Parte Seconda

Capitolo XXIX

ELEMENTI DEL CAPITALE BANCARIO

Il capitale bancario consta: 1) di denaro contante, oro o banconote, 2) di titoli. Questi, a loro volta, si possono dividere in due parti: effetti di commercio, cambiali, che fluttuano, giungono di quando in quando a scadenza, e il cui sconto costituisce la peculiare attività del banchiere; e valori pubblici, come titoli di Stato, buoni del tesoro, azioni di ogni genere, insomma titoli fruttiferi, che però si distinguono essenzialmente dalle cambiali.

Vi si possono includere anche le ipoteche. Il capitale composto di questi elementi materiali si divide, a sua volta, nel capitale d'investimento del banchiere stesso e nei depositi che costituiscono il suo banking capital o capitale preso in prestito. Nelle banche che emettono biglietti, vi si aggiungono le banconote. Lasciando per ora da parte i depositi e le banconote, è chiaro che gli elementi reali del capitale bancario — denaro, cambiali, titoli in deposito — non mutano per il fatto di rappresentare capitale proprio del banchiere o depositi, capitale altrui. La stessa suddivisione rimarrebbe, sia che egli eserciti la sua attività con capitale proprio, sia che la eserciti soltanto con capitale depositato presso di lui.

La forma del capitale produttivo d'interesse porta con sé che ogni reddito monetario determinato e regolare appaia come interesse di un capitale, provenga o no da un capitale. Prima si converte il reddito monetario in interesse, poi con l'interesse si trova anche il capitale da cui esso proviene. Allo stesso modo, con il capitale produttivo d'interesse ogni somma di valore appare come capitale quando non è spesa come reddito; appare cioè come somma principale (principal) in antitesi all'interesse, possibile o reale, che essa può fruttare.

Prendiamo come esempi il debito pubblico e il salario.

Lo Stato deve pagare ogni anno ai suoi creditori una certa somma di interessi per capitale ricevuto in prestito. Qui il creditore non può disdire l'impegno assunto, ma può vendere il credito, il titolo di proprietà su di esso. Il capitale in quanto tale è stato divorato, speso dallo Stato: non esiste più. Tutto ciò che il creditore dello Stato possiede è 1) un titolo di credito sullo Stato, poniamo di 100 Lst.; 2) il diritto, derivante da questo titolo, ad una certa somma, poniamo 5 Lst. pari al 5%, prelevata sulle entrate statali, cioè sul gettito annuo delle imposte, 3) la possibilità di vendere il titolo di credito di 100 Lst., come meglio crede, ad altre persone. Se il saggio d'interesse è del 5%, e supposta la garanzia dello Stato, il possessore A del titolo di credito può venderlo a B, di regola, per 100 Lst.; infatti, poco importa a B prestare 100 Lst. al 5% annuo o, viceversa, assicurarsi un tributo annuo dello Stato di 5 Lst. mediante pagamento di 100 Lst. Ma, in tutti questi casi, il capitale di cui il versamento compiuto dallo Stato è considerato il rampollo (interesse), resta capitale illusorio, fittizio. Non è soltanto che la somma prestata allo Stato non esiste più. È che non è mai stata destinata ad essere spesa, investita come capitale; e solo grazie al suo investimento come capitale si sarebbe potuta convertire in valore che si conserva. Per il creditore originario A, la parte a lui spettante del gettito annuo delle imposte rappresenta l'interesse del suo capitale, così come per l'usuraio rappresenta l'interesse del suo capitale la parte che gli tocca del patrimonio dello spendaccione, benché in nessuno dei due casi la somma di denaro prestata sia stata spesa come capitale. La possibilità di vendere il titolo di credito sullo Stato rappresenta per A il possibile riflusso della somma principale. Quanto a B, dal suo punto di vista privato il suo capitale è investito come capitale produttivo di interesse. In realtà egli si è limitato a subentrare al posto di A, e ne ha acquistato il titolo di credito sullo Stato. Per quanto possano moltiplicarsi queste transazioni, il capitale del debito pubblico resta un capitale puramente fittizio, e non appena i titoli divenissero invendibili, l'apparenza di questo capitale svanirebbe. Ciò non toglie, come vedremo subito, che questo capitale fittizio abbia il suo proprio movimento.

In contrasto con il capitale del debito pubblico, dove un meno appare come capitale — d'altronde, in generale, il capitale produttivo d'interesse è padre di ogni sorta di forme assurde, cosicché per es. nel modo di ragionare del banchiere i debiti possono apparire come merci —, consideriamo ora la forza lavoro. Il salario viene qui concepito come interesse, quindi la forza lavoro come il capitale fruttante questo interesse. Se per es. il salario di un anno è = 50 Lst. e il saggio di interesse è del 5%, la forza lavoro annua viene equiparata a un capitale di 1.000 Lst.

L'assurdità del modo di ragionare capitalistico tocca qui il vertice; anziché spiegare la valorizzazione del capitale con lo sfruttamento della forza lavoro, si fa l'inverso, cioè si spiega la produttività della forza lavoro identificando la forza lavoro stessa con la mistica entità nota come capitale produttivo d'interesse...

Costituire capitale fittizio si chiama capitalizzare. Si capitalizza ogni entrata regolare periodica, calcolandola in base al saggio medio d'interesse come ciò che un capitale prestato a questo saggio frutterebbe...

Così ogni legame con l'effettivo processo di valorizzazione del capitale va, fino all'ultima traccia, perduto, e si consolida la rappresentazione del capitale come un automa che si valorizza da sé.

Anche quando il titolo di credito — la carta valore — non rappresenta capitale puramente illusorio come nel caso del debito pubblico, il valore capitale di questa carta è puramente illusorio. Si è visto in precedenza come il sistema creditizio generi capitale associato. Le carte valori passano per titoli di proprietà che rappresentano questo capitale. Le azioni di società ferroviarie, minerarie, di navigazione, etc., rappresentano capitale reale, cioè il capitale investito ed operante in queste imprese, ovvero la somma che gli azionisti hanno anticipato perché fosse spesa in tali imprese come capitale; il che non esclude affatto che rappresentino anche pure e semplici frodi. Ma questo capitale non esiste due volte, una come valore capitale dei titoli di proprietà, delle azioni, e l'altra come il capitale realmente investito o da investire in quelle imprese. Esiste solo nella seconda forma, e l'azione non è che un titolo di proprietà, pro rata, sul plusvalore da realizzare per suo mezzo. A può vendere questo titolo a B, e B venderlo a C. Queste transazioni non cambiano nulla alla natura della cosa. In tal caso, A o B ha convertito il suo titolo in capitale, ma C ha convertito il suo capitale in semplice titolo di proprietà sul plusvalore che ci si attende dal capitale azionario.

Il movimento autonomo del valore di questi titoli di proprietà, non solo degli effetti pubblici ma anche delle azioni, conferma l'apparenza che essi costituiscano capitale reale accanto al capitale o al diritto al capitale su cui sono eventualmente il titolo giuridico. Diventano cioè merci, il cui prezzo ha un movimento e un modo di fissarsi suoi propri. Il loro valore di mercato riceve una determinazione diversa dal loro valore nominale, senza che il valore del capitale reale cambi (benché possa variare la sua valorizzazione). Da un lato il loro valore di mercato oscilla con l'ammontare e la sicurezza dei proventi ai quali essi danno un titolo giuridico...

L'opposto accade se il rendimento dell'impresa decresce. Il valore di mercato di questi titoli è in parte speculativo, perché non è soltanto determinato dal provento reale, ma anche da quello atteso, calcolato in anticipo. Tuttavia, supposta costante la valorizzazione del capitale reale o, se non esiste capitale, come nel caso del debito pubblico, supposto fissato per legge e, inoltre, sufficientemente sicuro il rendimento annuo, il prezzo di questi titoli sale e scende in ragione inversa del saggio d'interesse...

In tempi di stretta del mercato monetario, questi titoli subiscono perciò un duplice ribasso: primo, perché il saggio d'interesse sale; secondo, perché vengono gettati in massa sul mercato per realizzarli in denaro. Tale ribasso avviene indipendentemente dal fatto che il reddito assicurato da quei titoli a chi li possiede sia costante, come nei valori di Stato, o che la valorizzazione del capitale reale che essi rappresentano possa risentire di un perturbamento del processo di riproduzione, come nel caso di imprese industriali. In quest'ultima eventualità, alla citata svalorizzazione se ne aggiunge solo un'altra. Passata la bufera, i titoli risalgono al livello precedente, a meno che rappresentino imprese fallite o speculative. Il loro deprezzamento nei periodi di crisi agisce come potente mezzo di centralizzazione del patrimonio monetario...

In realtà, tutti questi titoli non rappresentano che diritti e titoli giuridici accumulati su produzione futura, il cui valore monetario o il cui valore capitale o non rappresenta proprio nessun capitale, come nel caso del debito pubblico, oppure è regolato indipendentemente dal valore del capitale reale che essi rappresentano.

In tutti i paesi a produzione capitalistica esiste una massa enorme di capitale cosiddetto produttivo d'interesse, o moneyed capital, in questa forma. E per accumulazione del capitale denaro non si deve in gran parte intendere altro che accumulazione di questi titoli sulla produzione, accumulazione del loro prezzo di mercato, del loro illusorio valore capitale.

Una parte del capitale bancario è dunque investito in titoli cosiddetti fruttiferi, produttivi d'interesse, e costituisce essa stessa una parte del capitale di riserva che non interviene nelle vere e proprie operazioni di banca ed è composta in enorme maggioranza di cambiali, cioè di promesse di pagamento da parte di capitalisti industriali o di commercianti. Per il prestatore di denaro, queste cambiali sono titoli fruttiferi; cioè, quando le compra, egli ne deduce l'interesse per il tempo che le separa dalla scadenza. È questo che si chiama scontare. Dipende quindi dal saggio di sconto di volta in volta vigente a quanto ammonterà la detrazione dalla somma che la cambiale rappresenta.

L'ultima parte del capitale del banchiere, infine, consiste nella sua riserva monetaria di oro o banconote. I depositi, a meno d'essere vincolati per contratto, sono sempre a disposizione dei depositanti e vanno soggetti a continue fluttuazioni. Ma, ritirati dagli uni, vengono sostituiti dagli altri, cosicché in tempi di normale decorso degli affari l'ammontare medio generale subisce solo lievi oscillazioni.

I fondi di riserva delle banche, in paesi a produzione capitalistica sviluppata, esprimono sempre in media la quantità di denaro esistente come tesoro, e una parte di questo tesoro consiste a sua volta in carta, in puri e semplici buoni su oro, che però non hanno alcun valore intrinseco. Perciò la maggior parte del capitale bancario è puramente fittizia, e si compone di titoli di credito (cambiali), fondi pubblici (che rappresentano capitale non più esistente) e azioni (buoni su ricavi futuri). E qui non si deve dimenticare che il valore monetario del capitale rappresentato da questa massa di carte valori nella cassaforte del banchiere, anche se si tratta di buoni su ricavi sicuri (come per i fondi pubblici) o di titoli di proprietà su capitale reale (come per le azioni), è del tutto fittizio e regolato in modo indipendente dal valore del capitale reale da esse almeno in parte rappresentato; ovvero, quando non rappresentano capitale, ma puri e semplici titoli su ricavi, il titolo sul medesimo ricavo si esprime in un capitale denaro fittizio continuamente variabile. Si aggiunga poi che in gran parte questo capitale fittizio del banchiere non rappresenta capitale suo, ma capitale del pubblico che deposita presso di lui, con o senza interessi...

Eccettuato il fondo di riserva, che si contrae o si espande secondo le esigenze della circolazione effettiva, in realtà questi depositi si trovano sempre, da un lato, in mano ai capitalisti industriali e ai commercianti le cui cambiali vengono con essi scontate, e ai quali con essi si fanno anticipi, dall'altro in mano ai trafficanti in titoli (agenti di borsa), o a privati che hanno venduto i loro effetti, o al governo (nel caso di buoni del tesoro e nuovi prestiti). I depositi stessi hanno una duplice funzione. Da un lato, come si è appena detto, vengono dati in prestito come capitale fruttifero, quindi non si trovano nelle casse delle banche, ma figurano unicamente nei loro libri come avere del depositante; dall'altro funzionano come pure e semplici partite contabili, in quanto i crediti reciproci dei depositanti si compensano mediante assegni sui loro depositi e così vengono reciprocamente annullati; dove è del tutto indifferente che i depositi giacciano presso il medesimo banchiere, in modo che questi si limiti a cancellare l'uno contro l'altro i diversi conti, o che ciò avvenga tramite più banche che si scambiano i loro assegni e non si pagano che le differenze.

Con lo sviluppo del capitale produttivo d'interesse e del sistema del credito, ogni capitale sembra raddoppiarsi, e a volte triplicarsi, a causa dei diversi modi in cui lo stesso capitale o anche solo gli stessi titoli di credito appaiono in mani diverse sotto forme diverse...

La maggior parte di questo «capitale denaro» è puramente fittizia. Eccettuato il fondo di riserva, tutti i depositi non sono che crediti sul banchiere, che però non esistono mai in deposito. In quanto servono alle operazioni di giro, fungono da capitale per i banchieri dopo che questi li hanno dati in prestito. I banchieri si pagano a vicenda i rispettivi buoni su depositi inesistenti, mediante cancellazione reciproca di questi crediti...

In questo sistema creditizio, tutto si raddoppia e si triplica trasformandosi in pura fantasticheria...

 

Capitolo XXX

CAPITALE DENARO E CAPITALE REALE I

Le sole questioni difficili nelle quali ora ci imbattiamo, in relazione al sistema del credito, sono le seguenti:

Primo: L'accumulazione del capitale denaro in senso proprio. Fino a che punto essa è, e fino a che punto non è, segno di accumulazione reale del capitale, cioè di riproduzione su scala allargata? La cosiddetta pletora di capitale, espressione sempre usata soltanto a proposito del capitale produttivo di interesse, cioè del capitale denaro, è solo un modo particolare di esprimere la sovrapproduzione industriale, o costituisce un fenomeno particolare accanto ad essa? Coincide questa pletora, questa sovra-offerta di capitale denaro, con una presenza di masse monetarie stagnanti (lingotti, denaro aureo, banconote), cosicché questo eccesso di denaro effettivo sia espressione e forma fenomenica di una tale pletora di capitale da prestito?

E secondo: Fino a che punto la stretta monetaria, cioè la penuria di capitale da prestito, esprime una penuria di capitale reale (capitale merce e capitale produttivo)? Fino a che punto, d'altra parte, coincide con una penuria di denaro in quanto tale, penuria di mezzi di circolazione?

Nella misura in cui finora abbiamo considerato la forma specifica dell'accumulazione del capitale denaro, e del patrimonio monetario in genere, essa si è risolta in accumulazione di titoli di proprietà sul lavoro. L'accumulazione del capitale del debito pubblico, come si è visto, non significa altro che aumento di una categoria di creditori dello Stato aventi diritto a prelevare per sé certe somme sul gettito delle imposte...

In questo fatto, che perfino un'accumulazione di debiti possa apparire come accumulazione di capitale, si manifesta in forma estrema il capovolgimento che ha luogo nel sistema creditizio. Questi titoli di credito rilasciati per capitale originariamente preso in prestito e speso ormai da tempo, questi duplicati cartacei di capitale distrutto, per chi li possiede funzionano come capitale, in quanto sono merci vendibili e, quindi, possono essere riconvertiti in capitale.

Certo, i titoli di proprietà su imprese sociali, ferrovie, miniere, etc., sono in realtà, come pure abbiamo visto, titoli su capitale reale. Ma non permettono in alcun modo di disporre di questo capitale, che non può essere ritirato; dànno soltanto diritto ad una parte del plusvalore da ricavarne. Tuttavia, questi titoli diventano egualmente duplicati cartacei del capitale reale [...] Diventano rappresentanti nominali di capitali inesistenti. Giacché il capitale reale esiste accanto ad essi, e non cambia minimamente di mano per il fatto che cambino di mano questi duplicati. Diventano forme del capitale produttivo d'interesse non soltanto perché assicurano certi ricavi, ma anche perché se ne può, vendendoli, ottenere il rimborso come valori capitali.

Nella misura in cui l'accumulazione di questi titoli indica un'accumulazione di ferrovie, miniere, navi a vapore, etc., essa esprime un allargamento del processo di riproduzione reale [...]. Ma, in quanto duplicati che sono essi stessi negoziabili come merci e quindi circolano come valori capitali, essi sono illusori, e il loro importo di valore può scendere e salire indipendentemente dal movimento di valore del capitale reale su cui sono titoli. Il loro importo di valore, cioè la loro quotazione in borsa, tende necessariamente a salire con la caduta del saggio d'interesse, in quanto essa, a prescindere dai movimenti propri del capitale denaro, è semplice conseguenza della caduta tendenziale del saggio di profitto; cosicché questa ricchezza immaginaria, secondo l'espressione di valore per ognuna delle sue parti aliquote di determinato valore nominale originario, già per questa ragione si espande nel corso di sviluppo della produzione capitalistica...

Nella misura in cui il credito svolge un ruolo diretto nel processo di riproduzione, ciò di cui l'industriale o il commerciante ha bisogno, quando vuole farsi scontare una cambiale o intende contrarre un prestito, non sono né azioni, né titoli di Stato. Ciò di cui egli ha bisogno è denaro. Impegna dunque o vende quei titoli se non può procurarsi altrimenti il denaro. È l'accumulazione di questo capitale da prestito che qui dobbiamo considerare e, in particolare, l'accumulazione del capitale denaro prestabile...

Analizziamo dunque prima di tutto il credito commerciale, cioè il credito che i capitalisti impegnati nella riproduzione si accordano reciprocamente. Esso costituisce la base del sistema creditizio. Suo rappresentante è la cambiale, titolo di credito con termine di pagamento stabilito, document of deferred payment. Ognuno fa credito con una mano e riceve credito con l'altra. Prescindiamo a tutta prima completamente dal credito bancario, che costituisce un momento totalmente ed essenzialmente diverso. Nella misura in cui queste cambiali circolano a loro volta fra gli stessi commercianti come mezzi di pagamento, mediante girata dall'uno all'altro, dove però non interviene lo sconto, non si ha che trasferimento del titolo di credito da A a B, e il nesso non ne risulta assolutamente alterato...

In merito al ciclo di questo credito puramente commerciale, si devono osservare due cose:

Primo: il saldo di questi titoli di credito reciproci dipende dal riflusso del capitale, cioè da M-D, che è soltanto differito... Questi pagamenti dipendono dalla fluidità della riproduzione, cioè del processo di produzione e di consumo. Ma poiché i crediti sono reciproci, la capacità di pagamento di ciascuno dipende nello stesso tempo da quella di un altro...

Secondo: Questo sistema creditizio non elimina la necessità di pagamenti in contanti. Prima di tutto c'è sempre da pagare ln contanti una gran parte delle spese, salari, imposte, etc. Poi, per es., B, che ha ricevuto da C in pagamento una cambiale, prima che questa scada deve a sua volta pagare a D una cambiale giunta a scadenza e, a questo scopo, disporre di denaro contante...

I limiti di questo credito commerciale, considerato a sé, sono:

1) la ricchezza degli industriali e dei commercianti, cioè il capitale di riserva di cui dispongono per il caso di riflussi differiti; 2) questi stessi riflussi. Può accadere o che i riflussi vengano differiti, o che nel frattempo i prezzi delle merci scendano, o che la merce risulti temporaneamente invendibile perché il mercato è saturo. Quanto più la cambiale è a lunga scadenza, tanto maggiore, prima di tutto, dev'essere il capitale di riserva, e tanto maggiore è la possibilità che, in seguito a caduta dei prezzi o ad ingorgo dei mercati, il riflusso rimpicciolisca o ritardi; in secondo luogo, i rientri sono tanto più insicuri, quanto più la transazione originaria è stata determinata da una speculazione sul rialzo o sul ribasso dei prezzi delle merci. Ma è chiaro che, con lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, e quindi della produzione su vasta scala, 1) i mercati si estendono e si allontanano dal luogo di produzione, 2) i crediti perciò devono prolungarsi, quindi 3) l'elemento speculativo deve sempre più dominare le transazioni. La produzione su vasta scala e per mercati lontani mette l'intero prodotto nelle mani del commercio; ma è impossibile che il capitale della nazione si raddoppi in modo che il commercio sia di per sé in grado di acquistare con capitale proprio l'intero prodotto nazionale, e di rivenderlo. Il credito è qui perciò indispensabile; un credito il cui volume cresce con l'accrescersi dell'ammontare di valore della produzione, e la cui durata aumenta con l'aumentare della distanza dei mercati. V'è qui azione reciproca. Lo sviluppo del processo di produzione allarga il credito, il credito porta all'ampliamento delle operazioni industriali e mercantili.

Se consideriamo questo credito isolatamente dal credito bancario, è chiaro che esso cresce col volume del capitale industriale stesso. Capitale da prestito e capitale industriale sono qui identici; i capitali prestati sono capitali merce, destinati o a consumo individuale ultimo o a sostituzione degli elementi costanti del capitale produttivo. Ciò che qui appare come capitale prestato, è dunque sempre capitale che si trova in una determinata fase del processo di riproduzione, ma passa per compravendita da una mano all'altra, mentre l'equivalente rispettivo viene pagato dal compratore solo più tardi, a scadenza convenuta...

Ciò che viene qui dato in prestito non è dunque mai capitale inattivo, ma capitale che deve cambiare forma nella mano del suo possessore, che esiste in una forma nella quale è per lui puro e semplice capitale merce, cioè capitale che dev'essere riconvertito e, almeno in un primo tempo, trasformato in denaro. Qui dunque è la metamorfosi della merce che viene mediata dal credito; non solo M-D, ma anche D-M, e l'effettivo processo di produzione. Molto credito entro il ciclo riproduttivo — prescindendo dal credito bancario — non significa molto capitale inattivo offerto in prestito e in cerca di investimento vantaggioso, ma forte impiego di capitale nel processo di riproduzione. Qui, perciò, il credito media, 1), se si considerano i capitalisti industriali, il passaggio del capitale industriale da una fase all'altra, il legame tra le sfere di produzione reciprocamente connesse ed intrecciate; 2) se si considerano i commercianti, il trasporto e il passaggio delle merci da una mano all'altra, fino alla loro vendita definitiva per denaro o al loro scambio con un'altra merce.

Il massimo del credito equivale qui al più completo impiego del capitale industriale, cioè alla tensione massima della sua forza riproduttiva senza riguardo ai limiti del consumo. Questi limiti del consumo vengono allargati dalla tensione del processo di riproduzione stesso; da un lato, essa aumenta il consumo di reddito da parte di operai e capitalisti; dall'altro equivale a incremento del consumo produttivo.

Finché il processo di riproduzione resta fluido, e quindi è assicurato il riflusso, questo credito dura e si estende, e la sua estensione si basa sull'estensione del processo di riproduzione stesso. Non appena subentra un ristagno causato da ritardo nei riflussi, ingorgo dei mercati, caduta dei prezzi, v'è sovrabbondanza di capitale industriale, ma in una forma in cui non può assolvere la sua funzione. Massa di capitale merce, ma invendibile. Massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo per arresto della riproduzione. Il credito si contrae, i) perché questo capitale è inutilizzato, cioè ristagna in una delle sue fasi di riproduzione; perché non può completare la sua metamorfosi; 2) perché la fiducia nella fluidità del processo di riproduzione è infranta; 3) perché la domanda di questo credito commerciale decresce...

Se perciò questa espansione, o anche solo la normale intensità del processo di riproduzione, subisce un perturbamento, si ha nello stesso tempo penuria di credito; è più difficile ottenere merci a credito. Ma la richiesta di pagamento in contanti e la cautela nella vendita a credito sono particolarmente caratteristiche della fase del ciclo industriale successiva al crack. Nella crisi stessa, poiché ognuno ha da vendere e non può vendere, ma è tuttavia costretto a vendere per poter pagare, la massa non del capitale inattivo che si tratta di investire, ma del capitale frenato nel suo processo di riproduzione raggiunge il massimo proprio quando raggiunge anche il massimo la mancanza di credito (e quindi, per il credito bancario, il saggio di sconto tocca il livello più alto). Il capitale già investito è allora in realtà massicciamente inutilizzato, perché il processo di riproduzione ristagna. Le fabbriche sono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti finiti saturano come merci il mercato. Nulla è dunque più erroneo che attribuire questo stato di cose a mancanza di capitale produttivo. V'è anzi, proprio allora, eccesso di capitale produttivo, sia in rapporto alla scala normale, ma temporaneamente contratta, della riproduzione, sia in rapporto al consumo arenatosi...

La reintegrazione dei capitali investiti nella produzione dipende in gran parte dalla capacità di consumo delle classi non produttive, mentre la capacità di consumo degli operai è limitata sia dalle leggi del salario, sia dal fatto d'essere impiegati solo finché è possibile impiegarli con profitto per la classe capitalistica. La causa ultima di ogni vera crisi resta sempre la miseria e la limitatezza del consumo delle masse rispetto alla tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive come se il loro limite fosse soltanto costituito dalla capacità di consumo assoluta della società...

A questo credito commerciale si aggiunge [...] il credito monetario propriamente detto. Le anticipazioni reciproche fra industriali e commercianti si intrecciano a quelle fatte ad essi dai banchieri e dagli agenti di cambio. Nello sconto delle cambiali, l'anticipazione è soltanto nominale. Un fabbricante vende il suo prodotto contro una cambiale, che poi sconta presso un bill-broker. Questi anticipa in realtà soltanto il credito del suo banchiere, che a sua volta gli anticipa il capitale denaro dei suoi depositanti, costituiti dagli stessi industriali e commercianti ma anche da operai (tramite le casse di risparmio), da percettori di rendite fondiarie e dalle altre classi improduttive. È così eliminata per ogni fabbricante o commerciante individuale sia la necessità di un forte capitale di riserva, sia la dipendenza da effettivi riflussi. D'altra parte, l'intero processo si complica talmente, vuoi per semplice speculazione su cambiali, vuoi per operazioni mercantili aventi per scopo la pura e semplice fabbricazione di cambiali, che la parvenza di affari prosperi e di agevoli riflussi può tranquillamente sussistere dopo che i riflussi sono già da tempo avvenuti soltanto a spese di prestatori di denaro o di produttori gli uni e gli altri gabbati. Perciò gli affari appaiono sempre quasi esageratamente solidi proprio alla vigilia del crack...

Non ogni aumento del capitale denaro suscettibile d'essere prestato indica un'effettiva accumulazione di capitale o un effettivo allargamento del processo di riproduzione. Lo si vede con la massima chiarezza nella fase del ciclo industriale immediatamente successiva al superamento della crisi, quando masse di capitale da prestito giacciono inutilizzate. In tali frangenti, in cui il processo di produzione è limitato [...], in cui i prezzi delle merci toccano il punto più basso e lo spirito d'intrapresa è paralizzato, regna un basso livello del saggio d'interesse, che qui non indica se non aumento del capitale prestabile appunto a causa della contrazione e della paralisi del capitale industriale. Il fatto che da una parte, con la caduta dei prezzi delle merci, la riduzione degli scambi e la contrazione del capitale speso in salari, si richiedano meno mezzi di circolazione e, dall'altra, con l'avvenuta liquidazione dei debiti verso l'estero vuoi mediante deflusso d'oro, vuoi mediante bancarotta, non si richieda denaro addizionale per la sua funzione di moneta mondiale, e che, infine, col numero e l'ammontare delle cambiali si riduca il volume delle operazioni di sconto — tutto ciò è evidente. Perciò la domanda di capitale denaro prestabile, sia come mezzo di circolazione, sia come mezzo di pagamento (di nuovi investimenti di capitale non si parla ancora), si riduce, ed esso diviene relativamente abbondante...

Quando il processo di riproduzione ha nuovamente raggiunto lo stato di floridezza che precede la fase di estrema tensione, il credito commerciale si estende sensibilmente, e questa estensione ha di nuovo, in realtà, la «sana» base di facili riflussi e produzione allargata. In tali circostanze l'interesse, pur superando il suo minimo, è ancora basso. È questo in realtà l’unico momento in cui si possa dire che un basso saggio d'interesse e, quindi, un'abbondanza relativa di capitale da prestito coincidano con una effettiva espansione del capitale industriale. La facilità e regolarità dei riflussi, unita a un credito commerciale in espansione, assicura l'offerta di capitale da prestito nonostante la domanda aumentata, e impedisce al livello del saggio d'interesse di salire. D'altra parte, è solo adesso che si fanno avanti in misura apprezzabile i cavalieri d'industria che lavorano senza capitale di riserva o addirittura senza capitale, e quindi operano avvalendosi interamente di credito monetario. Si aggiungano poi la grande espansione del capitale fisso in ogni forma e l'apertura su vasta scala di nuove imprese a largo raggio. L'interesse raggiunge ora il suo livello medio, e tocca di nuovo il massimo non appena scoppia la nuova crisi, il credito improvvisamente cessa, i pagamenti si arrestano, il processo di riproduzione si paralizza e, con eccezioni già ricordate, alla quasi assoluta mancanza di capitale da prestito si accompagna eccesso di capitale industriale inutilizzato.

Nell'insieme, dunque, il movimento del capitale da prestito, così come si esprime nel saggio d'interesse, procede in senso opposto a quello del capitale industriale. Solo la fase in cui l'interesse basso ma superiore al minimo coincide con il «miglioramento» e la crescente fiducia dopo la crisi, e soprattutto la fase in cui esso raggiunge il suo livello medio, il punto equidistante fra minimo e massimo, solo questi due momenti esprimono il convergere di capitale da prestito abbondante e forte espansione del capitale industriale. All'inizio del ciclo industriale, invece, il basso saggio d'interesse coincide con una contrazione, e alla fine del ciclo l'alto saggio d'interesse coincide con una sovrabbondanza, di capitale industriale. Il basso saggio d'interesse che accompagna il «miglioramento» indica che il credito commerciale abbisogna solo in scarsa misura del credito bancario, in quanto basta ancora a se stesso.

Accade a questo ciclo industriale che, una volta dato il primo impulso, lo stesso circuito debba periodicamente riprodursi...

Nella fase depressiva, la produzione scende al disotto dello stadio che aveva raggiunto nel ciclo precedente, e per il quale è ora posta la base tecnica. Nella fase di prosperità — il periodo intermedio — essa si sviluppa ulteriormente su questa base. Nel periodo di sovrapproduzione e speculazione sfrenata, essa tende al massimo le forze produttive, fin oltre i limiti capitalistici del processo di produzione...

In un sistema di produzione in cui l'intero meccanismo del processo riproduttivo poggia sul credito, è chiaro che, quando il credito improvvisamente cessa e non si paga più che in contanti, deve per forza subentrare una crisi, una corsa affannosa ai mezzi di pagamento. A prima vista, l'intera crisi si rappresenta perciò soltanto come crisi creditizia e monetaria. E in realtà non si tratta che della convertibilità delle cambiali in denaro. Ma queste cambiali rappresentano in maggioranza acquisti e vendite reali, la cui estensione ben al di là dei limiti del fabbisogno sociale è, in definitiva, alla base dell'intera crisi. Una massa enorme di queste cambiali rappresenta però anche affari puramente truffaldini che vengono ora alla luce del sole ed esplodono; di più, speculazioni fatte con capitale altrui e andate a male; infine, capitali merce deprezzati o del tutto invendibili, o riflussi non più in grado di realizzarsi...

Per quanto riguarda la sovrabbondanza di capitale industriale che viene in luce nelle crisi, si deve inoltre osservare: Il capitale merce è in sé, nello stesso tempo, capitale denaro, cioè una data somma di valore espressa nel prezzo della merce. Come valore d'uso, è una determinata quantità di determinati oggetti d'uso, e nel momento della crisi questa quantità è presente in eccesso. Ma come capitale denaro in sé, come capitale denaro potenziale, esso va soggetto a costante espansione e contrazione. Alla vigilia della crisi e nel suo ambito, il capitale merce è contratto nella sua qualità di capitale denaro potenziale: rappresenta per chi lo possiede e per i suoi creditori (come pure in quanto garanzia per cambiali e prestiti) meno capitale denaro che al tempo in cui era stato comprato e in cui erano state concluse le operazioni di sconto e di pegno basate su di esso. Se tale dev'essere il senso dell'affermazione che in tempi di crisi il capitale denaro di un paese è ridotto, ciò equivale a dire che i prezzi delle merci sono caduti. D'altronde, un tale crollo dei prezzi non fa che compensare la loro precedente lievitazione.

Le entrate delle classi improduttive e di coloro che vivono di reddito fisso rimangono per lo più stazionarie durante l'aumento dei prezzi che va di pari passo con la sovrapproduzione e la sovraspeculazione. Perciò la loro capacità di consumo diminuisce relativamente, quindi diminuisce anche relativamente la loro capacità di reintegrare la parte della produzione totale che, di norma, dovrebbe entrare nel loro consumo. Anche quando rimane nominalmente la stessa, la loro domanda in realtà si riduce.

Quanto all'importazione ed all'esportazione, si deve osservare che tutti i paesi vengono coinvolti l'uno dopo l'altro nella crisi, e allora si dimostra che tutti, con poche eccezioni, hanno esportato e importato troppo, dunque la bilancia dei pagamenti è sfavorevole a tutti; non è perciò sulla bilancia dei pagamenti che verte la questione...

Ciò che in un paese appare come sovrimportazione, nell'altro appare come sovresportazione, e viceversa. Ma si è avuta in tutti i paesi (non parliamo qui di cattivi raccolti, etc., ma di crisi generale) sovrimportazione e sovresportazione, cioè sovrapproduzione stimolata dal credito e dal rialzo generale dei prezzi che lo accompagna.

Capitolo XXXI

CAPITALE DENARO E CAPITALE REALE II (Continuazione)

La conversione di denaro in capitale denaro prestabile è una storia molto più semplice che la conversione di denaro in capitale produttivo. Ma qui è necessario distinguere due cose:

1) la pura e semplice conversione di denaro in capitale da prestito;

2) la conversione di capitale o reddito in denaro, che viene poi trasformato in capitale da prestito.

È soltanto l'ultimo punto che può includere una accumulazione positiva del capitale da prestito collegata alla reale accumulazione del capitale industriale.

1. Conversione di denaro in capitale da prestito.

Abbiamo già visto come possa verificarsi un accumulo, una sovrabbondanza di capitale da prestito, che coincide con l'accumulazione produttiva nella sola misura in cui è inversamente proporzionale ad essa. Così avviene in due fasi del ciclo industriale, cioè, 1) quando il capitale industriale, nelle due forme di capitale produttivo e capitale merce, è contratto, dunque all'inizio del ciclo dopo la crisi; 2) quando comincia il miglioramento, ma il credito commerciale ricorre ancora poco al credito bancario. Nel primo caso, il capitale denaro che prima era impiegato nella produzione e nel commercio appare come capitale da prestito inutilizzato; nel secondo appare impiegato in misura crescente, ma a saggio d'interesse molto basso, perché adesso è il capitalista industriale e commerciale a dettare le condizioni al capitalista monetario. Nel primo caso, la sovrabbondanza di capitale da prestito esprime una stagnazione del capitale industriale; nel secondo, una relativa indipendenza del credito commerciale dal credito bancario, poggiante su fluidità dei rientri, su brevi scadenze del credito e sul fatto di lavorare in prevalenza con capitale proprio. Nella prima fase, la sovrabbondanza di capitale da prestito esprime l'esatto opposto della reale accumulazione. Nella seconda, coincide con una rinnovata espansione del processo di riproduzione, lo accompagna, ma non ne è la causa. La sovrabbondanza di capitale da prestito comincia già a diminuire; è ancora soltanto relativa in rapporto alla domanda. In entrambi i casi, l'allargamento del reale processo di accumulazione è stimolato dal fatto che il basso interesse coincidente nel primo con bassi prezzi e nel secondo con prezzi in lento rialzo, accresce la parte del profitto che si converte in utile d'intrapresa. Ciò avviene a maggior ragione quando l'interesse sale fino al suo livello medio, durante il culmine del periodo di prosperità, quando è bensì aumentato, ma non in proporzione al profitto.

Abbiamo visto, d'altro lato, che un'accumulazione del capitale da prestito può verificarsi, senza reale accumulazione, grazie a mezzi puramente tecnici come l'espansione e la concentrazione del sistema bancario, le economie nella riserva di circolazione o anche nei fondi di riserva di mezzi di pagamento dei privati, che così vengono sempre convertiti per breve tempo in capitale da prestito. Benché questo capitale da prestito, che perciò viene pure chiamato capitale fluttuante (floating capital), conservi sempre solo per brevi periodi la forma di capitale da prestito (così come solo per brevi periodi lo si deve scontare), i suoi flussi e riflussi sono continui: se uno lo ritira, l'altro lo apporta. La massa del capitale denaro prestabile (non parliamo qui di prestiti ad anni, ma solo di prestiti a breve, contro cambiali e depositi) cresce perciò in realtà in modo del tutto indipendente dall'accumulazione effettiva...

Le variazioni del saggio d'interesse (a prescindere da quelle che si verificano in periodi relativamente prolungati o dalla differenza fra i saggi d'interesse nei diversi paesi; le prime determinate da variazioni nel saggio generale di profitto, le seconde da differenze nei saggi di profitto e nello sviluppo del credito) dipendono dall'offerta del capitale da prestito (eguali restando tutte le altre circostanze, stato della fiducia, etc.), cioè del capitale che viene dato in prestito sotto forma di denaro, monete metalliche e biglietti di banca, a differenza del capitale industriale che gli agenti della riproduzione si prestano a vicenda ln quanto tale, in forma merce, tramite il credito commerciale.

La massa di questo capitale denaro da prestito  è però diversa e indipendente dalla massa del denaro circolante...

In paesi a credito sviluppato, possiamo supporre che ogni capitale denaro disponibile a fini di prestito esista nella forma di depositi presso banche e prestatori di denaro. Ciò vale almeno per il commercio in generale. In tempi di buoni affari, inoltre, prima che si scateni la vera e propria speculazione, quando il credito è facile e la fiducia è in aumento, le funzioni di circolazione vengono assolte per la maggior parte con semplici trasferimenti di credito, senza l'intermediario di denaro metallico o cartaceo.

La semplice possibilità di depositi per importi considerevoli a fronte di una quantità relativamente modesta di mezzi di circolazione dipende unicamente:

1) dal numero degli acquisti e pagamenti eseguiti dalla stessa moneta...

2. Conversione di capitale o reddito in denaro che viene trasformato in capitale da prestito.

Noi consideriamo qui l'accumulazione del capitale denaro in quanto non esprime né un arresto nel flusso del credito commerciale, né una economia tanto del medio effettivamente circolante, quanto del capitale di riserva degli agenti impegnati nella riproduzione.

2) dal numero dei suoi rientri, cioè da quante volte essa ritorna alle banche come deposito, in modo che la sua ripetuta funzione di mezzo di acquisto e pagamento sia mediata dalla sua rinnovata trasformazione in deposito...

L'accumulazione ad opera di tutti i capitalisti che effettuano prestiti monetari avviene sempre, com'è ovvio, direttamente in forma denaro, mentre si è visto che la reale accumulazione ad opera dei capitalisti industriali si compie di norma aumentando gli elementi dello stesso capitale riproduttivo. Lo sviluppo del sistema creditizio e l'enorme concentrazione nelle mani di grandi banche delle operazioni di prestito in denaro devono quindi già di per sé accelerare l'accumulazione del capitale da prestito come forma distinta dalla accumulazione reale. Questo rapido incremento del capitale da prestito è quindi una conseguenza dell'accumulazione reale, perché è effetto dello sviluppo del processo di riproduzione e il profitto che costituisce la fonte di accumulazione di questi capitalisti monetari non è se non una detrazione dal plusvalore intascato dai capitalisti riproduttivi (e, insieme, appropriazione di una parte dell'interesse su risparmi altrui). Il capitale da prestito si accumula a spese sia degli industriali, che dei commercianti. Abbiamo visto come, nei periodi sfavorevoli del ciclo industriale, il saggio d'interesse possa crescere al punto da divorare temporaneamente, per singoli rami d'affari in situazione particolarmente svantaggiata, tutto il profitto. Nello stesso tempo, diminuiscono i prezzi dei titoli di Stato ed altri. È in questo periodo che i capitalisti monetari acquistano in massa i titoli deprezzati, che in fasi successive ben presto risalgono al e al disopra del loro livello normale. Poi essi vengono smerciati, e così ci si appropria una parte del capitale denaro del pubblico. La parte non venduta frutta interessi superiori, perché è stata acquistata sotto prezzo. Ma tutto il profitto che i capitalisti monetari realizzano, e che riconvertono in capitale, lo trasformano dapprima in capitale denaro prestabile. L'accumulazione di quest'ultimo, in quanto distinta dall'accumulazione reale, benché ne sia una filiazione, avviene quindi, se consideriamo soltanto i capitalisti monetari stessi, banchieri etc., già come accumulazione di questa particolare categoria di capitalisti. E deve necessariamente aumentare via via che si espande il sistema del credito, che accompagna il reale allargamento del processo di riproduzione...

Quanto all'accumulazione monetaria delle altre categorie di capitalisti, noi prescindiamo dalla parte investita in titoli fruttiferi e accumulata in questa forma: ci limitiamo a considerare la parte gettata sul mercato come capitale denaro prestabile.

Abbiamo qui, anzitutto, la parte del profitto non spesa come reddito, ma destinata all'accumulazione, per la quale tuttavia i capitalisti industriali non trovano, a tutta prima, impiego nel proprio campo di attività. Questo profitto esiste immediatamente nel capitale merce, del cui valore costituisce una parte, e viene con questo realizzato in denaro. Se non è riconvertito (prescindiamo a tutta prima dal commerciante, di cui tratteremo a parte) negli elementi di produzione del capitale merce, esso deve indugiare per un certo tempo nella forma di denaro. Questa massa cresce con la massa del capitale stesso, anche se il saggio di profitto decresce. La parte che deve essere spesa come reddito viene consumata a poco a poco, ma nel frattempo costituisce presso il banchiere, come deposito, capitale da prestito. Dunque anche l'incremento della parte del profitto spesa come reddito si esprime in un'accumulazione graduale, e che si ripete di continuo, di capitale da prestito. Lo stesso dicasi dell'altra parte che è destinata all'accumulazione. Con lo sviluppo del sistema creditizio e della sua organizzazione, anche l'aumento del reddito, cioè del consumo dei capitalisti industriali e commerciali, si esprime quindi come accumulazione di capitale da prestito. E ciò vale per tutti i redditi, nella misura in cui sono gradualmente consumati; quindi per la rendita fondiaria, il salario nelle sue forme più elevate, gli introiti delle classi improduttive, etc. Tutti assumono per un certo tempo la forma del reddito monetario; sono quindi convertibili in depositi e con ciò in capitale da prestito.

Capitolo XXXII

CAPITALE DENARO E CAPITALE REALE III (Fine)

La massa del denaro che si deve [...] ritrasformare in capitale è risultato dell'insieme del processo di riproduzione, ma, considerata in sé, come capitale denaro prestabile, non è essa stessa una massa di capitale riproduttivo.

Il punto più importante, in ciò che si è finora sviluppato, è che l'espansione della parte del reddito destinata al consumo (qui si fa astrazione dal lavoratore, perché il suo reddito è = il capitale variabile) si rappresenta in primo luogo come accumulazione di capitale denaro. Nell'accumulazione di quest'ultimo entra perciò un elemento essenzialmente diverso dalla reale accumulazione del capitale industriale, giacché la parte del prodotto annuo destinata al consumo non diventa in alcun modo capitale. Una sua frazione reintegra bensì capitale, ossia il capitale costante dei produttori di mezzi di consumo, ma, nella misura in cui si converte realmente in capitale, esiste nella forma naturale del reddito dei produttori di questo capitale costante. Lo stesso denaro che rappresenta il reddito, che serve da puro intermediario del consumo, si converte regolarmente, per un certo periodo, in capitale denaro prestabile...

L'accumulazione del capitale denaro prestabile esprime quindi, in parte, null'altro che il fatto che ogni denaro in cui si converte il capitale industriale nel corso del suo ciclo assume la forma non di denaro che i capitalisti riproduttivi anticipano, ma di denaro che prendono a prestito, cosicché l'anticipazione di denaro che deve avvenire nel processo di riproduzione appare, in realtà, come anticipazione di denaro prestato. In effetti, sulla base del credito commerciale, l'uno presta all'altro il denaro di cui ha bisogno nel processo di riproduzione. Ma la forma in cui si presenta la cosa è che il banchiere il quale lo riceve in prestito da una parte dei capitalisti riproduttivi lo presta all'altra, apparendo così in veste di benefattore; e che, nello stesso tempo, la facoltà di disporre di questo capitale finisce per concentrarsi totalmente nelle mani dei banchieri in quanto intermediari.

Vanno ancora menzionate alcune forme particolari dell'accumulazione di capitale denaro. Per esempio in seguito a caduta del prezzo degli elementi di produzione, materie prime etc., viene liberato capitale. Se l'industriale non è in grado di estendere immediatamente il suo processo di riproduzione, una parte del suo capitale denaro viene espulsa dal ciclo come superflua e si converte in capitale denaro prestabile. Ma, in secondo luogo, si libera capitale in forma denaro non appena, soprattutto, nell'attività del commerciante, subentrano interruzioni. Se egli ha concluso una serie di affari e, a causa di quelle interruzioni, solo più tardi può iniziarne una nuova, il denaro realizzato non rappresenta per lui altro che tesoro, capitale eccedente. Ma, nello stesso tempo, rappresenta immediatamente accumulazione di capitale denaro prestabile. Nel primo caso, l'accumulazione del capitale denaro esprime il ripetersi in condizioni più favorevoli del processo di riproduzione, l'effettiva liberazione di una parte del capitale precedentemente vincolato, quindi la possibilità di allargare il processo di riproduzione con gli stessi mezzi monetari. Nel secondo caso, invece, non esprime se non una interruzione nel flusso delle transazioni. In entrambi, tuttavia, si converte in capitale denaro prestabile, rappresenta una accumulazione di quest'ultimo, e agisce uniformemente sul mercato monetario e sul saggio di interesse, anche se qui esprime accelerazione e là rallentamento del reale processo di accumulazione. Infine, all'accumulazione di capitale denaro provvedono tutti coloro che, messo insieme un gruzzoletto, si ritirano dalla riproduzione, e il cui numero è tanto maggiore, quanto più nel corso del ciclo industriale si sono realizzati dei profitti...

Quanto all'altra parte del profitto che non è destinata ad essere consumata come reddito, essa si converte in capitale denaro soltanto se non la si può utilizzare immediatamente per allargare l'impresa nella sfera di produzione in cui la si è conseguita. La causa di ciò può essere duplice. O questa sfera è satura di capitale, oppure l'accumulazione deve, prima di poter funzionare come capitale, aver raggiunto una certa consistenza, a seconda delle proporzioni dell'investimento di nuovo capitale nell'impresa data; quindi si converte dapprima in capitale denaro da prestito, e serve all'allargamento della produzione in altre sfere. Supponendo costanti tutte le altre circostanze, la massa del profitto destinato a riconvertirsi in capitale dipenderà dalla massa del profitto conseguito; quindi dall'ampliamento del processo di riproduzione. Ma se questa nuova accumulazione si scontra in difficoltà di impiego, se le sfere di investimento vengono a mancare, se quindi si verificano saturazione dei rami di produzione e offerta eccessiva di capitale da prestito, questa pletora di capitale denaro prestabile non indica altro che i limiti della produzione capitalistica. La speculazione creditizia che ne consegue dimostra che all'impiego del capitale eccedente si oppone non un ostacolo positivo, ma un ostacolo derivante dalle sue leggi di valorizzazione, dai limiti in cui il capitale e in grado di valorizzarsi come capitale. In sé e per sé, pletora di capitale denaro non esprime necessariamente sovrapproduzione e neppure soltanto assenza di sfere d'investimento per il capitale...

Essendo l'accumulazione di capitale da prestito dilatata da fattori che sono bensì indipendenti dalla reale accumulazione, ma tuttavia l'accompagnano, è inevitabile che in determinate fasi del ciclo si verifichi pletora di capitale denaro, e che questa pletora aumenti via via che si sviluppa il credito. Con essa deve al contempo svilupparsi la necessità di spingere il processo di produzione al di là delle sue barriere capitalistiche: eccesso di commercio, eccesso di produzione, eccesso di credito. E tutto ciò deve sempre avvenire, nello stesso tempo, in forme che provocano un contraccolpo...

Sono ancora necessarie alcune osservazioni sul capitale di credito.

La frequenza con cui la stessa moneta può figurare come capitale da prestito dipende, come già sviluppato in precedenza,

1) dalla frequenza con cui essa realizza valori merce, quindi trasferisce capitale, o nella vendita o nel pagamento, e, inoltre, dalla frequenza con cui realizza reddito. Quante volte giunga in altre mani come valore realizzato, vuoi di capitale, vuoi di reddito, dipende perciò chiaramente dal volume e dalla massa degli scambi effettivi;

2) dall'economia nei pagamenti e dallo sviluppo e dall'organizzazione del sistema del credito;

3) infine, dal concatenamento e dalla rapidità di azione dei crediti, per cui la moneta, se precipita come deposito in un punto, torna immediatamente ad uscire come prestito in un altro...

Prima facie  il capitale da prestito esiste sempre nella forma del denaro*, più tardi come diritto su denaro, in quanto il denaro in cui esso in origine esiste  ora presente nelle mani del mutuatario in reale forma denaro...

Per il mutuante esso si  convertito in diritto su denaro, in titolo di proprietà. La stessa quantità di denaro reale può quindi rappresentare masse molto diverse di capitale denaro. Puro e semplice denaro, sia che rappresenti capitale realizzato, sia che rappresenti reddito realizzato, diviene capitale da prestito in virtù del puro e semplice atto del prestare, della sua trasformazione in deposito, se consideriamo la forma generale in un sistema creditizio sviluppato. Il deposito  capitale denaro per il depositante. In mano al banchiere, invece, può essere soltanto capitale denaro potenziale, che giace inattivo nella sua cassa invece che in quella del suo proprietario...

Crescendo la ricchezza materiale, cresce la classe dei capitalisti monetari; da un lato aumentano il numero e la ricchezza dei capitalisti che si ritirano dagli affari, dei rentiers, dall'altro ne trae impulso lo sviluppo del sistema creditizio, quindi aumenta il numero dei banchieri, dei prestatori di denaro, dei finanzieri, etc. — Insieme al capitale denaro disponibile si sviluppa la massa dei valori fruttiferi, titoli di Stato, azioni, etc., come si è mostrato sopra. Aumenta però anche la domanda di capitale denaro disponibile, perché i jobbers che speculano in questi titoli recitano una parte di primo piano sul mercato monetario...

Con lo sviluppo del sistema creditizio si creano grandi mercati monetari concentrati,[...] che sono nello stesso tempo sedi principali del commercio in questi titoli. I banchieri mettono in massa a disposizione della marmaglia di questi trafficanti il capitale denaro del pubblico, e così questa nidiata di speculatori cresce...

Due osservazioni:

Primo: Se il saggio d'interesse si mantiene elevato per un periodo abbastanza lungo (parliamo qui del saggio d'interesse in un determinato paese, come l'Inghilterra, in cui il saggio medio per un periodo abbastanza lungo è dato e si rappresenta anche nell'interesse pagato per prestiti a lungo termine, il che può chiamarsi interesse privato), ciò dimostra prima facie che durante questo periodo il saggio del profitto è alto, ma non necessariamente che sia alto il saggio dell'utile d'intrapresa...

Secondo: L'affermazione che la domanda di capitale denaro e quindi il saggio d'interesse crescono, perché il saggio di profitto è alto, non significa che la domanda di capitale industriale cresca e, quindi, il saggio d'interesse salga.

In tempi di crisi la domanda di capitale da prestito e quindi il saggio d'interesse raggiungono il massimo; il saggio di profitto e con esso la domanda di capitale industriale sono praticamente scomparsi. In tali periodi ognuno prende a prestito solo per pagare, per far fronte ad impegni già contratti. In tempi di rianimazione dopo la crisi, invece, si chiede capitale da prestito per compiere acquisti e trasformare il capitale denaro in capitale produttivo o commerciale. E allora esso viene richiesto o dal capitalista industriale o dal commerciante. Il capitalista industriale lo spende in mezzi di produzione e in forza lavoro.

In sé, una crescente domanda di forza lavoro non può mai essere causa di aumento del saggio di interesse, nella misura in cui questo è determinato dal saggio di profitto. Un più alto salario non è mai causa di un più elevato profitto, benché, se si considerano fasi particolari del ciclo industriale, possa esserne uno degli effetti.

La domanda di forza lavoro può aumentare perché lo sfruttamento del lavoro avviene in condizioni particolarmente propizie, ma in sé e per sé la domanda crescente di forza lavoro e quindi di capitale variabile non accresce il profitto; al contrario lo riduce pro tanto. Ma allora, aumentando la richiesta di capitale variabile, può crescere con essa la domanda di capitale denaro: e questa far salire il saggio d'interesse. Il prezzo di mercato della forza lavoro aumenta, in tal caso, al disopra del livello medio, viene occupato un numero di operai superiore alla media e, nello stesso tempo, il saggio d'interesse cresce perché, in tale situazione, cresce la domanda di capitale denaro. La domanda crescente di forza lavoro rincara questa merce come ogni altra, ne fa salire il prezzo, ma non il profitto, che poggia essenzialmente sul relativo buon mercato appunto di tale merce. Nello stesso tempo, tuttavia, nelle circostanze presupposte, essa eleva il saggio d'interesse, perché accresce la domanda di capitale denaro...

In periodi di depressione, la domanda di capitale da prestito è domanda di mezzo di pagamento e nulla più; non è affatto domanda di denaro come mezzo di acquisto. Il saggio d'interesse può allora raggiungere quote elevatissime, a prescindere dal fatto che vi sia sovrabbondanza o penuria di capitale reale — capitale produttivo e capitale merce. La domanda di mezzi di pagamento è semplice richiesta di convertibilità in denaro, nella misura in cui i commercianti e i produttori possono offrire buone garanzie; è domanda di capitale denaro nella misura in cui ciò non avviene e, per conseguenza, un'anticipazione di mezzi di pagamento dà loro non solo la forma denaro, ma l'equivalente che loro manca, in questa o in quella forma, per pagare. È questo il punto in cui le due facce della teoria corrente hanno insieme torto e ragione nel giudicare le crisi. Coloro secondo i quali allora non esiste che penuria di mezzi di pagamento, o vedono unicamente i detentori di garanzie bona fide, o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà di una banca trasformare tutti gli speculatori falliti, mediante pezzi di carta, in solidi e solvibili capitalisti. Coloro secondo i quali allora non esiste che penuria di capitale o si limitano a fare un gioco di parole, poiché in tali frangenti, per effetto di un eccesso d'importazione e di produzione, il capitale inconvertibile è invece presente in grandi masse, o parlano semplicemente di quegli avventurieri del credito che ora sono in realtà posti in condizione di non ricevere più capitale altrui da utilizzare per le loro operazioni, e pretendono dalle banche non solo di aiutarli a restituire il capitale perduto, ma di permettere loro, per di più, di continuare i loro imbrogli.

È fondamento della produzione capitalistica che il denaro si contrapponga come forma indipendente del valore alla merce, ovvero che il valore di scambio debba ricevere forma indipendente nel denaro; e ciò è possibile solo in quanto una determinata merce diventa il materiale nel cui valore tutte le altre merci si misurano e che, appunto perciò, diventa la merce universale, la merce par excellence in antitesi a tutte le altre merci. La cosa, soprattutto in nazioni capitalisticamente sviluppate, che sostituiscono il denaro, in larga misura, sia mediante operazioni creditizie, sia mediante denaro di credito, deve manifestarsi in due modi. Primo, in periodi di depressione, durante i quali il credito si restringe o viene del tutto a mancare, il denaro si presenta improvvisamente come l'unico mezzo di pagamento e la vera esistenza del valore in assoluta contrapposizione alle merci: di qui la generale svalorizzazione delle merci, la difficoltà, anzi l'impossibilità di convertirle in denaro, cioè nella loro propria forma puramente fantastica. Ma, secondo, lo stesso denaro di credito è denaro solo in quanto rappresenta in assoluto, nell'ammontare del suo valore nominale, il denaro reale. Ora, con il deflusso dell'oro la sua convertibilità in moneta, cioè la sua identità con l'oro reale, diventa problematica. Di qui misure coattive, rialzo del saggio d'interesse etc., per assicurare le condizioni di questa convertibilità. La cosa può essere più o meno spinta all'estremo da una legislazione sbagliata, poggiante su false teorie circa il denaro e imposta alla nazione dagli interessi dei trafficanti in denaro, gli Overstone e consorti. Ma la base ne è data con le fondamenta del modo stesso di produzione. Un deprezzamento del denaro di credito (per non parlare di una sua d'altronde puramente immaginaria «smonetizzazione») sconvolgerebbe tutti i rapporti esistenti. Si sacrifica perciò il valore delle merci per salvaguardare l'esistenza fantastica e indipendente di questo valore nel denaro.

Come valore monetario esso è d'altronde assicurato solo finché è assicurato il denaro. Per un paio di milioni in denaro si devono perciò sacrificare molti milioni di merci; il che, nella produzione capitalistica, è inevitabile e costituisce una delle sue bellezze...

Nel caso di due individui, sarebbe ridicolo affermare che, nelle loro reciproche transazioni, tutt'e due hanno una bilancia dei pagamenti sfavorevole. Se sono reciprocamente debitore e creditore, è chiaro che, se i loro crediti non si compensano, per il resto l'uno dovrà essere debitore dell'altro. Non così nel caso di nazioni. E che così non sia, lo riconoscono tutti gli economisti nella proposizione che la bilancia dei pagamenti può essere pro o contro una nazione benché la sua bilancia commerciale debba, in definitiva, equilibrarsi. La bilancia dei pagamenti si distingue dalla bilancia commerciale per il fatto d'essere una bilancia commerciale che giunge a scadenza in un periodo determinato. Ora, quel che fanno le crisi è di condensare in un breve arco di tempo lo scarto fra bilancia dei pagamenti e bilancia commerciale, e le condizioni determinate che si sviluppano nella nazione colpita dalla crisi, nella quale perciò i pagamenti giungono ora a scadenza, portano già con sé una tale contrazione del termine di compensazione. V'è prima di tutto l'esportazione di metalli nobili, poi la svendita di merci in consegna; l'esportazione di merci per svenderle, o per procurarsi su di esse, all'interno, anticipazioni in denaro; l'aumento del saggio d'interesse, la denuncia dei crediti, il ribasso dei titoli, l'offerta a basso prezzo di valori esteri, l'attrazione di capitale estero da investire in questi titoli deprezzati, infine la bancarotta che pareggia un buon numero di crediti. Spesso, allora, si invia anche del metallo nel paese in cui è scoppiata la crisi, perché ivi le cambiali sono insicure, quindi i pagamenti avvengono con la maggior garanzia di sicurezza in moneta sonante...

L'offerta e la domanda di capitale da prestito sarebbero identiche alla domanda ed offerta di capitale in genere (benché quest'ultima frase sia assurda; per l'industriale o il commerciante la merce è una forma del suo capitale; tuttavia, egli non chiede mai il capitale in quanto tale, ma sempre soltanto quella merce specifica in quanto tale, la compra e la vende come merce, grano o cotone, indipendentemente dal ruolo che essa dovrà svolgere nel ciclo del suo capitale), se non ci fossero prestatori di denaro e, in vece loro, i capitalisti mutuanti fossero in possesso di macchine, materie prime etc. e le dessero in prestito o in affitto, come oggi le case, ai capitalisti industriali, proprietari essi stessi di una parte di questi oggetti. In tali condizioni, l'offerta di capitale da prestito sarebbe identica all'offerta di elementi di produzione per il capitalista industriale, di merci per il commerciante. Ma è chiaro che, allora, la ripartizione del profitto fra mutuante e mutuatario dipenderebbe interamente, in primo luogo, dal rapporto in cui questo capitale è dato in prestito e in cui, viceversa, è proprietà di colui che lo impiega.

Capitolo XXXIII

IL MEZZO DI CIRCOLAZIONE NEL SISTEMA CREDITIZIO

«Il grande regolatore della velocità della circolazione è il credito. Si spiega quindi perché, generalmente, una grave stretta sul mercato monetario coincida con una circolazione abbondante»

(The Currency Theory reviewed, p. 65).

Ciò va inteso in due sensi. Da un lato, tutti i metodi che risparmiano mezzi di circolazione si basano sul credito. Ma, in secondo luogo: si prenda per es. un biglietto da 500 Lst. Oggi A lo dà a B in pagamento di una cambiale; lo stesso giorno, B lo deposita presso il suo banchiere; questi sconta con esso, sempre in quel giorno, una cambiale per C; C lo paga alla sua banca, che lo dà in anticipo al bill-broker, etc. La velocità con cui la banconota circola, con cui serve per acquisti o pagamenti, è mediata dalla velocità con cui ritorna sempre di nuovo a qualcuno sotto forma di deposito e di qui passa nuovamente a qualcun altro sotto forma di prestito. La pura e semplice economia in mezzi di circolazione appare sviluppata al massimo nella clearing house, nel mero scambio di tratte giunte a scadenza, e nella funzione prevalente del denaro come mezzo di pagamento per il puro e semplice pareggio di surplus. Ma l'esistenza di queste tratte poggia a sua volta sul credito che industriali e commercianti si accordano a vicenda. Se questo credito diminuisce, diminuisce anche il numero delle cambiali, soprattutto se a lungo termine, quindi si riduce anche l'efficacia di questo metodo di compensazione. E questa economia, consistente nell'eliminazione del denaro dagli scambi e totalmente basata sulla funzione di mezzo di pagamento svolta dal denaro, funzione che a sua volta si fonda sul credito, può (a prescindere dalla tecnica più o meno sviluppata nella concentrazione dei pagamenti) essere soltanto di due generi: o i crediti reciproci, rappresentati da cambiali o da assegni, si compensano presso il medesimo banchiere, che si limita a trascriverli dal conto dell'uno su quello dell'altro, o i diversi banchieri se li compensano a vicenda...

Mediante questa economia si eleva l'efficacia del mezzo di circolazione, nella misura in cui se ne richiede una quantità minore soltanto per il regolamento dei conti. D'altra parte, la velocità del denaro circolante come mezzo di circolazione (che serve pure ad economizzarlo) dipende in tutto e per tutto dal flusso degli acquisti e delle vendite, o anche dalla concatenazione dei pagamenti, nella misura in cui essi avvengono l'uno dopo l'altro in denaro. Ma il credito media e quindi aumenta la velocità della circolazione. La singola moneta può per es. compiere soltanto cinque giri e rimane più a lungo immobile in ogni singola mano - come semplice mezzo di circolazione senza intervento del credito - se A, suo originario possessore, compra da B, B da C, C da D, D da E, E da F, dunque se il suo passaggio da una mano all'altra non  mediato che da effettivi acquisti e vendite. Se però B deposita presso il suo banchiere il denaro ricevuto in pagamento da A, e il suo banchiere lo versa a C nello sconto di cambiali, se C compra da D, che lo deposita presso il suo banchiere e questi lo dà in prestito ad E, che acquista da F, allora anche la sua velocità come semplice mezzo di circolazione (mezzo di acquisto)  mediata da più operazioni di credito, cioè il deposito di B presso il suo banchiere e lo sconto di costui per C, il deposito di D presso il suo banchiere e lo sconto di costui per E; dunque, da quattro operazioni di credito. Senza queste operazioni di credito, la stessa moneta non avrebbe eseguito cinque acquisti successivi nello spazio di tempo dato. Il fatto di aver cambialo mano — come deposito e nello sconto — senza mediazione di effettiva compravendita ha qui accelerato il cambio di mano della moneta nella serie di scambi effettivi.

Si è già rilevato come una e medesima banconota possa formare depositi presso diversi banchieri. Essa può egualmente formare diversi depositi presso il medesimo banchiere. Con la banconota depositata da A, questi sconta la cambiale di B, B paga C, e C deposita la stessa banconota presso il medesimo banchiere, che la mette in circolazione.

Si è già dimostrato, analizzando la circolazione semplice del denaro (Libro I, capitolo III, 2) che la massa del denaro effettivamente circolante, supposte come date la velocità della circolazione e l'economia dei pagamenti, è determinata dai prezzi delle merci e dalla massa delle transazioni. La stessa legge regna nella circolazione delle banconote...

Sono le esigenze dei traffici a regolare la quantità dei biglietti circolanti, e ogni banconota superflua torna immediatamente a chi l'ha messa in giro...

[Finché lo stato degli affari è tale, che i riflussi per le anticipazioni effettuate avvengono regolarmente, quindi il credito rimane intatto, sono le esigenze degli industriali e dei commercianti, ed esse sole, a regolare l'espansione e contrazione del medio circolante... Nel periodo di stasi successivo alla crisi, la circolazione tocca i livelli più bassi; ravvivandosi la domanda, aumenta pure la richiesta di mezzi di circolazione, che cresce col crescere della prosperità; il culmine è raggiunto dalla quantità di circolante nel periodo di tensione massima e di massima speculazione — allora scoppia la crisi, e dalla sera alla mattina le banconote ancora ieri così abbondanti scompaiono dal mercato e, con esse, scompaiono gli scontatori di cambiali, gli anticipatori su titoli, gli acquirenti in merci... Quando scoppia la crisi, si tratta ancora soltanto di mezzi di pagamento. Ma poiché per il rientro di questi ultimi ognuno dipende dall'altro, e nessuno sa se l'altro potrà pagare al giorno di scadenza, si assiste ad una vera e propria caccia al tesoro per procurarsi i mezzi di pagamento reperibili sul mercato, cioè le banconote. Ognuno tesaurizza quante ne riesce ad arraffare, e così le banconote svaniscono dalla circolazione il giorno stesso in cui se ne ha maggior bisogno. F. E.]...

Se la circolazione è piena perché gli affari si espandono (cosa possibile anche se i prezzi sono relativamente bassi), può accadere che il saggio d'interesse sia relativamente elevato perché l'aumento dei profitti o il maggior numero di nuovi investimenti provoca una domanda di capitale da prestito. Se è bassa perché gli affari si contraggono, o a causa di una grande liquidità del credito, può accadere che il saggio d'interesse sia basso anche se i prezzi sono alti...

La quantità assoluta dei mezzi di circolazione agisce in modo determinante sul saggio d'interesse solo in tempi di crisi. O qui la domanda di circolazione piena si limita ad esprimere domanda di mezzi di tesaurizzazione (a prescindere dalla velocità ridotta con cui circola il denaro e con cui le stesse identiche monete si trasformano continuamente in capitale da prestito) per mancanza di credito [...]; o possono verificarsi circostanze in cui si richieda effettivamente una maggior quantità di mezzi di circolazione[...].

Per il resto, la massa assoluta dei mezzi di circolazione non influisce sul saggio d'interesse, sia perché — supposte costanti l'economia e la velocità della circolazione — essa è determinata prima di tutto dai prezzi delle merci e dal numero delle transazioni (nel qual caso, per lo più, un fattore paralizza l'azione dell'altro), poi dallo stato del credito, mentre non è essa, inversamente, a determinare quest'ultimo; sia perché i prezzi delle merci e l'interesse non sono legati dà un rapporto necessario...

La differenza fra emissione di mezzi di circolazione e prestito di capitale appare chiara soprattutto nel reale processo di riproduzione. Abbiamo visto [...] come si scambino i diversi elementi della produzione. Per es. il capitale variabile consta materialmente dei mezzi di sussistenza degli operai, di una parte del loro proprio prodotto. Ma è stato loro pagato in denaro poco per volta. Il denaro, è il capitalista che deve anticiparlo, e dipende in alto grado dell'organizzazione del sistema creditizio che, la settimana successiva, egli possa pagare il nuovo capitale variabile con il vecchio denaro sborsato la settimana prima. Lo stesso accade negli atti di scambio fra i diversi elementi di un capitale sociale totale, per es. fra i mezzi di consumo e i mezzi di produzione di mezzi di consumo. Il denaro per la loro circolazione dev'essere anticipato, come si è visto, da uno o da entrambi coloro che scambiano. Resta poi in circolazione, ma, effettuato lo scambio, ritorna sempre a chi l'aveva anticipato, perché questi l'aveva anticipato in più del capitale industriale effettivamente impiegato. In un sistema creditizio sviluppato, in cui il denaro si concentra in mano alle banche, sono queste che, almeno nominalmente, lo anticipano. Questo anticipo si riferisce unicamente al denaro effettivamente circolante: è un anticipo di mezzi di circolazione, non dei capitali che esso fa circolare...

Il sistema creditizio, che ha il suo centro nelle pretese banche nazionali e nei grandi prestatori di denaro ed usurai che ruotano loro intorno, rappresenta una gigantesca centralizzazione, e conferisce a questa categoria di parassiti il favoloso potere non solo di decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma di intervenire nel modo più pericoloso nella produzione reale e, della produzione, questa masnada non sa nulla, e non ha ci ha nulla a che vedere.

Capitolo XXXIV

IL CURRENCY PRINCIPLE E LA LEGISLAZIONE BANCARIA INGLESE DEL 1844

[In uno scritto precedente si è analizzata la teoria di Ricardo sul valore del denaro in rapporto ai prezzi delle merci; qui possiamo dunque limitarci allo stretto necessario. Secondo Ricardo, il valore del denaro — metallico — è determinato dal tempo di lavoro in esso oggettivato, ma solo finché la quantità della moneta sta nel giusto rapporto con la quantità e il prezzo delle merci da scambiare. Se la quantità del denaro supera il livello rappresentato da questo rapporto, il suo valore cala e i prezzi delle merci salgono; se scende sotto quel livello, il suo valore sale e i prezzi delle merci calano — eguali restando tutte le altre circostanze. Nel primo caso, il paese in cui si registra questo eccesso d'oro esporterà l'oro precipitato sotto il suo valore, e importerà delle merci; nel secondo, si avrà un afflusso d'oro nei paesi in cui esso è stimato sopra il suo valore, mentre le merci sottovalutate di laggiù affluiranno ad altri mercati su cui possano spuntare prezzi normali. Poiché, date queste premesse, «l'oro stesso, sia in moneta che in verghe, può diventare segno di valore di un valore metallico maggiore o minore del proprio, s'intende che banconote convertibili eventualmente in circolazione condividano questa stessa sorte. Benché le banconote siano convertibili, benché dunque il loro valore reale corrisponda al loro valore nominale, la massa complessiva del denaro circolante, oro e biglietti (the aggregate eurrency consisting of metal and of convertible notes) potrà essere sovrapprezzata o deprezzata secondo che la sua quantità complessiva, per le ragioni spiegate prima, salga al di sopra o scenda al di sotto del livello determinato dal valore di scambio delle merci in circolazione e dal valore metallico dell'oro [...]. Questo deprezzamento, non della carta nei confronti dell'oro, bensì dell'oro e della carta presi insieme, ossia della massa complessiva dei mezzi di circolazione di un paese, è una delle invenzioni principali di Ricardo, che Lord Overstone e compagni costrinsero al proprio servizio facendone uno dei princìpi fondamentali della legislazione bancaria del 1844 e 1845 ad opera di Sir Robert Peel» (i.c., p. 155)

Non abbiamo bisogno di ripetere la dimostrazione, svolta in questo brano, dell'assurdità della teoria ricardiana. Ci interessa soltanto il modo in cui la scuola di teorici bancari che dettò le succitate leggi di Peel sulle banche elaborò le dottrine di Ricardo.

«Le crisi commerciali del secolo XIX, in particolare le grandi crisi del 1825 e del 1836, non produssero un ulteriore svolgimento della teoria ricardiana del denaro; diedero origine però a una sua nuova applicazione. Non si trattava più di singoli fenomeni economici, come per Hume il deprezzamento dei metalli nobili dei secoli XVI e XVII, o per Ricardo il deprezzamento della carta moneta durante il Settecento e all'inizio dell'Ottocento, bensì delle grandi tempeste sul mercato mondiale, in cui si scarica l'antagonismo di tutti gli elementi del processo di produzione borghese, l'origine e la prevenzione delle quali venivano ricercate entro la sfera più superficiale e più astratta di questo processo, entro la sfera della circolazione del denaro. Il presupposto propriamente teorico da cui parte la scuola dei meteorologi dell'economia, consiste di fatto in nient'altro che nel dogma affermante che Ricardo ha scoperto le leggi della circolazione puramente metallica. Quel che rimaneva da fare, per essi, era l'assoggettamento della circolazione creditizia e della circolazione dei biglietti di banca a queste leggi.

«Il fenomeno più generale e più manifesto delle crisi commerciali è una caduta generale, improvvisa, dei prezzi delle merci facente seguito a un loro aumento generale prolungato. La caduta generale dei prezzi delle merci può essere espressa come aumento del valore relativo del denaro a paragone di tutte le merci, e l'aumento generale dei prezzi, viceversa, come caduta del valore relativo del denaro. In entrambe le espressioni il fenomeno è enunciato, non spiegato. [...]. Il diverso frasario lascia invariato il tema come lo lascerebbe invariato la sua traduzione dal tedesco in inglese. La teoria ricardiana del denaro giungeva quindi molto gradita, poiché ad una tautologia dà l'apparenza di un rapporto causale. Da dove viene la periodica caduta generale dei prezzi delle merci? Dall'aumento periodico del valore relativo del denaro. Da dove, viceversa, viene il generale aumento periodico dei prezzi delle merci? Da una caduta periodica del valore relativo del denaro. Sarebbe altrettanto giusto dire che l'aumento e la caduta periodici dei prezzi derivano dal loro aumento e dalla loro caduta periodici [...].

Una volta ammessa la trasformazione della tautologia in rapporto causale, tutto viene con facilità. L'aumento dei prezzi delle merci deriva dalla diminuzione del valore del denaro, la diminuzione del valore del denaro però, come sappiamo da Ricardo, deriva da una circolazione traboccante, ossia dal fatto che la massa del denaro circolante sale al disopra del livello determinato dal suo valore immanente e dai valori immanenti delle merci. Così, viceversa, la diminuzione generale dei prezzi delle merci deriva dall'aumento del valore del denaro al disopra del suo valore immanente in seguito ad una circolazione al disotto del livello normale. I prezzi salgono e cadono quindi periodicamente perché periodicamente circola troppo o troppo poco denaro. Ora, se per caso si dimostra che l'aumento dei prezzi ha coinciso con una circolazione di denaro diminuita, e la diminuzione dei prezzi con una circolazione aumentata, ciò nonostante si potrà sostenere che, a causa di una qualsiasi diminuzione o di un qualsiasi aumento della massa di merci in circolazione, seppure aumento o diminuzione non siano affatto comprovabili statisticamente, la quantità del denaro circolante sia stata aumentata o diminuita, se non in assoluto, purtuttavia relativamente.

Ora, abbiamo visto che secondo Ricardo queste oscillazioni generali dei prezzi devono verificarsi anche per una circolazione puramente metallica, che si compensano però in virtù del loro alternarsi; per es. una circolazione al disotto del livello normale provoca una caduta dei prezzi delle merci, questa un'esportazione delle merci all'estero, che a sua volta però provoca l'afflusso d'oro all'interno, e questo afflusso di denaro provoca di nuovo un aumento dei prezzi delle merci. Il contrario accade allorché si tratti di una circolazione al disopra del livello normale, in cui siano importate merci e sia esportato oro. Siccome però, malgrado queste oscillazioni generali dei prezzi, che derivano dalla natura della stessa circolazione metallica secondo Ricardo, la forma violenta e forzosa delle oscillazioni, la loro forma di crisi, fa parte dei periodi di sistema creditizio sviluppato, diventa cosa chiara come la luce del sole che l'emissione di biglietti di banca non è esattamente regolata in base alle leggi della circolazione metallica. La circolazione metallica ha il suo toccasana nell'importazione e nell'esportazione dei metalli nobili, i quali entrano subito in circolazione come moneta, e in tal modo, mediante il loro afflusso o deflusso, fanno scendere o salire i prezzi delle merci. Lo stesso effetto sui prezzi delle merci deve allora essere prodotto artificialmente dalle banche imitando le leggi della circolazione metallica.

Se dall'estero affluisce denaro, si ha la dimostrazione che la circolazione è al disotto del livello normale, il valore del denaro è troppo elevato e i prezzi sono troppo bassi, e che, di conseguenza, devono essere immessi nella circolazione biglietti di banca in proporzione dell'oro di nuova importazione. Nel caso opposto, dovranno essere sottratti alla circolazione nella proporzione in cui l'oro defluisce dal paese. In altri termini, l'emissione di banconote deve essere regolata secondo l'importazione e l'esportazione dei metalli nobili, ossia secondo il corso dei cambi. L'erroneo presupposto di Ricardo per il quale l'oro non è che moneta e quindi tutto l'oro importato aumenta il denaro circolante e quindi fa salire i prezzi, tutto l'oro esportato diminuisce la moneta e quindi fa scendere i prezzi, questo presupposto teorico diventa qui l'esperimento pratico di far circolare una quantità di moneta identica alla quantità di oro presente di volta in volta.

Lord Overstone (il banchiere Jones Loyd), il colonnello Torrens, Norman, Clay, Arbuthnot e un numero infinito di altri scrittori, noti in Inghilterra sotto il nome di scuola del currency principle, hanno non soltanto predicato questa dottrina, ma ne hanno fatto, grazie alle leggi sulla Banca d'Inghilterra di Sir Robert Peel del 1844 e 1845, la base della vigente legislazione bancaria inglese e scozzese. Il loro vergognoso fiasco, teorico e pratico, dopo esperimenti su scala nazionale massima, potrà essere illustrato soltanto nella teoria del credito» (op. cit., pp. 165-168)...

[Segue una lunga analisi dei lavori della commissione della Camera dei Comuni sulle leggi bancarie di Peel, che contrappone i fautori e i critici del principio della dipendenza dei prezzi delle merci dalla massa dei mezzi di circolazione considerata come espressione delle fluttuazioni dell'oro. La posizione di Marx è chiara. Egli ritiene una «vecchia frottola che le variazioni nella massa dell'oro esistente, in quanto aumentano o diminuiscono la quantità del medio circolante nel paese, dovrebbero far salire o scendere i prezzi delle merci all'interno di quest'ultimo» e argomenta il suo giudizio in questi termini:]

Se si esporta oro, secondo questa teoria, nel paese in cui l'oro si dirige i prezzi delle merci devono aumentare e, con essi, crescere il valore delle esportazioni del paese esportatore d'oro sul mercato del paese importatore d'oro; il valore delle esportazioni di quest'ultimo diminuirebbe invece sul mercato del primo, mentre aumenterebbe nel loro paese di origine, in cui l'oro emigra. In realtà, tuttavia, la diminuzione della quantità d'oro non fa che aumentare il saggio d'interesse mentre il suo aumento lo fa diminuire, e queste oscillazioni del saggio d'interesse, se non entrassero in conto nella fissazione dei prezzi di costo o nella determinazione della domanda e dell'offerta, lascerebbero del tutto invariati i prezzi delle merci...

[Come risulta evidente dall'analisi marxiana, il dogma della scuola della currency si impone sulla base dell'«interessato accecamento degli industriali e commercianti, che non volevano assolutamente vedere nessuna sovrapproduzione stando all'economia volgare» nella crisi subentrata nel 1837 e nei suoi strascichi. Lo scopo della legge, secondo Marx, era semplicemente quello di elevare il saggio di interesse e di favorire i prestatori. Di fronte alla Commissione un banchiere privato denuncia ingenuamente la verità:]

4488. «Come crede Lei che abbia funzionato, la legge del 1844? Se dovessi risponderle in qualità di banchiere, direi che ha funzionato ottimamente, perché ha fornito ai banchieri e capitalisti [monetari] di ogni specie un abbondante raccolto. Ha invece funzionato molto male per il degno e solerte uomo d'affari, che ha bisogno di stabilità nel saggio di sconto per poter stipulare con sicurezza i suoi contratti [...]. La legge ha reso estremamente vantaggioso come affare il prestito di denaro»...

4794. "Quando è possibile ottenere del denaro a un saggio d'interesse moderato ne abbiamo una domanda maggiore; prestiamo di più; cosi vanno le cose» (per noi banchieri). «Quando il saggio d'interesse aumenta, ne ricaviamo più di quel che è giusto; ne ricaviamo più di quanto dovremmo»...

[Un'altra testimonianza è dovuta ad un imprenditore:]

5508. «Lei è dunque, in generale, dell'avviso che il sistema presente» (di legislazione bancaria) «sia un'istituzione molto ben congegnata per trasferire periodicamente i profitti dell'industria nelle tasche dell'usuraio? Tale è il mio parere.

[Che Marx abbia ragione si ricava dalle ultime righe del capitolo:]

[Lord Overstone] davanti alla commissione sulle banche del 1857 dice:

«Grazie al rigido e sollecito rispetto dei princìpi della legge 1844, tutto si è svolto con regolarità e scioltezza, il sistema monetario è solido e sicuro, la prosperità del paese è indiscussa, la fiducia pubblica nella legge del 1844 cresce di giorno in giorno. Se la commissione desidera ulteriori prove pratiche della bontà dei princìpi sui quali poggia questa legge, e dei benefici effetti ch'essa ha prodotto, considerino le Loro Signorie l'attuale situazione degli affari nel nostro paese; considerino la soddisfazione del popolo; considerino la ricchezza e la prosperità di tutte le classi della società; fatto questo, la commissione sarà allora in grado di decidere se impedire la persistenza di una legge grazie alla quale si sono ottenuti simili risultati» (B. C., 1857, nr. 4189).

A questo ditirambo, intonato da Overstone davanti alla commissione il 14 luglio, rispose l'antistrofe del 12 novembre dello stesso anno: la lettera alla direzione della Banca, con cui, per salvare il salvabile, il governo sospese la miracolosa legge del 1844. F. E.].

Capitolo XXXV

METALLI NOBILI E CORSO DEI CAMBI

1. Il movimento della riserva aurea

Circa l'accumulazione di banconote in tempi di stretta monetaria, si deve osservare che in essa si ripete la tesaurizzazione di metalli nobili così come, in tempi agitati, si presenta negli stadi più primitivi della società. La legge del 1844 è interessante nei suoi effetti, in quanto si propone di convertire in mezzo di circolazione tutto il metallo nobile esistente nel paese; di assimilare il deflusso d'oro alla contrazione del medio circolante e l'afflusso d'oro alla sua espansione. E proprio con ciò si è poi fornita la prova sperimentale del contrario...

Quanto alle uscite ed entrate di metallo nobile, si deve osservare:

Primo. È necessario distinguere fra l'andirivieni del metallo entro il territorio che non produce né oro né argento, da un lato, e dall'altro il movimento dell'oro e dell'argento delle fonti di produzione ai vari altri paesi e la ripartizione di tale eccedenza fra questi ultimi...Secondo. Fra i paesi che non producono oro e argento v'è un costante affluire e defluire di metalli nobili; lo stesso paese ne importa di continuo e altrettanto di continuo ne esporta. È solo il prevalere del movimento in questa o in quell'altra direzione a decidere se si ha infine esodo o afflusso, perché i movimenti puramente oscillatori e spesso paralleli in gran parte si neutralizzano. Ma ne segue altresì che, di fronte a questo risultato, si tende a perdere di vista la costanza e il decorso complessivamente parallelo dei due movimenti. Si concepisce la cosa unicamente come se sovra-importazione e sovra-esportazione di metallo nobile non fossero che effetto ed espressione del rapporto fra importazione ed esportazione di merci, mentre esprimono nello stesso tempo il rapporto fra una importazione ed una esportazione di metallo nobile indipendenti dallo scambio di merci.

Terzo. Il prevalere dell'importazione sulla esportazione e viceversa si misura, nell'insieme, sull'aumento o sulla diminuzione della riserva metallica nelle banche centrali. La maggiore o minore esattezza di questo gradimetro dipende naturalmente, prima di tutto, dal punto fino al quale si è spinta la centralizzazione del sistema bancario, indice a sua volta del grado in cui il metallo nobile immagazzinato nella cosiddetta banca nazionale rappresenta in generale il tesoro metallico della nazione. Tuttavia, anche ammesso che così sia, il gradimetro non è esatto, vuoi perché, in date circostanze, l'importazione addizionale viene assorbita dalla circolazione interna e dall'impiego crescente dell'oro e dell'argento per scopi di lusso, vuoi perché, senza importazione addizionale, potrebbe verificarsi un prelievo di monete d'oro per la circolazione interna, e quindi la riserva metallica ridursi, anche senza aumento contemporaneo dell'esportazione.

Quarto. L'esportazione del metallo prende la forma dell'esodo (drain) se il movimento di riduzione si prolunga, in modo che la diminuzione si presenti come tendenza del movimento e faccia scendere la riserva metallica della Banca molto al disotto del suo livello medio, fin verso il suo minimo medio. Quest'ultimo è fissato in maniera più o meno arbitraria, in quanto lo stabilisce, in ogni singolo caso, la legislazione sulla copertura del pagamento in specie delle banconote, ecc...

Quinto. La destinazione della riserva metallica della cosiddetta banca nazionale, che però non regola da sola l'entità del tesoro metallico perché questo può aumentare in seguito a pura e semplice paralisi del commercio interno ed estero, è triplice: 1) fondo di riserva per pagamenti internazionali; insomma, fondo di riserva di moneta mondiale; 2) fondo di riserva per la circolazione metallica interna alternativamente in espansione e contrazione; 3) destinazione, questa, legata alla funzione bancaria e senza alcun rapporto con le funzioni del denaro come semplice denaro, fondo di riserva per il pagamento dei depositi e per la convertibilità delle banconote. Il fondo di riserva può risentire di situazioni concernenti ognuna di queste tre funzioni: può risentire, come fondo internazionale, della bilancia dei pagamenti, quali che ne siano le cause determinanti e in qualunque rapporto essa stia con la bilancia commerciale e, come fondo di riserva della circolazione metallica interna, può risentire dell'espansione o contrazione di questa ultima. Quanto alla terza funzione, quella di fondo di garanzia, essa non determina, è vero, il movimento autonomo della riserva metallica, ma esercita una duplice azione: se si emettono banconote che sostituiscono il denaro metallico (dunque, anche monete d'argento, in paesi nei quali l'argento è la misura del valore) nella circolazione interna, la funzione indicata sub 2 del fondo di riserva viene a cessare, e una parte del metallo nobile che serviva a questo scopo emigra stabilmente all'estero. In questo caso, non si ha prelievo di monete metalliche per la circolazione interna, e con ciò cade il temporaneo rafforzamento della riserva metallica in seguito ad immobilizzazione di una parte del metallo coniato in circolazione. Inoltre: se si deve conservare in ogni circostanza un minimo di tesoro metallico per il pagamento dei depositi e la convertibilità delle banconote, il fatto si ripercuote in modo peculiare sulle conseguenze di un deflusso o afflusso d'oro; incide su una parte della riserva che la banca è sempre tenuta a conservare, o su quella di cui invece cerca in altre condizioni di liberarsi in quanto superflua...

Sesto. Ad eccezione forse del 1837, la vera e propria crisi è sempre scoppiata dopo una svolta nel corso dei cambi, non appena cioè l'importazione di metallo nobile riprendeva il sopravvento sulla esportazione. Nel 1825 il crack in senso proprio è avvenuto dopo che l'esodo d'oro era cessato. Nel 1839 si è avuto esodo d'oro senza che si arrivasse al crack. Nel 1847 il deflusso d'oro è cessato in aprile, e il crack è avvenuto in ottobre. Nel 1857 l'oro aveva cessato di fuggire all'estero dall'inizio di novembre; solo dopo, nel corso dello stesso mese, subentrò il crack...

Sette. Esauritesi le crisi generali, l'oro e l'argento - se si astrae dall'afflusso di nuovo metallo prezioso dai paesi produttori — si distribuiscono nuovamente nelle proporzioni in cui esistevano come tesoro particolare dei diversi paesi, in stato d'equilibrio. A parità di condizioni, il loro volume relativo sarà determinato in ogni singolo paese dall'importanza di quest'ultimo sul mercato mondiale. Dal paese che ne deteneva una quota superiore alla norma, essi migrano in un altro, e questi movimenti di uscita e di entrata non fanno che ristabilire l'originaria distribuzione fra i diversi tesori nazionali. Tale redistribuzione è però mediata dall'influsso di diverse circostanze, di cui avremo modo di parlare a proposito del corso dei cambi. Una volta ristabilitasi la normale distribuzione - e da questo punto in poi -, si ha prima aumento, poi di nuovo uscita...

Ottavo. L'esodo di metallo è per lo più il sintomo di un mutamento nella situazione del commercio estero; a sua volta, questo mutamento è il segno premonitore del maturare di una nuova crisi...

Il metallo nobile viene importato prevalentemente in due fasi: da un lato, nella prima fase di basso saggio d'interesse che segue alla crisi ed è espressione del restringersi della produzione; dall'altro, nella seconda fase, durante la quale il saggio d'interesse aumenta, ma non ha ancora raggiunto il suo livello medio. È questa la fase in cui i rientri avvengono senza difficoltà, il credito commerciale abbonda, quindi la domanda di capitale da prestito non cresce proporzionalmente all'espandersi della produzione. In entrambe le fasi, in cui il capitale da prestito è relativamente copioso, l'afflusso supplementare di capitale che esiste nella forma dell'oro e dell'argento, dunque in una forma nella quale può funzionare dapprima soltanto come capitale prestabile, deve necessariamente influire in misura notevole sul saggio d'interesse e, di conseguenza, sul tono generale del commercio.

D'altra parte, si verifica esodo, esportazione forte e prolungata di metallo nobile, quando i riflussi non avvengono più in modo liscio e scorrevole, i mercati sono saturi ed è solo il credito a mantenere in vita la prosperità apparente; dunque, quando esiste già una domanda assai più forte di capitale da prestito, cosicché il saggio d'interesse raggiunge almeno il suo livello medio. In tali circostanze, che si rispecchiano appunto nell'uscita di metallo nobile, si rafforza considerevolmente l'azione del prelievo continuativo di capitale in una forma in cui esso esiste direttamente come capitale denaro prestabile, il che non può non influire direttamente sul saggio d'interesse. Invece tuttavia di limitare l'attività creditizia, l'aumento del saggio di interesse la promuove, e provoca una tensione estrema di ogni sua risorsa. Questo periodo, perciò, precede il crack...

Non appena in circostanze in qualche modo critiche la Banca eleva il suo tasso di sconto - con il che è pure data la probabilità che la Banca limiti la durata di validità delle cambiali da scontare -, subentra il timore generale che la cosa vada crescendo. Ognuno e, in primo luogo, chi specula sul credito cerca perciò di scontare l'avvenire e avere a sua disposizione nel momento dato la maggior quantità possibile di mezzi di credito. Le ragioni ora addotte si risolvono nel fatto che la pura e semplice quantità sia del metallo nobile importato, sia di quello esportato, non agisce in quanto tale, ma, primo, attraverso il carattere specifico del metallo nobile come capitale in forma denaro e, secondo, come la piuma che, aggiunta al peso sul piatto della bilancia, basta a farla definitivamente traboccare nelle sue oscillazioni da una sola parte; agisce perché interviene in circostanze in cui qualunque eccesso dà il colpo decisivo in un senso o nell'altro...

Ma è appunto lo sviluppo del sistema creditizio e bancario che, da un lato, spinge a mettere forzatamente ogni capitale denaro al servizio della produzione (o, il che è lo stesso, a trasformare ogni reddito monetario in capitale) e dall'altro, in una data fase del ciclo, riduce la riserva metallica a un minimo nel quale essa non può più svolgere le funzioni sue proprie - è questo sistema creditizio e bancario perfezionato che genera una tale ipersensibilità dell'intero organismo...

Non abbiamo [...] considerato la funzione della riserva metallica come garante della convertibilità delle banconote e come perno di tutto il sistema creditizio. La banca centrale è il cardine del sistema del credito. E la riserva metallica è, a sua volta, il cardine della banca...

Come ho già mostrato nel Libro I, capitolo III, trattando del denaro come mezzo di pagamento, il sistema creditizio deve necessariamente capovolgersi nel sistema monetario...

Una certa quantità di metallo, irrilevante rispetto alla produzione complessiva, è riconosciuta come il perno del sistema. Di qui, a prescindere dalla terrificante esemplificazione nelle crisi di questo suo carattere di perno del sistema, il bel dualismo teorico per cui l'economia illuminata, finché si occupa ex professo «del capitale», guarda dall'alto in basso, col massimo disprezzo, l'oro e l'argento come la forma in realtà più indifferente e inutile del capitale, mentre, quando si occupa del sistema bancario, tutto si capovolge, e oro e argento diventano il capitale par excellence, alla cui salvaguardia va sacrificata ogni altra forma di capitale e lavoro. Ma per che cosa l'oro e l'argento si distinguono dalle altre forme di ricchezza? Non per la grandezza di valore, poiché questa è determinata dalla quantità del lavoro in essi oggettivato. Ma come incarnazioni ed espressioni autonome del carattere sociale della ricchezza. [La ricchezza della società esiste solo come ricchezza dei singoli che ne sono i proprietari privati. E si afferma come sociale solo perché questi singoli, per soddisfare le loro esigenze, si scambiano l'un l'altro valori d'uso qualitativamente diversi. Nella produzione capitalistica, possono farlo solo tramite il denaro. È dunque solo tramite il denaro che la ricchezza del singolo si realizza come ricchezza sociale: nel denaro, in questa cosa, è materializzata la natura sociale di questa ricchezza. - F. E.]. Perciò questa sua esistenza sociale appare come un al di là, come un oggetto, una cosa, una merce, accanto ai, e fuori dei, reali elementi della ricchezza sociale. Finché la produzione segue il suo corso, di tutto ciò ci si dimentica. Il credito, come forma anch'essa sociale della ricchezza, scaccia l'oro e ne usurpa il posto. È la fiducia nel carattere sociale della produzione, quella che fa apparire la forma denaro dei prodotti come alcunché di solo transeunte e di ideale, come pura rappresentazione. Ma, non appena il credito è scosso - e questa fase interviene sempre e necessariamente nel ciclo della industria moderna -, ogni ricchezza reale dev'essere convertita effettivamente e di colpo in denaro, in oro e argento; una pretesa assurda, derivante però necessariamente dal sistema stesso.

Nelle conseguenze delle uscite d'oro, il fatto che la produzione non sia realmente sottoposta come produzione sociale al controllo sociale si manifesta in modo clamoroso sotto la specie che la forma sociale della ricchezza esista fuori di essa come una cosa. In realtà, il sistema capitalistico ha tutto ciò in comune con i sistemi di produzione precedenti nella misura in cui questi poggiano sul commercio di merci e sullo scambio privato. Ma solo nel sistema capitalistico esso appare con la massima evidenza e nella più grottesca forma di assurda contraddizione e controsenso, perché 1) nel sistema capitalistico cessa nel modo più completo la produzione per il valore d'uso immediato, per l'autoconsumo dei produttori; quindi la ricchezza esiste solo come processo sociale che si esprime come intreccio di produzione e circolazione; 2) perché, con lo sviluppo del sistema creditizio, la produzione capitalistica tende continuamente a sopprimere questa barriera metallica, barriera al tempo stesso materiale e fantastica, della ricchezza e del suo movimento, ma vi sbatte contro sempre di nuovo la testa.

Nella crisi si ha la pretesa che tutte le cambiali, tutti i titoli, tutte le merci debbano essere di colpo e simultaneamente convertibili in moneta bancaria, e tutta questa moneta bancaria nuovamente in oro.

2. Il corso dei cambi

[Il barometro del movimento internazionale dei metalli monetari è, notoriamente, il corso dei cambi. Se l'Inghilterra deve fare alla Germania più pagamenti di quanti la Germania non ne debba fare all'Inghilterra, a Londra il prezzo del marco espresso in sterline aumenta, e ad Amburgo e Berlino il prezzo della sterlina espresso in marchi cala. Se questo squilibrio negli obblighi di pagamento dell'Inghilterra verso la Germania non si riaggiusta, per es. grazie al prevalere di acquisti tedeschi in Inghilterra, è inevitabile che il prezzo della sterlina per cambiali in marchi sulla Germania salga finché non convenga spedire dall'Inghilterra in pagamento alla Germania non cambiali, ma metallo - moneta aurea o lingotti. È questa la procedura tipica.

Se l'esportazione di metallo nobile cresce in volume e si prolunga, la riserva bancaria inglese ne risulta intaccata, e il mercato monetario inglese, in primo luogo la B. d'I., deve prendere provvedimenti di difesa. Questi consistono essenzialmente, come si è già visto, in un aumento del saggio d'interesse. Se il deflusso d'oro è notevole, il mercato monetario è di regola pesante, cioè la domanda di capitale da prestito in forma denaro supera sensibilmente l'offerta, e l'aumento del saggio d'interesse avviene da sé; il tasso di sconto decretato dalla B. d'I. corrisponde allo stato dei fatti, e si impone sul mercato. Ma si hanno pure casi in cui l'uscita di metallo proviene da combinazioni d'affari diverse dalle consuete (per es. prestiti a Stati esteri, investimenti di capitale all'estero, ecc.) e il mercato monetario londinese in quanto tale non giustifica in alcun modo un aumento notevole del saggio d'interesse; allora la B. d'I. deve prima «rendere scarso il denaro», come si suol dire, contraendo forti prestiti sul «mercato aperto» per creare artificialmente la situazione che poi giustifica o rende necessario un aumento del saggio d'interesse; manovra che le diventa di anno in anno più difficile. - F.E.]...

La bilancia commerciale inglese

La questione, per quanto riguarda la bilancia commerciale e il corso dei cambi, è,

in ogni momento dato, una questione di tempo [...]. Di norma l'Inghilterra concede sulle sue esportazioni crediti a lungo termine, mentre le importazioni sono pagate in contanti. In certi periodi, questa differenza nelle modalità e nei termini di scadenza influisce decisamente sul corso dei cambi. In tempi in cui le nostre esportazioni aumentano, e non di poco, come nel 1850, è inevitabile che si registri una continua espansione negli investimenti di capitale britannico [...]. Così le rimesse del 1850 possono essere eseguite contro merci esportate nel 1849. Ma se, nel 1850, le esportazioni superano di oltre 9 milioni quelle del 1849, l'effetto pratico sarà che all'estero si spedisca, per quell'ammontare, più denaro di quanto non ne sia rientrato nello stesso anno, il che influisce sul corso dei cambi e sul saggio d'interesse. Quando invece il commercio è in crisi e le nostre esportazioni si riducono, le rimesse giunte a scadenza per le forti esportazioni di anni precedenti superano di gran lunga il valore delle nostre importazioni; il corso dei cambi volge perciò a nostro favore, il capitale si accumula rapidamente in patria e il saggio d'interesse scende» («Economisti), 11 genn. 1851).

Il corso dei cambi può variare:

1) Per effetto della situazione momentanea della bilancia dei pagamenti, quali che siano le cause che la determinano: cause puramente commerciali, investimenti all'estero, spese statali per guerre ecc., nella misura in cui implicano che si effettuino pagamenti in contanti all'estero.

2) In seguito a svalutazione della moneta, metallica o cartacea, in un dato paese...

3) Se si tratta dei rapporti di cambio fra paesi di cui l'uno ripiega come «denaro» argento e l'altro oro, il corso dipende dalle oscillazioni del valore relativo di questi metalli, la cui Parità non può non esserne alterata...

Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. The Scotch hate gold. Sotto forma di carta, l'esistenza monetaria delle merci è di natura puramente sociale. È la fede che rende beati: la fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine predestinato, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale che si autovalorizza. Ma, come il protestantesimo non si emancipa dalle fondamenta del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalle fondamenta del sistema monetario.

Capitolo XXXVI

IN EPOCA PRECAPITALISTICA

Il capitale produttivo d'interesse o, come possiamo chiamarlo nella sua forma arcaica, il capitale usurario, appartiene con il suo fratello gemello, il capitale commerciale, alle forme antidiluviane del capitale, che precedono di gran lunga il modo di produzione capitalistico e si ritrovano nelle più differenti formazioni socio-economiche

L'esistenza del capitale usurario non esige se non che almeno una parte dei prodotti si sia trasformata in merci e che, contemporaneamente al commercio di merci, si sia sviluppato nelle sue diverse funzioni il denaro.

Lo sviluppo del capitale usurario si riallaccia a quello del capitale commerciale e, specialmente, a quello del capitale per il commercio di denaro...

Si è visto come, con il denaro, appaia necessariamente la tesaurizzazione. Il tesaurizzatore di professione diventa tuttavia importante solo quando si converte in usuraio.

Il commerciante prende a prestito denaro per ottenere con esso un profitto; per impiegarlo, cioè spenderlo, come capitale. Anche nelle forme più antiche, quindi, il prestatore di denaro gli si contrappone esattamente come al moderno capitalista...

Le forme caratteristiche in cui si presenta il capitale usurario ai primordi del modo di produzione capitalistico, sono però due. Dico forme caratteristiche, perché le stesse forme si ripetono sulla base della produzione capitalistica, ma come forme puramente subalterne: non sono più, qui, le forme che determinano il carattere del capitale produttivo d'interesse. Queste due forme sono, primo, l'usura mediante prestito di denaro a nobili, e soprattutto proprietari fondiari, dissipatori; secondo, l'usura mediante prestito di denaro ai piccoli produttori in possesso delle loro condizioni di lavoro, categoria che comprende l'artigiano ma soprattutto il contadino, perché in generale, nelle condizioni precapitalistiche, nella misura in cui permettono l'esistenza di piccoli produttori individuali indipendenti, la classe contadina non può non costituirne la grande maggioranza.

Sia la rovina dei ricchi proprietari fondiari ad opera dell'usura, sia il dissanguamento dei piccoli produttori, portano alla formazione e concentrazione di grandi capitali denaro In qual misura questo processo dissolva l'antico modo di produzione, come è avvenuto nell'Europa moderna, e se gli subentri il modo di produzione capitalistico, dipende interamente dal grado di sviluppo storico e dalle circostanze che lo accompagnano.

Il capitale usurario come forma caratteristica del capitale produttivo d'interesse corrisponde al predominio della piccola produzione, dei coltivatori diretti e dei piccoli mastri artigiani-

Dove, come nel modo di produzione capitalistico sviluppato, le condizioni di lavoro e il prodotto del lavoro si contrappongono come capitale al lavoratore, egli, in quanto produttore, non ha da prendere in prestito denaro di sorta. Se lo fa, lo fa al monte dei pegni per i suoi bisogni personali. Dove invece il lavoratore è proprietario, reale o nominale, delle sue condizioni di lavoro e del suo prodotto, in quanto produttore egli è in rapporto col capitale del prestatore di denaro, che gli si contrappone come capitale usurario...

Sotto la forma dell'interesse, l'usuraio può qui divorare tutto ciò che eccede i più indispensabili mezzi di sussistenza (l'importo di quello che poi sarà il salario) dei produttori (che in seguito appare come profitto e rendita fondiaria); è quindi più che assurdo confrontare il livello di questo interesse, in cui egli si appropria, con l'eccezione di quanto compete allo Stato, tutto il plusvalore, e il livello del moderno interesse, che, almeno se e quello normale, costituisce soltanto una frazione di questo plusvalore Si dimentica con ciò che il lavoratore salariato produce e cede al capitalista che lo impiega il profitto, l'interesse e la rendita fondiaria; insomma, l'intero plusvalore...

L'usura, dunque, da un lato agisce nel senso di minare e distruggere la ricchezza e la proprietà antiche e feudali, dall'altro corrode le basi e porta alla rovina la produzione piccolo-contadina e piccolo-artigiana, insomma tutte le forme in cui il produttore si presenta come proprietario dei suoi mezzi di produzione. Nel modo di produzione capitalistico sviluppato, il lavoratore non è proprietario delle condizioni di produzione, del campo che coltiva, della materia prima che trasforma, ecc. Ma a questa estraniazione delle condizioni di produzione dal produttore corrisponde qui un effettivo rivoluzionamento del modo di produzione stesso. I lavoratori isolati vengono riuniti in grandi officine per svolgere un'attività insieme suddivisa e concatenata; l'utensile diventa macchina. Lo stesso modo di produzione non permette più il frazionamento degli strumenti di produzione legato alla piccola proprietà, così come non permette l'isolamento dei lavoratori. Nella produzione capitalistica, l'usura non può più separare dal produttore le condizioni di produzione, perché esse ne sono già separate

L'usura centralizza i patrimoni monetari là dove i mezzi di produzione sono frazionati. Non altera il modo di produzione, ma se ne nutre come un parassita, e lo immiserisce. Lo dissangua, lo debilita, e costringe la riproduzione a svolgersi in condizioni sempre più miserande...

Nella misura in cui la schiavitù domina, o nella misura in cui il plusprodotto è divorato dal signore feudale e relativo seguito, e il proprietario di schiavi o il signore feudale soggiacciono all'usura, anche il modo di produzione rimane lo stesso; solo diventa, per il lavoratore, più duro. Il proprietario di schiavi o il signore feudale indebitatosi spreme di più, perché a sua volta è più spremuto. Oppure finisce col cedere il posto all'usuraio, che diventa egli stesso proprietario fondiario o proprietario di schiavi, come il cavaliere nell'antica Roma. Alle vecchie sanguisughe il cui sfruttamento aveva un carattere più o meno patriarcale, perché era in gran parte un mezzo di potenza politica, subentra un duro e vorace parvenu. Ma il modo di produzione stesso non ne è modificato.

Fattore rivoluzionario è l'usura, in tutti i modi di produzione precapitalistici, solo in quanto distrugge e dissolve le forme di proprietà sulla cui salda base e sulla cui costante riproduzione nella stessa forma poggia l'ordinamento politico. Nelle forme asiatiche l'usura può sussistere a lungo senza provocare altro che decadenza economica e corruzione politica. Solo dove e quando sono presenti tutte le altre condizioni del modo di produzione capitalistico l'usura appare come uno dei fattori genetici del nuovo modo di produzione, perché da un lato rovina i signori feudali e i piccoli produttori, dall'altro centralizza le condizioni di lavoro trasformandole in capitale...

Il capitale usurario possiede il modo di sfruttamento del capitale senza il suo modo di produzione...

In confronto alla ricchezza che consuma, l'usura è storicamente importante come processo attraverso il quale nasce il capitale. Capitale usurario e capitale commerciale mediano la formazione di patrimoni monetari indipendenti dalla proprietà fondiaria. Quanto meno è sviluppato il carattere di merce del prodotto, quanto meno il valore di scambio si è impadronito della produzione in tutta la sua ampiezza e profondità, tanto più il denaro appare come la vera ricchezza in quanto tale, come la ricchezza universale, in confronto al suo angusto modo di rappresentarsi in valori d'uso. È questo il fondamento della tesaurizzazione...

La tesaurizzazione diventa reale, attua il suo sogno, soltanto nell'usura. Ciò che si chiede al tesaurizzatore non è capitale, ma denaro come denaro; tuttavia, mediante l'interesse, egli trasforma per sé questo tesoro monetario in capitale — in mezzo per appropriarsi in tutto o in parte il pluslavoro oltre ad una frazione delle condizioni di produzione, anche se, nominalmente, esse continuano a contrapporglisi come proprietà altrui...

Il vero, grande e specifico terreno dell'usura è però la funzione del denaro come mezzo di pagamento. Ogni prestazione in denaro a scadenza determinata, canone d'affitto, tributo, imposta, ecc., porta con sé la necessità di un pagamento in moneta...

Ma la stessa usura diventa un mezzo essenziale per lo sviluppo ulteriore della necessità del denaro come mezzo di pagamento, indebitando sempre più il produttore e privandolo dei comuni mezzi di pagamento col rendergli impossibile, per l'onere schiacciante degli interessi, una regolare riproduzione. Qui l'usura scaturisce dal denaro come mezzo di pagamento ed estende questa funzione del denaro, suo specifico terreno...

Lo sviluppo del sistema creditizio si compie come reazione all'usura. Ma ciò non va né frainteso [...]. Esso significa, né più né meno, la subordinazione del capitale produttivo d'interesse alle condizioni e alle esigenze del modo di produzione capitalistico.

Nel moderno sistema del credito, il capitale produttivo d'interesse viene nell'insieme adattato alle condizioni della produzione capitalistica. L'usura in quanto tale non solo continua ad esistere, ma, in popoli a produzione capitalistica evoluta, viene liberata dagli ostacoli che tutte le legislazioni precedenti le opponevano...

Ciò che distingue il capitale produttivo d'interesse, in quanto elemento essenziale del modo di produzione capitalistico, dal capitale usurario, non è affatto la natura o il carattere di questo stesso capitale. Sono soltanto le mutate condizioni in cui esso opera, quindi anche la figura totalmente diversa di colui che prende a prestito in contrapposto a colui che dà in prestito del denaro. Anche quando un uomo privo di mezzi ottiene del credito come industriale o commerciante, ciò avviene nella fiducia ch'egli funzionerà come capitalista, si approprierà col capitale preso a prestito lavoro non retribuito. Gli si fa credito in quanto capitalista potenziale. E il fatto, tanto ammirato dagli apologeti economici, che un uomo senza patrimonio, ma con energia, solidità, destrezza e conoscenza degli affari, possa così trasformarsi in capitalista - e, nel modo di produzione capitalistico, il valore commerciale di ciascuno è, in genere, più o meno giustamente valutato -, sebbene porti continuamente in campo, a fronte dei capitalisti individuali già esistenti, tutta una schiera non gradita di nuovi cavalieri di fortuna, rafforza il dominio dello stesso capitale, ne allarga le basi, e gli permette di reclutare al proprio servizio forze sempre nuove dagli strati inferiori della società...

Anziché dall'anatema contro il capitale produttivo d'interesse in generale, è, al contrario, dal suo espresso riconoscimento che partono gli iniziatori del moderno sistema creditizio...

Se ci si attiene all'effettivo contenuto degli scritti che accompagnano e promuovono sul piano teorico la nascita in Inghilterra del moderno sistema creditizio, non vi si trova se non la richiesta della subordinazione del capitale produttivo d'interesse, e in generale dei mezzi di produzione prestabili, al modo di produzione capitalistico come una delle sue condizioni...

Non bisogna [...] mai dimenticare, primo, che il denaro - nella forma dei metalli nobili - resta la base dalla quale il sistema creditizio, per sua natura, non può mai svincolarsi; secondo, che il sistema creditizio ha come presupposto il monopolio dei mezzi di produzione sociali (nella forma di capitale e proprietà fondiaria) in mano a privati; che è esso stesso, da un lato, una forma immanente del modo di produzione capitalistico e, dall'altro, una delle forze motrici del suo sviluppo verso la sua forma più alta ed estrema possibile...

Il sistema bancario è, per organizzazione formale e per centralizzazione, il prodotto più raffinato e complesso al quale in generale porti il modo di produzione capitalistico...

Grazie al sistema bancario la ripartizione del capitale viene sottratta come attività particolare, come funzione sociale, alle mani dei capitalisti privati ed usurai. Ma banca e credito diventano così, nello stesso tempo, il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di la delle sue barriere, ed uno dei più efficaci veicoli delle crisi e degli imbrogli.

Con la sostituzione di diverse forme di credito circolante in luogo del denaro, inoltre, il sistema bancario mostra che il denaro non è in realtà che una particolare espressione del carattere sociale del lavoro e dei suoi prodotti, che però in antitesi alla base della produzione privata deve sempre presentarsi, in ultima istanza, come cosa, come merce particolare accanto ad altre merci...

Il capitale commerciale e il capitale produttivo di interesse sono le forme più antiche del capitale. Ma e nella natura della cosa che il capitale produttivo d'interesse si presenti alla immaginazione popolare come la forma del capitale par excellence. Nel capitale commerciale ha luogo un'attività d'intermediazione, la si interpreti come frode, lavoro o che altro. Nel capitale produttivo di interesse, invece, il carattere autoriproduttivo del capitale, il valore che si valorizza, la produzione del plusvalore, si presenta nella sua purezza come qualità occulta. Così avviene che, soprattutto in paesi in cui il capitale industriale non si è ancora pienamente sviluppato, come la Francia, perfino una parte degli economisti vi si aggrappi come alla forma fondamentale del capitale e, per esempio, concepisca la rendita fondiaria solo come un'altra delle sue forme, dato che anche qui predomina la forma del cedere in prestito. Si misconosce così totalmente la struttura interna del modo di produzione capitalistico e si trascura il fatto che la terra, esattamente come il capitale, viene data in prestito solo a capitalisti. Naturalmente, invece di denaro, si possono prestare mezzi di produzione in natura, come macchine, edifici aziendali, ecc. Ma allora essi rappresentano una determinata somma di denaro, e il fatto che, oltre all'interesse, una parte la si versi in conto logorio deriva dal valore d'uso, dalla specifica forma naturale di questi elementi del capitale. Anche qui, ciò che è decisivo è se essi sono dati in prestito ai produttori immediati, il che presuppone la non-esistenza del modo di produzione capitalistico, almeno nella sfera in cui ciò avviene; o se sono prestati ai capitalisti industriali, il che, sulla base del modo di produzione capitalistico, è appunto il presupposto. Ancor più assurdo e irrazionale è fare intervenire il prestito di case ecc. per il consumo individuale. Che la classe operaia venga gabbata anche in questa forma, e in modi che gridano vendetta, è certo un fatto; ma lo è pure ad opera del dettagliante che le fornisce i mezzi di sussistenza. È questo uno sfruttamento secondario che va di pari passo con 1° sfruttamento originario, quello cioè che si compie direttamente nel processo di produzione. La differenza fra vendere e prestare è qui del tutto formale e priva d'oggetto e, come si è già mostrato, assume importanza solo per un completo misconoscimento del contesto reale.

Sia l'usura, sia il commercio, sfruttano un dato modo di produzione, non lo creano, hanno con esso un rapporto estrinseco.

L'usura cerca di mantenerlo direttamente, per poterlo sempre di nuovo sfruttare; è conservatrice, non fa che renderlo più miserabile. Quanto meno gli elementi della produzione entrano come merci nel processo di produzione, e come merci ne escono, tanto più appare come un atto particolare la loro genesi dal denaro. Quanto più insignificante è la parte svolta dalla circolazione nella riproduzione sociale, tanto più fiorisce l'usura.

Che il patrimonio monetario si sviluppi come particolare patrimonio significa, per quanto riguarda il capitale usurario, che esso possiede tutti i suoi crediti nella forma di crediti monetari. Esso si sviluppa tanto più in un dato paese, quanto più la massa della produzione vi si limita a prestazioni in natura, ecc.; dunque, a valori d'uso.

In quanto ha il duplice effetto, primo, accanto al ceto mercantile, di creare un patrimonio monetario indipendente, e, secondo, di appropriarsi le condizioni di lavoro, cioè di rovinare i proprietari delle antiche condizioni di lavoro, l'usura è una leva potente ai fini della creazione dei presupposti del capitale industriale.

Sezione VI

TRASFORMAZIONE DEL SOVRAPROFITTO IN RENDITA FONDIARIA

Capitolo XXXVII
Note introduttive

L'analisi della proprietà fondiaria nelle diverse forme da essa assunte nella storia esce dai confini del presente volume. Noi ce ne occupiamo unicamente in quanto una frazione del plusvalore prodotto dal capitale tocca al proprietario del terreno. Presupponiamo quindi che l'agricoltura sia dominata, proprio come la manifattura, dal modo di produzione capitalistico, cioè che la economia agraria sia esercitata da capitalisti i quali, a tutta prima, non si distinguono dagli altri se non per l'elemento in cui sono investiti il loro capitale e il lavoro salariato che questo mette in moto. Per noi l'affittuario produce grano ecc. come il fabbricante produce refe o macchine. L'ipotesi che il modo di produzione capitalistico si sia impadronito dell'agricoltura implica che esso domini tutte le sfere della produzione e della società civile; che perciò siano anche presenti nella loro maturità piena le sue condizioni: la libera concorrenza dei capitali, la loro trasferibilità da una sfera di produzione all'altra, un eguale livello del profitto medio, ecc...

Il modo di produzione capitalistico, se implica in generale l'espropriazione dei lavoratori dalle condizioni di lavoro, in agricoltura implica l'espropriazione dei lavoratori agricoli dal suolo, e la loro sottomissione ad un capitalista esercitante l'agricoltura in vista del profitto...

Lo studio della forma moderna della proprietà fondiaria è per noi necessario, in quanto si tratta di considerare in genere gli specifici rapporti di produzione e di scambio derivanti dall'investimento del capitale nell'agricoltura, senza di che l'analisi dello stesso risulterebbe incompleta. Ci limitiamo perciò all'investimento di capitale nell'agricoltura propriamente intesa, cioè nella produzione della principale materia vegetale di cui vive una popolazione. Possiamo dire il grano, essendo questo l'alimento-base dei popoli moderni, capitalisticamente sviluppati...

La proprietà fondiaria implica il monopolio, di cui godono certe persone, di disporre di determinate frazioni del pianeta come sfere esclusive della loro volontà privata, ad esclusione di tutte le altre..

Ammesso ciò, si tratta di analizzare il valore economico, cioè la valorizzazione, di questo monopolio sulla base della produzione capitalistica. Con il potere giuridico di queste persone di usare ed abusare di frazioni del globo non si spiega nulla. L'uso ne dipende in tutto e per tutto da condizioni economiche che sono indipendenti dalla loro volontà. a stessa concezione giuridica non significa se non che il proprietario fondiario può comportarsi col terreno come ogni proprietario di merci si comporta con la sua merce; e questa concezione - la concezione giuridica della libera proprietà privata del suolo - appare nel mondo antico solo al momento della dissoluzione dell'ordinamento sociale organico e, nel mondo moderno, solo con lo sviluppo della produzione capitalistica [...]. Nella sezione sull'accumulazione originaria (Libro I, capitolo XXIV) si è visto come questo modo di produzione presupponga da un lato l'emancipazione del produttore immediato dalla condizione di puro e semplice accessorio del suolo (nella forma di subalterno, servo della gleba, schiavo, ecc.), dall'altro l'espropriazione della massa del popolo dalla terra. In questo senso il monopolio della proprietà fondiaria è un presupposto storico, e rimane la base permanente, del modo di produzione capitalistico come di tutti gli altri modi di produzione precedenti che poggiano sullo sfruttamento, in questa o quella forma, delle masse. Ma la forma in cui il modo di produzione capitalistico ai suoi primordi trova già costituita la proprietà fondiaria, non gli corrisponde. La forma corrispondente al modo di produzione capitalistico è esso stesso a crearla, mediante sottomissione dell'agricoltura al capitale...

È uno dei grandi risultati del modo di produzione capitalistico il fatto che, da un lato, esso trasformi l'agricoltura da metodo puramente empirico, e meccanicamente tramandantesi di generazione in generazione, della parte meno evoluta della società in cosciente impiego scientifico dell'agronomia, nella misura in cui ciò è possibile nel quadro dei rapporti dati con la proprietà privata; il fatto che, da un lato, esso liberi completamente la proprietà fondiaria dai rapporti di signoria e servitù e, dall'altro, separi totalmente il suolo come condizione di lavoro dalla proprietà fondiaria e dal proprietario fondiario, per il quale esso non rappresenta più che una determinata imposta in denaro, da lui prelevata, grazie al suo monopolio, sul capitalista industriale, cioè l'affittuario... La razionalizzazione dell'agricoltura, che sola permette di esercitarla socialmente, da una parte, e la riduzione all'assurdo della proprietà fondiaria, dall'altra: sono questi i grandi meriti del modo di produzione capitalistico. Come tutti gli altri suoi progressi storici, esso li ha comprati, innanzitutto, a prezzo della pauperizzazione completa dei produttori immediati...

Il presupposto, nel modo di produzione capitalistico, è dunque il seguente: i veri e propri coltivatori del suolo sono lavoratori salariati, assunti da un capitalista, cioè l'affittuario, che pratica l'agricoltura solo come particolare campo di sfruttamento del suo capitale, come investimento del suo capitale in una particolare sfera di produzione. Questo affittuario-capitalista paga al proprietario fondiario, al proprietario del terreno da lui sfruttato, a date scadenze, per es. ogni anno, una somma di denaro stabilita per contratto (esattamente come chi prende in prestito del capitale denaro paga un determinato interesse) per l'autorizzazione a investire il suo capitale in quel determinato campo di produzione. Questa somma di denaro si chiama rendita fondiaria, poco importa se ricavata da terreno agricolo, suolo edificabile, miniera, pescheria, foresta, ecc. Essa è pagata per tutto il tempo durante il quale, per contratto, il proprietario fondiario ha ceduto in prestito il terreno, lo ha affittato. La rendita fondiaria, dunque, è la forma in cui si realizza economicamente, si valorizza, la proprietà fondiaria. Qui abbiamo inoltre le tre classi che costituiscono nel loro insieme, e l'una di fronte all'altra, il quadro della società moderna - lavoratori salariati, capitalisti industriali, proprietari fondiari.

Il capitale può essere fissato nel suolo, incorporato in esso, sia in modo transitorio, come nel caso di migliorie di natura chimica, concimazione ecc., sia in modo più o meno permanente, come nel caso di canali di scarico, impianti di irrigazione, livellamenti, edifici rurali, ecc. Altrove ho chiamato la terre-capital il capitale così incorporato nel suolo...

Esso cade sotto la categoria del capitale fisso. L'interesse per il capitale incorporato nel suolo, e per le migliorie che esso così riceve in quanto strumento di produzione, può costituire una parte della rendita pagata dal fittavolo al proprietario terriero, ma non la vera e propria rendita fondiaria, che si paga per l'uso del terreno in quanto tale, si trovi esso allo stato naturale o sia coltivato...

Gli investimenti di capitale più o meno temporanei, che gli abituali processi di produzione in agricoltura comportano, vengono eseguiti tutti senza eccezione dal fittavolo. Questi investimenti, così come in generale la semplice coltura se viene esercitata in modo più o meno razionale, se quindi non si riduce al brutale dissanguamento del suolo, [...]— eventualità contro la quale, tuttavia, i signori proprietari fondiari si assicurano per contratto - migliorano il terreno, ne aumentano la produzione e trasformano la terra da pura e semplice materia in terra-capitale. Un campo coltivato vale più di un terreno incolto della stessa qualità naturale. Anche i capitali fissi di natura più permanente incorporati nel suolo, e che si esauriscono in tempi piuttosto lunghi, sono forniti in gran parte, e spesso - in date sfere - esclusivamente, dal fittavolo. Ma, scaduto il termine contrattuale d'affitto - ed è questa una delle ragioni per cui, sviluppandosi la produzione capitalistica, il proprietario fondiario cerca per quanto è possibile di ridurre la durata dell'affitto -, le migliorie incorporate nel suolo passano in proprietà del possessore del terreno, come accidenti, inseparabili dalla sostanza, di quest'ultimo. Nel nuovo contratto d'affitto ch'egli stipula, il proprietario fondiario aggiunge alla vera e propria rendita l'interesse per il capitale incorporato nella terra, sia che affitti il terreno allo stesso fittavolo al quale si devono quelle migliorie, sia che lo affitti a un altro. La sua rendita così si gonfia; ovvero, se decide di vendere il suolo - vedremo subito come ne viene determinato il prezzo -, il suo valore è ora cresciuto. Egli vende non soltanto il terreno, ma il terreno migliorato, il capitale incorporato nel suolo, che non gli è costato nulla. È questo uno dei segreti — a prescindere dal movimento della rendita fondiaria in senso proprio - del crescente arricchirsi dei proprietari fondiari, del costante gonfiarsi delle loro rendite, e dell'aumento del valore monetario delle loro tenute con il progredire dello sviluppo economico. Così essi infilano nelle loro tasche private il frutto, al quale non hanno in alcun modo contribuito, dell'evoluzione sociale - fruges consumere nati...

Nell'agricoltura vera e propria, questo processo non risulta chiaro come nell'uso del suolo in qualità di terreno edificabile...

[L']esempio della proprietà edilizia è importante, 1) perché mostra chiaramente la differenza fra la vera e propria rendita fondiaria e l'interesse del capitale fisso incorporato nel terreno, che può costituire un'aggiunta alla rendita fondiaria (l'interesse dei fabbricati, come in agricoltura quello del capitale incorporato nel suolo dal fittavolo, va al capitalista industriale, allo speculatore edile o all'affittuario, per la durata del contratto di locazione, e, in sé e per sé, non ha nulla a che vedere con la rendita fondiaria, che deve essere pagata a scadenze fisse per l'uso del terreno); 2) perché mostra come in definitiva, insieme al terreno, il capitale altrui in esso incorporato tocchi al proprietario fondiario, e l'interesse di questo capitale gonfi la sua rendita.

Alcuni scrittori, in parte come portavoce della proprietà fondiaria contro gli attacchi degli economisti borghesi, in parte nel tentativo di trasformare il sistema di produzione capitalistico in un sistema di «armonie» anziché di contrasti, [...], hanno cercato di presentare la rendita fondiaria, espressione economica specifica della proprietà terriera, come identica all'interesse...

La confusione tra la rendita fondiaria e la forma - che essa assume per l'acquirente del terreno — dell'interesse, confusione poggiante su un'assoluta incomprensione della natura della rendita fondiaria, non può non condurre ai più straordinari sofismi...

Il fatto che la rendita fondiaria capitalizzata si rappresenti come prezzo del suolo, o valore del suolo, e che perciò la terra venga comprata e venduta come ogni altra merce, vale per alcuni apologeti come argomento a giustificazione della proprietà fondiaria, dato che l'acquirente ha pagato per essa, come per ogni altra merce, un equivalente, ed è in questo modo che la maggior parte della proprietà terriera ha cambiato di mano.

Ma allora lo stesso argomento varrebbe a giustificazione della schiavitù, in quanto per il padrone di schiavi, che ha pagato lo schiavo in contanti, il ricavo del lavoro di costui non rappresenta che l'interesse del capitale speso nel suo acquisto. Dedurre dall'acquisto e dalla vendita della rendita fondiaria la giustificazione della sua esistenza significa, in generale, giustificarne l'esistenza con la sua esistenza.

Come per l'analisi scientifica della rendita fondiaria - cioè della specifica, indipendente forma economica della proprietà fondiaria sulla base del modo di produzione capitalistico - è importante considerarla nella sua purezza, libera da tutte le aggiunte che la falsano e la obliterano, così per la comprensione degli effetti pratici della proprietà fondiaria, come anche per l'interpretazione teorica di una quantità di fatti che contraddicono al concetto e alla natura della rendita fondiaria e purtuttavia appaiono come suoi modi di esistenza, è altrettanto importante conoscere gli elementi dai quali traggono origine questi offuscamenti della teoria.

Nella pratica, naturalmente, appare come rendita fondiaria tutto ciò che il fittavolo paga al proprietario fondiario sotto forma di canone d'affitto per il permesso di coltivare il terreno. Quali che siano gli elementi dei quali questo tributo si compone, quali che siano le fonti da cui scaturisce, esso ha in comune con la vera e propria rendita fondiaria il fatto che il monopolio su un lembo del pianeta autorizza il cosiddetto proprietario fondiario a riscuotere il tributo, a imporre il pedaggio. Ha in comune con la vera e propria rendita fondiaria il fatto di determinare il prezzo del terreno che, come si è mostrato più sopra, non è se non il reddito capitalizzato della cessione in affìtto del suolo...

Nel considerare le forme fenomeniche della rendita fondiaria, cioè del canone di affitto che si paga per l'uso del suolo, a scopi sia produttivi che di consumo, sotto il titolo di rendita fondiaria, bisogna [...] tener presente che il prezzo di cose che in sé e per sé non hanno alcun valore, che cioè non sono il prodotto del lavoro (per es. la terra), o che, quanto meno, non possono essere riprodotte mediante lavoro (per es. le antichità, le opere d'arte di determinati maestri, ecc.), può essere stabilito da combinazioni in alto grado fortuite. Per vendere una cosa, non occorre se non che essa sia monopolizzabile ed alienabile.

Tre sono i principali errori che si devono evitare nello studio della rendita fondiaria, e che offuscano l'analisi:

1) La confusione tra le diverse forme della rendita, che corrispondono a diversi stadi di sviluppo del processo di produzione sociale.

Qualunque sia la forma specifica della rendita, tutti i tipi di essa hanno in comune il fatto che l'appropriazione della rendita è la forma economica in cui si realizza la proprietà fondiaria, e che, da parte sua, la rendita fondiaria presuppone una proprietà fondiaria, la proprietà di determinati individui su determinate porzioni del pianeta...

Questo elemento comune delle diverse forme della rendita - l'essere cioè realizzazione economica della proprietà fondiaria, della finzione giuridica in virtù della quale diversi individui possiedono in esclusiva determinate frazioni del globo - non permette di coglierne le differenze.

2) Ogni rendita fondiaria è plusvalore, prodotto di pluslavoro. Essa è ancora direttamente plusprodotto nella sua forma non sviluppata, quella della rendita in natura. Di qui l'errore di credere che la rendita corrispondente al modo di produzione capitalistico, che è sempre eccedenza sul profitto, cioè su una parte di valore della merce consistente a sua volta in plusvalore (pluslavoro) - che, dunque, questo elemento particolare e specifico del plusvalore si spieghi rifacendosi alle condizioni generali di esistenza del plusvalore e del profitto in quanto tali... Ma le condizioni soggettive ed oggettive del pluslavoro e del plusvalore in generale non hanno nulla a che vedere con la forma determinata né del profitto, né della rendita. Esse valgono per il plusvalore in quanto tale, qualunque forma particolare il plusvalore assuma: quindi, non spiegano la rendita fondiaria.

3) È appunto a proposito della valorizzazione economica della proprietà terriera, dello sviluppo della rendita fondiaria, che si presenta come particolarmente caratteristico il fatto che l'ammontare di quest'ultima sia determinato non dall'intervento del suo beneficiario, ma dall'evoluzione, indipendente dalla sua opera, del lavoro sociale, cui egli non prende alcuna parte. È quindi facile che si interpreti come peculiarità della rendita (e del prodotto agricolo in generale) ciò che, sulla base della produzione di merci, e in specie della produzione capitalistica che è produzione di merci in tutta la sua estensione, è comune ad ogni ramo di produzione e a ognuno dei loro prodotti.

L'entità della rendita fondiaria (e con essa il valore del suolo) aumenta nel corso dell'evoluzione sociale come risultato del lavoro sociale totale...

La rendita può svilupparsi in rendita monetaria soltanto sulla base della produzione di merci, meglio ancora della produzione capitalistica, e si sviluppa nella stessa misura in cui la produzione agricola diventa produzione di merci; dunque, nella stessa misura in cui la produzione non agricola si sviluppa in modo autonomo nei suoi confronti, perché nella stessa misura il prodotto agricolo diventa merce, valore di scambio e valore. Nella stessa proporzione in cui, con la produzione capitalistica, si sviluppa la produzione di merci, quindi la produzione di valore, si sviluppa anche la produzione di plusvalore e di plusprodotto. Ma, nella stessa proporzione in cui si sviluppa quest'ultima, si sviluppa anche la capacità della proprietà fondiaria di carpire una parte crescente di questo plusvalore grazie al suo monopolio sulla terra; quindi, la capacità di accrescere il valore della propria rendita e lo stesso prezzo del suolo. Nello sviluppo di questo plusvalore e plusprodotto il capitalista è ancora funzionario attivo e personale: il proprietario terriero non ha che da arraffare la quota, in aumento senza il suo concorso, e del plus- prodotto e del plusvalore. È questa la peculiarità della sua situazione, non il fatto che il valore dei prodotti agricoli e quindi dello stesso suolo cresca sempre nella misura in cui il loro mercato si estende, la domanda aumenta e con essa si amplia il mondo delle merci che si contrappone alla produzione agricola; in altre parole, nella misura in cui cresce la massa sia dei produttori di merci non agricole, sia della produzione non agricola di merci. Ma, poiché ciò avviene senza il suo contributo, appare come qualcosa di suo specifico che massa del valore, massa del plusvalore, e conversione di una parte di questo plusvalore in rendita fondiaria, dipendano dal processo di produzione sociale, dallo sviluppo della produzione di merci in generale...

Nessun produttore, né l'industriale né l'agricoltore, considerato isolatamente, produce merce o valore. Il suo prodotto diventa valore e merce solo in un contesto sociale dato e, prima di tutto, nella misura in cui esso appare come rappresentazione di lavoro sociale, dunque il suo proprio tempo di lavoro appare come parte del tempo di lavoro sociale; in secondo luogo, questo carattere sociale del suo lavoro appare come carattere sociale impresso al suo prodotto, tanto nel suo carattere monetario quanto nella sua scambiabilità generale, determinata dal prezzo.

Se quindi, da una parte, invece di spiegare la rendita si spiega il plusvalore o, in una versione ancora più ristretta, il plusprodotto, dall'altra si commette l'errore di attribuire esclusivamente ai prodotti del suolo un carattere proprio di tutti i prodotti in quanto merci e in quanto valori. E si banalizza ancor più la questione allorché dalla determinazione generale del valore si retrocede alla realizzazione di un determinato valore-merce. Ogni merce può realizzare il suo valore unicamente nel processo di circolazione, e dipende dalle condizioni esistenti di volta in volta sul mercato se e in qual misura essa si realizza.

La caratteristica peculiare della rendita fondiaria non è dunque che i prodotti del suolo si sviluppino in valori e come valori; cioè che si contrappongano come merci alle altre merci e ad essi si contrappongano come merci i prodotti non agricoli, o che si sviluppino come espressioni particolari del lavoro sociale. La sua caratteristica peculiare è che, unitamente alle condizioni in cui i prodotti agricoli si sviluppano come valori (come merci) ed alle condizioni della realizzazione dei loro valori, cresce anche il potere della proprietà fondiaria di accaparrare una parte crescente di questi valori creati senza il suo concorso; che una parte crescente del plusvalore si converte in rendita fondiaria.

 

Capitolo XXXVIII

LA RENDITA DIFFERENZIALE: CONSIDERAZIONI GENERALI

Nell'analisi della rendita fondiaria partiremo a tutta prima dall'ipotesi che [...] i prodotti agricoli o minerari si vendano, come tutte le altre merci, ai loro prezzi di produzione. Vale a dire, i loro prezzi di vendita sono eguali ai loro elementi di costo (al valore del capitale costante e variabile consumato) più un profitto determinato dal saggio generale di profitto calcolato sul capitale totale anticipato, consumato e non consumato. Supponiamo dunque che i prezzi medi di vendita di questi prodotti siano eguali ai loro prezzi di produzione. Si chiede allora come, in tale ipotesi, si possa sviluppare una rendita fondiaria, cioè come una parte del profitto possa convertirsi in rendita fondiaria e quindi una parte del prezzo delle merci possa spettare e di fatto spetti al proprietario del suolo...

Per mostrare il carattere generale di questa forma della rendita fondiaria, supponiamo che le fabbriche in un paese siano azionate in prevalenza da macchine a vapore, una determinata minoranza tuttavia da cascate d'acqua naturali. Supponiamo che il prezzo di produzione in quei rami d'industria sia 115 per una massa di merci in cui sia consumato un capitale di 100. Il 15% di profitto non è calcolato soltanto sul capitale consumato di 100, ma sul capitale totale impiegato nella produzione di questo valore-merci...

Ammettiamo inoltre che il prezzo di costo nelle fabbriche azionate da energia idrica ammonti solo a 90, anziché a 100. Poiché il prezzo di produzione della massa di queste merci, che regola il mercato, è =115, con un profitto del 15%, i fabbricanti che azionano a forza d'acqua le loro macchine venderanno egualmente le loro merci a 115, cioè al prezzo medio regolante il prezzo di mercato. Il loro profitto ammonterebbe così a 25 anziché a 15...

Due cose balzano subito agli occhi:...

Il valore della merce prodotta con la cascata d'acqua è minore, perché la sua produzione richiede una minore quantità totale di lavoro, cioè meno lavoro che entri in essa in forma oggettivata come parte del capitale costante. Il lavoro impiegato è qui più produttivo, la sua produttività individuale è maggiore di quella del lavoro impiegato nella massa dello stesso tipo di fabbriche. La sua più alta produttività si rivela in ciò che, per produrre la medesima quantità di merci, esso ha bisogno di una minore quantità di capitale costante, di una minore quantità di lavoro oggettivato, e, parallelamente, di una minore quantità di lavoro vivo, perché la ruota idraulica non chiede d'essere riscaldata. Questa maggiore produttività individuale del lavoro impiegato diminuisce il valore, ma anche il prezzo di costo e, quindi, il prezzo di produzione, della merce, e per l'industriale la cosa si presenta sotto l'aspetto che, per lui, il prezzo di costo della merce è minore. Egli deve pagare meno lavoro oggettivato, e deve egualmente pagare meno salario per meno forza lavoro viva impiegata. Poiché il prezzo di costo della sua merce è minore, minore è anche il suo prezzo di produzione individuale... La differenza fra il suo prezzo di produzione individuale e quello generale è limitata dalla differenza fra il suo prezzo di costo individuale e quello generale... Essa è il risultato, da una parte, del fatto che la merce è venduta al suo prezzo generale di mercato, al prezzo al quale la concorrenza livella i prezzi individuali e, dall'altra, del fatto che la maggior produttività individuale del lavoro da lui messo in moto va a vantaggio non degli operai, ma, come ogni forza produttiva del lavoro, di chi li impiega; del fatto che essa si presenta come produttività del capitale...

Secondo: Fino a questo punto, il sovraprofitto del fabbricante che impiega come forza motrice la cascata naturale invece del vapore non si distingue in alcun modo da ogni altro sovraprofitto. Ogni sovraprofitto normale, non prodotto da fortuite operazioni di vendita o da oscillazioni del prezzo di mercato, è determinato dalla differenza fra il prezzo di produzione individuale delle merci di quel particolare capitale e il prezzo di produzione generale regolante i prezzi di mercato delle merci del capitale di quella sfera di produzione in genere, ovvero i prezzi di mercato delle merci del capitale totale investito in quella sfera di produzione.

Ma ora viene la differenza.

A quale circostanza, nel caso che precede, il fabbricante va debitore del suo sovraprofitto, dell'eccedenza fornitagli personalmente dal prezzo di produzione regolato dal saggio generale di profitto?

In prima istanza, ad una forza naturale, alla forza motrice della cascata d'acqua, che esiste per natura e non è essa stessa prodotto del lavoro, come lo è invece il carbone che trasforma l'acqua in vapore e che, quindi, ha valore, dev'essere pagato con un equivalente, costa. Essa è un agente naturale della produzione nella cui genesi non entra alcun lavoro...

Per il sovraprofitto del fabbricante che utilizza la cascata [l]'accresciuta produttività del lavoro da lui impiegato non deriva né dal capitale e dal lavoro stesso, né dal puro e semplice uso di una forza naturale diversa dal capitale e dal lavoro, ma incorporata nel primo. Deriva dalla maggior produttività naturale del lavoro legata all'uso di una forza di natura, ma non di una forza di natura che sia a disposizione di ogni capitale nella medesima sfera di produzione... bensì di una forza di natura che, invece, è passibile di monopolio; che, come la cascata, e a disposizione dei soli detentori di particolari lembi del pianeta e relativi annessi e connessi. Non dipende dal capitale di chiamare in vita questa condizione naturale di una maggiore produttività del lavoro, al modo in cui ogni capitale può trasformare l'acqua in vapore. In natura essa si trova solo localmente e, dove non esiste, non la si può produrre con un determinato esborso di capitale. È legata non a prodotti ottenibili mediante il lavoro, come macchine, carbone, ecc., ma a determinate condizioni naturali in determinati punti della terra. La parte dei fabbricanti che possiede le cascate esclude dall'impiego di questa forza naturale la parte che non le possiede, perché il suolo e ancor più il suolo dotato di forza idrica è limitato...

Il possesso di questa forza naturale costituisce, in mano al suo detentore, un monopolio, una condizione di alta produttività del capitale investito, che non si può creare mediante il processo di produzione del capitale stesso...

Se ora immaginiamo che le cascate, insieme al terreno di cui esse fanno parte, si trovino in mano ad individui considerati come possessori di queste parti del globo terrestre, come proprietari fondiari, è chiaro che essi escluderanno l'investimento del capitale nella cascata e la sua utilizzazione da parte del capitale: potranno consentirne o vietarne l'uso. Ma il capitale non può creare da sé la cascata. Il sovraprofitto derivante dall'utilizzazione della cascata non scaturisce quindi dal capitale, ma dall'impiego da parte del capitale di una forza naturale monopolizzabile e monopolizzata. In queste circostanze, il sovraprofitto si converte in rendita fondiaria, cioè spetta al proprietario della cascata...

Primo: È chiaro che questa rendita è sempre rendita differenziale, perché non entra in modo determinante nel prezzo di produzione generale della merce, ma lo presuppone. Essa scaturisce in ogni caso dalla differenza fra il prezzo di produzione individuale del capitale singolo che dispone della forza naturale monopolizzata, e il prezzo di produzione generale del capitale investito nella sfera di produzione in questione.

Secondo: Questa rendita fondiaria non risulta dall'aumento assoluto della produttività del capitale impiegato, rispettivamente del lavoro che esso si è appropriato e che può ridurre soltanto il valore delle merci; ma risulta dalla maggiore produttività relativa di determinati capitali individuali investiti in una sfera di produzione, in confronto agli investimenti di capitale esclusi da queste condizioni eccezionalmente favorevoli, create dalla natura, della forza produttiva del lavoro...

Terzo: La forza naturale non è la sorgente del sovraprofitto, ma solo una sua base naturale, perché è la base naturale dell'eccezionale aumento della produttività del lavoro. Così il valore d'uso è il depositario del valore di scambio, ma non ne è la causa. Lo stesso valore d'uso, se potesse ottenersi senza lavoro, non avrebbe valore di scambio, ma conserverebbe come prima la sua utilità naturale in quanto valore d'uso. D'altra parte, una cosa non ha valore di scambio senza valore d'uso, quindi senza quel depositario naturale del lavoro...

Quarto. La proprietà fondiaria sulla cascata, in sé e per sé, non ha nulla a che vedere con la creazione della parte del plusvalore (del profitto), e quindi del prezzo della merce, prodotta con l'aiuto della cascata. Questo sovraprofitto esisterebbe anche se non esistesse proprietà fondiaria, se per es. il suolo al quale appartiene la cascata fosse utilizzato dal fabbricante come terra senza padrone. Dunque, la proprietà fondiaria non crea la parte di valore che si converte in sovraprofitto. ma permette unicamente al proprietario fondiario, al proprietario della cascata, di attirare il sovraprofitto dalle tasche del fabbricante nelle sue. È la causa non della creazione di quel sovraprofitto, ma della sua conversione nella forma della rendita, quindi della appropriazione di quella parte del profitto, rispettivamente del prezzo delle merci, ad opera del proprietario o del terreno o della cascata.

Quinto: È chiaro che il prezzo della cascata, dunque il prezzo che il proprietario fondiario spunterebbe se la vendesse ad un terzo, o anche allo stesso fabbricante, non entra a tutta prima nel prezzo di produzione della merce, pur entrando nel prezzo di costo individuale del fabbricante, perché la rendita qui scaturisce dal prezzo di produzione, regolato indipendentemente dalla cascata d'acqua, delle merci prodotte con macchine a vapore. Ma, inoltre, questo prezzo della cascata è in genere una espressione irrazionale, che cela un reale rapporto economico. La cascata, come la terra in generale, come ogni forza naturale, non ha valore, perché non rappresenta lavoro in essa oggettivato, quindi non ha neppure prezzo, prezzo che normaliter non è se non il valore espresso in denaro. Dove non è valore, nulla eo ipso può essere rappresentato in denaro. Questo prezzo non è che la rendita capitalizzata. La proprietà fondiaria mette il proprietario in condizione di carpire la differenza fra il profitto individuale e il profitto medio; il profitto così carpito, che si rinnova di anno in anno, può essere capitalizzato, e allora appare come prezzo della stessa forza naturale.

 

Capitolo XXXIX

PRIMA FORMA DELLA RENDITA DIFFERENZIALE

(RENDITA DIFFERENZIALE I)

Consideriamo dapprima i risultati ineguali di eguali quantità di capitale investite in diversi terreni di pari estensione; o, in caso di diversa estensione, i risultati calcolati sulla base di superfici eguali.

Le due cause generali, indipendenti dal capitale, di questi differenti risultati sono: 1) la fertilità (punto a proposito del quale si deve analizzare che cosa si comprende nella naturale fertilità dei terreni, e quali ne sono i diversi elementi); 2) la posizione dei terreni... È chiaro, inoltre, che queste due cause diverse della rendita differenziale, fertilità e posizione, possono agire in senso opposto. Un terreno può essere ottimamente situato ma pochissimo fertile, e viceversa. Questa circostanza è importante perché spiega per qual motivo, nel dissodare il suolo di un dato paese, si possa procedere tanto dal terreno migliore al peggiore, quanto da quest'ultimo al primo. È chiaro, infine, che i progressi della produzione sociale da un lato tendono a livellare la posizione come causa della rendita differenziale, creando mercati locali e generando posizione con l'approntare mezzi di comunicazione e trasporto, dall'altro accrescono le differenze fra le posizioni locali dei terreni separando l'agricoltura dalla manifattura da una parte, creando grandi centri di produzione, e, dall'altra, isolando relativamente le zone agricole.

In un primo tempo, lasciamo tuttavia in sospeso questo punto, cioè la posizione, e limitiamoci a considerare la fertilità naturale. A prescindere da fattori climatici ecc., la differenza in fertilità naturale consiste nella differenza in composizione chimica della superficie coltivabile, cioè nel suo diverso contenuto in sostanze nutritive delle piante. Supponendo invece eguale contenuto chimico e, in questo senso, eguale fertilità naturale di due superfici, la vera, effettiva fertilità sarà diversa a seconda che queste sostanze nutritive si trovino in una forma in cui risultano più o meno assimilabili, più o meno immediatamente utilizzabili per l'alimentazione delle piante. Dipenderà, quindi, in parte dallo sviluppo chimico, in parte dallo sviluppo meccanico dell'agricoltura, in quali limiti, su terreni che sono per natura di eguale fertilità, la stessa fertilità naturale possa essere resa disponibile. Pur essendo una proprietà obiettiva del suolo, la fertilità implica perciò sempre in senso economico una relazione con lo stadio dato di sviluppo chimico e meccanico dell'agricoltura; quindi varia con questo stadio di sviluppo. Grazie sia a mezzi chimici (per es., uso di determinati concimi liquidi su terreni argillosi ripidi, o anche calcinazione di terreni argillosi pesanti), sia a mezzi meccanici (per es. aratri speciali per terreni pesanti), si possono eliminare gli ostacoli che rendevano di fatto meno redditizi terreni egualmente fertili (anche il drenaggio rientra in questi mezzi). Oppure, può risultare così modificato l'ordine di successione nel dissodamento dei vari tipi di terreno. [...] Il che mostra, una volta di più, come storicamente — nel corso successivo della messa a coltura — si possa procedere tanto dal terreno più fertile ad uno meno fertile, quanto viceversa. Lo stesso può avvenire in seguito o a miglioramenti artificialmente provocati nella composizione del suolo, o a semplici cambiamenti nei metodi di coltura. Infine, lo stesso risultato può essere il frutto di un mutamento nella gerarchia dei tipi di terreno dovuto a condizioni diverse del sottosuolo, non appena anche questo viene attirato nell'ambito della coltivazione e aggiunto allo strato coltivabile. A tanto si giunge, in parte, con l'impiego di nuovi metodi agricoli (ad es. piante foraggere), in parte con mezzi meccanici che del sottosuolo fanno il terreno superficiale, ovvero li mescolano, o coltivano il sottosuolo senza rivoltarlo.

Tutte queste influenze sulla fertilità differenziale di diversi terreni hanno per effetto che, dal punto di vista del rendimento economico, il livello della produttività del lavoro, in questo caso la capacità dell'agricoltura di rendere immediatamente sfruttabile la fertilità naturale del terreno capacità che varia a seconda dello stadio di sviluppo -, costituisce un fattore della cosiddetta fertilità naturale del suolo tanto quanto la composizione chimica e le altre proprietà naturali di quest'ultimo.

Noi dunque supponiamo un certo stadio di sviluppo dell'agricoltura. Supponiamo inoltre che la gerarchia dei tipi di terreno corrisponda a questo stadio di sviluppo, come, beninteso, è sempre il caso per l'investimento simultaneo di capitali in terreni diversi. La rendita differenziale può allora presentarsi in ordine di successione ascendente o discendente, perché, sebbene la serie sia data per la totalità dei terreni messi effettivamente a coltura, vi è sempre stata una successione di movimenti in cui essa si è prodotta.

[Marx prende in considerazione 4 tipi di terreno - A, B, C, D - di fertilità crescente da A a D, e ipotizza poi che, fermo restando che «i tipi di terreno B, C, D forniscano lo stesso prodotto di prima,... vengano messi a coltura nuovi tipi di terreno A' di fertilità intermedia fra A e B, e nuovi tipi di terreno B', B" di fertilità intermedia fra B e C». Dal confronto di tabelle che riportano il prodotto, il capitale sborsato, il profitto, la rendita e il prezzo di produzione, egli giunge alle seguenti conclusioni:]

3) La rendita differenziale (astraendo ancora dalla posizione) scaturisce dalla differenza in fertilità naturale dei tipi di terreno, data per il grado di sviluppo della coltura di volta in volta dato; dunque, dalla limitata estensione dei terreni migliori e dalla circostanza che eguali capitali possono essere investiti in diseguali tipi di terreno, i quali perciò forniranno per il medesimo capitale un diverso prodotto.

4) La presenza di una rendita differenziale e di una rendita differenziale graduata può manifestarsi sia in scala discendente, mediante passaggio da terreno migliore a peggiore, sia, inversamente, da terreno peggiore a migliore, ovvero in direzione alterna secondo linee intersecantisi...

5) A seconda del suo modo di formazione, la rendita differenziale può costituirsi a prezzo del prodotto del suolo stazionario, crescente o calante. Se il prezzo cala, la produzione totale e la rendita totale (rental) possono aumentare, e si può costituire una rendita su terreni che fin allora non ne fornivano affatto, quantunque il terreno peggiore A sia stato scacciato da un terreno migliore, o sia esso stesso migliorato, e quantunque la rendita su altri tipi migliori di terreno, e perfino sul tipo di terreno migliore in assoluto, decresca; a questo processo può anche collegarsi una diminuzione della rendita totale (in denaro). Infine, se i prezzi calano in seguito a miglioramento generale della coltura, in modo che il prodotto e il prezzo dei prodotti del terreno peggiore decrescano, la rendita su una parte dei tipi migliori di terreno può restare stazionaria o diminuire, ma crescere su quelli migliori in assoluto...

Cade in tal modo il primo falso presupposto della rendita differenziale (che domina ancora in West, Malthus, Ricardo) secondo cui essa presupporrebbe necessariamente il passaggio a terreni sempre peggiori, o una fertilità sempre decrescente dell'agricoltura Come si è visto, la rendita differenziale può formarsi anche passando a terreni via via migliori; può esistere anche quando un terreno migliore occupa il gradino più basso già occupato dal peggiore; può collegarsi ad un progresso crescente dell'agricoltura. Sua condizione è sempre e soltanto l'ineguaglianza dei tipi di terreno. In quanto si consideri lo sviluppo della produttività, essa presuppone che l'aumento della fertilità assoluta della superficie complessiva non elimini questa ineguaglianza, ma o la accresca, o la lasci stazionaria, o si limiti a ridurla...

La determinazione del valore di mercato dei prodotti, quindi anche dei prodotti del suolo, è un atto sociale per incosciente e involontario dal punto di vista sociale ch'esso sia poggiante necessariamente sul valore di scambio del prodotto, non sul terreno e sulle differenze nella sua fertilità...

L'identità del prezzo di mercato per merci della stessa specie è il modo in cui si afferma il carattere sociale del valore sulla base del modo di produzione capitalistico e, in generale, della produzione basata sullo scambio di merci fra individui singoli. Ciò che la società, considerata come consumatrice, paga di troppo per i prodotti del suolo, ciò che rappresenta un meno della realizzazione del suo tempo di lavoro nella produzione agricola, costituisce ora un più per una parte della società, i proprietari terrieri...

[Marx prende poi in considerazione l'ipotesi che sui quattro terreni citati aumenti l'estensione degli acri coltivati e giunge alle seguenti conclusioni:]

Se il prezzo del grano è stazionario, perché non varia il prodotto del terreno peggiore, che non produce rendita; se resta immutata la differenza nella fertilità dei diversi tipi di terreno messi a coltura; se perciò non cambia il prodotto rispettivo di investimenti di capitale di pari grandezza su eguali parti aliquote (acri) delle superfici coltivate in ogni tipo di terreno; se quindi è costante il rapporto fra le rendite per acro di ogni qualità di terreno, e non varia il saggio di rendita sul capitale investito in ogni appezzamento di terreno dello stesso tipo; se tutto ciò avviene, primo, la massa complessiva della rendita, o rental, aumenta sempre con l'estendersi della superficie coltivata e, quindi, con l'accrescersi del capitale investito, eccettuato il caso in cui tutto l'accrescimento abbia luogo sul terreno che non produce rendita; secondo, sia la rendita media per acro (rental totale diviso per il numero complessivo di acri coltivati), sia il saggio medio della rendita (massa complessiva della rendita divisa per il capitale totale investito), possono variare in misura molto rilevante; e, per essere precisi, possono variare entrambi nello stesso senso, ma ancora una volta in proporzioni fra loro diverse. Trascurando il caso in cui l'accrescimento riguarda soltanto il terreno A, che non produce rendita, si ha che la rendita media per acro e il saggio medio di rendita sul capitale investito in agricoltura dipendono dalla percentuale dei diversi tipi di terreno sulla superficie coltivata totale, ovvero, ma è la stessa cosa, dalla distribuzione del capitale totale investito fra i tipi di terreno di fertilità diversa. Che il suolo coltivato sia molto o poco, e quindi (fatta eccezione per il caso in cui l'accrescimento riguarda soltanto A) sia maggiore o minore la massa complessiva della rendita, la rendita media per acro ovvero il saggio medio di rendita sul capitale investito rimarranno gli stessi finché restano costanti le proporzioni in cui i diversi tipi di terreno partecipano alla superficie complessiva. Benché il rental totale aumenti, anche in grado notevole, con l'estendersi della coltivazione e l'accrescersi del capitale investito, la rendita media per acro e il saggio medio di rendita sul capitale diminuiscono se l'estensione dei terreni che non forniscono rendita, o forniscono soltanto una rendita differenziale modesta, aumenta più di quella dei terreni migliori, dai quali si ottiene una rendita superiore. Inversamente, la rendita media per acro e il saggio medio di rendita sul capitale crescono nella misura in cui i terreni migliori occupano una parte relativamente maggiore della superficie complessiva e, quindi, l'investimento di capitale in essa è relativamente più forte.

Se dunque si considera la rendita media per acro o per ettaro dell'insieme del suolo coltivato, come generalmente si fa nelle opere di statistica, paragonando diversi paesi nella stessa epoca o diverse epoche nello stesso paese si constata che il livello medio della rendita per acro, quindi anche la massa complessiva della rendita, il rental totale, corrispondono in date proporzioni (anche se queste seguono un corso tutt'altro che uniforme, ma caso mai, più rapido) alla fertilità non relativa ma assoluta dell'agricoltura in un paese, cioè alla massa di prodotti da essa fornita in media a parità di superficie. Infatti, quanto maggiore è la parte dei tipi migliori di terreno sulla superficie totale, tanto maggiore è la massa dei prodotti a parità di investimento di capitale e su pari estensione del suolo coltivato, tanto maggiore è la rendita media per acro. E viceversa. La rendita sembra così determinarsi in ragione non della fertilità differenziale, ma della fertilità assoluta, e con ciò sembra anche soppressa la legge della rendita differenziale. Si spiega così perché si neghino certi fenomeni, o si cerchi di spiegarli con inesistenti differenze nei prezzi medi delle granaglie e nella fertilità media dei terreni sottoposti a coltura, fenomeni che hanno la loro ragion d'essere semplicemente nel fatto che il rapporto della massa complessiva della rendita sia alla superficie totale del suolo coltivato, sia al capitale totale investito nella terra a parità di fertilità del suolo che non fornisce rendita, quindi a parità di prezzi di produzione, oltre che a parità di differenza fra i diversi tipi di terreno, è determinato non solo dalla rendita per acro o dal saggio di rendita sul capitale, ma anche dal numero proporzionale degli acri di ogni tipo di terreno nel totale degli acri coltivati; ovvero, ma è la stessa cosa, dalla distribuzione fra i diversi tipi di terreno del capitale totale impiegato. Strano a dirsi, su questa circostanza si è finora del tutto sorvolato. Comunque si osserva, e questo è importante per gli sviluppi ulteriori della nostra indagine, che il livello relativo della rendita media per acro e il saggio medio di rendita, ovvero il rapporto fra la massa complessiva della rendita (rental) e il capitale totale investito nel suolo, possono salire o scendere pur restando invariati i prezzi, invariata la differenza di fertilità degli appezzamenti coltivati e invariata la rendita per acro, rispettivamente il saggio di rendita sul capitale investito per acro in ogni tipo di terreno che fornisca veramente rendita e su ogni capitale che produca veramente rendita per effetto di un puro e semplice ampliamento estensivo della coltivazione...

Primo: Si è visto come la rendita media per acro, o il saggio medio di rendita sul capitale, possa aumentare estendendosi la coltivazione, restando stazionari i prezzi e non variando la fertilità differenziale dei terreni coltivati. Non appena tutto il suolo di un paese sia diventato proprietà privata, e l'investimento di capitale nella terra, la coltivazione del suolo e la popolazione abbiano raggiunto un determinato livello tutte circostanze che sono presupposte non appena il modo di produzione capitalistico diviene dominante e si impadronisce anche dell'agricoltura -, il prezzo del suolo non coltivato dei diversi tipi (supposta unicamente la rendita differenziale) è determinato dal prezzo dei terreni coltivati di pari qualità e di posizione equivalente: detratte le spese aggiuntive di dissodamento, il prezzo è il medesimo benché questo terreno non fornisca rendita. È vero che il prezzo del suolo non è che la rendita capitalizzata. Ma, anche per le terre coltivate, nel prezzo si pagano soltanto rendite future, per es. versando anticipatamente in una sola volta le rendite di vent'anni, se il saggio d'interesse regolatore è del 5 %. Quando si vende un terreno, lo si vende come terreno che fornisce rendita, e il carattere prospettivo di quest'ultima (qui considerata come frutto del suolo, cosa che essa è solo in apparenza) non distingue il terreno incolto da quello coltivato. In realtà, il prezzo delle terre incolte, come la loro rendita, di cui esso rappresenta la formula sintetica, è puramente illusorio finché i terreni non sono effettivamente utilizzati. Ma è così determinato a priori, e si realizza non appena se ne trovino degli acquirenti. Se perciò la rendita media effettiva di una regione è determinata dal suo effettivo rental medio annuo e dal suo rapporto all'intera superficie coltivata, il prezzo delle terre non sottoposte a coltura è determinato dal prezzo delle terre coltivate, quindi non è che un riflesso dell'investimento di capitale e dei suoi ricavi nei terreni coltivati. Poiché, fatta eccezione per il terreno peggiore, tutti i tipi di terreno forniscono rendita (e questa rendita, come vedremo sotto II, aumenta con la massa del capitale e con l'intensità corrispondente della coltivazione), così si forma il prezzo nominale per le terre incolte, che perciò diventano una merce, una fonte di ricchezza per i loro possessori. Ciò spiega nello stesso tempo perché il prezzo del suolo nell'insieme di una regione, anche della parte non coltivata, aumenti...

Secondo. L'estensione della superficie coltivata procede in generale o verso terreni meno buoni, o verso i differenti tipi dati di terreno in proporzioni diverse, via via che sono disponibili. L'estensione ad un terreno peggiore non è il frutto di una libera scelta, ma può solo essere dettata — supposto il modo di produzione capitalistico — dall'aumento dei prezzi e, in ogni modo di produzione, dalla necessità. Non però in assoluto. Un terreno peggiore viene preferito ad uno relativamente migliore a causa della sua posizione, che è un fattore decisivo in ogni estensione della coltura in paesi giovani, ma anche perché, sebbene la natura del suolo di una certa zona appartenga nell'insieme al tipo superiore, nel caso singolo terreno migliore e terreno peggiore appaiono tuttavia pittorescamente frammisti, e il meno buono, anche solo per il fatto d'essere collegato al migliore, deve essere posto a coltura. Se il terreno peggiore penetra nel migliore a guisa di cuneo, il terreno migliore gli conferisce il vantaggio della posizione nei confronti di un terreno bensì più fertile, ma non connesso a terreni già sottoposti o da sottoporre a coltura...

Terzo. È sbagliato supporre che nelle colonie e, in generale, nei paesi giovani che possono esportare grano a buon prezzo, il suolo sia necessariamente più fertile per natura. Qui il grano si vende non soltanto sotto il suo valore, ma sotto il suo prezzo di produzione, cioè sotto il prezzo di produzione determinato dal saggio medio di profitto nei paesi più antichi...

Inoltre, un terreno relativamente meno fertile, che però viene messo a coltura ex novo e non è stato ancora lambito da alcuna forma di coltivazione, se le condizioni climatiche non sono del tutto sfavorevoli ha accumulato, almeno negli strati superiori, una tale quantità di sostanze nutritive facilmente solubili, da poter fornire per un certo tempo dei raccolti senza concimazione, e anche con coltura del tutto superficiale...

In regioni meno fertili di questa natura, l'eccedenza è effetto non dell'alta fertilità del suolo, dunque della resa per acro, ma della massa di acri coltivabili in modo superficiale, dato che a chi li coltiva questi terreni non costano nulla o, in confronto a paesi più antichi, costano cifre irrisorie...

Benché un aumento o una diminuzione dei prezzi di mercato influisca sul volume della produzione, in agricoltura (come in tutti gli altri rami di produzione gestiti capitalisticamente) si verifica pur sempre, anche con prezzi medi, il cui livello non agisce né nel senso di frenare la produzione né di stimolarla, quella sovraproduzione relativa che è in se stessa identica all'accumulazione, e che, in altri modi di produzione, è causata direttamente dall'aumento della popolazione e, nelle colonie, da una continua immigrazione. Il fabbisogno cresce senza tregua, e, in tale prospettiva, si investe sempre nuovo capitale in sempre nuova terra, benché, secondo le circostanze, per prodotti del suolo di volta in volta diversi. È la formazione di nuovi capitali che di per sé porta a tutto ciò. Quanto al capitalista singolo, egli misura il volume della sua produzione al metro del capitale di cui dispone, nei limiti in cui può ancora direttamente controllarlo. Il suo obiettivo è di occupare sul mercato il posto più ampio possibile. Se si produce di troppo, egli ne riversa la colpa non su di sé, ma sui suoi concorrenti. Il capitalista individuale può estendere la sua produzione tanto appropriandosi una maggiore parte aliquota del mercato esistente, quanto ampliando il mercato stesso.

Capitolo XL

SECONDA FORMA DELLA RENDITA DIFFERENZIALE

(RENDITA DIFFERENZIALE II)

Finora abbiamo considerato la rendita differenziale solo come risultato della diversa produttività di eguali investimenti di capitale in eguali estensioni di terreno di fertilità differente: la rendita differenziale era perciò determinata dalla differenza fra il rendimento del capitale investito nel terreno peggiore, improduttivo di rendita, e quello del capitale investito nel terreno migliore. Gli investimenti di capitale erano qui giustapposti in aree diverse, cosicché ad ogni nuovo investimento di capitale corrispondeva una coltivazione più estensiva del terreno, un ampliamento della superficie coltivata. Ma, in definitiva, la rendita differenziale non era, per la natura della cosa, che il risultato della diversa produttività di eguali capitali investiti nel suolo. In che cosa può consistere la differenza, se masse di capitale di diversa produttività sono investite successivamente nello stesso appezzamento o congiuntamente in appezzamenti diversi, essendo unicamente presupposto che i risultati rimangano gli stessi?...

Sebbene per la legge della formazione dei sovraprofitti sia del tutto indifferente che eguali capitali siano investiti congiuntamente, con risultati diseguali, in appezzamenti di eguale estensione, o successivamente sullo stesso appezzamento, le cose stanno in modo assai diverso per ciò che riguarda la conversione del sovraprofitto in rendita fondiaria. Il secondo metodo impone a questa conversione limiti da un lato più angusti, dall'altro più oscillanti. Perciò, nei paesi a coltura intensiva (e per coltura intensiva, in linguaggio economico, non intendiamo altro che la concentrazione di capitale nello stesso appezzamento in luogo della sua ripartizione in lotti di terreno giustapposti) il compito del controllore delle imposte, [...], diviene una professione molto importante, difficile e complicata.

In caso di migliorie agrarie permanenti, alla scadenza del contratto di affitto la fertilità differenziale artificialmente accresciuta del terreno coincide con la sua fertilità naturale; la valutazione della rendita, quindi, con la diversa fertilità dei tipi di terreno. Nella misura in cui la formazione di sovraprofitto è invece determinata dall'ammontare del capitale di esercizio, l'ammontare della rendita, a grandezza del capitale di esercizio data, viene aggiunta alla rendita media del paese; quindi si ha cura che il nuovo affittuario disponga di capitale sufficiente per continuare allo stesso modo intensivo la coltivazione del suolo.

Nel considerare la rendita differenziale II, vanno ancora messi in rilievo questi due punti:

Primo: Sua base e punto di partenza, non solo sul piano storico, ma per ciò che riguarda il suo movimento in ogni periodo dato, è la rendita differenziale I, cioè la messa a coltura simultanea, giustapposta, di tipi di terreno di diversa fertilità e posizione; dunque, l'impiego simultaneo, giustapposto, di diversi elementi del capitale agricolo totale in appezzamenti di qualità differente...

Il modo di produzione capitalistico è figlio di modi di produzione più antichi, in cui i mezzi di produzione sono proprietà, di fatto o di diritto, del coltivatore stesso; in una parola, è figlio di un'esercizio artigianale dell'agricoltura. È del tutto naturale che, da questo, solo gradualmente si sviluppino la concentrazione dei mezzi di produzione e la loro metamorfosi in capitale di fronte ai produttori convertiti a loro volta in lavoratori salariati. Nella misura in cui il modo di produzione capitalistico si presenta qui con caratteristiche sue proprie, ciò avviene, in un primo tempo, soprattutto nel pascolo per ovini e nell'allevamento in generale; in seguito, però, non nella concentrazione del capitale su un'estensione relativamente modesta, ma nella produzione su scala più vasta con conseguente risparmio in allevamento di cavalli e in altri costi di produzione; non però, di fatto, mediante impiego di più capitale sullo stesso terreno.

È poi conforme alle leggi naturali della coltivazione del suolo che, raggiunto un dato livello di coltura ed esaurendosi corrispondentemente il terreno, il capitale, qui anche nel senso di mezzi di produzione già prodotti, diventi l'elemento decisivo dell'agricoltura. Finché la terra coltivata costituisce, in confronto alla terra incolta, un'estensione relativamente piccola, e la forza del suolo non è ancora esaurita (come quando prevalgono l'allevamento del bestiame e l'alimentazione carnea, nel periodo che precede il predominio dell'agricoltura in senso proprio e dell'alimentazione vegetale), il nuovo modo di produzione ai suoi albori si contrappone alla produzione contadina soprattutto per l'estensione della terra coltivata per conto di un capitalista; dunque, ancora una volta, per l'impiego estensivo del capitale su superfici più considerevoli. Si deve quindi tenere a mente, prima di tutto, che la rendita differenziale I è la base storica dalla quale si parte: d'altro lato, il movimento della rendita differenziale II si effettua, in ogni momento dato, solo in un campo che costituisce a sua volta la base multiforme della rendita differenziale I.

Secondo: Nella rendita differenziale della forma II, alla differenza di fertilità vengono ad aggiungersi le differenze nella ripartizione del capitale (e della capacità di credito) tra gli affittuari. Nella manifattura in senso proprio, per ogni ramo d'attività si forma ben presto un minimo specifico di volume degli affari e, corrispondentemente, un minimo di capitale al disotto del quale non si può condurre con successo nessun affare singolo. Si forma allo stesso modo, in ogni ramo di attività, un livello normale medio, superiore a questo minimo, del capitale di cui la massa dei produttori deve disporre e di fatto dispone. Ogni capitale superiore a questo livello può fornire un sovraprofitto; ogni capitale inferiore non ottiene neppure il profitto medio. Il modo di produzione capitalistico s'impadronisce solo lentamente e in modo ineguale dell'agricoltura, come si può vedere in Inghilterra, il paese classico del modo di produzione capitalistico applicato all'agricoltura. Finché non esiste libera importazione di grano, o questa non ha che effetti limitati, perché ne è limitato il volume, chi determina il prezzo di mercato sono i produttori che lavorano sul terreno peggiore, dunque in condizioni di produzione meno favorevoli delle condizioni medie. Nelle loro mani si trova una gran parte della massa di capitale complessivamente investita nell'agricoltura e per essa disponibile...

Limitiamoci, a tutta prima, a considerare la formazione del sovraprofitto nella rendita differenziale II, senza preoccuparci delle condizioni in cui può avvenire la conversione di questo sovraprofitto in rendita fondiaria.

È allora chiaro che la rendita differenziale II non è se non una diversa espressione della rendita differenziale I, ma coincide in sostanza con essa. La diversa fertilità dei diversi tipi di terreno ha una sua influenza, nel caso della rendita differenziale I, solo in quanto ha per effetto che i capitali investiti nella terra danno risultati, cioè prodotti, diseguali, sia in rapporto a capitali di eguale grandezza, sia in rapporto alla loro grandezza proporzionale. Il fatto che questa diseguaglianza si verifichi per capitali diversi successivamente investiti nel medesimo appezzamento, o per diversi capitali investiti su più appezzamenti di diversa qualità, non può cambiare nulla alla differenza della loro produttività o del loro prodotto, quindi alla formazione della rendita differenziale per le parti di capitale investite in modo più vantaggioso. È sempre il terreno che dà prova di diversa fertilità a pari investimento di capitale; solo che qui lo stesso terreno fa, per un capitale investito successivamente in diverse porzioni, quello che, nel caso della rendita differenziale I, fanno diversi tipi di terreno per diverse parti di eguale grandezza del capitale sociale in essi investite...

La rendita differenziale II presuppone la rendita differenziale I..

È tuttavia nella natura della cosa che, con lo sviluppo della coltura intensiva, cioè con investimenti successivi di capitale sul medesimo terreno, questi avverrebbero di preferenza, o avverrebbero in grado superiore, sui tipi di terreno migliori. (Non parliamo delle migliorie permanenti, grazie alle quali un terreno finora inutilizzabile diventa utilizzabile). La produttività decrescente degli investimenti successivi di capitale deve quindi agire essenzialmente nel modo descritto. Si sceglie a tale scopo il terreno migliore, perché offre la maggior probabilità che il capitale in esso investito frutti, in quanto contiene la maggior parte degli elementi naturali della fertilità e si tratta soltanto di renderli utilizzabili...

[Il] solo caso, in cui la produttività decrescente dei capitali successivamente investiti in tipi di terreno già sotto coltura può portare ad aumento del prezzo di produzione, caduta del saggio di profitto e formazione di rendita differenziale accresciuta — giacché nelle condizioni date questa aumenterebbe su tutti i tipi di terreno esattamente come se a regolare il prezzo di mercato fosse ora un terreno peggiore di A -, ha ricevuto da Ricardo il suggello di unico caso, di caso normale, cui egli riduce l'intera formazione della rendita differenziale II.

La stessa cosa avverrebbe se fosse soltanto coltivato il tipo di terreno A, e successivi investimenti in esso non fossero collegati ad aumento proporzionale del prodotto.

Qui dunque, nel considerare la rendita differenziale II, si perde completamente il ricordo della rendita differenziale I.

Eccettuato questo caso in cui l'offerta derivante dai tipi di terreno messi a coltura non risulta sufficiente, quindi il prezzo di mercato supera continuamente il prezzo di produzione o finché non si procede a coltivare un nuovo, peggiore terreno, o finché il prodotto complessivo del capitale addizionale investito nei diversi tipi di terreno può essere fornito soltanto a un prezzo di produzione superiore a quello fin allora corrente eccettuato dunque questo caso, la diminuzione proporzionale di produttività dei capitali addizionali lascia invariati il prezzo di produzione regolatore e il saggio di profitto. Per il resto, sono possibili altri tre casi:

a) Se il capitale addizionale investito in uno qualunque dei tipi di terreno A, B, C, D, non dà che il saggio di profitto determinato dal prezzo di produzione di A, non si forma alcun sovraprofitto, quindi anche alcuna possibile rendita, esattamente come se fosse stato coltivato terreno addizionale del tipo A.

b) Se il capitale addizionale dà un prodotto maggiore, è naturale che un nuovo sovraprofitto (rendita potenziale) si formi se il prezzo regolatore rimane invariato. Ciò non avviene necessariamente, ossia non avviene se questa produzione addizionale estromette dalla coltivazione, e, quindi, dalla serie dei tipi di terreno in concorrenza, il terreno A, nel qual caso il prezzo di produzione regolatore diminuisce. Il saggio di profitto crescerebbe o se a ciò si collegasse una diminuzione del salario, o se il prodotto più a buon mercato entrasse come elemento nel capitale costante. Se l'aumento di produttività del capitale addizionale fosse avvenuto nei tipi di terreno migliori C e D, dipenderebbe interamente dal grado di aumento della produttività e dalla massa dei capitali aggiunti ex novo fino a che punto la formazione di maggior sovraprofitto (quindi di maggiore rendita) sarebbe collegata alla diminuzione del prezzo e all'aumento del saggio di profitto. Quest'ultimo può aumentare senza che diminuisca il salario, in seguito al ribasso di prezzo degli elementi del capitale costante.

c) Se l'investimento addizionale si accompagna ad una diminuzione dei sovraprofitti, in modo tuttavia che il suo prodotto lasci un'eccedenza sul prodotto del medesimo capitale nel terreno A, se l'offerta accresciuta non estromette dalla coltivazione il terreno A si assiste in ogni circostanza ad una nuova formazione di sovraprofitti, che può avvenire contemporaneamente in D, C, B, A. Se invece il terreno peggiore viene estromesso dalla coltivazione, il prezzo di produzione regolatore diminuisce, e dipende dal rapporto fra il prezzo ridotto di un qr. e il numero aumentato dei qrs. costituenti il sovraprofitto, che cresca o decresca il sovraprofitto espresso in denaro, quindi la rendita differenziale. Ma, in ogni caso, si nota qui il fatto significativo che, diminuendo i sovraprofitti di investimenti successivi, il prezzo di produzione può scendere invece di dover salire, come sembrerebbe a prima vista...

Ed eccoci ad una differenza essenziale fra le due forme della rendita differenziale.

Nel caso della rendita differenziale I, a prezzo di produzione invariato e differenze anch'esse invariate, è possibile che, con il rental, la rendita media per acro, ovvero il saggio medio di rendita sul capitale, aumenti; ma la media non è che un'astrazione. L'effettivo ammontare della rendita, calcolato per acro o sul capitale, qui non varia.

Nella stessa ipotesi, l'ammontare della rendita misurato per acro può invece accrescersi sebbene il saggio della rendita, misurato sul capitale investito, resti invariato...

A prezzo di produzione invariato, saggio di profitto invariato e differenze invariate (quindi anche a saggio di sovraprofitto o di rendita per capitale invariato), l'ammontare della rendita, in prodotto o in denaro, per acro, e quindi il prezzo del terreno, possono aumentare.

La stessa cosa può avvenire a saggi del sovraprofitto e quindi della rendita decrescenti, cioè a produttività calante degli investimenti addizionali che continuano a fornire rendita.

Capitolo XLI

LA RENDITA DIFFERENZIALE II

PRIMO CASO: PREZZO DI PRODUZIONE COSTANTE

Questa ipotesi implica che il prezzo di mercato sia, come prima, regolato dal capitale investito nel terreno peggiore A.

I. Se il capitale addizionale, investito in uno qualunque dei terreni B, C, D che forniscono rendita, produce solo quanto lo stesso capitale nel terreno A, cioè se, al prezzo di produzione regolatore, fornisce solo il profitto medio, senza alcun sovraprofitto, l'influenza sulla rendita è nulla. Tutto resta come prima. È come se un numero qualsivoglia di acri della qualità A, del terreno peggiore, fosse aggiunto alla superficie finora coltivata.

II. I capitali addizionali producono su ogni diverso tipo di terreno prodotti addizionali proporzionali alla loro grandezza; cioè il volume della produzione cresce, a seconda della fertilità specifica di ogni tipo di terreno, proporzionalmente alla grandezza del capitale addizionale...

La legge è la stessa, purché in uno qualsiasi o in più tipi di terreni produttivi di rendita si impieghi capitale addizionale, non importa in quale proporzione. È soltanto necessario che, in ogni tipo di terreno, la produzione aumenti nella stessa proporzione del capitale. La rendita aumenta qui unicamente per effetto di un accresciuto investimento di capitale nel suolo, e in proporzione ad esso. Questo aumento del prodotto e della rendita in seguito e proporzionalmente all'accresciuto investimento è, per quanto riguarda la quantità del prodotto e della rendita, esattamente lo stesso che se fosse cresciuta, e sottoposta a coltura con pari investimento di capitale che, prima, nei medesimi tipi di terreno, la superficie coltivata dei terreni produttivi di rendita della stessa qualità...

III. I capitali addizionali arrecano un prodotto eccedente, formano quindi sovraprofitti, ma a saggio decrescente, non proporzionale al loro aumento...

In questa terza ipotesi è di nuovo indifferente che i secondi investimenti addizionali di capitale si ripartiscano in misura eguale o diseguale fra i diversi tipi di terreno; che la produzione decrescente di sovraprofitto avvenga in proporzioni eguali o diseguali; che gli investimenti addizionali di capitale riguardino tutti lo stesso tipo di terreno produttivo di rendita, o si distribuiscano, uniformemente o no, su terreni produttivi di rendita, ma di diversa qualità. Tutte queste circostanze sono indifferenti per la legge che si tratta di sviluppare. L'unico presupposto è che investimenti addizionali in uno qualunque dei tipi di terreno produttivi di rendita diano un sovraprofitto, ma in proporzione decrescente rispetto all'entità dell'aumento di capitale...

La legge [...] è che la rendita su tutti questi tipi di terreno cresce in assoluto, benché non in proporzione al capitale addizionale investito.

Considerati sia il capitale addizionale, sia il capitale complessivo investito nel suolo, il saggio di sovraprofitto decresce, ma la grandezza assoluta del sovraprofitto aumenta, esattamente come, per lo più, il saggio di profitto decrescente del capitale è collegato ad un aumento della massa assoluta del profitto...

IV. Il caso in cui gli investimenti addizionali nel tipo di terreno migliore generano un prodotto superiore a quello degli investimenti originari non richiede d'essere ulteriormente analizzato. È evidente che, in tale ipotesi, le rendite per acro aumentano, e in proporzione maggiore del capitale addizionale, su qualunque tipo di terreno esso sia stato investito. Qui l'investimento addizionale è legato a migliorie. Rientra in questo il caso in cui un'aggiunta di meno capitale produce il medesimo risultato, o un risultato superiore, che, in precedenza, un'aggiunta di più capitale...

Per i coloni e, in generale, per i piccoli produttori indipendenti, che non dispongono di capitale o possono disporne solo ad interessi elevati, la parte di prodotto che rappresenta il salario è il loro reddito, mentre per il capitalista è anticipo di capitale. I primi, quindi, considerano questa spesa di lavoro come condizione ineluttabile del frutto del lavoro, che è ciò che più di tutto interessa. Quanto invece al loro lavoro eccedente, una volta detratto quel lavoro necessario, esso si realizza comunque in un prodotto eccedente e, appena possono venderlo o anche utilizzarlo essi stessi, lo considerano come qualcosa che a loro non è costato nulla, perché non è costato lavoro oggettivato. È solo la spesa di quest'ultimo che appare ai loro occhi come alienazione di ricchezza. Naturalmente, essi cercano di vendere al prezzo più alto possibile, ma per loro anche la vendita sotto il valore e sotto il prezzo di produzione capitalistico vale sempre come profitto, in quanto non abbiano anticipato su questo profitto con debiti, ipoteche ecc. Per il capitalista, invece, la spesa sia di capitale variabile, sia di capitale costante è sempre anticipo di capitale. A parità di condizioni, l'anticipo di capitale relativamente più importante riduce il prezzo di costo, come pure, di fatto, il valore delle merci. Sebbene perciò il profitto nasca unicamente da pluslavoro, dunque dall'impiego di capitale variabile, al capitalista singolo può sembrare che il lavoro vivo sia l'elemento più dispendioso dei suoi costi di produzione, quello che va ridotto il più possibile al minimo. Non è questa che una forma capitalisticamente distorta del giusto concetto che l'impiego relativamente più grande di lavoro passato che di lavoro vivo significa produttività del lavoro sociale aumentata e ricchezza sociale maggiore. Così tutto è sbagliato e così capovolto tutto si presenta dal punto di vista della concorrenza.

Presupposti costanti i prezzi di produzione, gli investimenti addizionali possono essere eseguiti con produttività invariata, crescente o decrescente, nei terreni migliori, cioè in tutti i terreni da B in su. In A la cosa sarebbe possibile, secondo quanto da noi supposto, solo a produttività costante, il caso in cui la terra continua a non fornire rendita, o anche a produttività crescente: una parte del capitale investito in A produrrebbe allora una rendita, l'altra no. Sarebbe invece impossibile se la forza produttiva per A diminuisse, perché altrimenti il prezzo di produzione non rimarrebbe costante, ma salirebbe. In tutti questi casi, tuttavia, cioè tanto se il sovraprodotto fornito dai capitali è proporzionale alla loro grandezza, quanto se è inferiore o superiore a questa proporzione dunque, tanto se il saggio di sovraprofitto del capitale, aumentando quest'ultimo, rimane costante, quanto se sale o scende —, il sovraprodotto e il sovraprofitto per acro ad esso corrispondente aumentano, quindi cresce eventualmente anche la rendita, in grano e in denaro. L'aumento della sola massa del sovraprofitto e, rispettivamente, della rendita, calcolata per acro, cioè una massa crescente calcolata su una unità costante, in questo caso su una quantità determinata di terra, acri o ettari, si esprime perciò come proporzione crescente. In tali circostanze, l'ammontare della rendita, calcolata per acro, cresce quindi semplicemente a seguito dell'aumento del capitale investito nel suolo. E ciò avviene a prezzi di produzione costanti, e indipendentemente dal fatto che la produttività del capitale addizionale sia costante, decrescente o crescente; circostanze, queste, che modificano il grado in cui si accresce l'ammontare della rendita per acro, ma non il fatto di questo stesso incremento. Si tratta di un fenomeno caratteristico della rendita differenziale II a differenza della rendita differenziale I. Se gli investimenti addizionali fossero stati compiuti uno accanto all'altro nello spazio su nuovo terreno addizionale di qualità corrispondente anziché uno dopo l'altro nel tempo sul medesimo terreno, la massa del rental sarebbe aumentata e, come si è visto in precedenza, sarebbe pure aumentata la rendita media della superficie complessiva coltivata, ma non l'ammontare della rendita per acro. Se il risultato non varia, per quanto concerne la massa ed il valore della produzione totale e del sovraprodotto, la concentrazione del capitale su un'area più ristretta eleva l'ammontare della rendita per acro, mentre nelle stesse circostanze la sua disseminazione su un'area più vasta, a parità di tutte le altre condizioni, non produce questo effetto. Ma, quanto più si sviluppa il modo di produzione capitalistico, tanto più si sviluppa anche la concentrazione del capitale sulla medesima superficie, tanto più in alto sale la rendita calcolata per acro. Perciò in due paesi in cui fossero identici sia i prezzi di produzione, sia le differenze fra i tipi di terreno, e vi fosse investita la medesima massa di capitale, ma, in uno, più nella forma di investimenti successivi in aree limitate, nell'altro più nella forma di investimenti coordinati in aree più vaste, la rendita per acro e quindi il prezzo del suolo sarebbero più alti nel primo e più bassi nel secondo, mentre la massa della rendita sarebbe la stessa in entrambi. Qui, dunque, la differenza nell'ammontare della rendita non dovrebbe spiegarsi né con una differenza nella fertilità naturale dei tipi di terreno, né con la massa del lavoro impiegato, ma esclusivamente con il diverso modo di investire il capitale.

Capitolo XLII

LA RENDITA DIFFERENZIALE II SECONDO CASO: PREZZO DI PRODUZIONE DECRESCENTE

Il prezzo di produzione può diminuire sia quando gli investimenti addizionali hanno luogo con saggio di produttività costante, sia quando hanno luogo con saggio di produttività decrescente o crescente.

I. A PRODUTTIVITÀ DEGLI INVESTIMENTI ADDIZIONALI COSTANTE

Si presuppone dunque che nei diversi tipi di terreno, in corrispondenza alla loro rispettiva qualità, il prodotto aumenti nella stessa proporzione del capitale in essi investito; il che, restando invariate le differenze fra i tipi di terreno, implica un aumento del sovraprodotto proporzionale all'accresciuto investimento. Questo caso esclude perciò ogni plusinvestimento nel terreno A che incida sulla rendita differenziale. Nel terreno A il saggio del sovraprofitto è = 0, e tale rimane, perché si presuppone che la produttività del capitale addizionale e, di conseguenza, il saggio di sovraprofitto rimangano invariati.

In tali condizioni, tuttavia, il prezzo di produzione regolatore non può che diminuire, perché, invece del prezzo di produzione di A, diviene regolatore il prezzo di produzione del terreno B immediatamente successivo per qualità o, in generale, di qualunque terreno migliore di A; il capitale viene quindi ritirato da A, o, qualora diventi regolatore il prezzo di produzione del terreno C e, quindi, ogni terreno peggiore venga estromesso dalla concorrenza dei tipi di terreno produttivi di grano, anche da A e B. La condizione perché ciò avvenga, data la premessa, è che il prodotto eccedente degli investimenti addizionali soddisfi il fabbisogno e quindi la produzione del terreno inferiore A ecc. diventi superflua per assicurare l'offerta...

Se [...] il prezzo cala in seguito all'investimento di capitale denaro addizionale, restando invariata la produttività, nei tipi di terreno migliori produttivi di rendita, dunque in tutti i terreni superiori ad A, il capitale totale tende a non crescere nella stessa proporzione della produzione e della rendita in grano, cosicché l'aumento della rendita in grano può compensare la perdita nella rendita in denaro derivante dalla diminuzione del prezzo. La stessa legge si manifesta in ciò, che il capitale anticipato dev'essere maggiore nella proporzione in cui viene impiegato più in C che in D, nel terreno produttivo di una rendita minore che in quello che ne produce una maggiore. Si tratta semplicemente di questo: perché la rendita in denaro rimanga la stessa, o cresca, si deve produrre una data quantità addizionale di sovraprodotto, e ciò richiede tanto meno capitale, quanto maggiore è la fertilità dei terreni che danno sovraprodotto. Se la differenza fra B e C, C e D fosse ancora più forte, si richiederebbe ancor meno capitale addizionale. La determinata proporzione dipende: 1) dal rapporto in cui il prezzo cade, dunque dalla differenza fra B, il terreno ora improduttivo di rendita, e A, il terreno che prima non forniva rendita; 2) dalla proporzione delle differenze fra i tipi di terreno migliori da B in su; 3) dalla massa del capitale addizionale investito ex novo, e 4) dalla sua ripartizione fra le diverse qualità di terreno.

In realtà si vede che la legge non esprime nulla di diverso da quanto si è già esposto nel primo caso: che cioè, se il prezzo di produzione è dato, qualunque ne sia l'ammontare, in seguito ad investimento addizionale la rendita può salire...

Qui la cosa ha solo la seguente importanza: nella misura in cui occorreva tanto e tanto capitale addizionale per ritirare dal terreno il capitale di A e completare senza di esso l'offerta, risulta che a ciò può accompagnarsi una rendita per acro costante, crescente o decrescente se non in tutti i terreni, certo in alcuni, e per la media dei terreni coltivati. Si è visto che rendita in grano e rendita in denaro non hanno fra loro un rapporto uniforme. Ma è soltanto per tradizione che la rendita in grano continua ad avere una parte nell'economia...

2. A SAGGIO DI PRODUTTIVITÀ DEI CAPITALI ADDIZIONALI DECRESCENTE

Qui nessun elemento nuovo interviene perché anche qui, come nel caso di cui sopra, il prezzo di produzione può diminuire unicamente se, per effetto degli investimenti addizionali in tipi di terreno migliori di A, il prodotto di questo terreno diventa superfluo, quindi il capitale viene ritirato da A oppure si destina A alla produzione di un altro prodotto. Questo caso è già stato considerato in maniera esauriente. Si è mostrato che la rendita in grano e la rendita in denaro per acro possono qui aumentare, diminuire o rimanere invariate.

3. A SAGGIO DI PRODUTTIVA DEI CAPITALI ADDIZIONALI CRESCENTE

Il caso si distingue dalla variante I all'inizio del capitolo, in cui a saggio di produttività costante il prezzo di produzione scende, unicamente perché, se occorre un dato prodotto addizionale per estromettere il terreno A, la cosa avviene qui più rapidamente.

A produttività degli investimenti addizionali sia crescente, sia decrescente, gli effetti possono essere diversi a seconda della ripartizione degli investimenti fra i diversi tipi di terreno. Nella misura in cui questa diversità di azione compensa o aggrava le differenze, la rendita differenziale dei tipi di terreno migliori e, con essa, il rental totale diminuiranno o aumenteranno, come è già avvenuto per la rendita differenziale I. Per il resto, tutto dipende dalla grandezza della superficie e del capitale eliminati con A, e dall'anticipo relativo di capitale occorrente, se la produttività cresce, per fornire il prodotto addizionale che deve coprire la domanda.

L'unico punto che qui valga la pena d'essere approfondito, e che ci riconduce in generale all'analisi del modo in cui questo profitto differenziale si trasforma in rendita differenziale, è il seguente:

Nel primo caso, in cui il prezzo di produzione resta invariato, il capitale addizionale investito, mettiamo, nel terreno A è indifferente per la rendita differenziale in quanto tale, perché il terreno A non fornisce, ora come prima, nessuna rendita, il prezzo del suo prodotto non varia e continua a regolare il mercato.

Nel secondo caso, Variante I, in cui il prezzo di produzione decresce a saggio di produttività costante, il terreno A è necessariamente estromesso e a maggior ragione lo è nella Variante li (prezzo di produzione calante a saggio di produttività decrescente), perché altrimenti il capitale addizionale investito nel terreno A avrebbe per effetto di elevare il prezzo di produzione. Ma qui, nella Variante III del secondo caso, in cui il prezzo di produzione decresce perché la produttività del capitale addizionale aumenta, in date circostanze questo capitale addizionale può essere investito sia nel terreno A, sia in tipi di terreno migliori...

Nessun terreno dà un prodotto qualsiasi senza investimento di capitale. Ciò è vero anche per la rendita differenziale semplice, la rendita differenziale I; quando si dice che 1 acro di A, del terreno che regola il prezzo di produzione, produce al prezzo tale e tal altro tanto e tanto prodotto, e che i tipi di terreno migliori B, C, D forniscono tanto e tanto prodotto differenziale, e quindi, al prezzo regolatore, questa e quell'altra rendita, si presuppone sempre che si impieghi un dato capitale considerato normale nelle condizioni di produzione date, così come nell'industria, per poter produrre le merci al loro prezzo di produzione, è necessario per ogni ramo d'affari un minimo determinato di capitale.

Se, in seguito ad investimenti successivi legati a migliorie, questo minimo cambia, la cosa avviene per gradi. Finché per es. un certo numero di acri del terreno A non ha ricevuto quel capitale di esercizio addizionale, grazie al prezzo di produzione rimasto costante si crea rendita sugli acri coltivati meglio di A e, in tutti i tipi di terreno migliori B, C, D, la rendita aumenta. Non appena però il nuovo metodo di conduzione si è imposto al punto d'essere divenuto il metodo normale, il prezzo di produzione decresce, la rendita dei terreni migliori decresce a sua volta, e la parte del terreno A che non possiede il capitale di esercizio ormai diventato il capitale medio deve vendere sotto il suo prezzo di produzione individuale, quindi sotto il profitto medio.

A prezzo di produzione decrescente, ciò si verifica pure, anche se la produttività del capitale addizionale subisce un calo, quando in seguito ad investimento accresciuto il prodotto totale necessario è fornito dai tipi di terreno migliori, ragione per cui, ad esempio, il capitale di esercizio viene ritirato da A, che quindi non entra più in concorrenza nella produzione di quel determinato prodotto, per es. grano. La quantità di capitale ora investita mediamente nel nuovo terreno regolatore, il terreno migliore B, è adesso considerata normale e, quando si parla di fertilità diversa degli appezzamenti, si presuppone che si impieghi questa nuova quantità normale di capitale per acro.

D'altra parte, è chiaro che questo investimento medio, per es. di 8 Lst. per acro in Inghilterra prima del 1848 e di 12 Lst. dopo, serve di unità di misura nella stipula dei contratti di affitto. Per il fittavolo che spende di più, per tutta la durata del contratto il sovraprofitto non si trasforma in rendita. Che ciò avvenga a contratto scaduto dipenderà dalla concorrenza dei fittavoli in grado di effettuare lo stesso anticipo extra. Non parliamo qui delle migliorie permanenti che, restando invariato o perfino diminuendo l'esborso di capitale, continuano ad assicurare un prodotto accresciuto. Queste migliorie, benché prodotto del capitale, agiscono esattamente come la naturale qualità differenziale del terreno.

Come si vede, nella rendita differenziale II entra in considerazione un elemento che invece non si sviluppa nella rendita differenziale I in quanto tale, perché questa può sussistere indipendentemente da qualunque variazione nell'investimento normale per acro. Esso è, da un lato, la fusione e obliterazione dei risultati di diversi investimenti nel terreno regolatore A, il cui prodotto ora appare semplicemente come normale prodotto medio per acro. È, d'altro lato, il cambiamento nel minimo normale o nella grandezza media degli esborsi di capitale per acro, variazione che perciò si presenta come proprietà del terreno. È, inoltre, la differenza nel modo di conversione del sovraprofitto nella forma della rendita...

E' dimostrato che la rendita per acro, ad es., per un investimento raddoppiato, può aumentare non solo del doppio, ma di oltre il doppio, se il prezzo di produzione decresce in seguito all'accresciuto saggio di produttività di investimenti addizionali in altri termini, ove la produttività aumenti in proporzione superiore al capitale anticipato. Ma può anche diminuire se, a causa di un più rapido aumento della produttività nel terreno A, il prezzo di produzione subisce un ribasso molto più forte...

Infine la rendita in denaro aumenterebbe se, a parità di aumento proporzionale della fertilità, si investisse più capitale addizionale nei terreni migliori che in A, oppure se gli investimenti addizionali nei terreni migliori agissero con saggio di produttività crescente. In tutt'e due i casi, le differenze aumenterebbero.

La rendita in denaro diminuisce se le migliorie dovute a investimenti addizionali riducono in tutto o in parte le differenze; se agiscono più su A che su B e C. La sua diminuzione è tanto più forte, quanto minore è l'aumento della produttività nei terreni migliori. Dalla proporzione della diseguaglianza tra gli effetti, dipende se la rendita in denaro cresce, decresce o rimane stazionaria.

Sia la rendita in denaro, sia la rendita in grano aumentano se, rimanendo invariata la differenza proporzionale nella fertilità addizionale dei diversi tipi di terreno, si investe più capitale nel terreno produttivo di rendita che nel terreno improduttivo di rendita A, e più nel terreno a rendita superiore che in quello a rendita inferiore, oppure se, a pari capitale addizionale, la fertilità aumenta nei terreni relativamente migliori, e nei migliori in assoluto, più che nel terreno A, e precisamente nel grado in cui l'aumento della fertilità è più forte nei tipi di terreno migliori che in quelli peggiori.

In ogni caso, tuttavia, si ha aumento relativo della rendita se la produttività accresciuta è conseguenza dell'investimento di capitale addizionale, e non, semplicemente, di fertilità accresciuta con investimento costante. È questo il punto di vista assoluto che mostra come qui, analogamente a tutti i casi precedenti, la rendita, e la rendita accresciuta per acro (come, nel caso della rendita differenziale 1 per l'insieme della superficie coltivata, l'ammontare del rental medio), sono il risultato di un investimento superiore nel terreno, operi il capitale investito a saggio di produttività costante con prezzi costanti o decrescenti, oppure a saggio di produttività decrescente con pezzi costanti o decrescenti, o, infine, a saggio di produttività crescente con prezzi decrescenti. Infatti la nostra ipotesi: prezzo costante con saggio di produttività del capitale addizionale costante, decrescente o crescente, e prezzo decrescente con saggio di produttività costante, decrescente o crescente, si risolve in quest'altro: saggio di produttività del capitale addizionale costante a prezzo costante o decrescente, saggio di produttività decrescente a prezzo costante o decrescente, saggio di produttività crescente a prezzo costante o decrescente. Sebbene in tutti questi casi la rendita possa rimanere costante o decrescere, la sua diminuzione sarebbe maggiore se l'investimento addizionale, eguali restando tutte le altre circostanze, non fosse condizione della fertilità accresciuta. L'investimento addizionale è allora sempre la causa dell'altezza relativa della rendita, nonostante la sua diminuzione in assoluto.

Capitolo XLIII

LA RENDITA DIFFERENZIALE II

TERZO CASO: PREZZO DI PRODUZIONE CRESCENTE.

RISULTATI

Il terzo caso si presenta nella sua purezza solo quando la produttività del secondo investimento diminuisce, mentre quella del primo, come si è presupposto dovunque per il primo e per il secondo caso, rimane costante. Qui la rendita differenziale I non è toccata, la variazione ha luogo solo per la parte derivante dalla rendita differenziale II...

[Poiché nel Manoscritto il suddetto terzo caso non era elaborato - non vi si trova che il titolo -, toccò all'editore completarlo nel modo migliore possibile, come egli ha cercato di fare in quanto precede. Ora però gli rimane il compito di trarre dall'analisi fin qui svolta della rendita differenziale li, nei suoi tre casi e nove sottocasi, le conclusioni generali che ne emergono. E a questo scopo gli esempi contenuti nel Manoscritto si prestano solo in piccola parte. Prima di tutto, essi mettono a confronto appezzamenti le cui rese per superficie eguali stanno fra loro come 1:2:3:4; dunque, differenze già di per sé esagerate, e tali da portare, nel corso delle ipotesi e dei calcoli stabiliti su questa base, a valori numerici completamente artificiosi. In secondo luogo, gli esempi suscitano un'impressione del tutto erronea. Se, per gradi di fertilità che stanno fra loro come 1: 2: 3: 4, ecc., si ottengono rendite della serie 0:1:2:3, ecc.,la tentazione immediata è di dedurre la seconda serie dalla prima e di spiegare l'aumento del doppio, del triplo ecc. della rendita con l'aumento del doppio, del triplo ecc. dei ricavi totali. Ma questo sarebbe completamente sbagliato. Le rendite stanno fra loro come 0:1:2:3:4, anche quando i gradi di fertilità stanno fra loro come n: n + 1: n + 2:n + 3: n+4; le rendite insomma non stanno fra loro come i gradi di fertilità, ma come le differenze di fertilità, calcolate partendo come punto zero dal terreno che non fornisce renditi...

Quanto più capitale si investe nel suolo, quanto maggiore è lo sviluppo dell'agricoltura e, in genere, della civiltà in un paese, tanto più aumentano sia le rendite per acro, sia la somma totale delle rendite, tanto più gigantesco è il tributo che la società versa sotto forma di sovraprofitti ai grandi proprietari fondiari — finché tutti i terreni una volta messi a coltura conservano la loro capacità di concorrenza.

Questa legge spiega la straordinaria vitalità della classe dei grandi proprietari fondiari. Nessuna classe della società conduce una vita così dissipata; nessuna rivendica a voce così alta il diritto a un lusso tradizionale degno del suo «stato», poco importa da dove salti fuori il denaro occorrente allo scopo; nessuna accumula a cuor leggero tali e tante montagne di debiti. Eppure, cade sempre in piedi - grazie al capitale che altri ha investito nel suolo e che le fornisce rendite prive di qualunque proporzione con i profitti che il capitalista ne ritrae.

Ma la stessa legge spiega anche perché questa vitalità dei grandi proprietari fondiari gradualmente si esaurisca...

Come risultato generale dell'analisi della rendita differenziale, si ha:

Primo: Alla formazione di sovraprofitti si può pervenire per diverse vie. Da un lato, sulla base della rendita differenziale I, cioè sulla base dell'investimento dell'intero capitale agricolo in un'area composta da tipi di terreno di fertilità differente; dall'altro, come rendita differenziale II, sulla base della diversa produttività differenziale di investimenti successivi nello stesso terreno, cioè, qui, sulla base di una produttività (per es. in quarters di grano) superiore a quella ottenuta con lo stesso investimento nel terreno peggiore, che non fornisce nessuna rendita, ma regola il prezzo di produzione. Comunque però si generino questi sovraprofitti, la loro trasformazione in rendita e, quindi, il loro trasferimento dal fittavolo al proprietario fondiario, presuppongono sempre come condizione che i diversi prezzi effettivi di produzione individuali (indipendenti, cioè, dal prezzo di produzione generale, che regola il mercato) dei prodotti parziali dei singoli investimenti successivi siano preventivamente livellati in un prezzo di produzione medio individuale. L'eccedenza del prezzo di produzione generale, regolatore, del prodotto di un acro al disopra di questo suo prezzo di produzione medio individuale, costituisce la rendita per acro, e la misura. Nel caso della rendita differenziale I, i risultati differenziali sono in sé e per sé distinguibili, perché si ottengono su pezzi di terra distinti, disseminati e adiacenti, ad investimento per acro assunto come normale e con corrispondente coltivazione normale. Nel caso della rendita differenziale II, bisogna prima renderli distinguibili; bisogna riconvertirli, in effetti, nella rendita differenziale I. E ciò può avvenire solo nel modo indicato...

Secondo: A saggio di produttività decrescente degli investimenti addizionali - il cui limite, quanto a nuova formazione di sovraprofitto, è l'investimento che copre soltanto i costi di produzione, cioè che produce il qr. allo stesso costo del medesimo investimento in un acro del terreno A, [...] -, da tutto ciò che si è detto consegue: che il limite a cui l'investimento complessivo nell'acro di B cesserebbe di produrre una rendita è raggiunto allorché il prezzo di produzione medio individuale del prodotto per acro di B si eleva al prezzo di produzione per acro di A.

Se B aggiunge soltanto investimenti che pagano il prezzo di produzione, senza perciò costituire né sovraprofitto, né, per conseguenza, nuova rendita, ciò eleva bensì il prezzo di produzione medio individuale per qr., ma non incide sul sovraprofitto, eventualmente la rendita, creati dai precedenti investimenti...

nei terreni migliori con investimenti addizionali il cui prodotto costi più del prezzo di produzione regolatore, la rendita, almeno entro i limiti della prassi ammissibile, non deve scomparire, ma soltanto decrescere, e, precisamente, in proporzione da un lato alla parte aliquota dell'intero investimento costituita da questo capitale meno produttivo, dall'altro alla diminuzione della sua produttività. Il prezzo medio del suo prodotto rimarrebbe ancora al disotto del prezzo regolatore, lasciando perciò, pur sempre, un sovraprofitto convertibile in rendita...

Da quanto esposto finora, segue:

Primo. Finché i capitali addizionali sono investiti nel medesimo terreno in condizioni di sovraproduttività, anche se decrescente, la rendita assoluta in grano e in denaro per acro aumenta benché diminuisca relativamente, rispetto cioè al capitale anticipato (e quindi diminuisca il saggio del sovraprofitto o della rendita). Il limite è qui rappresentato da quel capitale addizionale che frutta soltanto il profitto medio, o per il cui prodotto il prezzo di produzione individuale coincide con quello generale. In tali circostanze, il prezzo di produzione rimane invariato, qualora l'offerta accresciuta non renda superflua la produzione dei tipi di terreno peggiori. Anche a prezzo decrescente, questi capitali addizionali possono, entro certi limiti, produrre ancora un sovraprofitto, sia pure modesto.

Secondo. L'investimento di capitale addizionale che frutta soltanto il profitto medio, la cui sovraproduttività è dunque — zero, non altera minimamente l'ammontare del sovraprofitto esistente e quindi della rendita. Il prezzo medio individuale del qr. cresce perciò nei tipi di terreno migliori; l'eccedenza per qr. decresce; ma il numero di qrs. che dànno questa eccedenza ridotta aumenta, cosicché il prodotto resta invariato.

Terzo. Gli investimenti addizionali, per il cui prodotto il prezzo di produzione individuale è superiore al prezzo regolatore, nei quali perciò la sovraproduttività non è soltanto eguale a zero, ma meno di zero, è un minus, ossia è inferiore alla produttività di un investimento eguale nel terreno regolatore A, hanno per effetto di avvicinare sempre più il prezzo medio individuale del prodotto totale del terreno migliore al prezzo di produzione generale; riducono quindi sempre più quella differenza fra loro che appunto costituisce il sovraprofitto e, rispettivamente, la rendita. Una parte sempre crescente di ciò che costituiva il sovraprofitto o la rendita entra nella formazione del profitto medio. Ciò non toglie che il capitale totale investito nell'acro di B continui a dare un sovraprofitto, per quanto decrescente con la massa crescente del capitale di produttività deficitaria e con il grado di questa sottoproduttività. La rendita per acro diminuisce qui in assoluto sebbene il capitale e la produzione aumentino, invece di diminuire come nel secondo caso, solo relativamente, in rapporto alla grandezza crescente del capitale investito.

Estinguersi può la rendita unicamente se il prezzo di produzione medio individuale del prodotto totale nel terreno migliore B coincide con il prezzo regolatore; se quindi il sovraprofitto dei primi investimenti più produttivi è andato completamente consumato nella formazione del profitto medio.

Il limite minimo di caduta della rendita per acro è il punto in cui essa scompare. Questo punto tuttavia non è raggiunto quando gli investimenti addizionali producono in condizioni di sottoproduttività, bensì quando l'investimento addizionale delle parti di capitale sottoproduttive diventa così grande che il loro effetto annulla la produttività eccedente dei primi investimenti e la produttività del capitale totale investito diviene pari a quella del capitale in A; quindi il prezzo medio individuale del qr. in B eguaglia quello del qr. in A.

Anche in questo caso, il prezzo di produzione regolatore, 3 Lst. per qr., rimarrebbe invariato, pur essendo scomparsa la rendita. Solo al di là di questo punto il prezzo di produzione dovrebbe aumentare, per essere aumentati sia il grado di sottoproduttività del capitale addizionale, sia la grandezza del capitale addizionale avente la stessa sottoproduttività...

Si potrebbe quindi impiegare ancora a lungo capitale addizionale sottoproduttivo, od anche con sottoproduttività crescente, prima che il prezzo medio individuale del qr. nei terreni migliori eguagliasse il prezzo di produzione generale, e l'eccedenza del secondo sul primo, quindi il sovraprofitto e la rendita, fossero interamente scomparsi.

E, anche in questo caso, solo scomparendo la rendita nei tipi di terreno migliori il prezzo medio individuale del loro prodotto coinciderebbe con il prezzo di produzione generale, cosicché nessun ulteriore aumento di quest'ultimo sarebbe necessario...

Sebbene quindi la rendita differenziale non sia che una conversione formale del sovraprofitto in rendita, e qui la proprietà fondiaria non permetta al proprietario che di trasferire nelle proprie tasche il sovraprofitto del fittavolo, si vede tuttavia come l'investimento successivo di capitale nel medesimo appezzamento o, che è lo stesso, l'aumento del capitale investito nel medesimo appezzamento, raggiunga assai prima il suo limite a saggio di produttività del capitale decrescente e a prezzo regolatore costante; come dunque, in realtà, si scontri più o meno in una barriera artificiale in seguito a quella conversione puramente formale del sovraprofitto in rendita fondiaria, che è conseguenza della proprietà terriera. Non solo, in questo caso, l'aumento del prezzo di produzione generale, qui divenuto necessario per l'esistenza di un limite più stretto di quel che sarebbe in altre condizioni, è causa dell'aumento della rendita differenziale, ma l'esistenza stessa della rendita differenziale in quanto rendita è causa del più precoce e rapido aumento del prezzo di produzione generale, al fine di assicurare l'offerta del maggior prodotto diventato indispensabile.

Capitolo XLIV

RENDITA DIFFERENZIALE ANCHE SUL PEGGIORE DEI TERRENI COLTIVATI

 

In generale, si deve osservare quanto segue:

Dal punto di vista del modo di produzione capitalistico, v'è sempre aumento relativo del prezzo dei prodotti quando, per ottenere il medesimo prodotto, si deve fare una spesa, si deve pagare qualche cosa che prima non si pagava. Infatti, per reintegrazione del capitale consumato nella produzione si deve intendere soltanto la reintegrazione di valori che si materializzano in determinati mezzi di produzione. Gli elementi naturali che entrano come agenti nella produzione senza tuttavia costare nulla, qualunque parte abbiano nella produzione non vi entrano come elementi del capitale, ma come forza naturale gratuita del capitale, cioè come forza produttiva naturale gratuita del lavoro, che però sulla base del modo di produzione capitalistico si presenta, al pari di ogni forza produttiva, come produttività del capitale. Se dunque una simile forza naturale, che in origine non costa nulla, entra nella produzione, essa, finché il prodotto fornito con il suo concorso è sufficiente a coprire il fabbisogno, non incide sulla determinazione del prezzo. Se tuttavia, nel corso ulteriore dello sviluppo, è necessario fornire un prodotto maggiore di quello che si potrebbe ottenere con l'aiuto di quella forza naturale, se dunque questo prodotto addizionale dev'essere prodotto senza l'aiuto della suddetta forza naturale, ossia con il concorso dell'uomo, del lavoro umano, allora nel capitale entra un nuovo elemento addizionale. Si spende relativamente più capitale per ottenere lo stesso prodotto. Eguali restando tutte le altre circostanze, la produzione quindi rincara...

Rendita differenziale, e rendita come semplice interesse del capitale incorporato nel suolo.

Le migliorie cosiddette permanenti che modificano la composizione fisica e, in parte, chimica del suolo mediante operazioni che esigono spese di capitale e possono considerarsi come incorporazione del capitale nel suolo hanno quasi sempre per effetto di dare a un determinato appezzamento, al terreno di una località data e circoscritta, le qualità che un altro terreno, in un'altra località e spesso nelle immediate vicinanze, possiede invece per natura. Un terreno è per natura piano, un altro deve prima essere livellato; uno gode di un naturale deflusso di acqua, un altro ha bisogno d'essere artificialmente drenato; uno possiede per natura uno strato coltivabile profondo, in un altro esso va artificialmente approfondito; un terreno argilloso è misto per natura alla quantità appropriata di sabbia, in un altro questo rapporto deve prima essere creato; un prato è per natura irriguo e perfino melmoso, un altro lo diverrà ad opera del lavoro umano o, nel linguaggio dell'economia borghese, del capitale.

Ora è una teoria davvero esilarante quella a sentir la quale, nel suolo i cui vantaggi comparativi sono acquisiti, la rendita sarebbe interesse e nell'altro, il quale possiede per natura questi vantaggi, no. (In realtà, nell'esporre la cosa la si distorce al punto che la rendita, poiché in un caso coincide effettivamente con l'interesse, finisce per dover essere chiamata interesse, contrabbandata come interesse, anche nei casi in cui assolutamente non lo è). Ora, fatto l'investimento, il suolo dà una rendita, non perché vi sia stato investito del capitale, ma perché l'investimento di capitale ha reso il terreno più produttivo, come campo di investimento, che in passato. Posto che tutti i terreni di un paese abbiano bisogno di un tale investimento, ogni appezzamento che non l'ha ancora ricevuto deve prima attraversare questo stadio, e la rendita (l'interesse, nel caso dato) fornita dal terreno già provvisto di investimento è una rendita differenziale esattamente come se quel terreno possedesse per natura questo privilegio e l'altro appezzamento dovesse prima acquisirlo artificialmente.

Anche questa rendita suscettibile d'essere risolta in interesse diventa semplice rendita differenziale non appena il capitale speso è ammortizzato. Se così non fosse, il capitale dovrebbe avere una doppia esistenza in quanto capitale.

È uno dei fenomeni più spassosi quello per cui tutti gli avversari di Ricardo, che combattono la determinazione del valore mediante il solo lavoro, obiettano alla rendita differenziale proveniente da differenze fra i terreni che qui si affidi alla natura invece che al lavoro il compito di determinare il valore, ma, nello stesso tempo, attribuiscono questo ruolo determinante alla posizione o, ancor più, all'interesse del capitale incorporato nel suolo messo a coltura. Per un prodotto creato in un certo periodo di tempo, il medesimo lavoro genera il medesimo valore, ma la grandezza o la quantità di quel prodotto, quindi anche la frazione di valore spettante ad una sua parte aliquota, dipende unicamente, a quantità di lavoro data, dalla quantità del prodotto e questo, a sua volta, dalla produttività della quantità di lavoro data, non dalla grandezza di questa quantità. Che tale produttività sia dovuta alla natura o alla società, è del tutto indifferente. Solo se costa essa stessa lavoro, quindi capitale, essa aggiunge un nuovo elemento ai costi di produzione, come non è il caso per la sola natura.

Capitolo XLV

LA RENDITA FONDIARIA ASSOLUTA

Nell'analisi della rendita differenziale, si è partiti dal presupposto che il terreno peggiore non paghi rendita fondiaria, ovvero, per esprimere la cosa in maniera più generale, che paghi rendita fondiaria soltanto il terreno per il cui prodotto il prezzo di produzione individuale è inferiore al prezzo di produzione che regola il mercato, cosicché si genera un sovraprofitto che si trasforma in rendita...

Se ci si interroga sul fondamento dell'ipotesi che il prodotto del tipo di terreno peggiore A non paghi rendita, la risposta suona necessariamente così: Se il prezzo di mercato del prodotto del suolo, diciamo del grano, ha raggiunto un livello tale che un anticipo addizionale di capitale investito nel terreno del tipo A copra il prezzo di produzione corrente, quindi arrechi al capitale il corrente profitto medio, questa condizione è allora sufficiente per l'investimento del capitale addizionale nel terreno del tipo A. Vale a dire, questa condizione basta perché il capitalista investa nuovo capitale traendone il profitto d'uso, e lo valorizzi nel modo normale...

Dalla premessa che l'affittuario potrebbe investire il capitale nel terreno di tipo A, conformemente alle condizioni medie di valorizzazione del capitale, se non dovesse anche pagare una rendita, non segue affatto che questo terreno sia senz'altro a sua disposizione. Il fatto che egli potrebbe valorizzare il suo capitale al profitto d'uso a condizione di non pagare rendita, non è un motivo perché il proprietario fondiario gli presti gratuitamente il suo terreno e sia tanto filantropico verso questo suo collega in affari, da introdurre il crédit gratuit.

Un'ipotesi simile implica che si faccia astrazione dalla proprietà fondiaria, che si sopprima quella proprietà fondiaria la cui esistenza costituisce appunto una barriera all'investimento del capitale e alla sua libera valorizzazione nel suolo — barriera che non crolla di fronte alla pura e semplice riflessione del fittavolo che il livello dei prezzi del grano, se egli non pagasse nessuna rendita, cioè se, in pratica, potesse considerare inesistente la proprietà fondiaria, gli permetterebbe di trarre dal suo capitale il profitto medio sfruttando il terreno di tipo A. Il monopolio della proprietà fondiaria, la proprietà fondiaria in quanto barriera del capitale, sono invece presupposti nella rendita differenziale, perché, in loro assenza, il sovraprofitto non si convertirebbe in rendita e non toccherebbe al proprietario fondiario anziché al fittavolo. E la proprietà fondiaria continua a sussistere come barriera anche là dove la rendita come rendita differenziale scompare, cioè sul terreno di tipo A. Se consideriamo i casi in cui, in un paese a produzione capitalistica, l'investimento del capitale nel suolo può avvenire senza pagamento di rendita, troveremo che tutti implicano la soppressione di fatto, anche se non di diritto, della proprietà fondiaria; una soppressione tuttavia possibile solo in circostanze ben determinate e, per loro natura, accidentali:

Primo: se il proprietario fondiario è egli stesso capitalista, o se il capitalista è egli stesso proprietario fondiario. In tal caso, non appena il prezzo di mercato è cresciuto a sufficienza per consentirgli di ricavare, da quello che ora è il terreno di tipo il prezzo di produzione, cioè la reintegrazione del capitale più il profitto medio, egli può sfruttare in proprio il suo appezzamento...

Secondo: Nell'area complessiva di un'affittanza si possono trovare singoli appezzamenti che, a livello dato dei prezzi di mercato, non fruttano rendita alcuna; quindi sono, in effetti, ceduti gratuitamente in prestito. Il proprietario fondiario, tuttavia, non li considera tali, perché ciò che gli preme non è la rendita particolare dei singoli lotti che compongono il terreno ceduto in affitto, ma la sua rendita complessiva (rental). In tal caso, in quanto si prendano in considerazione le parti dell'affittanza improduttive di rendita, per il fittavolo la proprietà fondiaria come barriera all'investimento di capitale cessa di esistere, e ciò per contratto stipulato con lo stesso proprietario del suolo. Se però per questi lotti egli non paga alcuna rendita, è solo perché ne paga per il terreno di cui essi sono un accessorio...

Terzo: Un affittuario può investire capitale addizionale nella stessa affittanza, sebbene, ai prezzi di mercato correnti, il prodotto addizionale con esso ottenuto gli apporti soltanto il prezzo di produzione, gli procuri il profitto d'uso, non permettendogli invece di pagare una rendita addizionale. In questo caso, con una parte del capitale investito nel suolo egli paga una rendita fondiaria, e con l'altra no...

Il problema [...], in termini semplici, è il seguente: Posto che il prezzo di mercato del grano (che per noi, in questa indagine, rappresenta tutti i prodotti agricoli) sia sufficiente perché si possano mettere a coltura porzioni di terreno del tipo A, e perché il capitale investito in questi nuovi appezzamenti ricavi il prezzo di produzione del prodotto, cioè la reintegrazione del capitale più il profitto medio; posto quindi che siano presenti le condizioni di una normale valorizzazione del capitale nei terreni del tipo A; è ciò sufficiente? Può allora questo capitale essere realmente investito? O il prezzo di mercato deve aumentare finché anche il terreno peggiore A dia una rendita? Il monopolio del proprietario fondiario eleva dunque all'investimento del capitale una barriera che, dal punto di vista puramente capitalistico, non esisterebbe se questo monopolio non esistesse?...

La rendita differenziale ha questo di caratteristico: che qui la proprietà fondiaria si limita a carpire il sovraprofitto che l'affittuario altrimenti intascherebbe e che, in date circostanze, effettivamente intasca per tutta la durata del suo contratto di affitto. La proprietà fondiaria è qui soltanto causa del trasferimento da una persona all'altra, dal capitalista al proprietario terriero, di una parte del prezzo della merce nascente senza il suo intervento (e in seguito, invece, alla determinazione ad opera della concorrenza del prezzo di produzione regolatore del prezzo di mercato) e risolventesi in sovraprofitto. Ma la proprietà fondiaria non è qui la causa che crea questo elemento costitutivo del prezzo, o che provoca l'aumento di prezzo che esso presuppone. Se invece il tipo di terreno peggiore di tutti A non può essere coltivato sebbene la sua messa a coltura frutterebbe il prezzo di produzione finché non dia un'eccedenza su questo prezzo di produzione, una rendita, allora la proprietà fondiaria è la causa creatrice di un tale aumento di prezzo. La stessa proprietà fondiaria ha allora creato la rendita...

La pura e semplice proprietà giuridica del suolo non crea al proprietario nessuna rendita fondiaria. Gli conferisce tuttavia il potere di sottrarre allo sfruttamento il suo terreno finché le condizioni economiche non ne permettano una valorizzazione che gli arrechi un'eccedenza, sia il terreno usato per l'agricoltura in senso proprio, o per altri scopi produttivi, come edifici, ecc. Egli non può né accrescere né ridurre la quantità assoluta di questo campo di occupazione, ma può accrescerne o ridurne la quantità esistente sul mercato...

La proprietà fondiaria è la barriera che non permette nuovi investimenti in terreni finora rimasti incolti o non dati in affitto, senza prelevare una gabella, cioè senza esigere una rendita, benché il terreno messo a coltura ex novo appartenga a un tipo che non frutta rendita differenziale e che, senza la proprietà fondiaria, avrebbe già potuto essere coltivato in seguito a un aumento minimo del prezzo di mercato, per cui il prezzo di mercato regolatore non avrebbe reso al coltivatore di questo pessimo terreno che il suo prezzo di produzione. La barriera opposta dalla proprietà fondiaria fa invece sì che il prezzo di mercato debba salire fino a permettere al terreno di pagare un'eccedenza sul prezzo di produzione, cioè una rendita. Ma poiché, secondo la nostra premessa, il valore delle merci prodotte dal capitale agricolo supera il loro prezzo di produzione, questa rendita costituisce appunto (eccettuato un caso che esamineremo fra poco) l'eccedenza del valore sul prezzo di produzione, o una parte di essa. Che la rendita sia eguale all'intera differenza fra valore e prezzo di produzione o solo ad una parte più o meno grande di questa differenza, dipenderebbe in tutto e per tutto dallo stato dell'offerta rispetto alla domanda e dall'estensione del terreno messo ex novo a coltura. Finché la rendita non è eguale all'eccedenza del valore dei prodotti agricoli sul loro prezzo di produzione, una frazione di questa eccedenza entrerebbe sempre nel livellamento generale e nella ripartizione proporzionale di tutto il plusvalore fra i diversi capitali singoli. Non appena la rendita equivale all'eccedenza del valore sul prezzo di produzione, tutta questa parte del plusvalore eccedente il profitto medio sarebbe sottratta a un tale livellamento. Ma, sia questa rendita assoluta eguale all'intera eccedenza del valore sul prezzo di produzione o soltanto ad una parte di essa, i prodotti agricoli sarebbero sempre venduti a un prezzo di monopolio, non perché il loro prezzo superi il loro valore, ma perché lo eguaglia, ovvero perché sta al disotto del loro valore, ma al disopra del loro prezzo di produzione. Il loro monopolio consisterebbe nel fatto di non essere come altri prodotti dell'industria il cui valore sta al disopra del prezzo di produzione generale livellati al prezzo di produzione. Poiché una parte sia del valore, sia del prezzo di produzione è una costante effettivamente data, cioè il prezzo di costo, il capitale consumato nella produzione = k,bla loro differenza sta nell'altra parte, la parte variabile, il plusvalore, che nel prezzo di produzione è = π, al profitto, cioè al plusvalore totale calcolato sul capitale sociale, e su ogni capitale singolo come sua parte aliquota, mentre nel valore delle merci è eguale all'effettivo plusvalore che quel particolare capitale ha generato e che costituisce una parte integrante dei valori delle merci da esso prodotte. Se il valore della merce è superiore al suo prezzo di produzione, il prezzo di produzione è allora = k + π e il valore = k + π + d, cosicché π + d è = al plusvalore in essa racchiuso. Perciò la differenza fra il valore e il prezzo di produzione è = d, all'eccedenza del plusvalore prodotto da questo capitale su quello assegnatogli dal saggio generale di profitto. Ne segue che il prezzo dei prodotti agricoli può essere superiore al loro prezzo di produzione, senza tuttavia raggiungerne il valore. Ne segue, inoltre, che fino a un certo punto può verificarsi un aumento duraturo dei prezzi dei prodotti agricoli, prima che il loro prezzo abbia raggiunto il loro valore. Ne segue parimenti che soltanto per effetto del monopolio della proprietà fondiaria l'eccedenza di valore dei prodotti agricoli sul loro prezzo di produzione può divenire un elemento determinante del loro prezzo generale di mercato. Ne segue infine che, in questo caso, non il rincaro del prodotto è causa della rendita, ma la rendita è causa del rincaro del prodotto. Se il prezzo del prodotto dell'unità di superficie del terreno peggiore di tutti è = P + r, tutte le rendite differenziali aumenteranno dei multipli corrispondenti di r, poiché, secondo la nostra premessa, P + r diviene il prezzo di mercato regolatore...

Sebbene la proprietà fondiaria possa spingere il prezzo dei prodotti del suolo al disopra del loro prezzo di produzione, non dipende da essa ma dalla situazione generale del mercato fino a che punto il prezzo di mercato, superando il prezzo di produzione, si avvicini al valore, e in qual misura perciò il plusvalore prodotto in agricoltura al disopra del profitto medio dato si trasformi in rendita o entri nel livellamento generale del plusvalore nel profitto medio. In ogni caso, questa rendita assoluta derivante dall'eccedenza del valore sul prezzo di produzione non è che una parte del plusvalore agricolo, trasformazione di questo plusvalore in rendita, suo accaparramento da parte del proprietario fondiario, esattamente come la rendita differenziale scaturisce dalla metamorfosi del plusprofitto in rendita e dal suo accaparramento ad opera della proprietà fondiaria, a prezzo di produzione universalmente regolatore. Queste due forme della rendita sono le uniche normali. All'infuori di esse la rendita può basarsi unicamente su un vero e proprio prezzo di monopolio, che non è determinato né dal prezzo di produzione, né dal valore delle merci, ma dal fabbisogno e dalla solvibilità dei compratori, e la cui trattazione appartiene alla teoria della concorrenza, in cui si studia il reale movimento dei prezzi di mercato...

Se tutto il suolo coltivabile di un paese fosse affittato — presupposti su scala generale il modo di produzione capitalistico e condizioni normali —, non esisterebbe terreno che non fornisca rendita, ma ci potrebbero essere singoli investimenti di capitale, singole frazioni del capitale investito nel suolo, che non frutterebbero rendita, giacché, non appena il suolo è affittato, la proprietà fondiaria cessa di operare come barriera assoluta al necessario investimento di capitale. Come barriera relativa essa continua invece ad agire anche allora, nella misura in cui il fatto che il capitale incorporato nel terreno cade in possesso del proprietario fondiario traccia al fittavolo limiti ben definiti. Solo in questo caso ogni rendita si trasformerebbe in rendita differenziale, non in rendita differenziale determinata dalla differenza nella fertilità del suolo, ma in rendita differenziale determinata dalla differenza tra i sovraprofitti che si ottengono in seguito agli ultimi .investimenti in un determinato terreno e la rendita pagata per l'affitto del terreno del tipo peggiore. Come barriera in assoluto la proprietà fondiaria agisce unicamente in quanto il permesso di accedere alla terra in generale come ad un campo di investimento del capitale determina il tributo da versare al proprietario fondiario. Una volta accordato tale permesso, tuttavia, quest'ultimo non può più opporre limiti assoluti alla dimensione quantitativa dell'investimento di capitale in un dato appezzamento. Alla costruzione di case pone una barriera la proprietà privata di una terza persona sul terreno su cui la casa dev'essere edificata. Ma, una volta affittato questo terreno a scopo edificatorio, dipende da chi lo prende in affitto se erigervi una casa alta o bassa.

Se la composizione media del capitale agricolo fosse eguale o superiore a quella del capitale sociale medio, la rendita assoluta, sempre nel senso da noi sviluppato, scomparirebbe; cioè scomparirebbe la rendita che si distingue sia dalla rendita differenziale, sia dalla rendita basata su un prezzo di monopolio in senso proprio. Il valore del prodotto agricolo non sarebbe allora superiore al suo prezzo di produzione, e il capitale agricolo non metterebbe in moto più lavoro, quindi non realizzerebbe neppure un maggior pluslavoro, che il capitale non agricolo. La stessa cosa avverrebbe se la composizione del capitale agricolo, nel progredire della coltura, si livellasse con quella del capitale sociale medio...

Occorre tener presente il carattere peculiare dell'agricoltura.

Supposto che il macchinario atto a risparmiare lavoro, le sostanze ausiliarie chimiche, ecc., occupino qui uno spazio maggiore, che quindi il capitale costante cresca tecnicamente, non solo quanto a valore, ma quanto a massa, in confronto alla massa della forza lavoro impiegata, nell'agricoltura (come nell'industria mineraria) quel che conta non è soltanto la produttività sociale, ma anche la produttività naturale e spontanea del lavoro, che dipende dalle condizioni naturali di quest'ultimo. È possibile che l'aumento della forza produttiva sociale del lavoro nell'agricoltura si limiti a compensare o non compensi neppure la diminuzione della forza naturale infatti questa compensazione può sempre agire solo per un certo periodo -, cosicché ivi, nonostante lo sviluppo tecnico, il prodotto non ribassa di prezzo, ma ne viene solo impedito un rincaro ancora più forte. È anche possibile che, aumentando il prezzo del grano, la massa assoluta del prodotto diminuisca mentre cresce il sovraprodotto relativo, e questo, in particolare, sia in caso di aumento relativo del capitale costante, che consta in gran parte di macchine o di bestiame, di cui si deve soltanto reintegrare il logorio, sia in caso di diminuzione corrispondente della parte variabile del capitale, spesa in salario, che dev'essere sempre reintegrata attingendo al prodotto.

Ma è anche possibile che, progredendo l'agricoltura, sia necessario soltanto un moderato aumento del prezzo di mercato al disopra della media, affinché un terreno poco fertile che, a un basso livello delle risorse tecniche, avrebbe richiesto un maggiore aumento del prezzo di mercato, possa essere coltivato e, nello stesso tempo, fruttare una rendita...

Nella misura in cui la vera e propria rendita agricola è puro e semplice prezzo di monopolio, questo non può che essere modesto, così come qui, in condizioni normali, può essere soltanto modesta anche la rendita assoluta, qualunque sia l'eccedenza del valore del prodotto sul suo prezzo di produzione. L'essenza della rendita assoluta consiste perciò in questo: Capitali di eguale grandezza in diverse sfere di produzione producono, a seconda della loro diversa composizione media, e a pari saggio del plusvalore o a pari sfruttamento del lavoro, masse diverse di plusvalore. Nell'industria, queste diverse masse di plusvalore si livellano nel profitto medio e si ripartiscono uniformemente fra i singoli capitali come aliquote del capitale sociale. La proprietà fondiaria, non appena la produzione richiede terra sia per l'agricoltura, sia per l'estrazione di materie prime, impedisce un tale livellamento per i capitali investiti nel suolo, e arraffa una parte del plusvalore che, altrimenti, parteciperebbe al livellamento nel saggio generale di profitto. La rendita forma allora una parte del valore, più specificamente del plusvalore, delle merci, che solo tocca anziché alla classe dei capitalisti che l'hanno estorta dai lavoratori ai proprietari fondiari che la sottraggono ai capitalisti. E qui si presuppone che il capitale agricolo metta in moto più lavoro di una frazione di eguale grandezza del capitale non agricolo. Fin dove si spinga questa differenza, o se, in generale, essa esista, dipende dallo sviluppo relativo dell'agricoltura in confronto all'industria. Per la natura stessa della cosa, essa è destinata a scemare con il progredire dell'agricoltura, se tuttavia il rapporto in cui la parte variabile del capitale decresce rispetto alla costante non è ancora maggiore nel capitale industriale che in quello agricolo...

La rendita assoluta ha una parte ancora più rilevante nell'industria estrattiva vera e propria, in cui un elemento del capitale costante, la materia prima, scompare del tutto, e in cui, ad eccezione dei rami nei quali la parte consistente in macchinario ed altro capitale fisso è molto notevole, regna indubbiamente la più bassa composizione del capitale. Appunto qui, dove la rendita sembra unicamente dovuta a un prezzo di monopolio, si richiedono condizioni di mercato straordinariamente favorevoli affinché le merci siano vendute al loro valore, ovvero la rendita eguagli l'intera eccedenza del plusvalore della merce sul suo prezzo di produzione. È il caso, per esempio, della rendita di acque pescose, cave di pietra, foreste naturali, ecc.

Capitolo XLVI

RENDITA DELLE AREE EDIFICABILI.

RENDITA MINERARIA.

PREZZO DEL SUOLO

La rendita differenziale si presenta, ubbidendo alle stesse leggi della rendita differenziale nell'agricoltura, dovunque in generale esista rendita. Dovunque le forze naturali siano monopolizzabili e assicurino un sovraprofitto all'industriale che le sfrutta si tratti di una cascata, di una miniera ad alto contenuto minerale, di un corso d'acqua pescoso, o di un'area edificabile in posizione vantaggiosa -, colui che dal suo titolo su una porzione del globo riceve il suggello di proprietario di simili oggetti naturali sottrae questo sovraprofitto, sotto forma di rendita, al capitale in funzione.

Per quanto riguarda il suolo a scopi edificatori, A. Smith ha già spiegato come la base della sua rendita, al pari di quella di ogni terreno non agricolo, sia regolata dalla vera e propria rendita agricola. (Libro I , capitolo XI, 2 e 3). Questa rendita si distingue, 1) per l'influenza preponderante che in essa la posizione esercita sulla rendita differenziale (influenza molto importante, per esempio, nella viticoltura e per le aree edificabili di grandi città); 2) per l'evidenza della completa passività del proprietario, la cui opera (soprattutto nelle miniere) si riduce a sfruttare quei progressi nell'evoluzione sociale ai quali egli non dà nessun contributo, e in cui a differenza del capitalista industriale — non rischia nulla; infine, 3) per il predominio, in molti casi, del prezzo di monopolio e, in particolare, per il più vergognoso sfruttamento della miseria (infatti, per la rendita fornita dalle abitazioni, la miseria è una fonte più generosa di quanto non lo siano mai state per la Spagna le miniere di Potosí...

Qui una parte della società esige dall'altra un tributo per il diritto di abitare il suolo, così come, in generale, la proprietà fondiaria include il diritto dei proprietari di sfruttare la terra, le sue viscere, l'aria e, con ciò, la conservazione e lo sviluppo della stessa vita. Non solo l'incremento della popolazione e quindi il bisogno crescente di alloggi aumentano necessariamente la rendita edilizia, ma contribuisce pure ad aumentarla lo sviluppo del capitale fisso che o si incorpora nel terreno o vi mette radici, poggia su di esso, come è il caso per ogni edificio industriale, ferrovia, magazzino, fabbrica, dock, ecc. Confondere la pigione, in quanto interesse e ammortamento del capitale investito nella casa, e la rendita per il terreno nudo e crudo, è qui impossibile [...], soprattutto se, [...], proprietario fondiario e speculatore edile sono persone affatto diverse. Due elementi vanno qui considerati: da una parte, lo sfruttamento del suolo a fini di riproduzione od estrazione; dall'altra, lo spazio richiesto come elemento di ogni produzione e di ogni attività umana. E, in entrambi i sensi, la proprietà fondiaria esige il suo tributo. La domanda di terreno edificabile eleva il valore del suolo come spazio e fondamento, nell'atto stesso in cui accresce la richiesta di elementi della terra che servono come materiali da costruzione...

Il fatto che solo in virtù del titolo di un certo numero di persone alla proprietà del globo terrestre queste possano appropriarsi come tributo una parte del pluslavoro eseguito dalla società, e appropriarselo in misura sempre crescente via via che la produzione si sviluppa, è mascherato dalla circostanza che la rendita capitalizzata, quindi questo stesso tributo capitalizzato, appare come prezzo del suolo, e questo può, di conseguenza, essere venduto come ogni altro articolo di commercio. Ne segue che al compratore il suo diritto alla rendita appare non come ottenuto gratis e senza il lavoro, il rischio e lo spirito d'intrapresa del capitale -, ma come pagato al suo equivalente. Come si è già osservato prima, la rendita gli appare soltanto come interesse del capitale con cui ha acquistato il terreno e, insieme ad esso, il titolo di diritto alla rendita. Esattamente allo stesso modo, al proprietario di schiavi che ha comprato un negro la sua proprietà su quest'ultimo appare acquisita non grazie all'istituto della schiavitù in quanto tale, ma grazie ad una compravendita di merce. Sennonché la vendita non crea il titolo stesso, ma si limita a trasferirlo. Per poter essere venduto il titolo deve già essere presente, e una serie' di tali vendite, la loro continua ripetizione, non può crearlo più che non lo possa una sola. Ciò che lo ha creato, in effetti, sono i rapporti di produzione. Non appena questi sono arrivati a un punto in cui è necessario che cambino pelle, ecco che la fonte materiale di quel titolo e di ogni transazione basata su di esso, la fonte economicamente e storicamente giustificata, derivante dal processo di creazione sociale della vita, viene a cadere. Dal punto di vista di una superiore formazione socio-economica, la proprietà privata di singoli individui sul globo terrestre apparirà non meno assurda della proprietà privata di un uomo su un altro. Neppure un'intera società, una nazione, anzi tutte le società di una stessa epoca prese assieme, neppure esse sono proprietarie della terra. Ne hanno soltanto il possesso, l'usufrutto, e hanno il dovere, da boni patres familias, di trasmetterla migliorata alle generazioni successive...

Nella seguente analisi del prezzo del suolo, si prescinde da tutte le oscillazioni della concorrenza come da tutte le speculazioni fondiarie, ed anche dalla piccola proprietà terriera, in cui il suolo costituisce il principale strumento dei produttori che, quindi, devono comprarlo a qualunque prezzo.

I. Il prezzo del suolo può salire senza che salga la rendita, e questo:

1. per la pura e semplice caduta del saggio d'interesse, in seguito alla quale la rendita è venduta più cara, con conseguente aumento della rendita capitalizzata, cioè del prezzo del suolo;

2. perché aumenta l'interesse del capitale incorporato nel terreno.

II. Il prezzo del suolo può salire, perché sale la rendita.

La rendita può subire un aumento perché il prezzo del prodotto del suolo cresce, nel qual caso il saggio della rendita differenziale aumenta sempre, sia grande o piccola o non esista affatto la rendita sul peggiore dei terreni coltivati. Per saggio, intendiamo il rapporto fra la parte del plusvalore che si converte in rendita e il capitale anticipato che produce il prodotto agricolo. Esso si differenzia dal rapporto fra il sovraprodotto e il prodotto totale, perché quest'ultimo non include l'intero capitale anticipato, cioè non comprende il capitale fisso che continua a sussistere accanto al prodotto. Qui però è implicito che, sui tipi di terreno fruttanti una rendita differenziale, una parte crescente del prodotto si trasforma in sovraprodotto eccedente. Sul terreno peggiore di tutti solo il rincaro del prodotto del suolo crea rendita e, quindi, prezzo del terreno.

La rendita può tuttavia anche aumentare senza che aumenti il prezzo del prodotto del suolo. Esso può rimanere costante o perfino diminuire.

Se rimane costante, la rendita può aumentare (astraendo da prezzi di monopolio) solo perché, a parità di investimento di capitale sui vecchi terreni, si mettono a coltura terreni nuovi di qualità migliore, che però bastano appena a coprire la domanda accresciuta, cosicché il prezzo di mercato regolatore resta invariato. In questo caso, non è che il prezzo dei vecchi terreni aumenti: sale al disopra del prezzo del vecchio terreno il prezzo di quello messo di bel nuovo a coltura.

Oppure la rendita sale perché, a produttività relativa invariata e a prezzo di mercato costante, la massa del capitale che sfrutta il terreno aumenta. Perciò, sebbene in rapporto al capitale anticipato la rendita resti invariata, la sua massa è, per es., cresciuta del doppio, perché si è raddoppiato il capitale. Non essendosi verificata una diminuzione del prezzo, il secondo investimento fornisce, al pari del primo, un sovraprofitto, che, scaduto il termine del contratto, si converte egualmente in rendita. Qui la massa della rendita aumenta, perché aumenta la massa del capitale produttivo di rendita...

Il rapporto fra una parte del plusvalore, cioè la rendita in denaro giacché il denaro è l'espressione indipendente del valore -, e il suolo, è in sé assurdo e irrazionale, perché quelle che si misurano a vicenda sono grandezze incommensurabili: da un lato, un determinato valore d'uso, un appezzamento di tanti e tanti piedi quadri, dall'altro un valore, specificamente plusvalore. E ciò, in realtà, esprime unicamente il fatto che, nelle condizioni date, la proprietà dei piedi quadri di terreno permette al proprietario fondiario di arraffare una determinata quantità di lavoro non retribuito, che il capitale ha realizzato grufolando nei piedi quadri come un porco in un campo di patate... Prima facie, tuttavia, è come se si volesse parlare del rapporto fra un biglietto da 5 sterline e il diametro della terra. Ma le mediazioni delle forme irrazionali in cui determinati rapporti economici appaiono e praticamente si riassumono, non toccano affatto i depositari pratici di tali rapporti nella loro vita di tutti i giorni; e poiché essi sono abituati a muovercisi in mezzo, la loro mente non ci trova nulla di scandaloso. Una contraddizione completa non ha per essi proprio nulla di arcano. Così pure nelle forme fenomeniche estraniate dal loro nesso interno e, prese isolatamente, assurde, essi si trovano a loro agio come un pesce nell'acqua...

III. Queste diverse condizioni dell'aumento della rendita, e quindi del prezzo del suolo in generale o per singoli tipi di terreno, possono in parte convergere, e in parte escludersi o agire solo alternativamente. Ma da quanto si è esposto consegue che da un aumento del prezzo del suolo non si può concludere senz'altro ad un aumento della rendita, e che da un aumento della rendita, che sempre si porta dietro un aumento del prezzo del suolo, non si può concludere senz'altro ad un aumento dei prodotti della terra...

Capitolo XLVII

GENESI DELLA RENDITA FONDIARIA CAPITALISTICA

1. Nota introduttiva

Bisogna riuscire ad aver chiaro in che cosa esattamente consiste la difficoltà nell'analisi della rendita fondiaria dal punto di vista della moderna economia, in quanto espressione teorica del modo di produzione capitalistico. Di ciò non si è ancora reso conto neppure un gran numero di scrittori recenti, come dimostra ogni rinnovato tentativo di dare una «nuova» spiegazione della rendita fondiaria. Qui la novità consiste quasi sempre nella ricaduta in punti di vista da gran tempo superati. La difficoltà non risiede nello spiegare il plusprodotto generato dal capitale agricolo e il plusvalore che gli corrisponde; problema, questo, risolto nell'analisi del plusvalore generato da ogni capitale produttivo, in qualunque sfera sia investito. La difficoltà risiede nel mostrare da dove, dopo che il plusvalore dei diversi capitali si è livellato nel profitto medio, cioè in una parte proporzionale, corrispondente alla loro grandezza relativa, del plusvalore complessivo che il capitale sociale ha generato in tutte le sfere della produzione prese assieme; da dove, dopo questo livellamento, dopo la ripartizione apparentemente già avvenuta di tutto il plusvalore che in generale v'è da ripartire, si origini la parte eccedente di questo plusvalore che il capitale investito nel suolo paga al proprietario terriero sotto forma di rendita fondiaria...

Tutta la difficoltà, nell'analisi della rendita, consisteva perciò nello spiegare l'eccedenza del profitto agricolo sul profitto medio; non il plusvalore, ma il plusvalore eccedente peculiare di questa sfera di produzione; dunque nemmeno il «prodotto netto», ma l'eccedenza di questo prodotto netto su quello degli altri rami d'industria...

Una concezione errata della natura della rendita si basa sul fatto che dall'economia naturale del Medioevo in poi, e in antitesi completa con le condizioni del modo di produzione capitalistico, la rendita in forma naturale si trascina fin nell'era moderna, sia nelle decime per la Chiesa, sia come curiosità eternata da antichi contratti. Nasce così l'impressione illusoria che la rendita scaturisca non dal prezzo del prodotto agricolo, ma dalla sua massa; non dunque da rapporti sociali, ma dalla terra...

2. La rendita in lavoro

Se si considera la rendita fondiaria nella sua forma più semplice, quella della rendita in lavoro, in cui il produttore immediato coltiva per una parte della settimana, con strumenti di lavoro (aratro, bestiame, ecc.) a lui appartenenti di fatto o di diritto, il terreno che di fatto gli appartiene, e negli altri giorni della settimana lavora, gratuitamente, sul fondo del proprietario terriero, e per lui, qui la cosa è ancora del tutto chiara: rendita e plusvalore sono qui identici. Non il profitto, ma la rendita è qui la forma in cui si esprime il pluslavoro non retribuito. In qual misura il lavoratore (self-sustaining serf) possa qui guadagnare un'eccedenza sui suoi mezzi di sussistenza indispensabili, quindi un'eccedenza su quello che nel modo di produzione capitalistico chiameremmo il salario, dipende, eguali restando tutte le altre circostanze, dal rapporto in cui il suo tempo di lavoro si suddivide in tempo di lavoro per lui stesso e tempo di lavoro non pagato per il proprietario fondiario. Questa eccedenza sui mezzi di sussistenza più necessari, germe di ciò che nel modo di produzione capitalistico appare come profitto, è dunque determinato in tutto e per tutto dall'ammontare della rendita fondiaria, che qui non soltanto è direttamente pluslavoro non retribuito, ma appare anche come tale; pluslavoro non retribuito per il « proprietario » delle condizioni di produzione, che qui coincidono con il suolo e, nella misura in cui se ne distinguono, valgono unicamente come suo accessorio. Che qui il prodotto del servo della gleba debba essere sufficiente a reintegrare, oltre al suo sostentamento, le sue condizioni di lavoro, è un fatto che rimane tale e quale in tutti i modi di produzione, perché non è il risultato della loro forma specifica, ma una condizione naturale di ogni lavoro continuativo e riproduttivo in generale, di ogni produzione ininterrotta, che è sempre, nello stesso tempo, riproduzione, quindi anche riproduzione delle sue proprie condizioni di efficacia. È chiaro inoltre che, in ogni forma in cui il lavoratore immediato rimane «possessore» dei mezzi di produzione e delle condizioni di lavoro necessari per la produzione dei suoi propri mezzi di sussistenza, il rapporto di proprietà deve presentarsi allo stesso tempo come immediato rapporto di signoria e servaggio, il produttore immediato quindi come non-libero; una non-libertà che può oscillare fra i poli estremi della servitù della gleba con lavoro a corvée da un lato e il puro e semplice obbligo di un tributo dall'altro. Qui il produttore immediato si trova, secondo l'ipotesi, in possesso dei suoi propri mezzi di produzione, delle condizioni oggettive di lavoro necessarie alla realizzazione del suo lavoro e alla produzione dei suoi mezzi di sussistenza; egli pratica l'agricoltura, come l'industria rurale-domestica ad essa collegata, in modo indipendente...

La forma economica specifica, in cui dal produttore immediato si estorce pluslavoro non retribuito, determina il rapporto di signoria e servaggio, così come scaturisce direttamente dalla produzione stessa e vi reagisce a sua volta in modo determinante. Ma su questa base poggia l'intera configurazione della comunità economica nascente dagli stessi rapporti di produzione, e con ciò, al contempo, la sua specifica forma politica. È sempre nel rapporto diretto fra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori immediati un rapporto la cui forma di volta in volta esistente corrisponde sempre per sua natura ad un determinato stadio di sviluppo del modo e della maniera del lavoro, quindi della sua produttività sociale -, è sempre in questo rapporto che troviamo il più intimo segreto, il fondamento occulto dell'intera struttura sociale, quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza; insomma, della forma di volta in volta specifica dello Stato. Ciò non toglie che la stessa base economica la stessa quanto alle condizioni essenziali possa presentare innumerevoli varianti e gradazioni fenomeniche, dovute ad una infinita varietà di circostanze empiriche, condizioni naturali, rapporti di razza, influenze storiche agenti dall'esterno, ecc., che si possono comprendere solo mediante l'analisi di queste circostanze empiricamente date.

Per quel che riguarda la rendita in lavoro, cioè la forma più semplice e originaria della rendita, è chiaro quanto segue: La rendita è qui la forma originaria del plusvalore, e con esso coincide. Ma, inoltre, il coincidere del plusvalore col lavoro altrui non retribuito non ha qui bisogno di alcuna analisi, in quanto esso esiste ancora nella sua forma visibile, in una forma che si tocca con mano, perché il lavoro del produttore immediato per se stesso è ancora spazialmente e temporalmente distinto dal suo lavoro per il proprietario fondiario, e quest'ultimo lavoro appare direttamente nella forma brutale del lavoro forzato per una terza persona. Allo stesso modo, la «proprietà» che ha il suolo di fornire una rendita è qui ridotta a un segreto tangibilmente svelato, giacché alla natura che fornisce la rendita appartengono anche la forza lavoro umana incatenata al suolo e il rapporto di proprietà che costringe il suo possessore a spremerla e mantenerla in esercizio oltre la misura che sarebbe richiesta dalla soddisfazione dei suoi propri indispensabili bisogni. La rendita consiste direttamente nell'appropriazione di questo dispendio eccedente di forza lavoro ad opera del proprietario fondiario, giacché, a parte ciò, il produttore immediato non paga a costui nessuna rendita. Qui, dove non solo plusvalore e rendita si identificano, ma il primo possiede ancora tangibilmente la forma del pluslavoro, sono anche palesi le condizioni naturali o i limiti naturali della rendita, perché lo sono quelle del pluslavoro: 1) il produttore immediato deve possedere forza lavoro sufficiente; 2) le condizioni naturali del suo lavoro, e in prima istanza, quindi, le condizioni del terreno coltivato, devono essere abbastanza feraci; in una parola, la produttività naturale spontanea del suo lavoro dev'essere sufficiente perché gli rimanga la possibilità di un lavoro eccedente al disopra del lavoro necessario per soddisfare i suoi bisogni indispensabili. Non è questa possibilità a creare la rendita; è solo la coercizione che trasforma la possibilità in realtà. Ma la possibilità stessa è legata a condizioni naturali soggettive ed oggettive. Anche qui, non v'è nulla di misterioso. Se la forza lavoro è modesta e le condizioni naturali del lavoro avare, il pluslavoro allora è esiguo, ma lo sono anche, da una parte, i bisogni dei produttori, dall'altra sia il numero relativo di coloro che sfruttano il pluslavoro, sia il plusprodotto in cui si realizza il pluslavoro scarsamente produttivo per questo numero ridotto di proprietari-sfruttatori.

Infine, nel caso della rendita in lavoro, è di per sé evidente che, supposte costanti tutte le altre condizioni, dipende in tutto e per tutto dall'ammontare relativo del pluslavoro o lavoro a corvée in qual misura il produttore immediato sarà in grado di migliorare il proprio stato, di arricchirsi, di produrre un'eccedenza sui mezzi di sussistenza indispensabili, oppure volendo anticipare il modo di esprimersi capitalistico se e in qual misura egli sarà in grado di produrre un qualsiasi profitto per se stesso, cioè un'eccedenza sul salario da lui prodotto. Qui la rendita è la forma normale, onni-assorbente e per così dire legittima del pluslavoro e, lungi dall'essere una eccedenza sul profitto, cioè, qui, su ogni altra eccedenza al disopra del salario, non solo l'ammontare di tale profitto, ma, a parità di ogni altra condizione, la sua stessa esistenza dipendono dall'ammontare della rendita, cioè del pluslavoro da fornire obbligatoriamente al proprietario del suolo...

La trasformazione della rendita in lavoro in rendita in prodotti non cambia per nulla, dal punto di vista economico, l'essenza della rendita fondiaria. Questa, nelle forme che qui consideriamo, consiste nel fatto d'essere l'unica forma dominante e normale del plusvalore o del pluslavoro, il che si esprime pure nel fatto d'essere l'unico pluslavoro o l'unico plusprodotto che il produttore immediato, il quale si trova in possesso delle condizioni di lavoro necessarie alla sua riproduzione, debba fornire al proprietario della condizione di lavoro che in questa situazione abbraccia tutto il resto, cioè della terra, e nel fatto che, d'altra parte, è soltanto la terra che gli si contrappone come condizione di lavoro esistente in proprietà altrui, autonomizzata nei suoi confronti e personificata nel proprietario fondiario. Del resto la rendita in prodotti, nella misura in cui è la forma dominante e più largamente sviluppata della rendita fondiaria, è ancora sempre più o meno accompagnata da sopravvivenze della forma precedente, cioè della rendita da corrispondere direttamente in lavoro, quindi con lavoro a corvée, e questo tanto se il proprietario terriero è una persona privata, quanto se è lo Stato. La rendita in prodotti presuppone un più elevato stadio di cultura del produttore immediato, quindi un più alto grado di sviluppo del suo lavoro e, in generale, della società; e si distingue dalla forma precedente per il fatto che il pluslavoro non dev'essere più eseguito nella sua forma naturale, quindi non più sotto diretta sorveglianza e costrizione del proprietario fondiario o dei suoi rappresentanti; al contrario, il produttore immediato, spinto dalla forza delle circostanze anziché dalla costrizione diretta, e dalla legge anziché dalla frusta, deve eseguire il pluslavoro sotto la propria responsabilità. La plusproduzione, nel senso di produzione eccedente i bisogni indispensabili del produttore immediato e svolta nel campo di produzione che di fatto gli appartiene, sul terreno da lui stesso sfruttato, anziché, come prima, sul fondo signorile accanto e fuori dal suo, è qui già divenuto regola ovvia e naturale. In questo rapporto specifico, il produttore immediato dispone più o meno dell'impiego della totalità del suo tempo di lavoro, sebbene, come prima, una parte di questo tempo di lavoro, in origine qualcosa come l'intera parte eccedente di esso, appartenga gratuitamente al proprietario fondiario; solo che questi non la riceve più direttamente nella forma naturale sua propria, ma nella forma naturale del prodotto in cui si realizza...

Data la forma della rendita in prodotti connessa a un determinato tipo di prodotto e di produzione, dato il legame ad essa indispensabile fra agricoltura e industria domestica, data la quasi completa autosufficienza di cui perciò gode la famiglia contadina, data la sua indipendenza dal mercato e dal movimento produttivo e storico della parte della società che ne sta fuori; insomma, dato il carattere dell'economia naturale in genere, questa forma è squisitamente atta fornire la base di condizioni sociali stazionarie [...]. Qui, come nella forma precedente della rendita in lavoro, la rendita fondiaria è la forma normale del plusvalore e quindi del pluslavoro, cioè di tutto il lavoro eccedente che il produttore immediato deve fornire gratis, dunque, in realtà, coattivamente — benché questa coazione non gli si presenti più nella vecchia forma brutale al proprietario della sua più essenziale condizione di lavoro, il suolo...

4. Rendita in denaro

Per rendita in denaro intendiamo qui a differenza della rendita fondiaria industriale o commerciale poggiante sul modo di produzione capitalistico, che non è se non un'eccedenza al disopra del profitto medio la rendita fondiaria che scaturisce da una pura e semplice metamorfosi della rendita in prodotti, così come questa non era che la rendita in lavoro metamorfosata. Qui, invece del prodotto, il produttore immediato deve pagarne al suo proprietario fondiario (sia questo lo Stato o un privato) il prezzo. Un'eccedenza di prodotto nella sua forma naturale non è quindi più sufficiente; bisogna convertirla da questa forma naturale nella forma monetaria. Benché il produttore immediato continui come prima a produrre egli stesso almeno la maggior parte dei suoi mezzi di sussistenza, ora una frazione del suo prodotto dev'essere convertita in merce, prodotta come merce. Il carattere dell'intero modo di produzione ne risulta più o meno trasformato. Esso perde la sua indipendenza, non è più slegato dal nesso sociale. Il livello raggiunto dai costi di produzione, in cui ora entrano più o meno degli esborsi in denaro, diviene determinante; diviene comunque determinante l'eccedenza della parte del prodotto lordo da convertire in denaro sulla parte che deve servire, da un lato, nuovamente come mezzo di riproduzione, dall'altro come mezzo di sussistenza immediato. La base di questo tipo di rendita, pur andando incontro alla sua dissoluzione, rimane tuttavia la stessa che nella rendita in prodotti, la quale ne costituisce il punto di partenza. Il produttore immediato è, come prima, possessore del suolo per eredità o per altro diritto tradizionale, e deve fornire al signore terriero, in quanto proprietario di questa che è la più essenziale delle sue condizioni di produzione, un lavoro forzato, ossia non retribuito, addizionale, eseguito senza equivalente, sotto forma di plusprodotto convertito in denaro. Già nelle forme precedenti, la proprietà delle condizioni di lavoro diverse dal suolo, utensileria ed altri beni mobili, si trasforma prima di fatto, poi anche di diritto nella proprietà dei produttori immediati, e ciò è a maggior ragione presupposto per la forma della rendita in denaro. La conversione della rendita in prodotti in rendita in denaro, conversione che si verifica prima sporadicamente, poi su scala più o meno nazionale, presuppone uno sviluppo già piuttosto rilevante del commercio, dell'industria urbana, della produzione di merci in generale e, con ciò, della circolazione monetaria. Presuppone inoltre un prezzo di mercato dei prodotti e la loro vendita, più o meno approssimativamente, al loro valore, il che non era affatto necessario nelle forme precedenti...

La rendita in denaro come forma trasmutata della rendita in prodotti, e in antitesi ad essa, è però la forma ultima e, nello stesso tempo, la forma di dissoluzione del tipo di rendita fondiaria che abbiamo finora considerato, cioè della rendita fondiaria come forma normale del plusvalore e del pluslavoro non retribuito da fornire al proprietario delle condizioni di lavoro. Nella sua forma pura, questa rendita, come la rendita in lavoro e in prodotti, non rappresenta una eccedenza sul profitto. Assorbe nel suo concetto il profitto. Nella misura in cui questo sorge accanto ad essa come parte a sé del lavoro eccedente, la rendita in denaro, come la rendita nelle sue forme precedenti, continua ad essere la normale barriera di questo profitto embrionale, che può solo svilupparsi in rapporto alle possibilità di sfruttamento sia di proprio lavoro eccedente, sia di lavoro altrui rimasto disponibile dopo l'esecuzione del pluslavoro rappresentato nella rendita in denaro. Se accanto a questa rendita si genera effettivamente un profitto, non è il profitto a costituire la barriera della rendita, ma è, viceversa, la rendita a costituire la barriera del profitto. Tuttavia, come già si è detto, la rendita in denaro è nello stesso tempo la forma di dissoluzione della rendita fondiaria come la si è fin qui considerata e che coincide prima jacie con il plusvalore e il pluslavoro; della rendita fondiaria come forma normale e dominante del plusvalore.

Nel suo ulteriore sviluppo la rendita in denaro deve condurre — prescindendo da tutte le forme intermedie, per es. quella dell'affittuario piccolo-contadino — o alla trasformazione del suolo in libera proprietà contadina, o alla forma propria del modo di produzione capitalistico, la rendita pagata dall'affittuario capitalista.

Con la rendita in denaro, il tradizionale rapporto consuetudinario fra il proprietario del suolo e i sudditi che ne posseggono e ne coltivano una parte si trasforma necessariamente in un rapporto contrattuale, stabilito in base a regole fisse del diritto positivo e di natura monetaria. Colui che possiede la terra e la lavora diviene, come è nella natura della cosa, semplice affittuario. Da una parte, di questa metamorfosi ci si avvale, in rapporti generali di produzione che per tutto il resto vi si prestano, per espropriare gradualmente gli ex possessori contadini e sostituirli con affittuari capitalistici; dall'altra essa porta allo svincolo dell'ex possessore dall'obbligo di pagare una rendita ed alla sua trasformazione in contadino indipendente con piena proprietà del terreno coltivato. Inoltre, alla trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro non solo si accompagna, ma perfino la anticipa, la formazione di una classe di giornalieri nullatenenti, che prestano la propria opera per denaro. Durante il periodo di gestazione in cui questa nuova classe appare in forma solo sporadica, si è perciò necessariamente sviluppata fra i più agiati contadini tributari di rendita l'abitudine di sfruttare per proprio conto dei salariati agricoli, allo stesso modo che in epoca feudale i più abbienti fra i contadini-servi solevano a loro volta impiegare servi della gleba. A poco a poco, si crea quindi nel loro ambito la possibilità di accumulare un certo patrimonio e di trasformarsi in futuri capitalisti...

Inoltre: non appena la rendita assume la forma della rendita in denaro e perciò il rapporto fra contadino tributario di rendita e proprietario fondiario assume quella di un rapporto contrattuale — metamorfosi possibile, in generale, solo a un grado dato di sviluppo relativo del mercato mondiale, del commercio e della manifattura —, interviene pure necessariamente la cessione in affitto del suolo a capitalisti che, fino a quel momento, vivevano fuori delle barriere rurali e che ora trasferiscono nella terra e nell'agricoltura un capitale di origine urbana e il modo di gestione capitalistico già sviluppatosi nelle città, cioè la produzione del prodotto come pura e semplice merce e puro e semplice mezzo di appropriazione di plusvalore. Regola generale può divenire questa forma solo nei paesi che, all'atto del passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico, dominano il mercato mondiale. Con l'interporsi dell'affittuario capitalistico fra il proprietario fondiario e il contadino che effettivamente lavora la terra, tutti i rapporti derivanti dal vecchio modo di produzione rurale si infrangono. L'affittuario diviene l'effettivo comandante di questi lavoratori agricoli e il vero sfruttatore del loro pluslavoro, mentre il proprietario fondiario sta in un rapporto diretto, e precisamente in un rapporto puramente monetario e contrattuale, ancora soltanto con questo affittuario capitalistico. In tal modo, anche la natura della rendita si modifica, non solo di fatto e casualmente come già in parte sotto le forme precedenti, ma normalmente, fino a divenire la sua forma riconosciuta e dominante. Dalla forma normale del plusvalore e del pluslavoro, essa decade fino a quella dell'eccedenza di questo pluslavoro sulla parte di esso che il capitalista sfruttatore si appropria sotto forma di profitto, così come l'intero pluslavoro, profitto ed eccedenza sul profitto, viene ora direttamente estratto da lui, incamerato e monetizzato nella forma del plusprodotto totale. È ormai solo una parte eccedente di questo plusvalore estratto da lui, grazie al suo capitale, mediante sfruttamento diretto dei lavoratori agricoli, che egli cede come rendita al proprietario fondiario. L'importo più o meno grande di questa cessione è determinato in media, come limite, dal profitto medio che il capitale arreca nelle sfere di produzione non agricole, e dai prezzi di produzione non agricoli da esso regolati. Dunque, dalla forma normale del plusvalore e del plusprodotto la rendita si è ora convertita in una eccedenza, propria di questo ramo particolare della produzione, l'agricoltura, sulla parte del pluslavoro che il capitale rivendica come spettante a priori e normaliter a lui. Invece della rendita, è ora diventato forma normale del plusvalore il profitto, e la rendita vale ancora soltanto come una forma, autonomizzatasi in particolari condizioni, non del plusvalore in generale, ma di una sua determinata filiazione, il sovraprofitto...

Il profitto medio e il prezzo di produzione da esso regolato si formano fuori delle condizioni proprie della campagna, nella cerchia del commercio urbano e della manifattura. Il profitto del contadino tributario di rendita non vi entra come elemento livellatore, perché il suo rapporto con il proprietario fondiario non è capitalistico. Nella misura in cui egli consegue un profitto, cioè realizza un'eccedenza sui suoi mezzi di sussistenza necessari, sia mediante il proprio lavoro, sia mediante sfruttamento di lavoro altrui, ciò avviene dietro le spalle del rapporto normale e, a parità di condizioni, l'altezza di questo profitto non determina la rendita, ma è al contrario determinata da essa come suo limite...

Per la trasformazione della rendita in prodotti in rendita in denaro si deve ancora osservare che con essa la rendita capitalizzata, il prezzo della terra e quindi la sua alienabilità e alienazione diventano un fattore essenziale, e che perciò non solo il precedente tributario di rendita può trasformarsi in proprietario coltivatore indipendente, ma anche possessori di denaro urbani ed altri possono acquistare terreni per darli in affitto sia a contadini, sia a capitalisti, e godersi la rendita come forma dell'interesse del capitale così investito; che, quindi, anche questa circostanza favorisce la trasformazione del modo di sfruttamento precedente, del rapporto fra proprietario e contadino vero e proprio, e della stessa rendita.

5. LA MEZZADRIA E LA PROPRIETÀ CONTADINA PARTICELLARE

In tutte queste forme della rendita fondiaria: rendita in lavoro, rendita in prodotti, rendita in denaro (come forma puramente modificata della rendita in prodotti) si presuppone sempre che chi paga la rendita sia l'effettivo coltivatore e possessore del suolo, il cui pluslavoro non retribuito va direttamente al proprietario fondiario. Anche nell'ultima forma, della rendita in denaro in quanto sia pura, cioè forma semplicemente modificata della rendita in prodotti -, questo non solo è possibile, ma è di fatto il caso.

Come forma di trapasso dalla forma originaria della rendita alla rendita capitalistica, può considerarsi il sistema mezzadrile o parziario, in cui il conduttore (affittuario) fornisce oltre al suo lavoro (proprio o altrui) una parte del capitale di esercizio, e il proprietario fondiario, oltre al suolo, fornisce l'altra parte del capitale di esercizio (per es. il bestiame), mentre il prodotto è diviso fra il mezzadro e il proprietario fondiario in date proporzioni, variabili nei diversi paesi. Per una gestione pienamente capitalistica, qui da un lato manca al fittavolo il capitale sufficiente, dall'altro la parte che il proprietario fondiario incassa non ha la forma pura della rendita, ma può comprendere di fatto l'interesse sul capitale da lui anticipato e una rendita eccedente, così come può anche assorbire, di fatto, l'intero pluslavoro del fittavolo o lasciargliene una frazione più o meno grande. Il punto essenziale, tuttavia, è che qui la rendita non appare più come la forma normale del plusvalore. Da un lato il mezzadro, sia che impieghi soltanto il proprio lavoro o anche lavoro altrui, deve avere diritto a una parte del prodotto, non nella sua qualità di lavoratore, ma in quella di possessore di una parte degli attrezzi di lavoro, di capitalista di se stesso; dall'altro il proprietario fondiario rivendica la sua parte non solo in quanto proprietario del suolo, ma in quanto prestatore di capitale...

Inoltre, la proprietà particellare. Qui il contadino è, in pari tempo, libero proprietario del suo terreno, che appare come il suo principale strumento di produzione, l'indispensabile campo di applicazione del suo lavoro e del suo capitale. In questa forma non si paga nessun canone; la rendita perciò non assume la veste di forma peculiare del plusvalore, sebbene, nei paesi nei quali il modo di produzione capitalistico si è per il resto sviluppato, si presenti come sovraprofitto in confronto ad altri rami di produzione, ma come sovraprofitto che tocca al contadino, al pari in generale di tutto il frutto del suo lavoro.

Questa forma della proprietà fondiaria presuppone che, come nelle sue forme più antiche, la popolazione rurale goda di una netta prevalenza numerica su quella urbana; che quindi il modo di produzione capitalistico, benché altrimenti dominante, sia ancora relativamente poco sviluppato, e di conseguenza, anche negli altri rami di produzione, la concentrazione dei capitali si muova in limiti ristretti, prevalendo la frammentazione dei capitali. È nella natura stessa della cosa, che qui una parte preponderante del prodotto agricolo debba essere consumata come mezzo di sussistenza diretto dei suoi produttori, i contadini, e solo l'eccedenza su di essa debba entrare come merce negli scambi con le città...

La libera proprietà del contadino che lavora in proprio è manifestamente la forma più normale della proprietà fondiaria per la piccola conduzione agricola, cioè per un modo di produzione in cui il possesso del suolo è condizione della proprietà del lavoratore sul prodotto del proprio lavoro, e in cui, sia egli libero proprietario o subalterno, il coltivatore deve sempre produrre da sé, in modo indipendente, come lavoratore isolato con la sua famiglia, i suoi mezzi di sussistenza. Al completo sviluppo di questo modo di conduzione la proprietà della terra è tanto necessaria, quanto lo è al libero sviluppo dell'azienda artigiana la proprietà dello strumento di lavoro. Essa costituisce qui la base dello sviluppo dell'indipendenza personale, ed è un punto di passaggio necessario per l'evoluzione della stessa agricoltura. Le cause determinanti del suo declino ne mostrano i limiti. Esse sono: la sparizione dell'industria rurale domestica, che ne costituisce il normale complemento, in seguito allo sviluppo della grande industria; il graduale impoverimento e infine esaurimento del suolo sottoposto a questo genere di coltura; l'usurpazione da parte di grandi proprietari fondiari della proprietà comune, che rappresenta dovunque il secondo complemento dell'economia particellare, e che sola le permette di tenere del bestiame; la concorrenza della grande coltivazione, sia come sistema di piantagioni, sia come grande intrapresa capitalistica. Vi contribuiscono inoltre i perfezionamenti nell'agricoltura, che, da un lato, provocano una caduta dei prezzi dei prodotti del suolo, dall'altro esigono maggiori esborsi e più ricche condizioni materiali di produzione, come nella prima metà del secolo XVIII in Inghilterra.

La proprietà particellare esclude per sua natura: lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro, le forme sociali del lavoro, la concentrazione sociale dei capitali, l'allevamento su grande scala, il progressivo impiego della scienza.

Usura e sistema fiscale devono ovunque impoverirla. L'esborso del capitale nel prezzo di acquisto del suolo sottrae questo capitale alla coltivazione. Illimitata frammentazione dei mezzi di produzione e isolamento degli stessi produttori. Enorme sperpero di energia umana. Peggioramento progressivo delle condizioni di produzione e rincaro dei mezzi di produzione, legge necessaria della proprietà particellare. Flagello delle annate fertili per questo modo di produzione...

Uno dei mali specifici della piccola agricoltura, dove e quando è combinata alla proprietà del suolo, nasce dal fatto che il coltivatore spende un capitale nell'acquisto del terreno... Dato il carattere mobile che qui assume la terra in quanto semplice merce, si moltiplicano i cambiamenti di proprietà *, {* [Nota 46]. Cfr. Mounier e Rubichon} cosicché ad ogni nuova generazione, con ogni divisione dell'asse ereditario, dal punto di vista del contadino la terra figura di nuovo come investimento di capitale, cioè diviene terra da lui acquistata. Qui il prezzo del suolo costituisce un elemento predominante dei faux-frais individuali di produzione, ovvero del prezzo di costo del prodotto per il produttore singolo...

L'esborso di capitale denaro per l'acquisto del suolo non è quindi investimento di capitale agricolo. È pro tanto una diminuzione del capitale di cui i piccoli contadini possono disporre nella loro stessa sfera di produzione. Riduce pro tanto la massa dei loro mezzi di produzione e restringe perciò la base economica della riproduzione. Assoggetta il piccolo contadino all'usura, perché in questa sfera il credito in senso proprio si presenta solo di rado. È di ostacolo all'agricoltura, anche là dove l'acquisto concerne vasti poderi...

A rendita fondiaria data, il prezzo del suolo è regolato dal saggio d'interesse. Se questo è basso, il prezzo del terrena è alto, e viceversa. Di norma, quindi, dovrebbero andare di pari passo un alto prezzo del terreno e un basso saggio d'interesse, così che, se il contadino ha pagato caro il terreno, il medesimo basso saggio d'interesse dovrebbe anche procurargli a credito un capitale d'esercizio a condizioni favorevoli. Nella realtà, dove prevale la proprietà particellare le cose non stanno così. In primo luogo, le leggi generali del credito non si applicano al contadino, perché presuppongono che i produttori siano capitalisti. In secondo luogo, dove predomina la proprietà particellare qui di colonie non si parla e il contadino particellare costituisce il nerbo della nazione, la formazione di capitale, ossia la riproduzione sociale, è relativamente debole, e ancora più debole è la formazione di capitale denaro prestabile nel senso precedentemente analizzato. Questa infatti presuppone la concentrazione e l'esistenza di una classe di ricchi capitalisti oziosi. In terzo luogo, qui dove la proprietà del suolo rappresenta per la maggioranza dei produttori una condizione di vita, e per il capitale un campo d'investimento indispensabile, il prezzo del suolo è accresciuto, indipendentemente dal saggio d'interesse e spesso in ragione inversa ad esso, dal prevalere della domanda sulla offerta di proprietà fondiaria. Venduto in piccoli lotti, il suolo ha qui un prezzo di gran lunga superiore che nel caso della vendita di grandi appezzamenti, perché il numero dei piccoli compratori è elevato e quello dei grandi modesto. Per tutte queste ragioni, qui il prezzo della terra sale benché il saggio d'interesse sia relativamente elevato. All'interesse relativamente basso che il contadino ritrae dal capitale speso nell'acquisto del terreno, corrisponde qui dal lato opposto l'alto saggio d'interesse usurario ch'egli deve pagare ai suoi creditori ipotecari. Il sistema irlandese mostra la stessa cosa, solo in altra forma.

Questo elemento di per sé estraneo alla produzione, il prezzo del suolo, può quindi raggiungere un livello tale da rendere impossibile la produzione.

Il fatto che il prezzo della terra svolga un tale ruolo, che la compravendita del suolo e la sua circolazione come merce si sviluppino in grado così elevato, è in pratica conseguenza dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, nella misura in cui in esso la merce diventa la forma generale di tutti i prodotti e di tutti gli strumenti di produzione. D'altra parte, questo sviluppo ha luogo soltanto là dove il modo di produzione capitalistico si afferma solo limitatamente e non dispiega tutte le sue peculiarità, in quanto esso poggia appunto sul fatto che l'agricoltura non sia più, o non sia ancora, soggetta al modo di produzione capitalistico, ma a un modo di produzione ereditato da forme sociali scomparse. Gli svantaggi del modo di produzione capitalistico, con la sua dipendenza del produttore dal prezzo in denaro del prodotto, coincidono dunque qui con gli svantaggi derivanti da un incompleto sviluppo del modo di produzione capitalistico. Il contadino diventa commerciante e industriale, senza le condizioni in cui può produrre come merce il suo prodotto.

Il conflitto fra il prezzo del suolo come elemento del prezzo di costo per i produttori, ed esso come non-elemento del prezzo di produzione per il prodotto (anche quando la rendita entra in modo determinante nel prezzo del prodotto della terra, la rendita capitalizzata che si anticipa per 20 anni o più non vi entra in nessun caso in modo determinante), non è che una delle forme in cui si presenta in generale l'antitesi fra la proprietà privata del suolo e un'agricoltura razionale, un normale impiego sociale del terreno. Ma, d'altra parte, la proprietà privata del suolo, quindi l'espropriazione dei produttori immediati dal suolo - proprietà privata degli uni che implica non-proprietà degli altri -, è la base del modo di produzione capitalistico.

Qui, nella piccola conduzione agricola, il prezzo del suolo, forma e risultato della proprietà privata del terreno, si presenta come barriera alla produzione stessa. Anche nella grande agricoltura e nella grande proprietà fondiaria poggiante sul modo di conduzione capitalistico la proprietà agisce come barriera, perché limita l'affittuario nell'investimento produttivo di capitale, che va in ultima istanza a vantaggio non suo, ma del proprietario terriero. In tutt'e due le forme, in luogo di un trattamento razionale e cosciente del suolo come eterna proprietà comune, condizione inalienabile di esistenza e riproduzione della catena delle generazioni umane che si susseguono avvicendandosi, subentrano lo sfruttamento e lo sperpero delle energie della terra (a prescindere poi dalla dipendenza, in cui lo sfruttamento viene posto, non dal livello raggiunto dalla società nel suo sviluppo, ma dalle fortuite e diseguali condizioni dei produttori singoli). Nella piccola proprietà, ciò avviene per mancanza dei mezzi e delle cognizioni scientifiche necessari ad un impiego della forza produttiva sociale del lavoro. Nella grande proprietà, per lo sfruttamento di questi mezzi ai fini dell'arricchimento più rapido possibile di fittavoli e proprietari. In entrambe, per la dipendenza dal prezzo di mercato.

Ogni critica della piccola proprietà fondiaria si risolve, in ultima istanza, in critica della proprietà privata come barriera e ostacolo all'agricoltura. Così pure ogni controcritica della grande proprietà fondiaria. Naturalmente, per l'una come per l'altra, si prescinde qui da considerazioni politiche secondarie. Questa barriera e questo ostacolo, opposti da ogni proprietà privata del suolo alla produzione agricola e ad un razionale trattamento, mantenimento e miglioramento del terreno, si limitano nei due casi a svilupparsi in forme diverse, e nella controversia intorno a queste forme specifiche del male se ne dimentica la causa ultima '.

La piccola proprietà fondiaria presuppone che la schiacciante maggioranza della popolazione sia rurale, e che predomini il lavoro non associato, ma isolato; che perciò, in tali circostanze, siano esclusi la ricchezza e lo sviluppo della riproduzione delle sue condizioni sia materiali, che spirituali, quindi siano pure esclusi i presupposti di una agricoltura razionale. D'altra parte, la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola a un minimo continuamente decrescente, contrapponendole una popolazione industriale stipata in grandi città e continuamente crescente; genera perciò condizioni che provocano un'insanabile frattura nel tessuto del metabolismo sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale le risorse della terra vengono dissipate, e il commercio estende questo sperpero ben oltre i confini del rispettivo paese. (Liebig).

Se la piccola proprietà fondiaria crea una classe di barbari che per metà vive ai margini della società e che unisce tutta la rozzezza di forme sociali primitive a tutte le sofferenze e le miserie di paesi civili, la grande proprietà fondiaria mina alle radici la forza del lavoro nell'ultima regione in cui la sua energia naturale originaria cerca rifugio, e nella quale essa si accumula come fondo di riserva per il rinnovo della forza vitale delle nazioni: nelle campagne. Grande industria e grande agricoltura gestita industrialmente operano di concerto. Se, in origine, esse si separano perché la prima devasta e rovina maggiormente la forza lavoro e quindi la forza naturale dell'uomo e la seconda più direttamente la forza naturale della terra, nel corso ulteriore dello sviluppo esse si dànno la mano, in quanto il sistema industriale applicato ai campi sfibra gli stessi lavoratori e, da parte loro, industria e commercio forniscono all'agricoltura i mezzi per esaurire il suolo.

Sezione VII

I REDDITI E LE LORO FONTI

Capitolo XLVIII
LA FORMULA TRINITARIA

Capitale-profitto (utile d'intrapresa più interesse); terra-rendita fondiaria; lavoro-salario; è questa la formula trinitaria che abbraccia tutti i segreti del processo di produzione sociale.

Poiché inoltre, come si è mostrato in precedenza l'interesse appare come il prodotto proprio e caratteristico del capitale, e l'utile d'intrapresa, in opposizione ad esso, come salario indipendente dal capitale, quella formula trinitaria si riduce ulteriormente a questa:

Capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, dove il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato.

Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa; è un determinato rapporto sociale di produzione, proprio di una determinata formazione storica della società, che si rappresenta in una cosa e conferisce a questa cosa uno specifico carattere sociale. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione, materiali e prodotti. Il capitale sono i mezzi di produzione trasformati in capitale, che in sé non sono capitale più che siano denaro, in sé e per sé, oro o argento. Sono i mezzi di produzione monopolizzati da una determinata parte della società, i prodotti e le condizioni di attivazione della forza lavoro resi autonomi nei confronti della forza lavoro viva e, grazie a questa opposizione, personificati nel capitale...

Ed ora, accanto ad esso, la terra, la natura organica in quanto tale, rudis indigestaque moles in tutta la sua selvaggia primitività. Valore è lavoro. Plusvalore non può quindi essere terra. La fertilità assoluta del suolo ha unicamente per effetto che una certa quantità di lavoro dia un certo prodotto, condizionato dalla fertilità naturale del terreno. La differenza di fertilità del terreno fa sì che le stesse quantità di lavoro e capitale, dunque lo stesso valore, si esprimano in diverse quantità di prodotti del suolo; che questi prodotti abbiano perciò valori individuali diversi...

E infine, come terzo membro della congrega, un semplice fantasma «il» lavoro, che non è nulla più di un'astrazione e, preso a sé, non esiste affatto; ovvero, se consideriamo... l'attività produttiva umana, non solo spogliata di ogni forma e caratterizzazione sociale specifica, ma vista nella sua mera esistenza naturale, indipendente dalla società, svincolata da ogni società, e, in quanto estrinsecazione e affermazione della vita, comune all'uomo non ancora sociale e all'uomo in un modo o nell'altro socialmente determinato....

II

Ciò che prima di tutto colpisce, in questa formula, è che accanto al capitale, accanto a questa forma di un elemento della produzione a questa forma propria di un determinato modo di produzione, di una determinata configurazione storica del processo di produzione sociale —, dunque ad un elemento della produzione fuso con, e rappresentato in, una determinata forma della società, si ponga senz'altro la terra da un lato e il lavoro dall'altro, cioè due elementi del reale processo di lavoro che, in questa forma materiale, sono comuni ad ogni modo di produzione, che sono gli elementi materiali di ogni processo di produzione, e che con la forma sociale di questo non hanno nulla a che vedere.

In secondo luogo. Nella formula: capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, capitale terra e lavoro appaiono rispettivamente quali fonti dell'interesse (anziché del profitto), della rendita fondiaria e del salario come loro prodotti, come loro frutti; gli uni premessa, gli altri conseguenza; gli uni causa, gli altri effetto; e ciò, in modo che ognuna delle fonti sia riferita al suo prodotto come a qualcosa da essa prodotto e distaccato. Tutti e tre i redditi interesse (invece di profitto), rendita, salario — sono tre parti del valore del prodotto, dunque in genere parti di valore, ovvero, espressi in forma monetaria, date parti di denaro, parti di prezzo.

III

L'economia volgare si limita, in realtà, a interpretare, sistematizzare e difendere in modo dottrinario le idee degli agenti, irretiti nei rapporti di produzione borghesi, di questa produzione. Non deve quindi stupire che l'economia volgare si senta pienamente a suo agio proprio nella forma fenomenica estraniata dei rapporti economici in cui, prima facie, essi sono assurde e complete contraddizioni e ogni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l'essenza delle cose coincidessero immediatamente... Perciò l'economia volgare non ha il più lontano sospetto che la trinità da cui essa parte : terra-rendita, capitale-interesse, lavoro-salario, o prezzo del lavoro, siano tre composizioni prima facie impossibili.  

Prima abbiamo il valore d'uso terra, che non ha valore, e il valore di scambio rendita; un rapporto sociale, concepito come cosa, è dunque posto in una certa proporzione con la natura; cioè si pretende che due grandezze incommensurabili stiano in relazione fra loro. Poi, capitale-interesse. Se si concepisce il capitale come una certa somma di valore, autonomamente rappresentata in denaro, è prima facie assurdo che un valore debba essere più valore di quanto non valga. Appunto nella forma: capitale-interesse, svanisce ogni mediazione e il capitale è ridotto alla sua formula più generale ma, appunto perciò, in sé inspiegabile e assurda. Proprio per questa ragione l'economista volgare preferisce la formula capitale-interesse, con l'occulta proprietà di un valore d'essere diseguale da se stesso, alla formula capitale-profitto, con cui ci si avvicina già di più all'effettivo rapporto capitalistico... Infine, lavoro-salario, prezzo del lavoro, è [...] una espressione che contraddice prima facie al concetto del valore come pure al concetto del prezzo, il quale, a sua volta, parlando in termini generali, non è che una determinata espressione del valore; e «prezzo del lavoro» è tanto irrazionale, quanto un logaritmo giallo. Ma solo a questo punto l'economista volgare è pienamente soddisfatto, sia perché è arrivato alla profonda percezione del borghese di pagare denaro per lavoro, sia perché appunto la contraddizione tra la formula e il concetto del valore lo dispensa dall'obbligo di capire quest'ultimo...

Abbiamo visto che il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di produzione sociale. Quest'ultimo è tanto processo di produzione delle condizioni materiali di esistenza della vita umana, quanto un processo che si svolge in specifici rapporti storico-economici di produzione; che produce e riproduce questi rapporti di produzione e, con ciò, i depositari ed esponenti di questo processo, le loro condizioni materiali di esistenza e le loro relazioni reciproche, ossia la loro determinata forma economica di società.

Infatti, l'insieme delle relazioni in cui gli esponenti di questa produzione si trovano con la natura e fra di loro, in cui producono, appunto questo insieme è la società considerata dal punto di vista della sua struttura economica. Come tutti i suoi predecessori, il processo di produzione capitalistico si svolge in determinate condizioni materiali, che però sono al contempo depositarie di determinati rapporti sociali in cui entrano gli individui nel processo di riproduzione della loro vita. Quelle condizioni, come questi rapporti, sono da un lato i presupposti, dall'altro i risultati e le creature del processo di produzione capitalistico; ne sono prodotti e riprodotti. Abbiamo visto, inoltre : il capitale — e il capitalista non è che il capitale personificato, non opera nel processo di produzione che come depositario ed esponente del capitale - spreme dai produttori immediati, od operai, una determinata quantità di pluslavoro nel processo di produzione sociale che gli corrisponde; pluslavoro che egli ottiene senza equivalente e che resta sempre, in sostanza, lavoro forzato, per quanto possa apparire il frutto di un libero accordo contrattuale. Questo pluslavoro si rappresenta in un plusvalore, e questo plusvalore esiste in un plusprodotto. Un pluslavoro in generale, come lavoro eccedente la misura dei bisogni dati, deve sempre esistere. [...] Una determinata quantità di pluslavoro è richiesta dall'assicurazione contro i capricci del caso, dalla necessaria e progressiva estensione del processo di riproduzione corrispondente allo sviluppo dei bisogni e all'incremento della popolazione cosa che dal punto di vista capitalistico si chiama accumulazione.

Uno degli aspetti civilizzatori del capitale consiste nel fatto di estorcere questo pluslavoro in un modo ed in condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi di una nuova e più elevata cultura, di quanto non avvenisse nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. Da un lato esso genera uno stadio in cui la costrizione e la monopolizzazione dello sviluppo sociale (ivi compresi i suoi vantaggi materiali e intellettuali) ad opera di una parte della società a spese dell'altra vengono a cessare; dall'altro crea i mezzi materiali e il germe di rapporti che permettono, in una forma superiore di società, di combinare questo pluslavoro con una maggior limitazione del tempo dedicato in genere al lavoro materiale....

il capitale frutta di anno in anno al capitalista un profitto, il suolo frutta al suo proprietario una rendita fondiaria, e la forza lavoro — in condizioni normali, e finché rimane forza lavoro utilizzabile frutta all'operaio un salario. Queste tre parti di valore del valore totale annualmente prodotto, e le frazioni ad esse corrispondenti del prodotto totale annualmente prodotto - prescindiamo qui, a tutta prima, dall'accumulazione - possono essere consumate annualmente dai loro rispettivi possessori senza che la fonte della loro riproduzione si inaridisca. Esse appaiono come frutti, da consumarsi anno per anno, di un albero perenne, o meglio di tre alberi perenni; costituiscono il reddito annuo di tre classi, del capitalista, del proprietario fondiario e del lavoratore, redditi che il capitalista in funzione ripartisce nella veste di colui che estorce direttamente il pluslavoro e impiega in generale il lavoro. Perciò al capitalista il suo capitale, al proprietario fondiario la sua terra, e all'operaio la sua forza lavoro, o piuttosto lo stesso suo lavoro [...] appaiono come tre fonti diverse dei loro redditi specifici: del profitto, della rendita fondiaria e del salario.

Ed essi lo sono, in realtà, nel senso che per il capitalista il capitale è una perenne macchina di estorsione del pluslavoro, per il proprietario fondiario la terra è una perenne calamita per l'attrazione di una parte del plusvalore spremuto dal capitale c infine, per l'operaio, il lavoro è la condizione e il mezzo sempre rinnovantisi per assicurarsi a titolo di salario una parte del valore da lui creato, quindi un'aliquota del prodotto sociale misurata da questa parte di valore: i mezzi di sussistenza necessari. Lo sono, inoltre, nel senso che il capitale fissa una parte del valore e quindi del prodotto del lavoro annuo nella forma del profitto, la proprietà fondiaria un'altra parte nella forma della rendita, il lavoro salariato una terza parte nella forma del salario, e appunto grazie a questa metamorfosi le convertono nei redditi del capitalista, del proprietario fondiario e del lavoratore, senza tuttavia creare la sostanza stessa che si converte in queste differenti categorie. Al contrario, la ripartizione presuppone come esistente questa sostanza, cioè il valore totale del prodotto annuo, che non è se non lavoro sociale oggettivato. Ma non è in questa forma, bensì in una forma distorta, che la cosa si presenta agli agenti della produzione, ai titolari delle diverse funzioni del processo di produzione...

Capitale, proprietà fondiaria e lavoro appaiono a quegli agenti della produzione come tre fonti diverse e indipendenti, da cui in quanto tali sgorgano tre diversi elementi del valore annualmente prodotto — e quindi del prodotto in cui esso esiste -; dalle quali perciò scaturiscono non soltanto le forme diverse di questo valore come redditi spettanti a particolari fattori del processo di produzione sociale, ma questo stesso valore e con ciò la sostanza di quelle forme di reddito...

Dipende poi dalla produttività del lavoro quanti valori d'uso vengono prodotti in un determinato tempo, quindi anche in un determinato tempo di pluslavoro. L'effettiva ricchezza della società e la possibilità di un costante ampliamento del suo processo di riproduzione non dipendono quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ricche in cui esso si svolge. Il regno della libertà comincia in effetti soltanto là dove cessa il lavoro determinato dal bisogno e dalla convenienza esterna; risiede quindi, per la natura stessa della cosa, oltre la sfera della produzione materiale in senso proprio. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la sua vita, così deve fare l'uomo civile, e deve farlo in ogni forma di società e in tutti i modi di produzione possibili. Con il suo sviluppo si estende il regno della necessità naturale, perché si espandono i bisogni; ma nello stesso tempo si espandono le forze produttive che li soddisfano. La libertà in questo campo può consistere unicamente in ciò, che l'uomo socializzato, i produttori associati, regolino razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo sottopongano al loro controllo collettivo, invece di esserne dominati come da una cieca potenza; lo eseguano col minor dispendio di energie e nelle condizioni più degne della loro natura umana e ad essa più adeguate. Ma questo rimane pur sempre un regno della necessità. Al di là dei suoi confini ha inizio lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso; il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità. La riduzione della giornata lavorativa ne è la fondamentale condizione

Nella società capitalistica, questo plusvalore o questo plusprodotto se prescindiamo dalle fluttuazioni accidentali della distribuzione per considerare la sua legge regolatrice, i suoi confini normativi si ripartiscono fra i capitalisti come dividendi in proporzione alla quota di capitale sociale appartenente a ciascuno. In questa forma il plusvalore appare come il profitto medio spettante al capitale; un profitto medio che si divide a sua volta in utile d'intrapresa ed interesse e, sotto queste due categorie, può toccare a diverse specie di capitalisti. Questa appropriazione e ripartizione del plusvalore, rispettivamente del plusprodotto, ad opera del capitale possiede tuttavia la sua barriera nella proprietà fondiaria. Come il capitalista in funzione spreme dall'operaio il pluslavoro e con ciò, sotto la forma del profitto, il plusvalore e il plusprodotto, così il proprietario fondiario spreme dal capitalista una parte di questo plusvalore o plusprodotto, sotto la forma della rendita, in base alle leggi precedentemente illustrate...

Profitto del capitale (utile d'intrapresa più interesse) e rendita del suolo non sono perciò che particolari elementi del plusvalore, categorie in cui questo viene distinto secondo che tocchi al capitale o alla proprietà fondiaria, rubriche che però non cambiano nulla alla sua essenza. Addizionati, essi costituiscono la somma del plusvalore sociale...

Al capitalista il suo capitale, al proprietario fondiario la sua terra, e all'operaio la sua forza lavoro, o piuttosto lo stesso suo lavoro [...] appaiono come tre fonti diverse dei loro redditi specifici: del profitto, della rendita fondiaria e del salario. Ed essi lo sono, in realtà, nel senso che per il capitalista il capitale è una perenne macchina di estorsione del pluslavoro, per il proprietario fondiario la terra è una perenne calamita per l'attrazione di una parte del plusvalore spremuto dal capitale c infine, per l'operaio, il lavoro è la condizione e il mezzo sempre rinnovantisi per assicurarsi a titolo di salario una parte del valore da lui creato, quindi un'aliquota del prodotto sociale misurata da questa parte di valore: i mezzi di sussistenza necessari.

Lo sono, inoltre, nel senso che il capitale fissa una parte del valore e quindi del prodotto del lavoro annuo nella forma del profitto, la proprietà fondiaria un'altra parte nella forma della rendita, il lavoro salariato una terza parte nella forma del salario, e appunto grazie a questa metamorfosi le convertono nei redditi del capitalista, del proprietario fondiario e del lavoratore, senza tuttavia creare la sostanza stessa che si converte in queste differenti categorie. Al contrario, la ripartizione presuppone come esistente questa sostanza, cioè il valore totale del prodotto annuo, che non è se non lavoro sociale oggettivato. Ma non è in questa forma, bensì in una forma distorta, che la cosa si presenta agli agenti della produzione, ai titolari delle diverse funzioni del processo di produzione...

Capitale, proprietà fondiaria e lavoro appaiono a quegli agenti della produzione come tre fonti diverse e indipendenti, da cui in quanto tali sgorgano tre diversi elementi del valore annualmente prodotto — e quindi del prodotto in cui esso esiste -; dalle quali perciò scaturiscono non soltanto le forme diverse di questo valore come redditi spettanti a particolari fattori del processo di produzione sociale, ma questo stesso valore e con ciò la sostanza di quelle forme di reddito...

Se prima abbiamo preso in considerazione ciò che v'è di dissimile nelle tre fonti, ora dobbiamo rilevare, in secondo luogo, come viceversa i loro prodotti, i loro rampolli, i redditi, appartengano tutti alla medesima sfera, quella del valore. Ma ciò (questo rapporto non solo fra grandezze incommensurabili, ma fra cose completamente diverse, prive fra loro di ogni rapporto e non paragonabili) trova il suo compenso nel fatto che in realtà il capitale, come la terra e il lavoro, è preso semplicemente in base alla sua sostanza materiale, dunque semplicemente come mezzo di produzione prodotto, astraendo da esso sia come rapporto con l'operaio, sia come valore...

 In questo senso, la formula: Capitale-interesse (profitto), terra-rendita, lavoro-salario, presenta dunque incongruenze uniformi e simmetriche. In effetti, dato che il lavoro salariato non appare come una forma socialmente determinata del lavoro, ma ogni lavoro appare per sua natura come lavoro salariato (cioè così si rappresenta a chi è irretito nei rapporti di produzione capitalistici), anche le forme determinate e specificamente sociali che le condizioni oggettive del lavoro — i mezzi di produzione prodotti e la terra assumono nei confronti del lavoro salariato (il quale, viceversa, ne è il presupposto) coincidono senz'altro con l'esistenza materiale di queste condizioni del lavoro o con la forma che in generale esse rivestono nel reale processo di lavoro, indipendentemente da ogni forma sociale storicamente determinata, anzi da ogni forma sociale, di esso. La forma estraniata dal lavoro, oggettivata di contro ad esso e così trasmutata delle condizioni di lavoro, in cui perciò i mezzi di produzione prodotti si convertono in capitale e la terra in terra monopolizzata, in proprietà fondiaria, questa forma propria di un determinato periodo storico coincide quindi con l'esistenza e la funzione dei mezzi di produzione prodotti e della terra nel processo di produzione in generale. Quei mezzi di produzione sono in sé e per sé, per natura, capitale; il capitale non è che un semplice «nome economico» per quei mezzi di produzione; allo stesso modo, la terra è in sé e per sé, per natura, la terra monopolizzata da un certo numero di proprietari fondiari...

È chiaro che il capitale presuppone il lavoro come lavoro salariato. Ma è altrettanto chiaro che, se si parte dal lavoro come lavoro salariato, così che la coincidenza del lavoro in generale con il lavoro salariato appaia di per sé evidente, allora anche il capitale e la terra monopolizzata devono apparire come forma naturale delle condizioni di lavoro di fronte al lavoro in generale. Essere capitale appare allora come forma naturale dei mezzi di lavoro e quindi come carattere puramente oggettivo derivante dalla sua funzione nel processo di lavoro in quanto tale. Capitale e mezzi di produzione prodotti diventano così espressioni identiche, così come lo diventano la terra da un lato e la terra monopolizzata dalla proprietà privata dall'altro. I mezzi di lavoro in quanto tali, che sono per natura capitale, diventano perciò la fonte del profitto, così come la terra in quanto tale diviene la fonte della rendita...

Rendita, profitto, salario, sembrano così scaturire dalla funzione che la terra, i mezzi di produzione prodotti e il lavoro esercitano nel processo di lavoro semplice, anche in quanto quest'ultimo sia considerato come svolgentesi solo fra l'uomo e la natura e a prescindere da ogni determinazione storica...

Così proprietà fondiaria, capitale e lavoro salariato si trasformano da fonti del reddito, [...] da fonti mediante le quali una parte del valore si trasmuta nella forma del profitto, una seconda nella forma della rendita e una terza nella forma del salario, in fonti reali da cui appunto sgorgano queste parti di valore e le relative parti del prodotto in cui esse esistono, o con cui sono scambiabili, e dalle quali come fonte ultima sgorga perciò il valore del prodotto stesso...

Già a proposito delle più semplici categorie del modo di produzione capitalistico e della stessa produzione di merci, a proposito della merce e del denaro, abbiamo dimostrato il carattere mistificante che trasforma i rapporti sociali, a cui nella produzione gli elementi materiali della ricchezza servono da supporti, in proprietà di questa stessa cosa (la merce) e, in modo ancor più dichiarato, trasforma lo stesso rapporto di produzione in una cosa (il denaro). Ogni forma di società, in quanto pervenga alla produzione di merci e alla circolazione di denaro, partecipa a questa mistificazione. Ma nel modo di produzione capitalistico, e nel capitale che ne costituisce la categoria dominante, il rapporto di produzione determinante, questo mondo stregato e capovolto si sviluppa ancora di più. Se si considera il capitale, anzitutto, nel processo di produzione immediato, come pompa aspirante di pluslavoro, questo rapporto è ancora molto semplice; il nesso effettivo si impone ai depositari di questo processo, i capitalisti, ed è ancora presente alla loro coscienza. L'aspra lotta per i confini della giornata lavorativa ne è la flagrante dimostrazione. Ma neppure all'interno di questa sfera non mediata, la sfera del processo diretto fra lavoro e capitale, le cose non restano così semplici. Con lo sviluppo del plusvalore relativo nel vero e proprio modo di produzione specificamente capitalistico, con cui le forze produttive sociali del lavoro si espandono, queste forze produttive e i nessi sociali del lavoro sembrano nel processo immediato di lavoro trasferirsi dal lavoro al capitale. Già così il capitale, dato che tutte le forze produttive sociali del lavoro appaiono come forze pertinenti ad esso anziché al lavoro in quanto tale, e sprigionantisi dal suo grembo, diventa un'entità assai mistica. Interviene poi il processo di circolazione, alle cui metamorfosi materiali e formali, nella misura in cui si sviluppa il modo di produzione specificamente capitalistico, soggiacciono tutte le parti del capitale, dello stesso capitale agricolo. È questa una sfera in cui i rapporti dell'originaria produzione di valore passano del tutto in secondo piano.

Già nel processo di produzione immediato il capitalista è contemporaneamente attivo come produttore di merci e come direttore della produzione di merci. Ai suoi occhi, questo processo di produzione non è quindi, semplicemente, processo di produzione di plusvalore. Ma, qualunque sia il plusvalore che il capitale ha estorto nel processo di produzione immediato, e rappresentato in merci, il valore e il plusvalore contenuti nelle merci devono prima essere realizzati nel processo di circolazione. E sia la reintegrazione dei valori anticipati nella produzione, sia e soprattutto il plusvalore contenuto nelle merci, non sembrano semplicemente realizzarsi nella circolazione, ma scaturirne; una apparenza che due circostanze in particolare rafforzano: 1) il profitto per alienazione, che dipende da truffa, astuzia, esperienza, abilità e da mille congiunture di mercato; 2) il fatto che qui, accanto al tempo di lavoro, interviene un secondo elemento determinante, il tempo di circolazione. È vero che questo funge soltanto da barriera negativa della creazione di valore e plusvalore, ma l'apparenza è che sia una causa non meno positiva che il lavoro stesso, e introduca una determinazione derivante dalla natura del capitale e indipendente dal lavoro. Naturalmente, nel Libro II noi abbiamo dovuto esaminare questa sfera di circolazione solo in rapporto alle determinazioni formali che essa genera, e mostrare l'ulteriore sviluppo della forma del capitale, che in essa si compie. Nella realtà, però, questa sfera è la sfera della concorrenza, che, se si considera ogni singolo avvenimento, è dominata dal caso, e in cui, quindi, la legge interna che in questi accidenti si fa valere e che li regola diventa visibile solo allorché essi sono riuniti in grandi masse e, dunque, resta invisibile ed incomprensibile agli agenti della produzione isolatamente presi. Ma inoltre: il vero e proprio processo di produzione, come unità del processo di produzione immediato e del processo di circolazione, genera nuove forme nelle quali il filo conduttore del nesso interno va sempre più smarrito, i rapporti di produzione si autonomizzano l'uno di fronte all'altro e le parti costitutive del valore si fossilizzano, l'una rispetto all'altra, in forme indipendenti.

La trasformazione del plusvalore in profitto è, come abbiamo visto, determinata tanto dal processo di circolazione, quanto dal processo di produzione. Il plusvalore, nella forma del profitto, non è più riferito alla parte di capitale spesa in salario, dalla quale esso sgorga, ma al capitale totale. Il saggio di profitto è regolato da leggi proprie, che ne permettono e perfino esigono un mutamento, pur restando costante il saggio di plusvalore. Tutto ciò nasconde sempre più la vera natura del plusvalore e quindi l'effettivo meccanismo del capitale. Ciò avviene ancor più per effetto della conversione del profitto in profitto medio e dei valori in prezzi di produzione, nelle medie regolatrici dei prezzi di mercato. Interviene qui un complicato processo sociale, il processo di reciproca compensazione dei capitali, che scinde i prezzi medi relativi delle merci dai loro valori, e i profitti medi nelle diverse sfere di produzione (a prescindere dagli investimenti individuali in ogni particolare sfera di produzione) dal reale sfruttamento del lavoro ad opera dei singoli capitali. Il prezzo medio delle merci qui non soltanto sembra ma è in realtà diverso dal loro valore, dunque dal lavoro in esse realizzato, e il profitto medio di ogni particolare capitale è diverso dal plusvalore che quel capitale ha estorto dai lavoratori da esso impiegati. Il valore delle merci appare ormai direttamente solo nell'influenza della variabile forza produttiva del lavoro sull'aumento e la diminuzione dei prezzi di produzione, sul loro movimento, non sui loro confini ultimi. Il profitto sembra ormai determinato in via puramente accessoria dallo sfruttamento immediato del lavoro, nella misura cioè in cui permette al capitalista di realizzare, ai prezzi di mercato regolatori (che in apparenza esistono indipendentemente da questo sfruttamento), un profitto che si discosta dal profitto medio.

Gli stessi normali profitti medi sembrano immanenti al capitale, indipendentemente dallo sfruttamento; lo sfruttamento superiore alla norma, o anche lo sfruttamento medio in condizioni eccezionalmente favorevoli, sembra unicamente determinare la deviazione del profitto medio, non questo stesso profitto medio. La divisione del profitto in utile d'intrapresa ed interesse (per non parlare dell'intervento del profitto commerciale e del profitto del commercio di denaro, che si basano sulla circolazione e sembrano scaturire da questa anziché dal processo di produzione stesso) completa l'autonomizzazione della forma del plusvalore, la fossilizzazione della sua forma di contro alla sua sostanza, alla sua essenza. Una parte del profitto, in contrapposizione all'altra, si svincola dal rapporto di capitale in quanto tale, e si presenta come derivante non dalla funzione dello sfruttamento del lavoro salariato, ma dal lavoro salariato dello stesso capitalista. Per contrasto, l'interesse sembra allora scaturire indipendentemente sia dal lavoro salariato dell'operaio, sia dal lavoro proprio del capitalista dal capitale come sua propria fonte autonoma. Se in origine, sulla superficie della circolazione, il capitale appariva come capitale-feticcio, valore figliante valore, ora si presenta di nuovo nella forma del capitale produttivo di interesse come nella sua forma più estraniata e peculiare. Perciò, anche, la forma «capitale-interesse» come terzo membro accanto a «terra-rendita» e «lavoro-salario», è molto più conseguente di «capitale-profitto», perché nel profitto rimane pur sempre un ricordo della sua origine, che invece nell'interesse è non solo estinto, ma posto in una rigida forma antagonistica a questa origine.

Infine, accanto al capitale come fonte autonoma di plusvalore figura la proprietà fondiaria in quanto barriera del profitto medio e causa del trasferimento di una parte del plusvalore ad una classe che né lavora essa stessa, né sfrutta direttamente gli operai, né, come il capitale produttivo d'interesse, può appellarsi a ragioni consolatorie e moralmente edificanti come, per es., il rischio e il sacrificio impliciti nella cessione in prestito del capitale. Poiché qui una parte del plusvalore sembra direttamente collegato non a rapporti sociali, ma ad un elemento naturale, la terra, la forma dell'estraniazione e fossilizzazione delle diverse parti del plusvalore l'una di fronte all'altra trova il suo coronamento, il nesso interno è definitivamente spezzato e la sua sorgente completamente sepolta, proprio in seguito alla reciproca autonomizzazione dei rapporti di produzione legati ai diversi elementi materiali del processo di produzione.

In capitale-profitto, o meglio ancora capitale-interesse, terra-proprietà fondiaria, lavoro-salario, in questa trinità economica come nesso fra gli elementi del valore e della ricchezza in generale e le loro fonti, trovano il loro coronamento la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la reificazione dei rapporti sociali, l'immediato concrescere dei rapporti materiali di produzione e della loro determinatezza storico-sociale: il mondo stregato, distorto e capovolto in cui Monsieur le Capital e Madame la Terre conducono la loro fantasmagorica esistenza, come caratteri sociali e insieme, direttamente, come semplici cose.

Capitolo XLIX

PER L'ANALISI DEL PROCESSO DI PRODUZIONE

Profitto (utile d'intrapresa più interesse) e rendita non sono che forme peculiari assunte da singole parti del plusvalore delle merci. La grandezza del plusvalore è la barriera della somma di grandezza delle parti in cui esso si può dividere. Profitto medio più rendita sono perciò eguali al plusvalore. È possibile che una parte del pluslavoro contenuto nelle merci, e quindi del plusvalore, non entri direttamente nel livellamento al profitto medio, cosicché una parte del valore della merce non trovi espressione nel suo prezzo. Ma, in primo luogo, v'è a ciò compensazione o perché il saggio di profitto aumenta se la merce venduta al disotto del suo valore costituisce un elemento del capitale costante, o perché profitto e rendita si rappresentano in un maggior prodotto se la merce venduta al disotto del suo valore entra come articolo di consumo individuale nella parte del valore consumata come reddito.

In secondo luogo, v'è compensazione nella media del movimento. In ogni caso, anche quando una parte del plusvalore non espressa nel prezzo della merce va perduta per la formazione del prezzo, la somma del profitto medio più la rendita nella sua forma normale non può mai essere maggiore, benché possa essere minore, del plusvalore totale. La sua forma normale presuppone un salario corrispondente al valore della forza lavoro...

D'altronde il pluslavoro non viene completamente realizzato per il fatto stesso che, a causa del continuo mutamento di grandezza del lavoro socialmente necessario per la produzione di una data merce, derivante dalle continue variazioni nella forza produttiva del lavoro, una parte delle merci deve essere sempre prodotta in condizioni anormali, quindi al disotto del loro valore individuale. Comunque, profitto più rendita sono eguali all'intero plusvalore (pluslavoro) realizzato e, agli effetti dell'analisi di cui qui si tratta, il plusvalore realizzato può essere posto eguale alla totalità del plbsvalore, giacché profitto e rendita sono plusvalore realizzato, sono dunque, in generale, il plusvalore che entra nei prezzi delle merci e perciò, in pratica, tutto il plusvalore che di questo prezzo forma un elemento.

D'altro canto il salario, che costituisce la terza forma peculiare del reddito, è sempre eguale alla parte costitutiva variabile del capitale, cioè alla parte che non è spesa in mezzi di lavoro, ma nell'acquisto della forza lavoro viva, nel pagamento di operai...

L'intera parte di valore delle merci in cui si realizza il lavoro totale degli operai aggiunto nel corso di un giorno o di un anno, il valore totale del prodotto annuo creato da questo lavoro, si divide nel valore del salario, nel profitto e nella rendita, giacché questo lavoro totale si divide in lavoro necessario, con cui l'operaio crea la parte di valore del prodotto con la quale viene egli stesso pagato, dunque il salario, e in pluslavoro non retribuito, con cui egli crea la parte di valore del prodotto che rappresenta il plusvalore e che poi si scinde in profitto e rendita. Oltre a questo lavoro l'operaio non ne esegue nessun altro, e oltre al valore totale del prodotto che assume le forme del salario, del profitto e della rendita, non crea nessun valore. Il valore del prodotto annuo, nel quale si rappresenta il suo lavoro aggiunto ex novo nel corso dell'anno, è eguale al salario, ossia al valore del capitale variabile, più il plusvalore, che viene a sua volta suddiviso nelle forme del profitto e della rendita.

L'intera parte di valore del prodotto annuo, dunque, che l'operaio crea nel corso dell'anno, si esprime nella somma annua di valore dei tre redditi: il valore del salario, del profitto e della rendita. È perciò evidente che nel valore dei prodotti annualmente creato non è riprodotto il valore della parte costante del capitale, poiché il salario è soltanto eguale al valore della parte variabile del capitale anticipata nella produzione e la rendita e il profitto sono soltanto eguali al plusvalore, all'eccedenza di valore prodotta sul valore totale del capitale anticipato, a sua volta eguale al valore del capitale costante più il valore del capitale variabile.

Per la difficoltà che qui si tratta di risolvere è del tutto indifferente che una parte del plusvalore convertito nella forma del profitto e della rendita non venga consumata come reddito, ma serva all'accumulazione. La parte di esso risparmiata come fondo di accumulazione serve alla formazione di nuovo capitale, di capitale addizionale, ma non alla reintegrazione del vecchio; né della parte costitutiva del vecchio capitale spesa in forza lavoro, né di quella investita in mezzi di lavoro. Per semplicità possiamo quindi supporre che i redditi entrino integralmente nel consumo individuale...

D'altro lato: Se prescindiamo dalla parte del capitale costante che non è entrata nel prodotto e che perciò continua ad esistere, benché con minor valore, dopo la produzione annua delle merci come prima; se dunque facciamo per il momento astrazione dal capitale fisso usato ma non consumato, allora la parte costante del capitale anticipato sotto forma di materie prime ed ausiliarie è interamente assorbita nel nuovo prodotto, mentre una parte dei mezzi di lavoro è stata interamente consumata e l'altra solo parzialmente, quindi solo una parte del suo valore è stata assorbita dalla produzione. Tutta questa parte del capitale costante consumata nella produzione dev'essere sostituita in natura. Supposte invariate tutte le altre circostanze e, in particolare, la forza produttiva del lavoro, essa costa per la sua sostituzione la stessa quantità di lavoro di prima, cioè deve essere sostituita da un equivalente in valore. In caso contrario, la riproduzione stessa non può aver luogo sulla vecchia scala. Ma chi deve eseguire questi lavori, e chi li esegue?...

Il problema qui posto è già risolto nell'analisi della riproduzione del capitale sociale totale, Libro II, sez. III...

In quella sede noi abbiamo diviso tutto il capitale in due grandi classi o sezioni: la I, che produce i mezzi di produzione, e la II, che produce i mezzi di consumo individuali. Il fatto che certi prodotti possano servire tanto al consumo personale, quanto come mezzi di produzione (un cavallo, il grano, ecc.), non toglie che questa divisione sia assolutamente giusta. In realtà essa non è un'ipotesi, ma è solo espressione di un fatto. Si prenda il prodotto annuo di un paese. Una parte del prodotto, qualunque sia la sua capacità di servire da mezzo di produzione, entra nel consumo individuale. È il prodotto in cui vengono spesi salario, profitto e rendita. Questo prodotto è il prodotto di una determinata sezione del capitale sociale. È possibile che questo stesso capitale produca anche prodotti appartenenti alla sez. II. Nella misura in cui lo fa, non è la parte di questo capitale consumata nel prodotto della sez. II, in prodotto effettivamente destinato al consumo individuale, quella che fornisce i prodotti spettanti alla sez. I, consumati produttivamente. Tutto questo prodotto II, che entra nel consumo personale e in cui perciò si spende il reddito, è il modo di esistere del capitale in esso consumato, più l'eccedenza prodotta. È quindi il prodotto di un capitale investito nella pura e semplice produzione di mezzi di consumo. E, allo stesso modo, la sez. I del prodotto annuo, che serve da mezzo di riproduzione, da materia prima e da strumenti di lavoro, è il prodotto di un capitale investito nella pura e semplice produzione di mezzi di produzione, qualunque sia per il resto la capacità di quella materia prima e di quegli strumenti di lavoro di servire anche da mezzi di consumo. La parte di gran lunga maggiore dei prodotti che formano il capitale costante esiste anche materialmente in una forma che le vieta di entrare nel consumo individuale...

Il valore delle merci annualmente prodotte, esattamente come il valore delle merci prodotte da un particolare investimento di capitale e come il valore di ogni singola merce, si risolve quindi in due elementi di valore: quello A, che reintegra il valore del capitale costante anticipato, e quello B, che si presenta nella forma di reddito, come salario, profitto e rendita. Il secondo elemento di valore B costituisce un'antitesi al primo elemento di valore A, in quanto, a parità di condizioni, quest'ultimo 1) non assume mai la forma di reddito, 2) rifluisce sempre nella forma di capitale, e precisamente di capitale costante. A sua volta, tuttavia, l'altro elemento B è anche contraddittorio in se stesso. Profitto e rendita hanno in comune col salario il fatto di costituire forme di reddito. Se ne distinguono però essenzialmente in quanto nel profitto e nella rendita si rappresenta plusvalore, quindi lavoro non retribuito, e nel salario lavoro retribuito. La parte di valore del prodotto che rappresenta salario speso, che quindi reintegra il salario, e che, in base alla nostra ipotesi, secondo cui la riproduzione si svolge sulla stessa scala e nelle stesse condizioni, si riconverte nuovamente in salario, rifluisce dapprima come capitale variabile, come parte costitutiva del capitale da anticipare di nuovo alla riproduzione. Questa parte costitutiva funziona in due modi. Esiste prima nella forma di capitale, e come tale si scambia contro la forza lavoro. Nelle mani dell'operaio si converte nel reddito che questi ricava dalla vendita della sua forza lavoro, e come reddito viene convertito in mezzi di sussistenza e consumato. Questo duplice processo si manifesta nella mediazione ad opera della circolazione monetaria. Il capitale variabile viene anticipato in denaro, dato via in salario. È questa la sua prima funzione in quanto capitale. Viene scambiato contro la forza lavoro e convertito nell'estrinsecazione di questa forza lavoro, in lavoro. È questo, per il capitalista, il processo.

In secondo luogo, però: con questo denaro, gli operai acquistano una parte delle merci da loro prodotte, che è misurata da questo denaro e viene da essi consumata come reddito. Se immaginiamo che non esista circolazione monetaria, una parte del prodotto dell'operaio è nelle mani del capitalista sotto forma di capitale presente. Questa parte egli la anticipa come capitale, la dà all'operaio per la sua forza lavoro, mentre l'operaio, direttamente o tramite scambio contro altre merci, la consuma come reddito. La parte di valore del prodotto che nella riproduzione è destinata a convertirsi in salario, in reddito per gli operai, rifluisce quindi dapprima nelle mani del capitalista sotto forma di capitale : più esattamente, di capitale variabile. Il suo rifluire in questa forma è una condizione essenziale perché il lavoro si riproduca sempre di nuovo come lavoro salariato, i mezzi di produzione come capitale e il processo di produzione stesso come capitalistico

Per non impigliarsi in inutili difficoltà, è necessario distinguere ricavo lordo e ricavo netto da reddito lordo e reddito netto.

Il ricavo lordo, o il prodotto lordo, è l'intero prodotto riprodotto. Eccettuata la parte impiegata, ma non consumata, del capitale fisso, il valore del ricavo lordo o del prodotto lordo è eguale al valore del capitale, costante e variabile, anticipato e consumato nella produzione, più il plusvalore, che si suddivide in profitto e rendita. O, se si considera il prodotto non del singolo capitale, ma del capitale sociale totale, il ricavo lordo è eguale agli elementi materiali che costituiscono il capitale costante e variabile, più gli elementi materiali del plusprodotto, in cui si rappresentano profitto e rendita.

Il reddito lordo è la parte di valore, e la parte da essa misurata del prodotto lordo, che rimane a detrazione avvenuta della parte di valore, e della parte di prodotto da essa misurata della produzione totale, andata a sostituire il capitale costante anticipato e consumato nella produzione. Il reddito lordo è quindi eguale al salario (o alla parte del prodotto destinata a ridivenire reddito dell'operaio) + il profitto + la rendita. 11 reddito netto, invece, è il plusvalore, e quindi il plusprodotto, che rimane una volta detratto il salario e che, in realtà, rappresenta il plusvalore realizzato dal capitale e da dividere coi proprietari fondiari, e il plusprodotto da esso misurato.

Ora si è visto che il valore di ogni singola merce e il valore dell'insieme delle merci prodotte da ogni singolo capitale si dividono in due parti: una che si limita a reintegrare capitale costante, l'altra che, sebbene una sua frazione rifluisca come capitale variabile, dunque anche nella forma di capitale, è tuttavia destinata a convertirsi interamente in reddito lordo e ad assumere la forma del salario, del profitto e della rendita, la cui somma costituisce il reddito lordo. Si è visto, inoltre, che identico è il caso per quanto riguarda il valore del prodotto totale annuo di una società. Una differenza fra il prodotto del capitalista singolo e quello della società esiste nella sola misura in cui, dal punto di vista del capitalista singolo, il reddito netto si distingue dal reddito lordo perché questo include il salario e quello lo esclude, mentre, se si considera il reddito dell'intera società, il reddito nazionale consta di salario più profitto più rendita; "dunque, del reddito lordo. Anche questa però è un'astrazione, in quanto l'intera società, sulla base della produzione capitalistica, si mette dal punto di vista del capitalista e quindi considera come reddito netto solo il reddito che si risolve in profitto e rendita...

Le difficoltà che inducono a questa analisi sbagliata e prima facie assurda, sono in breve le seguenti:

1. Il fatto di non comprendere il rapporto fondamentale fra capitale costante e variabile, quindi anche la natura del plusvalore e perciò l'intera base del modo di produzione capitalistico. Il valore di ogni prodotto parziale del capitale, di ogni singola merce, comprende una parte di valore = il capitale costante, una parte di valore = il capitale variabile (convertito in salario per gli operai) e una parte di valore = il plusvalore (poi distinto in profitto e rendita). Come è dunque possibile che l'operaio con il suo salario, il capitalista con il suo profitto, il proprietario fondiario con la sua rendita, acquistino merci ognuna delle quali contiene non soltanto una di queste parti costitutive, ma tutte e tre; e com'è possibile che la somma di valore di salario, profitto, rendita, dunque delle tre fonti di reddito, acquisti le merci che entrano nel consumo complessivo dei precettori di questi redditi, merci che, oltre queste tre parti, contengono pure un elemento eccedente di valore, cioè il capitale costante? Come possono comprare con un valore di tre un valore di quattro?..

2. Il fatto di non comprendere il modo in cui il lavoro, aggiungendo nuovo valore, conserva in nuova forma il valore originario, senza produrlo ex novo.

3. Il fatto di non comprendere il nesso interno del processo di riproduzione così come si presenta dal punto di vista non del capitale singolo, ma del capitale totale; la difficoltà di capire come il prodotto in cui si realizzano il salario e il plusvalore, quindi l'intero valore creato da tutto il lavoro aggiunto ex novo nel corso dell'anno, reintegri la sua parte di valore costante e, nello stesso tempo, si risolva in un valore limitato puramente dai redditi; come, inoltre, si possa sostituire materialmente e secondo il valore il capitale costante consumato nella produzione con nuovo capitale costante, benché la somma totale del lavoro aggiunto ex novo si realizzi soltanto in salario e plusvalore, e si esprima in modo esauriente nella somma del valore di entrambi. È proprio qui che risiede la difficoltà fondamentale nell'analisi della riproduzione e del rapporto fra i suoi diversi elementi, tanto secondo il loro carattere materiale, quanto secondo i loro rapporti di valore.

4. A tutto ciò si aggiunge un'altra difficoltà, che si aggrava non appena i diversi elementi del plusvalore appaiono nella forma di redditi reciprocamente indipendenti; la difficoltà, cioè, che le determinazioni fisse di reddito e capitale si scambiano e mutano posto, in modo da sembrare soltanto determinazioni relative dal punto di vista del capitalista singolo, che però sembrano svanire se si considera nel suo insieme l'intero processo di produzione...

A prescindere dalla confusione causata dalla trasformazione dei valori in prezzi di produzione, un'altra se ne crea in seguito alla conversione del plusvalore in diverse forme particolari di reddito, reciprocamente indipendenti e riferite ai diversi elementi della produzione : in profitto e rendita. Si dimentica che i valori delle merci sono il fondamento, e che la suddivisione di questo valore delle merci in particolari elementi e l'ulteriore sviluppo di questi elementi di valore in forme di reddito, la loro metamorfosi in rapporti fra i diversi possessori dei diversi fattori della produzione e questi singoli elementi di valore, la loro ripartizione fra questi possessori secondo determinate categorie e titoli, lasciano inalterate la determinazione del valore e la sua legge. Né parimenti modifica la legge del valore la circostanza che il livellamento del profitto, cioè la ripartizione del plusvalore totale fra i diversi capitali, e gli ostacoli che a questo livellamento in parte oppone (nella rendita assoluta) la proprietà fondiaria, determinano i prezzi medi regolatori delle merci in difformità dai loro valori individuali. Questo fatto incide di nuovo soltanto sull'aggiunta del plusvalore ai diversi prezzi delle merci, ma non sopprime il plusvalore stesso e il valore complessivo delle merci come fonte di questi diversi elementi del prezzo.

È questo il quid pro quo che esaminiamo nel capitolo seguente, e che è necessariamente collegato all'apparenza che il valore scaturisca dalle sue proprie parti costitutive. In primo luogo, infatti, i diversi elementi di valore della merce assumono nei redditi forme indipendenti e, in quanto redditi, vengono riferiti, come alla loro fonte, non al valore della merce, ma ai particolari elementi materiali della produzione. E ad essi sono effettivamente riferiti, non però come elementi di valore, bensì come redditi, come elementi di valore spettanti a quelle determinate categorie di agenti della produzione, che sono l'operaio, il capitalista, il proprietario fondiario. Ci si può tuttavia immaginare che questi elementi di valore, invece di derivare dalla scomposizione del valore delle merci, lo costituiscano al contrario mediante la loro unione, dove poi salta fuori il bel circolo vizioso del valore delle merci che scaturisce dalla somma di valore del salario, del profitto e della rendita, e del valore del salario, del profitto e della rendita che è a sua volta determinato dal valore delle merci, e così via...

Tutta la difficoltà proviene dal fatto che ogni lavoro aggiunto ex novo, nella misura in cui il valore da esso creato non si risolve in salario, appare come profitto qui inteso come forma del plusvalore in generale -, cioè come un valore che al capitalista non è costato nulla, e che quindi non deve sicuramente reintegrargli neppure alcunché di anticipato, alcun capitale. Questo valore esiste perciò nella forma della ricchezza addizionale, disponibile; insomma, dal punto di vista del capitalista individuale, nella forma del suo reddito. Ma questo valore di nuova creazione può essere consumato tanto produttivamente, quanto individualmente; tanto come capitale, quanto come reddito. Deve in parte, già per la sua forma naturale, essere consumato produttivamente. È perciò chiaro che il lavoro aggiunto annualmente crea sia capitale, sia reddito, come poi si dimostra anche nel processo di accumulazione. La parte della forza lavoro impiegata per creare ex novo capitale (quindi, per analogia, la parte della giornata lavorativa che il selvaggio impiega non per appropriarsi il cibo, ma per approntare lo strumento con cui si approprierà il cibo) diventa tuttavia invisibile, per il fatto che l'intero prodotto del pluslavoro si presenta a tutta prima nella forma del profitto; determinazione che in realtà non ha nulla a che vedere con questo stesso plusprodotto, ma si riferisce soltanto al rapporto privato del capitalista col plusvalore da lui incassato. In effetti, il plusvalore che l'operaio crea si suddivide in reddito e capitale; cioè in mezzi di consumo e in mezzi di produzione addizionali. Ma il vecchio capitale costante trasmesso dall'annata precedente (astrazion fatta dalla parte danneggiata e quindi, pro tanto, distrutta; insomma il vecchio capitale nella misura in cui non deve essere riprodotto, e tali perturbazioni del processo di riproduzione cadono sotto l'assicurazione), non viene riprodotto, per quanto riguarda il suo valore, dal lavoro aggiunto ex novo.

Vediamo inoltre che una parte del lavoro aggiunto ex novo è continuamente assorbita nella riproduzione e sostituzione di capitale costante consumato, benché questo lavoro aggiunto ex novo si risolva soltanto in redditi, cioè salario, profitto e rendita. Ma qui non si considera: 1. che una parte di valore del prodotto di questo lavoro non è il prodotto di questo lavoro aggiunto ex novo, ma è capitale costante preesistente e consumato; che perciò la parte di prodotti in cui si rappresenta questa parte di valore non si converte neppure in reddito, ma sostituisce in natura i mezzi di produzione di questo capitale costante; 2. che la parte di valore in cui effettivamente si presenta questo lavoro aggiunto ex novo non viene consumata in natura come reddito, ma sostituisce il capitale costante in un'altra sfera, dove esso è stato portato ad assumere una forma naturale in cui può essere consumato come reddito, ma che non è a sua volta prodotto esclusivo di lavoro aggiunto ex novo.

Nella misura in cui la riproduzione si svolge sulla stessa scala, ogni elemento consumato del capitale costante deve, se non per quantità e per forma, certo per efficacia, essere sostituito in natura da un nuovo esemplare del genere corrispondente. Se la produttività del lavoro non cambia, questa sostituzione in natura include la reintegrazione del medesimo valore che il capitale costante aveva nella sua forma originaria. Se invece la forza produttiva del lavoro aumenta, in modo che gli stessi elementi materiali possano essere riprodotti con meno lavoro, una minor parte di valore del prodotto può sostituire integralmente in natura la parte costante. L'eccedenza può allora servire alla creazione di nuovo capitale addizionale, o si può conferire ad una parte maggiore del prodotto la forma di mezzi di consumo; oppure ridurre il pluslavoro. Se poi la forza produttiva del lavoro decresce, una parte maggiore del prodotto deve entrare nella sostituzione del vecchio capitale; il plusprodotto quindi diminuisce.

La riconversione del profitto, o in generale di qualunque forma del plusvalore, in capitale se prescindiamo dalla forma economica storicamente determinata, e la consideriamo soltanto come semplice formazione di nuovi mezzi di produzione — mostra che sussistono sempre condizioni in cui l'operaio, oltre al lavoro per procurarsi i mezzi di sussistenza immediati, impiega lavoro per produrre mezzi di produzione. Conversione di profitto in capitale non significa se non impiego di una parte del lavoro eccedente per la creazione di nuovi, addizionali mezzi di produzione. Che ciò avvenga nella forma della conversione di profitto in capitale, significa unicamente che non l'operaio, ma il capitalista dispone del lavoro eccedente. Che questo lavoro eccedente debba prima percorrere uno stadio in cui appare come reddito (mentre, per es., nel selvaggio appare come lavoro eccedente rivolto direttamente alla produzione di mezzi di produzione), significa unicamente che questo lavoro, o il suo prodotto, se lo appropria colui che non lavora. Ma ciò che, in realtà, si converte in capitale, non è il profitto in quanto tale. Conversione di plusvalore in capitale significa unicamente che il plusvalore e il plusprodotto non vengono individualmente consumati come reddito dal capitalista. Ma ciò che così effettivamente si converte è valore, lavoro oggettivato, rispettivamente il prodotto in cui quel valore si rappresenta immediatamente, o contro il quale, dopo precedente conversione in denaro, esso viene scambiato. Anche quando il profitto viene riconvertito in capitale, non è questa forma determinata del plusvalore, il profitto, che costituisce la fonte del nuovo capitale. Il plusvalore così viene solo convertito da una forma nell'altra. Ma non è questo cambiamento di forma che fa di esso un capitale. Sono la merce e il suo valore che ora funzionano come capitale. Ma il fatto che il valore della merce non sia pagato e solo così esso diventa plusvalore -, per l'oggettivazione del lavoro, per il valore stesso, è del tutto indifferente...

Soppresso il modo di produzione capitalistico, ma conservata la produzione sociale, la determinazione di valore rimane dominante nel senso che la regolazione del tempo di lavoro e la distribuzione del lavoro sociale fra i diversi gruppi e settori di produzione, infine la contabilità ad esse relativa, diventano più essenziali che mai.

Capitolo L

L'APPARENZA DELLA CONCORRENZA

Si è dimostrato che il valore delle merci, o il prezzo di produzione regolato dal loro valore totale, si risolve in :

1. Una parte di valore che reintegra il capitale costante, ovvero che rappresenta il lavoro trascorso, consumato sotto forma di mezzi di produzione nel produrre la merce; insomma il valore, o prezzo, con cui questi mezzi di produzione sono entrati nel processo di produzione della merce. Qui non parliamo mai della merce singola, ma del capitale-merce, cioè della forma in cui in un determinato periodo di tempo, per esempio in un anno, si rappresenta il prodotto del capitale, e di cui la merce singola costituisce soltanto un elemento, che d'altronde, secondo il valore, si suddivide a sua volta nelle stesse parti componenti.

2. La parte di valore del capitale variabile, che misura l'introito dell'operaio e che per quest'ultimo si converte in salario salario che dunque l'operaio ha riprodotto in questa parte variabile del valore: insomma, la parte di valore in cui si rappresenta la parte pagata del lavoro aggiunto ex novo alla prima parte, quella costante, nella produzione della merce.

3. Il plusvalore, cioè la parte di valore delle merci prodotte, in cui si rappresenta il lavoro non pagato o pluslavoro. Quest'ultima parte di valore assume a sua volta le forme indipendenti — che sono nello stesso tempo forme di reddito del profitto del capitale (interesse del capitale in quanto tale e utile d'intrapresa del capitale in quanto capitale in funzione) e della rendita fondiaria, che tocca al proprietario del suolo cooperante al processo di produzione. Gli elementi, o parti costitutive, 2 e 3, cioè l'elemento di valore che assume sempre le forme di reddito del salario (e ciò, sempre soltanto dopo essere passato attraverso la forma di capitale variabile), del profitto e della rendita, si distingue dall'elemento o parte costitutiva costante 1 perché in esso si risolve l'intero valore in cui si oggettiva il lavoro aggiunto ex novo a quella parte costante, i mezzi di produzione della merce. Se ora prescindiamo dalla parte di valore costante, è giusto dire che il valore della merce, nella misura, dunque, in cui rappresenta lavoro aggiunto ex novo, si risolve sempre in tre parti che costituiscono tre forme di reddito, cioè salario, profitto e rendita, nelle quali le rispettive grandezze di valore, cioè le parti aliquote del valore totale che esse costituiscono, sono determinate da leggi diverse e peculiari, che abbiamo già svolte...

Sarebbe invece un errore dire, al contrario, che il valore del salario, il saggio del profitto e il saggio della rendita formino elementi o parti costitutive indipendenti del valore, dalla cui riunione scaturirebbe il valore della merce, astrazion fatta dall'elemento costante; in altre parole, sarebbe un errore dire che essi formino le parti componenti del valore delle merci o del prezzo di produzione...

 Se la diminuzione nell'esborso di capitale costante mediante economie ecc. ha luogo in rami di produzione i cui prodotti entrano nel consumo dei lavoratori, ciò potrebbe, esattamente come l'incremento diretto della produttività del lavoro impiegato, causare una diminuzione del salario, in quanto provocherebbe una diminuzione di prezzo dei mezzi di sussistenza dell'operaio, e quindi un aumento del plusvalore, talché il saggio di profitto salirebbe qui per due motivi, cioè, da un lato, la diminuzione del valore del capitale costante e, dall'altro, l'aumento del plusvalore. Nella nostra analisi della trasformazione del plusvalore in profitto, abbiamo supposto che il salario non diminuisca, ma resti costante, perché ivi si trattava di esaminare le oscillazioni del saggio di profitto indipendentemente dalle variazioni del saggio di plusvalore. Inoltre le leggi ivi esposte sono generali e valgono anche per investimenti di capitale i cui prodotti non entrano nel consumo dell'operaio, nei quali perciò i cambiamenti di valore del prodotto non influiscono sul salario.

La scomposizione e risoluzione del valore che il lavoro applicato ex novo aggiunge annualmente ai mezzi di produzione, alla parte costante del capitale, nelle diverse forme di reddito del salario, del profitto e della rendita non modifica dunque in alcun modo i limiti del valore stesso, la somma di valore che si ripartisce fra queste diverse categorie, così come una variazione nel rapporto reciproco fra queste singole parti non può modificare la loro somma, questa grandezza di valore data...

Il limite assoluto della parte di valore che costituisce il plusvalore, e che si risolve in profitto e rendita fondiaria, è [...] dato; esso è determinato dall'eccedenza della parte non pagata della giornata lavorativa su quella pagata, dunque dalla parte di valore del prodotto totale in cui si realizza questo pluslavoro. Se, come ho fatto io, chiamiamo profitto il plusvalore così determinato nei suoi confini e calcolato sul capitale totale anticipato, questo profitto, considerato secondo la sua grandezza assoluta, è eguale al plusvalore, quindi determinato nei suoi limiti da leggi esattamente come questo. Ma anche l'ammontare del saggio di profitto è una grandezza contenuta in certi limiti, determinati dal valore delle merci. È il rapporto fra il plusvalore totale e il capitale sociale totale anticipato alla produzione...

La ripartizione del profitto sociale, in conformità a questo saggio, fra i capitali investiti nelle diverse sfere di produzione genera prezzi di produzione divergenti dai valori delle merci, prezzi di produzione che sono i prezzi medi di mercato effettivamente regolatori. Tale divergenza non sopprime però né la determinazione dei prezzi per mezzo dei valori, né i limiti regolati da leggi del profitto. Anziché essere il valore di una merce eguale al capitale in essa consumato più il plusvalore in essa racchiuso, il suo prezzo di produzione è adesso eguale al capitale k in essa consumato più il plusvalore che le compete in virtù del saggio generale di profitto...

La trasformazione dei valori in prezzi di produzione non sopprime quindi i limiti del profitto; modifica soltanto la sua ripartizione fra i diversi capitali individuali di cui si compone il capitale sociale, lo ripartisce uniformemente fra essi, nella proporzione in cui costituiscono parti di valore di questo capitale complessivo. I prezzi di mercato salgono al disopra e scendono al disotto di questi prezzi di produzione regolatori, ma tali oscillazioni si annullano a vicenda... 

Il profitto medio dev'essere determinato da un saggio medio del profitto; com'è, quest'ultimo, determinato? Dalla concorrenza fra i capitalisti? Ma questa concorrenza presuppone già l'esistenza del profitto. Presuppone diversi saggi di profitto e, quindi, diversi profitti, sia negli stessi rami di produzione, sia in rami differenti. La concorrenza può influire sul saggio di profitto nella sola misura in cui influisce sui prezzi delle merci. La concorrenza può avere solo l'effetto che, nell'ambito della stessa sfera di produzione, i produttori vendano a prezzi eguali le loro merci e, nell'ambito di sfere di produzione diverse, le vendano a prezzi che danno loro il medesimo profitto, la medesima aggiunta proporzionale al prezzo della merce già in parte determinato dal salario. Dunque, la concorrenza può soltanto compensare le diseguaglianze nel saggio di profitto. Per compensare saggi di profitto diseguali, occorre che il profitto esista già come elemento del prezzo delle merci. La concorrenza non lo crea. Essa eleva o ribassa, ma non crea, il livello che si stabilisce non appena avvenuta la compensazione.

E quando parliamo di un saggio necessario del profitto, vogliamo appunto conoscere il saggio di profitto che, indipendente dai movimenti della concorrenza, regola da parte sua la concorrenza. Il saggio medio di profitto fa la sua comparsa con l'equilibrio reciproco delle forze dei capitalisti concorrenti. La concorrenza può creare questo equilibrio, ma non il saggio di profitto che con esso si stabilisce. Una volta verificatosi questo equilibrio, perché il saggio generale di profitto è il 10 o il 20 o il 100 %? Per effetto della concorrenza. Ma la concorrenza ha invece soppresso le cause che provocavano deviazioni del 10 o del 20 o del 100 %. Ha generato un prezzo delle merci, in virtù del quale ogni capitale frutta in proporzione alla sua grandezza il medesimo profitto. Ma l'entità o grandezza di questo stesso profitto è indipendente dalla concorrenza. Questa si limita a ridurre ogni volta a questa grandezza tutte le deviazioni. Un individuo compete con gli altri, e la concorrenza lo costringe a vendere la sua merce allo stesso prezzo di costoro. Ma perché questo prezzo è 10 o 20 o 100?

Dunque, non resta che proclamare il saggio di profitto, quindi il profitto, un'aggiunta prodottasi in modo inspiegabile al prezzo della merce finora determinato dal salario. L'unica cosa che ci dice la concorrenza è che questo saggio di profitto dev'essere una grandezza data. Ma questo lo sapevamo anche prima, quando parlavamo di saggio generale di profitto e di «prezzo necessario» del profitto...

Ripetere punto per punto questo processo assurdo nel caso della rendita fondiaria, è del tutto superfluo. Si vede anche così che, condotto in modo più o meno conseguente, esso fa apparire profitto e rendita come pure e semplici maggiorazioni, determinate da leggi incomprensibili, del prezzo delle merci determinato in primo luogo dal salario. Insomma, la concorrenza deve assumersi di spiegare tutte le assurdità degli economisti, mentre sono gli economisti che, viceversa, dovrebbero spiegare la concorrenza.

La scomposizione dei valori delle merci, una volta detratto il valore dei mezzi di produzione consumati nel produrle, la scomposizione di questa data massa di valore, determinata dalla quantità di lavoro oggettivata nelle merci prodotte, in tre elementi che, come salario, profitto e rendita, assumono la figura di forme di reddito autonome e reciprocamente indipendenti, questa scomposizione si presenta capovolta alla superficie immediatamente visibile della produzione capitalistica e, quindi, nella immaginazione degli agenti in essa irretiti.

Il valore totale di una merce scelta a piacere sia = 300, di cui 200 rappresentino il valore dei mezzi di produzione consumati nella sua produzione, ovvero degli elementi del capitale costante. Rimangono perciò 100 come somma del nuovo valore aggiunto a questa merce nel suo processo di produzione. Questo neo-valore di 100 è tutto ciò che v'è di disponibile per la divisione nelle tre forme di reddito. Se indichiamo il salario con x, il profitto con y e la rendita fondiaria con z, nel nostro caso la somma di x + y + z sarà sempre = 100. Nella immaginazione dell'industriale, del commerciante e del banchiere, come in quella dell'economista volgare, le cose stanno invece in tutt'altro modo. Per essi, il valore della merce, detratto il valore dei mezzi di produzione in essa consumati, non è dato come = 100, e questi 100 vengono poi divisi in x, y, z, ma il prezzo della merce si compone semplicemente delle grandezze di valore del salario, del profitto e della rendita, determinate indipendentemente dal suo valore e l'una a prescindere dall'altra; cosicché x, y e z sono, ognuno per sé, dati e determinati in modo autonomo, e soltanto dalla somma di queste grandezze, che può essere maggiore o minore di 100, deriva, come risultato dell'addizione di questi elementi formativi del suo valore, la grandezza di valore della merce. Questo quid pro quo è inevitabile :

Primo, perché gli elementi di valore della merce si contrappongono l'uno all'altro come redditi indipendenti, che vengono riferiti in quanto tali a tre agenti diversi della produzione, cioè al lavoro, al capitale e alla terra, e sembrano perciò derivarne. La proprietà sulla forza lavoro, sul capitale e sulla terra, è la causa in forza della quale questi diversi elementi di valore delle merci spettano ai loro rispettivi proprietari, e che, quindi, li trasforma in redditi per essi. Ma il valore non si origina da una trasformazione in reddito; prima di potersi trasformare in reddito, prima di poter assumere questa forma, deve esistere...

Secondo : Si è visto che un aumento o una diminuzione generale del salario, provocando, a parità di condizioni, un movimento in senso inverso del saggio generale di profitto, modifica i prezzi di produzione delle diverse merci, eleva gli uni e abbassa gli altri, a seconda della composizione media del capitale nelle sfere di produzione interessate. In ogni caso, in alcune sfere di produzione si fa dunque l'esperienza che il prezzo medio di una merce sale perché è aumentato il salario, e scende perché esso è diminuito. Ciò che non si «sperimenta» è la segreta regolazione di queste variazioni ad opera del valore, indipendente dal salario, delle merci.  Se invece l'aumento del salario è locale, se non avviene, per effetto di circostanze peculiari, che in particolari sfere di produzione, queste merci possono subire un corrispondente rincaro nominale. Questo aumento del valore relativo di un genere di merci rispetto alle altre, per le quali il salario è rimasto invariato, è allora soltanto una reazione al perturbamento locale della ripartizione uniforme del plusvalore fra le diverse sfere della produzione, un mezzo per livellare i particolari saggi di profitto in quello generale. L'«esperienza» che qui si fa è, ancora una volta : determinazione del prezzo ad opera del salario. Ciò che si sperimenta in tutti e due i casi è, quindi, che il salario ha determinato i prezzi delle merci. Ciò che non si sperimenta è la causa nascosta di questo legame... Inoltre : il prezzo medio del lavoro, cioè il valore della forza lavoro, è determinato dal prezzo di produzione dei mezzi di sussistenza necessari. Se questo sale o scende, quello fa altrettanto. Ciò che qui insegna l'esperienza è, ancora una volta, l'esistenza di un nesso fra il salario e il prezzo delle merci..

Terzo: Supponiamo che nell'esperienza i valori delle merci, o i prezzi di produzione solo in apparenza indipendenti da essi, coincidano immediatamente e costantemente con i prezzi di mercato delle merci, invece di imporsi solo come medi prezzi regolatori attraverso le continue compensazioni delle costanti oscillazioni dei prezzi di mercato. Supponiamo inoltre che la riproduzione avvenga sempre nelle stesse identiche condizioni e che, quindi, la produttività del lavoro rimanga costante in tutti gli elementi del capitale. Supponiamo infine che la parte di valore delle merci prodotte, formata in ogni sfera di produzione mediante aggiunta di una nuova quantità di lavoro e, dunque, di un valore prodotto ex novo al valore dei mezzi di produzione, si scinda in proporzioni sempre invariate in salario, profitto e rendita, cosicché il salario effettivamente corrisposto, il profitto effettivamente realizzato e la rendita effettiva, coincidano sempre immediatamente col valore della forza lavoro, con la parte del plusvalore totale spettante, in virtù del saggio medio di profittò, ad ogni frazione autonomamente funzionante del capitale totale, e con i limiti entro i quali la rendita fondiaria è normaliter costretta su questa base a rimanere. In una parola, supponiamo che la ripartizione del valore socialmente prodotto e la regolazione dei prezzi di produzione avvengano su basi capitalistiche, ma con eliminazione della concorrenza.

Anche in questa ipotesi, in cui il valore delle merci sarebbe e apparirebbe costante, in cui la parte di valore delle merci prodotte che si risolve in redditi rimarrebbe una grandezza costante e si rappresenterebbe sempre come tale, in cui infine questa data e costante parte di valore si scomporrebbe sempre in proporzioni costanti in salario, profitto e rendita, anche in questa ipotesi il movimento reale apparirebbe necessariamente in forma capovolta : non come scomposizione di una grandezza di valore data a priori in tre parti che assumono forme di reddito reciprocamente indipendenti, ma, viceversa, come formazione di questa grandezza di valore dalla somma degli elementi che la compongono, e che sono determinati in modo indipendente e di per sé autonomo : il salario, il profitto e la rendita fondiaria. Questa apparenza si produrrebbe necessariamente perché, nel movimento effettivo dei capitali singoli e delle merci da essi prodotte, non è il valore delle merci che appare come presupposto della loro scomposizione, ma sono invece gli elementi in cui essi si scompongono che funzionano come presupposti al valore delle merci...

Il segreto per cui questi prodotti della scomposizione del valore delle merci appaiono sempre come presupposti alla stessa formazione del valore sta semplicemente in questo, che il modo di produzione capitalistico, come ogni altro, riproduce continuamente non solo il prodotto materiale, ma i rapporti socioeconomici, le forme economiche determinate della sua struttura.

Il suo risultato appare perciò continuamente come suo presupposto, esattamente al modo in cui i suoi presupposti appaiono come suoi risultati. Ed è questa continua riproduzione dei medesimi rapporti, che il singolo capitalista anticipa come un fatto naturale e incontestabile. Finché la produzione capitalistica sussiste in quanto tale, una parte del lavoro aggiunto ex novo si risolve costantemente in salario, un'altra in profitto (interesse e utile d'intrapresa) ed una terza in rendita. Nei contratti fra i proprietari dei diversi fattori della produzione si presuppone che così sia, e questo presupposto è giusto, per quanto, in ogni caso singolo, i rapporti di grandezza relativi oscillino. La forma determinata in cui le parti di valore si contrappongono è presupposta perché viene costantemente riprodotta, e viene costantemente riprodotta perché è costantemente presupposta...

Quarto: Per il singolo capitalista, la vendita o non-vendita delle merci ai loro valori, quindi la stessa determinazione del valore, è del tutto indifferente. Essa è già a priori qualcosa che si svolge dietro le sue spalle, per la forza di condizioni da lui indipendenti, giacché non i valori ma i prezzi di produzione da essi differenti costituiscono in ogni sfera di produzione i prezzi medi regolatori. La determinazione del valore in quanto tale interessa e determina il singolo capitalista e il capitale in ogni particolare sfera di produzione, nella sola misura in cui la quantità minore o maggiore di lavoro, richiesta per produrre la merce a seconda dell'aumento o della diminuzione della forza produttiva del lavoro, in un caso gli permette, ai prezzi di mercato esistenti, di realizzare un sovraprofitto, e nell'altro lo costringe ad aumentare il prezzo delle merci, perché sul prodotto parziale o sulla merce singola viene a cadere un po' più di salario, un po' più di capitale costante, quindi anche un po' più di interesse. La determinazione del valore in quanto tale lo interessa nella sola misura in cui eleva o abbassa per lui stesso i costi di produzione della merce; dunque, nella misura in cui lo mette in una posizione d'eccezione.

Viceversa, salario, interesse e rendita gli appaiono come i limiti regolatori non solo del prezzo al quale egli può realizzare la parte del profitto a lui spettante come capitalista in funzione cioè l'utile d'intrapresa ma al quale egli deve in generale poter vendere la merce, perché la riproduzione possa continuare indisturbata. Che egli riesca o no a realizzare nella vendita il valore e il plusvalore contenuti nella merce, gli è del tutto indifferente, a condizione soltanto che dal prezzo egli ricavi l'utile d'intrapresa corrente, o anche un utile maggiore, al di là del prezzo di costo dato individualmente per lui dal salario, dall'interesse e dalla rendita. A prescindere dal capitale costante, il salario, l'interesse e la rendita gli appaiono perciò come gli elementi determinanti, delimitanti e quindi creatori, del prezzo delle merci...

Nella concorrenza reciproca fra i singoli capitalisti, come nella concorrenza sul mercato mondiale, sono le grandezze date e presupposte del salario, dell'interesse, della rendita, quelle che entrano nel calcolo come grandezze costanti e regolatrici; costanti non nel senso che non mutino, ma nel senso che in ogni singolo caso sono date, e formano il limite costante per i prezzi continuamente mutevoli di mercato. Nel caso della concorrenza sul mercato mondiale, per es., si tratta esclusivamente di sapere-se, dati il salario, l'interesse e la rendita, la merce può essere venduta con vantaggio ai, o al disotto dei, dati prezzi generali di mercato, cioè venduta realizzando un corrispondente utile d'intrapresa. Se in un paese il salario e il prezzo della terra sono bassi, mentre l'interesse del capitale è alto perché il modo di produzione capitalistico non vi è sviluppato, e in un altro paese il salario e il prezzo della terra sono nominalmente alti e l'interesse del capitale è invece basso, il capitalista impiega nel primo più lavoro e terra, nel secondo relativamente più capitale. Nel calcolo del limite in cui è possibile la concorrenza fra i due paesi, questi fattori entrano come elementi determinanti. Qui l'esperienza mostra dunque in teoria, e il calcolo interessato del capitalista mostra in pratica, che i prezzi delle merci sono determinati dal salario, dall'interesse e dalla rendita, dal prezzo del lavoro, del capitale e della terra, e che questi elementi del prezzo sono in realtà i creatori e regolatori del prezzo.

In tutto ciò, com'è naturale, rimane sempre un elemento non presupposto, ma risultante dal prezzo di mercato delle merci, cioè l'eccedenza sul prezzo di costo costituito dall'addizione di quegli elementi : salario, interesse e rendita. Questo quarto elemento appare determinato in ogni caso singolo dalla concorrenza e, nella media dei casi, dal profitto medio, regolato a sua volta dalla stessa concorrenza, ma in periodi più lunghi.

Quinto: Sulla base del modo di produzione capitalistico, diventa così naturale scomporre il valore in cui si rappresenta il lavoro aggiunto ex novo nelle forme di reddito del salario, del profitto e della rendita fondiaria, che questo metodo (per non parlare di periodi storici trascorsi, di cui abbiamo dato degli esempi a proposito della rendita fondiaria) viene applicato anche là dove le condizioni di esistenza di quelle forme di reddito mancano a priori. Cioè, per analogia, tutto viene sussunto sotto di esse...

Se tuttavia si riduce il salario alla sua base generale, cioè alla quota del prodotto del lavoro dell'operaio che entra nel suo consumo individuale; se si libera questa quota dalle barriere capitalistiche e la si estende al volume del consumo che, da un lato, è consentito dalla forza produttiva esistente della società (dunque dalla forza produttiva sociale del suo proprio lavoro in quanto realmente sociale) e, dall'altro, è richiesto dal pieno sviluppo dell'individualità; se inoltre si riduce il pluslavoro e il plusprodotto alla misura che è necessaria, nelle condizioni di produzione date della società, da un lato per la costituzione di un fondo di assicurazione e di riserva, dall'altro per il costante allargamento della riproduzione nel grado determinato dal fabbisogno sociale; se infine si include nel nr. 1, cioè nel lavoro necessario, e nel nr. 2, cioè nel pluslavoro, la quantità di lavoro che i membri della società in grado di lavorare devono sempre eseguire per quelli non ancora o non più abili al lavoro, cioè se si spogliano sia il salario che il plusvalore, sia il lavoro necessario che il pluslavoro, del loro specifico carattere capitalistico, non rimangono più queste forme, ma solo le loro fondamenta, che sono comuni a tutti i modi di produzione sociali.

Capitolo LI

RAPPORTI DI DISTRIBUZIONE E RAPPORTI DI PRODUZIONE

Il valore aggiunto ex novo dal lavoro annualmente aggiunto ex novo quindi anche la frazione del prodotto annuo in cui si rappresenta questo valore, e che può essere estratta ed isolata dal prodotto totale si scompone dunque in tre parti che assumono tre diverse forme di reddito, in forme che rappresentano le parti di questo valore rispettivamente appartenenti, o spettanti, al detentore della forza lavoro, al detentore del capitale e al detentore della proprietà fondiaria. Si tratta perciò di rapporti o forme della distribuzione, perché esprimono le proporzioni in cui il valore totale prodotto ex novo si ripartisce fra i possessori dei diversi fattori della produzione.

Al modo di vedere corrente questi rapporti di distribuzione appaiono come rapporti naturali, come rapporti che scaturiscono dalla natura di ogni produzione sociale, dalle leggi della produzione umana in sé e per sé...

La sola cosa giusta in questa concezione è la seguente: Presupposta una produzione sociale di qualunque specie (per es., quella delle comunità primitive indiane, o quella del comunismo più artificialmente sviluppato dei peruviani), si può sempre distinguere fra la parte del lavoro il cui prodotto viene individualmente consumato, in modo diretto, dai produttori e loro familiari, e prescindendo dalla parte destinata al consumo produttivo — un'altra parte del lavoro che è sempre pluslavoro, e il cui prodotto serve sempre a soddisfare bisogni sociali generali, comunque tale plusprodotto sia distribuito e chiunque funga da rappresentante di questi bisogni sociali. L'identità dei diversi modi di distribuzione si riduce perciò al fatto che essi sono identici se si astrae dalle loro differenze e forme specifiche, per considerare solo ciò che in essi è comune in antitesi a ciò che li distingue.

Una coscienza più evoluta e più critica riconosce tuttavia il carattere storicamente sviluppato dei rapporti di distribuzione... ma si aggrappa tanto più tenacemente al carattere che rimane costante, che scaturisce dalla natura umana ed è quindi indipendente da ogni sviluppo storico, dei rapporti di produzione.

L'analisi scientifica del modo di produzione capitalistico mostra invece che esso è un modo di produzione di un genere particolare, di una specifica determinatezza storica; che, come ogni altro modo di produzione determinato, esso presuppone come sua condizione storica un dato stadio delle forze produttive sociali e delle loro forme di sviluppo, condizione che è, a sua volta, il risultato e prodotto storico di un processo antecedente, e da cui il nuovo modo di produzione prende le mosse come dalla sua base data; che i rapporti di produzione corrispondenti a questo modo di produzione specifico, storicamente determinato — rapporti in cui gli uomini entrano nel loro processo sociale di vita, nella produzione della loro vita sociale -, hanno un carattere specifico, storico e transeunte; e che, infine, i rapporti di distribuzione sono essenzialmente identici a questi rapporti di produzione, ne costituiscono l'altra faccia, cosicché gli uni e gli altri partecipano del medesimo carattere storicamente transitorio.

Nel considerare i rapporti di distribuzione si parte anzitutto dal sedicente dato di fatto che il prodotto annuo si scompone in salario, profitto e rendita fondiaria. Ma, così presentato, il dato di fatto è menzognero. Il profitto si divide da un Iato in capitale e dall'altro in redditi. Uno di questi redditi, il salario, prende sempre la forma di un reddito, il reddito dell'operaio, solo dopo essersi contrapposto allo stesso operaio sotto forma di capitale. Il contrapporsi delle condizioni di lavoro prodotte, e dei prodotti del lavoro in genere, come capitale, ai produttori immediati, implica a priori un determinato carattere sociale delle condizioni materiali di lavoro di fronte agli operai e quindi un rapporto determinato in cui questi entrano, nella produzione, sia con i possessori delle condizioni di lavoro, sia fra loro stessi. La trasformazione di queste condizioni di lavoro in capitale implica, da parte sua, l'espropriazione dei produttori immediati dal suolo e, quindi, una determinata forma della proprietà fondiaria.

Se una parte del prodotto non si trasformasse in capitale, l'altra non assumerebbe le forme di salario, profitto e rendita.

D'altro lato, il modo di produzione capitalistico, se presuppone questa determinata forma sociale delle condizioni di produzione, la riproduce a sua volta continuamente. Non solo produce i prodotti materiali, ma riproduce di continuo i rapporti di produzione in cui essi vengono prodotti, quindi anche i corrispondenti rapporti di distribuzione...

Due sono le caratteristiche che distinguono a priori il modo di produzione capitalistico:

Primo: Esso produce i suoi prodotti come merci. Il fatto di produrre merci non lo distingue da altri modi di produzione; lo distingue invece il fatto che quello di essere merce è il carattere dominante e determinante dei suoi prodotti. Ciò implica, prima di tutto, che lo stesso operaio si presenti solo come venditore di merce e perciò come libero lavoratore salariato; dunque, che il lavoro in generale si presenti come lavoro salariato...

 Gli agenti fondamentali di questo stesso modo di produzione, il capitalista e il lavoratore salariato, non sono, in quanto tali, che incarnazioni, personificazioni del capitale e del lavoro salariato; caratteri sociali determinati che il processo di produzione sociale imprime agli individui; prodotti di questi specifici rapporti sociali di produzione.

Il carattere 1) del prodotto come merce e 2) della merce come prodotto del capitale, implica già l'insieme dei rapporti di circolazione, cioè un determinato processo sociale che i prodotti devono attraversare, e in cui assumono determinati caratteri sociali; implica del pari determinati rapporti fra gli agenti della produzione, dai quali sono determinate la valorizzazione del loro prodotto e la sua riconversione sia in mezzi di sussistenza, sia in mezzi di produzione. Ma, anche a prescindere da ciò, dai due caratteri suddetti del prodotto come merce, o della merce come merce prodotta capitalisticamente, discendono l'intera determinazione del valore e la regolazione della produzione totale ad opera del valore...

Ciò che, in secondo luogo, caratterizza particolarmente il modo di produzione capitalistico è la produzione del plusvalore come scopo diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce essenzialmente capitale, e lo fa nella sola misura in cui produce plusvalore.

La produzione per il valore e il plusvalore implica, come è risultato dal seguito della trattazione, la tendenza sempre operante a ridurre il tempo di lavoro necessario per la produzione di una merce, cioè il suo valore, al disotto della media sociale di volta in volta esistente. La spinta alla riduzione del prezzo di costo al suo minimo diviene la leva più potente dell'esaltazione della forza produttiva sociale del lavoro, che qui però non appare che come costante incremento della forza produttiva del capitale...

Benché la forma del lavoro come lavoro salariato sia decisiva per la configurazione dell'intero processo e per lo specifico modo della stessa produzione, non è il lavoro salariato a determinare il valore. Nella determinazione del valore ciò che conta è il tempo di lavoro sociale in generale, la quantità di lavoro di cui la società in generale deve disporre e il cui assorbimento relativo da parte dei diversi prodotti ne determina in certo modo il rispettivo peso sociale. La forma determinata in cui il tempo di lavoro sociale si impone come elemento determinante nel valore delle merci, è tuttavia sempre collegata alla forma del lavoro come lavoro salariato e alla forma corrispondente dei mezzi di produzione come capitale, in quanto solo su questa base la produzione di merci assurge a forma generale della produzione.

Consideriamo, del resto, i cosiddetti rapporti di distribuzione. Il salario presuppone il lavoro salariato, il profitto presuppone il capitale. Queste forme determinate di ripartizione implicano perciò determinati caratteri sociali delle condizioni di produzione e determinati rapporti sociali fra gli agenti della produzione. Il determinato rapporto di distribuzione non esprime quindi che il rapporto di produzione storicamente determinato.

Si prenda ora il profitto. Questa forma determinata del plusvalore è il presupposto affinché la nuova creazione dei mezzi di produzione avvenga nella forma della produzione capitalistica; è quindi un rapporto che domina la riproduzione, sebbene al singolo capitalista sembri, tutto sommato, di poter divorare l'intero profitto come reddito. In realtà, egli si scontra in barriere che gli si levano contro già nella forma di fondi di assicurazione e di riserva, di legge della concorrenza, ecc., e gli mostrano in pratica che il profitto non è una pura e semplice categoria di distribuzione del prodotto individualmente consumabile. Il processo di produzione capitalistico è inoltre regolato nel suo insieme dai prezzi dei prodotti. Ma i prezzi di produzione regolatori sono a loro volta regolati dal livellamento del saggio di profitto e dalla ripartizione ad esso corrispondente del capitale nelle diverse sfere di produzione sociale. Qui, dunque, il profitto appare come fattore principale non della distribuzione dei prodotti, ma della loro stessa produzione, come parte della distribuzione dei capitali e del lavoro stesso nelle diverse sfere di produzione. La scissione del profitto in utile d'intrapresa e interesse appare come distribuzione del medesimo reddito. Ma essa scaturisce in primo luogo dallo sviluppo del capitale come valore che si autovalorizza, che genera plusvalore; da questa forma sociale determinata del processo di produzione dominante. Genera dal proprio seno il credito e gli istituti di credito e, con ciò, la forma della produzione. Nell'interesse, ecc., le presunte forme di distribuzione entrano nel prezzo come fattori di produzione determinanti.

Quanto alla rendita fondiaria, potrebbe sembrare ch'essa sia una pura e semplice forma di distribuzione, perché in quanto tale la proprietà fondiaria non svolge nessuna funzione, o almeno nessuna funzione normale, nello stesso processo di produzione. Ma il fatto che i) la rendita venga limitata all'eccedenza sul profitto medio, 2) che il proprietario fondiario venga degradato da dirigente e signore del processo di produzione e dell'intero processo di vita sociale a semplice locatore di terra, usuraio in suolo, e semplice percettore di rendita, è un risultato storico specifico del modo di produzione capitalistico. Il fatto che la terra abbia assunto la forma di proprietà fondiaria è un presupposto storico di quest'ultimo. Il fatto che la proprietà terriera assuma forme che permettono il modo di gestione capitalistico nell'agricoltura, è un prodotto del carattere specifico di questo modo di produzione. Anche in altre forme di società si può chiamare rendita l'introito del proprietario fondiario. Ma esso e essenzialmente diverso dalla rendita così come appare in questo modo di produzione.

I cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono dunque a forme specificamente sociali e storicamente determinate del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano gli uni con gli altri nel processo di riproduzione della loro vita; e ne scaturiscono. Il carattere storico di questi rapporti di distribuzione è il carattere storico dei rapporti di produzione, dei quali non esprimono che un lato. La distribuzione capitalistica differisce dalle forme di distribuzione nascenti da altri modi di produzione, e ogni forma di distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata da cui scaturisce e alla quale corrisponde.

Capitolo LII

LE CLASSI

I proprietari di pura e semplice forza lavoro, i proprietari di capitale e i proprietari di terra, le cui fonti di reddito sono rispettivamente il salario, il profitto e la rendita fondiaria, dunque gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna poggiante sul modo di produzione capitalistico...

Si è visto che, da un lato, tendenza costante e legge di sviluppo del modo di produzione capitalistico è di separare sempre più i mezzi di produzione dal lavoro e di concentrare sempre più in grandi gruppi i mezzi di produzione sparpagliati; quindi, di trasformare il lavoro in lavoro salariato e i mezzi di produzione in capitale; e che, dall'altro, a questa tendenza corrisponde l'autonoma separazione della proprietà fondiaria dal capitale e dal lavoro...

Che cosa costituisce una classe ? E la risposta scaturisce da sé da quella data all'altra domanda: Che cosa fa sì che lavoratori salariati, capitalisti, proprietari fondiari, formino le tre grandi classi sociali?

A prima vista, l'identità dei redditi e delle fonti di reddito. Sono tre grandi gruppi sociali, i cui componenti, gli individui che li costituiscono, vivono rispettivamente di salario, profitto e rendita fondiaria, della valorizzazione della loro forza lavoro, del loro capitale e della loro proprietà fondiaria.