al problema: tanto semplice, che nessuno né là né qui l'ha mai voluta riconoscere, cosa che l'ha mandato su tutte le furie strappandogli, in una serie interminabile di opuscoli e articoli di rivista ai due lati dell'Atlantico, le più amare rampogne per simile ingiustizia. Gli si è detto, è vero, nella «Neue Zeit2 che la sua soluzione si basa interamente su un errore di calcolo. Ma poteva ciò turbarlo? Anche Marx ha commesso errori di calcolo; eppure, in molti punti ha ragione. Vediamo un po' in che cosa consiste la soluzione di Stiebeling.

«Suppongo che due fabbriche lavorino per lo stesso tempo con lo stesso capitale, ma con un diverso rapporto fra capitale costante e variabile. Pongo = y il capitale totale (c + v) e indico con x la differenza nel rapporto fra capitale costante e variabile. Nella fabbrica I, y è = c + v; nella fabbrica II, è = (c - x) + (v + x). Dunque, nella fabbrica I il saggio di plusvalore è = p/v e nella fabbrica II = p/v + x. Chiamo profitto (π) il plusvalore totale (p) di cui, nel periodo di tempo dato, aumenta il capitale totale y, ovvero c + v; dunque π = p. Ne risulta che nella fabbrica I il saggio di profitto è = π /p, ovvero p/c + v, e nella fabbrica II egualmente, π /y, ovvero p/(c-x) + (v + x), cioè egualmente p/c + v. Il […] problema, quindi, si risolve come segue: in base alla legge del valore, impiegando per lo stesso tempo lo stesso capitale, ma diverse quantità di lavoro vivo, dalla variazione del saggio di plusvalore consegue un eguale saggio medio di profitto» (G. C. Stiebeling, Das Werthgesetz und die Profittate. [Leichtfassliche Auseinandersetzung einiger wissenschaftlichen Fragen. Mit einem polemischen Vorwort], New York, John Heinrich [1890]).

Per quanto bello e illuminante sia il calcolo surriportato, siamo tuttavia costretti a porre al sign. dott. Stiebeling una domanda: come sa egli che la somma del plusvalore prodotto dalla fabbrica I è esattamente eguale alla somma del plusvalore prodotto nella II? Di c, v, y e x, dunque di tutti gli altri fattori del calcolo, egli dice espressamente che hanno in tutt'e due le fabbriche la stessa grandezza; su p, silenzio assoluto. Ma quella identità di grandezza non segue affatto dall'indicare con p le due quantità di plusvalore qui presenti. È proprio questo, semmai, che si tratta di dimostrare, visto che il sign. Stiebeling procede senz'altra spiegazione a identificare anche il profitto π col plusvalore p. Ora, delle due l'una: o i due p sono eguali, ogni fabbrica produce una eguale massa di plusvalore, e dunque, a parità di capitale totale, una massa eguale di profitto, e allora il sign. Stiebeling ha dato a priori per ammesso ciò che deve ancora dimostrare. O una fabbrica produce una somma di plusvalore superiore all'altra, e allora tutto il suo calcolo va in fumo.

Il sign. Stiebeling non ha lesinato né spese né fatiche per erigere su questo errore di calcolo intere montagne di calcoli e presentarli al pubblico. Io posso dargli la consolante assicurazione che essi sono quasi tutti egualmente sbagliati, e che là dove, in via eccezionale, non lo sono, dimostrano qualcosa di totalmente diverso da ciò ch'egli si aspetta. Così, dal confronto tra i censimenti americani del 1870 e del 1880 egli trae la prova concreta della caduta del saggio di profitto, ma ne dà una spiegazione del tutto errata e si crede in dovere di rettificare sulla scorta della prassi la «teoria di Marx» di un saggio di profitto stabile, sempre eguale a se stesso. Orbene, dalla III sezione di questo terzo volume risulta che un tale «saggio di profitto immutabile» di Marx è pura fantasticheria, e che la tendenza alla caduta del saggio di profitto si basa su cause diametralmente opposte a quelle indicate dal dott. Stiebeling. È certo che il sign. dott. Stiebeling è animato dalle migliori intenzioni, ma, quando ci si vuole occupare di problemi scientifici, bisogna prima di tutto imparare a leggere come l'autore le ha scritte le opere di cui ci si intende servire, cominciando col non vedervi cose che non contengono.

Risultato dell'intera ricerca: anche in merito alla questione di cui ci occupiamo, è ancora soltanto la scuola di Marx ad avere prodotto qualcosa di conclusivo. Leggendo questo terzo Libro, Fireman e Conrad Schmidt potranno, ciascuno per la sua parte, sentirsi pienamente soddisfatti del lavoro compiuto.

Londra, 4 ottobre 1894.

F. Engels